Primarie senza soldi. Così Renzi può farle fallire

Per le primarie, Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd ancora in carica, nonché amico fraterno di Renzi, ha stanziato 550 mila euro. E – almeno per ora – li ha investiti tutti sulla comunicazione social. Non sono previsti né manifesti, né spot. Tutto è sulle spalle dei singoli candidati che, comunque, da regolamento, non possono spendere più di 200 mila euro a testa.

Sempre che poi i 550 mila euro restino: perché due giorni fa lo stesso Bonifazi ha informato le rappresentanze sindacali del Pd (i cui 170 dipendenti sono tuttora in cassa integrazione) che per far quadrare i suoi conti mancano 500 mila euro. Motivo? Una serie di parlamentari non avrebbero pagato il contributo dovuto al Pd (1.500 euro al mese solo al nazionale, più un contributo variabile al regionale). E dunque, ha inviato una lettera ai morosi per chiedere i soldi. Sottotesto: se non pagate, la campagna per le primarie non si può fare.

Annuncio e tempismo quantomeno sospetti: perché il piano di Renzi di far fallire i gazebo e dunque di indebolire il neo-segretario (ovvero, l’ultrafavorito Nicola Zingaretti) e dare il colpo finale al Pd, non è un segreto per nessuno. E passa, prima di tutto, per un numero basso di votanti alle primarie. Che già si profila. Nei circoli, hanno votato in 189.023 su 374.786 iscritti. Meno della metà. Un sondaggio di Emg Acqua, presentato ad Agorà, svelava l’intenzione del 64% degli elettori Pd di non andare ai gazebo. Nelle consultazioni che elessero Renzi nel 2017 a votare furono circa 1 milione e 800 mila persone. Se stavolta saranno meno di 1 milione (timore di molti nel Pd) scatterà in automatico la delegittimazione del segretario.

Lo zoccolo duro del partito ormai è composto soprattutto da persone di mezza età e da pensionati. Non esattamente quelli che si informano sui social. Ancora: il responsabile social del Pd è Alessio De Giorgi, vicinissimo a Renzi.

Altro indizio sospetto: tra i parlamentari “morosi” fatti filtrare dal Nazareno, ci sono prima di tutto quelli considerati “i traditori”. Ovvero, i sostenitori di Maurizio Martina. A partire da Matteo Richetti, per arrivare a Antonello Giacomelli, animatore della corrente lottiana che non si sposta su Roberto Giachetti e a Graziano Delrio, sospettato addirittura di voler passare con Zingaretti. Oltre a big come Andrea Orlando, in minoranza da tempo. Gli interessati, a partire da Giacomelli e Richetti, assicurano sdegnosamente di aver pagato il dovuto. Ma il tesoriere tiene il punto: quello che non hanno versato sarebbe il contributo forfettario (quantificabile almeno intorno a 10 mila euro) per la candidatura nel collegio plurinominale.

Tra i segnali (più simbolici che altro) del fatto che il Pd è in via di smantellamento, anche la decisione di Roberto Morassut di vendere il suo camper (usato, per dire, nelle primarie per la candidatura a sindaco di Roma), tramite annuncio su Facebook. In questo caso, non c’entrano le casse vuote del partito, ma il fatto che andare in giro con i simboli del Pd non porta più consenso e neanche lustro. E poi, nessuno sa esattamente quanti soldi abbia in cassa il Nazareno. Il bilancio 2017 si chiuse con un attivo di 555 mila euro, a luglio arriveranno i 7 milioni di euro del 2×1000. E anche se i conti sono sostanzialmente in equilibrio, Bonifazi ha fatto sapere di non voler mettere più di 300 mila euro sullo scivolo per parte dei dipendenti in cassa integrazione. Accusa sempre i morosi. Lo stesso tesoriere ha stanziato tra i 300 e i 500 mila euro per la campagna elettorale per le Europee. Troppo pochi perché il neosegretario del Pd riesca a risollevare un partito già in crisi.

Pd tra solidarietà e imbarazzo: De Gregorio resta ancora sola

La sensazione è di generale imbarazzo. Nel Partito democratico chiamato in causa da Concita De Gregorio nessuno è in grado di promettere un impegno concreto per l’ex direttrice dell’Unità. De Gregorio ha raccontato la sua vita resa impossibile dalla decine di richieste di risarcimento danni ereditate quando dirigeva il giornale di Gramsci.

Abbiamo chiesto al tesoriere dem Francesco Bonifazi e ai tre candidati alla segreteria quale fosse il piano per aiutare l’ex direttore del quotidiano del partito. Sono arrivati, nella migliore delle ipotesi, attestati di vicinanza e promesse generiche. Dal Nazareno oggi ricordano sopratutto le “gravi inadempienze del vecchio editore (l’europarlamentare del Pd Renato Soru, ndr), che non aveva previsto l’assicurazione e la manleva”, ovvero la garanzia di sollevare i giornalisti dall’incombenza dei risarcimenti. Quattro anni fa lo stesso Bonifazi incontrò l’avvocato di De Gregorio, Guido Alpa (oggi noto per i suoi rapporti con il premier Giuseppe Conte) ma già allora la posizione del Pd era chiara: non poteva essere chiamato in causa direttamente nella vicenda e non si sentiva direttamente responsabile (era proprietario solo dello 0,2% del capitale del giornale). Il tentativo di “sensibilizzare” i gruppi parlamentari del partito, chiamati a un contributo, cadde nel vuoto.

Oggi Bonifazi consegna una breve risposta: “La situazione è spiacevolissima, cercherò di incontrare Concita la prossima settimana e dopo rappresenterò la questione ai presidenti Matteo Orfini e Gianni Dal Moro”.

Nicola Zingaretti, grande favorito per la segreteria, è comprensibilmente impegnato nella campagna per le primarie, ma non si sente di aggiungere altro a queste poche parole: “Ho detto che dovremo ricostruire su macerie e dovremo affrontare anche questa incredibile situazione”. Non è ben chiaro come. L’altro candidato Maurizio Martina la definisce “una situazione davvero paradossale”. Non promette impegni economici, ma una proposta di legge: “Abbiamo presentato alla Camera un testo contro le querele temerarie, per poter provare ad affrontare anche situazioni come quella che purtroppo ha coinvolto Concita De Gregorio. All’epoca il Pd aveva forse poche possibilità di intervenire, ma certo avrebbe dovuto farlo con maggior decisione”.

L’altro candidato Roberto Giachetti semplicemente non risponde (“Con il Fatto non parlo”).

In sostanza, solidarietà e poco altro. Quasi dieci anni dopo aver lasciato la guida dell’Unità, Concita De Gregorio si trova con i conti correnti bloccati e fondamentalmente sola: il vecchio editore del quotidiano è fallito e il partito – come ha spiegato in un’intervista al Fatto – si è dileguato. Le responsabilità dei dem le ha elencate esplicitamente anche in altri interventi pubblici: “L’editore del giornale che mi ha assunto, Renato Soru, è oggi europarlamentare del Pd. Chi ha fatto la trattativa per riaprire l’Unità è stato Matteo Renzi. L’Unità tecnicamente non era partecipata del Partito Democratico, ma di fatto era il giornale del Pd. Perlomeno delle spese legali avrebbe dovuto farsi carico”, ha detto al sito Open.

Dal Pd è arrivato qualche tweet di solidarietà e – pare una beffa – un articolo di Democratica, l’ultimo house organ. Quello rimasto dopo la fine dell’Unità.

Giggino, cultura Millenaria

L’ha fatto notare Pietrangelo Buttafuoco, ospite di Otto e mezzo, su La7: da un movimento che affida la sua promessa di democrazia diretta a una piattaforma che si chiama “Rousseau” ci si aspetterebbe almeno una rudimentale conoscenza della storia francese. Anche qui, invece, il capo politico dei Cinque Stelle Luigi Di Maio è riuscito a inciampare nell’ennesima gaffe. Nella lettera riparatoria a Le Monde, il ministro ne ha scritta una grossa: descrivendo il rapporto di amicizia che lega il popolo italiano e quello transalpino, Di Maio non ha potuto esimersi dall’apprezzare “la tradizione democratica millenaria” dei francesi. Ahia. Dovrebbe essere una nozione storica macroscopica, una data che s’impara a memoria anche solo per l’estate di terza media: la Rivoluzione francese inizia il 14 luglio 1789 e spazza via secoli di monarchia e ancien régime. Il conto è facile: sono passati “appena” 230 anni, nemmeno il quarto di un millennio. E sì che l’ardore rivoluzionario dovrebbe essere fonte di profonda ispirazione per i “nostri”, quelli che promettevano di radere al suolo il vecchio sistema per edificarne uno nuovo di zecca. Di Maio se la racconti così, magari poi non se la scorda: nel 1789 i francesi aprirono la Bastiglia “come una scatoletta di tonno”.

Migranti e accoglienza altre tensioni sull’asse Eliseo e Viminale

La Francia avrebbe cambiato idea sui migranti della Sea Watch 3: il governo transalpino ora non sarebbe più disposta ad accoglierli. La notizia è stata diffusa ieri mattina da fonti del Viminale: “I francesi non li prendono più”. Poco dopo dal ministero di Matteo Salvini è arrivata una precisazione: “La Francia accoglie solo persone che hanno bisogno di protezione e non migranti economici”. Nel corso della giornata l’ennesima polemica tra Salvini e il governo di Macron si è stemperata. L’Eliseo ha smentito il capo della Lega: “La Francia mantiene i suoi impegni”. Salvini ha scritto una lettera all’omologo francese Christophe Castaner, aprendo a un “confronto proficuo e scambio sui dossier aperti” come appunto l’immigrazione. ”Convocherò Castaner – ha detto Salvini – perché voglio risolvere la situazione, con i no non si va da nessuna parte”. La replica di Castener però è tutt’altro che positiva: “Non mi faccio convocare da nessuno. Il dialogo deve essere rispettoso”. Nella vicenda Sea Watch si inserisce anche l’Olanda: l’ambasciatore ha informato l’Italia che lunedì i tecnici del ministero delle Infrastrutture eseguiranno un’ispezione tecnica della nave dell’ong ormeggiata al porto di Catania.

Alitalia, vendetta di Parigi: Air France si sfila

Il primo effetto pratico dello scontro Italia-Francia è ben più grave delle schermaglie diplomatiche. Giovedì Air France-Klm si è infatti sfilata dal salvataggio di Alitalia in seguito allo scontro aperto tra Parigi e Roma. La mossa, rivelata dal Sole 24 Ore, ha lasciato di stucco i vertici delle Ferrovie dello Stato che stavano trattando con i manager francesi il salvataggio dell’ex compagnia di bandiera.

Fonti finanziarie spiegano che la decisione è arrivata nel tardo pomeriggio, dopo il richiamo a Parigi dell’ambasciatore francese. Il motivo non riguarda le scelte industriali ma, appunto, lo scontro diplomatico. Con la regia del ministero dello Sviluppo, le Fs stanno trattando con l’americana Delta, che aveva coinvolto i francesi per entrare nell’azionariato di Alitalia (con una quota paritetica intorno al 40%). Le trattative vanno avanti da mesi ma ieri, con un certo imbarazzo, i manager della compagnia transalpina hanno comunicato il dietrofront. Una versione che ieri i vertici di Air France non hanno voluto smentire, trincerandosi dietro un “no comment”.

Nel governo italiano il malumore è forte. Fonti autorevoli fanno filtrare che, oltre alla scelta di Macron di ritirare l’ambasciatore, Parigi avrebbe fatto arrivare ai colossi transalpini il proprio gradimento per un congelamento delle operazioni in discussione in Italia. I dossier sono tanti, dallo scontro tra la francese Vivendi e il fondo Usa Elliott per il controllo di Tim, all’acquisizione dei cantieri Stx da parte di Fincantieri, per ora sospesa in attesa dell’Antitrust Ue, attivata dalle Authority di Germania e Francia, un atto considerato “ostile” da Roma.

Ieri il vicepremier Luigi Di Maio ha provato a smentire che la scelta di Air France sia collegata alla crisi tra i due Paesi senza però nascondere i timori: “Da quanto mi risulta, la poca disponibilità di Air France non è un fatto di questi giorni. Qualcuno usa mediaticamente la vicenda. Non credo che stiamo assistendo a vendette, sarebbe gravissimo”.

Eppure il silenzio di Parigi, azionista rilevante di Air France col 14%, e degli attori coinvolti, è eloquente. Salvo ripensamenti, la trattativa per il salvataggio di Alitalia proseguirà con la sola Delta. Servirà però trovare un nuovo partner industriale europeo (si fa il nome di EasyJet). L’altra pretendente, la tedesca Lufthansa, non piace al governo italiano visto che è interessata ad Alitalia solo dopo una profonda ristrutturazione.

In ogni caso, al momento non è arrivata nessuna offerta formale. Le Fs hanno chiesto e ottenuto dai commissari governativi di Alitalia di far slittare la scadenza a marzo. Intanto la compagnia continua a bruciare cassa (il prestito statale è sceso da 800 a 500 milioni).

Gilet gialli francesi: la visita di Di Maio fa esplodere i conflitti interni dei ribelli

Ieri si è avuto un primo assaggio dei “danni collaterali” che il M5S potrebbe imbarcare entrando di slancio nelle dinamiche di un movimento composito come i Gilet gialli.

L’incontro di qualche giorno fa in Francia con una delegazione della costituenda lista per le Europee, Ralliement d’initiative citoyenne (Ric) ha infatti provocato dure proteste da parte di altri leader, più o meno improvvisati, tutti mediatici, del movimento francese.

La più vistosa, semplicemente perché molto fotografata, si è svolta ieri pomeriggio a Sanremo. Una quindicina di manifestanti sono arrivati in moto nella cittadina del Festival per dire a Luigi Di Maio che “le persone che ha incontrato sono persone che hanno preso un’autonoma iniziativa politica in vista delle prossime Europee, ma non c’entrano niente con il movimento”. A guidare questa protesta è stato Maxime Nicolle, detto Fly Rider, uno degli otto a formare, lo scorso dicembre, un gruppo di “portavoce” poi sconfessati dalla base: “Il nostro è un movimento che non ha a che vedere coi partiti, né li vogliamo. Gilet gialli possono essere tutti”, ha detto Nicolle.

Subito dopo è intervenuta la capolista della Ric, Ingrid Levavasseur che al quotidiano Le Monde ha spiegato di non essere stata informata dell’incontro parigino con il M5S “se non all’ultimo minuto”: “Sapevo che erano stati presi dei contatti, ma avevo detto che non era il caso di incontrarli in questo momento”. “È una usurpazione totale, distrugge tutto il nostro lavoro”.

Stesso atteggiamento ha avuto un’altra esponente, Jacline Mouraud, fondatrice del partito Les Emergents secondo la quale questa “ingerenza grave nella politica estera del nostro Paese permette di comprendere meglio il posizionamento dei vari protagonisti”.

La situazione, dunque, è confusa. Grazie anche al ruolo dei social network, i vari “leader” hanno acquisito notorietà a forza di colpi su Facebook poi alimentati dalle Tv. Fly Rider, Nicolle, ha avviato un sondaggio sul proprio profilo per farsi nominare “portavoce del movimento” ricevendo 61 mila Sì e 2338 No. Levavasseur è stata una star di BfmTv. Altre liste sono state annunciate da Francis Lalanne, Thierry-Paul Valette e Patrick Cribouw senza contare quelli che si candideranno nelle liste di destra e di sinistra. Emmanuel Macron ha voluto drammatizzare lo scontro con l’Italia anche per creare scompiglio nel movimento. E in parte ci è riuscito.

Come perder la faccia con le reni di Macron

Nel suo cinismo programmatico, questo diario prende in seria considerazione l’idea di spezzare le reni a Macron. Che ha cominciato per primo, il fellone, insultando il Salvimaio come “lebbra sovranista”, Mentre un disgustoso portavoce definiva “vomitevole” la politica italiana sull’immigrazione (giudizio per la verità che, qui da noi, qualche quinta colonna condivide). Ok, ma se vogliamo dichiarare guerra alla Francia, facciamolo sul serio e non come un’armata brancaleone che vaga smarrita per le strade di Parigi cercando qualcuno da insultare.

1) Considerate le diverse cinquanta sfumature di giallo dei Gilet, interloquire con quelli giusti non è affatto semplice. Ma perché beccare sempre quelli sbagliati? Leggiamo che nella photo opportunity (mah) di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, accanto ai capi della frangia minoritaria Ric, il quinto da destra, Christophe Chalençon, è un tipino noto per le posizioni islamofobe e come fautore di un golpe militare. Per carità, nessuno è perfetto ma perché poi farsi redarguire dalla leader del gruppo, Ingrid Levavasseur, che non l’ha presa affatto bene (“è orribile, un’usurpazione totale”)? Senza contare l’annunciato arrivo a Sanremo di uno dei principali esponenti del movimento, Maxime Nicolle: “Per dimostrare al governo italiano chi sono le vere casacche gialle”. Se non si conoscono i piani dei signori vicini non si possono stringere alleanze (Sun Tzu, L’Arte della guerra).

2) Mentre Dim e Dib subivano stoicamente la controffensiva del nemico, Matteo Salvini proponeva al suddetto abboccamenti di pace. Insomma, abbiamo un ministro degli Interni che nel mentre chiede ai Cinquestelle una mano, anzi due, per non farsi processare sulla Diciotti, indossa (pure) la casacca di ministro degli Esteri per meglio scavalcarli. Del resto, il presunto titolare della Farnesina, Moavero Milanesi, possiede due cognomi ma poca voce in capitolo. Perfino la mite ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, annuncia il ritiro dall’Afghanistan però si dimentica di avvertirlo. E il premier Giuseppe Conte? Era quello che seduto al bar di Davos raccontava alla Merkel l’ultima barzelletta sui Cinquestelle che attaccano la Francia per risalire nei sondaggi. E giù risate. Diciamo che la politica estera italiana è come il Festival di Sanremo, dove gli sketch non divertono nessuno, tutti cantano, ma conta uno solo. Salvini.

3) Poi ci sarebbe Sergio Mattarella, nel senso che il presidente, come racconta La Stampa, è stato sorpreso in piena crisi diplomatica di ritorno da Luanda a Roma, a bordo di un vecchio Airbus dell’Aeronautica militare purtroppo sprovvisto di wi-fi e di collegamenti satellitari. Come nel primo volo dei fratelli Wright. Nel frattempo il premier si trovava a Beirut e MM a Montevideo. “Dieci ore di black out”. Ma nessuno ci ha fatto caso.

4) Dunque, i grillini avrebbero armato il casino con la Francia per recuperare voti alla vigilia delle elezioni in Abruzzo. Infatti, la questione del franco coloniale e del ricasco sul sottosviluppo subsahariano sta suscitando vivaci discussioni tra gli addetti alla pastorizia nella Marsica. Mentre in tutta la regione si celebra la Giornata della Rivincita, nel corso della quale è Materazzi a dare una testata a Zidane. Tuttavia, per ora, l’unico a lucrare sullo scontro sembra sia quel furfante di Macron, risalito sensibilmente nei sondaggi da quando Dim e Dib sbagliano regolarmente gilet.

5) Ultim’ora: Air France valuta di sfilarsi dall’operazione Alitalia (che continua a bruciare il prestito ponte di 900 milioni). Intanto al vile attacco dell’Eliseo, che ci rinfaccia l’entrata in recessione come fossimo pezzenti, Palazzo Chigi sembra voglia rispondere accusando i francesi di aver sempre ignorato l’uso del bidet. Nell’operazione militare destinata alla sconfitta, prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria (sempre Sun Tzu). Però anche: chi mena per primo mena due volte (proverbio romanesco).

“Attacchi scomposti, Luigi” “No Giuseppe, viaggi troppo”

L’avvocato che è presidente del Consiglio e il capo politico che poteva esserlo si sono guardati negli occhi. E dopo giorni di sospetti incrociati e strani fuori onda se le sono dette, su una grana chiamata Francia. Il Paese di Emmanuel Macron, quello che un anno e mezzo fa i Cinque Stelle elogiavano come modello ispiratore e che ora invece dipingono come il cattivo da battere nelle Europee. Ma anche il leader che per Palazzo Chigi è un capo di Stato con cui bisogna avere spesso a che fare. E magari con modi urbani, come predicano dal Quirinale.

Ecco perché Giuseppe Conte, nel giovedì sera di un Consiglio dei ministri senza Matteo Salvini (in quelle ore in Abruzzo assieme a Berlusconi e Meloni) ha detto a Luigi Di Maio che gli attacchi del M5S nei confronti di Macron e del suo governo sono esagerati, “scomposti”. Ma Di Maio non ha chiesto ammenda. Anzi ha contrattaccato, rimproverando a Conte, rientrato pochi minuti prima da Beirut, i “troppi viaggi”: cioè un eccessivo protagonismo.

Quindi lo ha invitato a stare di più a Roma, nel Palazzo dove giovedì sera Movimento e Lega hanno litigato su quasi tutto, da contraenti che in tempo di urne soprattutto avversari. E in quel clima (“abbiamo litigato male” racconta uno dei presenti) il premier e il suo vice hanno dato voce a nodi che erano da un po’ di tempo sul tavolo. Perché Di Maio teme che Conte voglia fuggire in avanti, essere sempre più leader anche del Movimento. E allora non stupisce che un dimaiano di ferro, il sottosegretario Stefano Buffagni, si sia lamentato con i suoi del premier “perché con quel no dritto alla richiesta di processo per Salvini si è mosso troppo presto”. Tradotto, quella sul voto in Senato sul caso Diciotti era una decisione da far pesare politicamente a Salvini. Ma Conte, dopo aver mediato con l’Europa sulla manovra, reclama il suo ruolo di presidente del Consiglio. Con le sue idee e lo stile da legale di alto censo, che nei sondaggi ha doppiato il vice. Però il M5S lo guida Di Maio. Quindi il Movimento continuerà a mordere Macron, e bolla come “decisamente esagerata” la reazione di Parigi, che ha richiamato il proprio ambasciatore da Roma per qualche ora. Invece il Carroccio prova a fare anche altro, a smarcarsi. Con Salvini che giovedì si era offerto di incontrare Macron, e che ieri si è preso la replica gelida del portavoce del governo francese: “Salvini? Il presidente del Consiglio italiano è Conte”.

Così in giornata il ministro dell’Interno torna a mostrare i muscoli: “La prossima settimana incontrerò a Roma il ministro degli Interni francese, lo convocherò per chiedergli che vengano rimandati in Italia i 15 terroristi che si trovano in Francia”. E il collega d’Oltralpe ovviamente non gradisce: “Non mi faccio convocare”. Ma per Salvini non è un grande problema. Sa che sull’attacco alla Francia, con annesso corteggiamento ai Gilet gialli, il M5S è arrivato un po’ prima. Così meglio alternare la faccia feroce con qualche sorriso, da sovranista che può fare il moderato, quando serve. E comunque il problema ce lo hanno in casa principalmente loro, i 5Stelle. Forse anche per questo ieri Di Maio ha inviato una lettera al quotidiano Le Monde, in cui giura: “L’Italia e il governo considerano la Francia un Paese amico e il suo popolo, con la sua tradizione democratica millenaria (gaffe poi ampiamente notata, ndr) un punto di riferimento nelle conquiste dei diritti civili e sociali”. Però il capo politico non cambierà certo linea. E infatti ricorda: “Non mi meraviglia che il popolo francese stia mostrando insofferenze notevoli rispetto allo smantellamento di alcuni diritti”. Così va in picchiata anche l’europarlamentare Ignazio Corrao: “Macron fa il permaloso perché ha il popolo contro”. Mentre il sottosegretario Mattia Fantinati rilancia: “Il presidente francese non può accusarci di ingerenza, lui ha parlato di lebbra populista in Italia”.

Però Conte è preoccupato, e lo ha fatto trapelare. Anche perché al Colle sono molto in ansia, per lo scontro con Parigi. Così cercherà di riannodare i fili, il premier. Smussando, magari da Strasburgo, dove sarà martedì pomeriggio per l’assemblea plenaria del Parlamento europeo. E dove interverrà, come hanno fatto tanti altri premier prima di lui, sulla possibilità di riformare la Ue. Con toni da moderato, felice di esserlo.

Svegliatevi

A furia di sentirci ripetere che siamo il giornale dei 5Stelle, o del governo, o addirittura della Lega (intanto Salvini ci ha fatto una decina di cause), ogni tanto ci viene la tentazione di esserlo davvero: almeno sapremmo di essere ascoltati. Invece titoliamo “Mezzo M5S parla come B.” (titolo tipico da organo pentastellato) e i 5Stelle si avviano festosamente al suicidio collettivo con il no all’autorizzazione a procedere contro Salvini. Critichiamo il segreto di Stato sull’analisi costi-benefici del Tav, e continuano a tenerlo nel cassetto, mentre la Lega spara cifre a casaccio. Scriviamo che l’economia va male e richiede investimenti urgenti, e continuano a dare la colpa ai governi precedenti, che di colpe ne hanno a bizzeffe, ma appunto per questo non sono più al potere da otto mesi. Ecco, se fossimo l’house organ dei giallo-verdi, domanderemmo ai nostri padroni: posto che non avete mai nessuna colpa, che un nuovo boom economico è alle porte e che il 2019 sarà bellissimo, cosa intendete fare per invertire la spirale negativa che dalla fine del 2018 attanaglia l’economia? Sappiamo bene che non c’entrano nulla né la drôle de guerre con la Francia (tutta campagna elettorale, sia da parte di Macron sia dal fronte giallo-verde), né la frenata sul Tav Torino-Lione, né il presunto blocco di centinaia di grandi opere (mai esistite e mai bloccate da nessuno: le poche vere vanno a rilento dalla notte dei tempi), né l’ultima legge di Bilancio (in vigore dal 31 dicembre, dunque ininfluente sull’ultimo quadrimestre 2018), né il decretino Dignità, né il reddito di cittadinanza, né quota 100, né i bruciori di stomaco di Confindustria, del Partito del Pil e delle madamine.

Ed è pur vero che il nostro Pil è sempre circa un punto indietro rispetto alla media europea (+0,8% contro 1,8 nel 2018, +1,5% contro 2,4% nel 2017, +0,9% contro 1,7% nel 2016, +0,8% contro 1,6% nel 2015). Ma è anche per questo che 5Stelle e Lega hanno sconfitto chi c’era prima: perché promettevano di fare meglio, non di usare il peggio come alibi. Come ha ricordato Peter Gomez sul Fatto, “al contrario di quanto previsto dai precedenti esecutivi, gli investimenti dello Stato nel settore costruzioni tra il 2016 e il 2018 sono calati di 3,7 miliardi, mentre avrebbero dovuto aumentare di 6,8. E non per mancanza di fondi. I soldi ci sono e sono pure tanti. Il nuovo governo si è ritrovato in eredità ben 140 miliardi di euro, spalmati su 15 anni, immediatamente utilizzabili grazie a un accordo con la Banca europea degli investimenti”.

Ma nessuno degli ultimi governi ha saputo spenderli, “principalmente a causa delle nostre leggi e della nostra burocrazia. Per questo gli attuali ministri, anziché prendersela con gli errori dei predecessori, dovrebbero dirci quando e come inizieranno a investire il denaro che hanno già in tasca”. Il premier, in ottobre, aveva convocato a Palazzo Chigi i vertici delle aziende pubbliche e partecipate per strappare un impegno su nuovi investimenti pubblici e assunzioni, grazie anche al turn over di quota 100. Che ne è di quelle promesse? Il governo ha spesso annunciato una riforma per snellire il codice di procedura civile e quello degli appalti, si spera d’intesa col presidente dell’Anac Raffaele Cantone, che peraltro ha apprezzato molti punti qualificanti del prodotto migliore di questa maggioranza, cioè la Spazzacorrotti: novità in merito? I 5Stelle che si oppongono, giustamente, al Tav e ad altre faraoniche cattedrali nel deserto (peccato non essere arrivati in tempo a bloccare il Mose, la Brebemi, il Terzo Valico, ecc.), evocano fantomatici “piani Marshall” per le piccole e medie opere di manutenzione e riassetto del territorio che, diversamente da quelle grandi, hanno bassi costi e alta occupazione: in attesa di trovare i fantastiliardi di un nuovo piano Marshall, ci accontenteremmo di un pianuccio Conte con pochi obiettivi per spendere presto le risorse esistenti. E qualche idea chiara per trovarne di nuove. Siccome non si può aumentare la spesa pubblica, salvo innescare nuovi scontri con l’Ue che impennerebbero vieppiù lo spread, i soldi vanno presi dove sono. E cioè nel grande serbatoio dell’evasione.

La “pace fiscale” col saldo e stralcio per i debiti con Equitalia, limitato a chi è sotto i 20 mila euro di Isee (o a chi tale risulta perché bara), ha sgombrato il campo dai “contribuenti in difficoltà” che non pagano non perché vogliono evadere, ma perché non hanno soldi. Ora è il caso di passare all’annunciato piano B: e cioè alle manette agli evasori. La norma, inizialmente infilata da Bonafede nella Spazzacorrotti, ne uscì in cambio del ritiro della porcata leghista svuota-peculato. E fu rinviata a un provvedimento organico ad hoc, annunciato per l’inizio del 2019, che però è sparito dai radar. Se prima c’era la scusa di non fare di tutta l’erba un fascio fra contribuenti in bolletta ed evasori impenitenti, ora non c’è più. E, nel paese europeo detentore del record di evasori e frodatori (che sottraggono alla collettività la bellezza di 120-150 miliardi all’anno), l’unico incentivo efficace per costringerli a pagare il dovuto è la certezza della galera. Pareva averlo capito persino Salvini, che un anno fa in campagna elettorale scavalcava in giustizialismo il M5S: “Sono d’accordo per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi io butto la chiave, sul modello americano” (18.1.2018). Tant’è che poi firmò con Di Maio il contratto che impegnava il governo a “inasprire l’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale, per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. Gentili giallo-verdi, anche se non siamo il vostro house organ, ci fate sapere?

She-Hulk, il primo meta-fumetto che oggi farebbe gridare allo scandalo

Oggi qualche benpensante considera la She-Hulk di John Byrne l’icona del sessismo nei fumetti: una gigantessa verde di due metri con curve proporzionali che finisce spesso quasi svestita, cosa c’è di più esecrabile? Ma sono giudizi in cui indugia soltanto chi non ha mai letto questa geniale serie anni Ottanta che Panini Comics ha da poco ristampato in un corposo volume Omnibus (oltre 700 pagine). Negli anni Ottanta, John Byrne era il mago del fumetto dei supereroi: qualunque serie la Marvel gli affidasse, lui la trasformava in un miracolo narrativo con il senso epico delle prime storie anni Sessanta, una sensibilità sociale inedita e una struttura da soap opera. I fan hanno amato questo fumantino artista canadese per i suoi lunghi cicli su Fantastici Quattro e X-Men. Ma se passerà alla storia del fumetto, Byrne lo deve soprattutto a She-Hulk che prende in mano nel 1985. Il personaggio era minore – la cugina dell’Hulk originale, donna, avvocato, sexy – che lui trasforma in qualcosa di mai visto: She-Hulk sa di essere un personaggio dei fumetti, minaccia il lettore di leggere le sue storie altrimenti gli distruggerà la collezione di X-Men, è talmente consapevole di vivere in due dimensioni che riesce a sconfiggere i suoi nemici perché – a differenza loro – conosce le regole del fumetto.

A leggerlo oggi She-Hulk non sembra così innovativo, ma soltanto perché le geniali intuizioni di Byrne sono state così copiate da diventare inflazionate, basti pensare a Deadpool, un altro supereroe non convenzionale che ha ripreso tutti i punti di forza di She-Hulk, inclusa la sua carica trasgressiva. E poi va detto che nessuno ha mai più saputo disegnare i supereroi come Byrne, il più moderno dei classici e il più classico dei moderni.

Marvel Omnibus – She Hulk

John Byrne

Pagine: 816

Prezzo: 69 euro

Editore:Panini Comic