Cartabia, il ricatto ai giudici onorari: assunti se rinunciano ai risarcimenti

Nel mercato del lavoro abbiamo ormai visto di tutto: morti, sfruttamento di ogni tipo, salari da fame, precariato, licenziamenti via chat o al telefono, fabbriche spostate solo per guadagnare un po’ di più, etc etc. La storia che segue è un piccolo riassunto di dov’è finito il fondamento della Repubblica e lo è perché è lo Stato che si mette a ricattare i lavoratori e lo fa dando forza di legge a una clausola che, in genere, nei contratti è considerata nulla. Il fatto che, nella fattispecie, lo Stato sia il ministero della Giustizia e i ricattati i circa cinquemila magistrati onorari che per suo conto amministrano la legge fa fare alla vicenda un salto quantico. Che questo avvenga dopo sentenze italiane ed europee che avevano dato torto al ministero, la ciliegina sulla torta.

Per capire bisogna fare un breve riassunto. Creati per occuparsi occasionalmente di reati bagatellari, dal 1998 sono un pezzo assai rilevante del sistema giustizia: i viceprocuratori onorari (1.700) e i giudici onorari (2.013) – a cui vanno aggiunti quelli di pace (1.154) – sgravano assai il lavoro dei circa 9.500 magistrati togati anche su cause di un certo peso. Un calcolo del 2016 pubblicato su Rivista Giuridica, ad esempio, attribuiva ai giudici onorari e a quelli di pace la definizione del 40% del contenzioso civile. Ecco, queste migliaia di lavoratori specializzati hanno contribuito ad amministrare giustizia a 93 euro lordi a udienza, vale a dire pagati a cottimo, senza mai vedersi riconosciute ferie, malattia, maternità, contributi, eccetera: sono lavoratori autonomi e occasionali, “onorari”, era la tesi bizzarra del ministero.

La cosa è ovviamente finita dove doveva: in tribunale. Le sentenze in Italia sono state alterne, a volte timide, in qualche caso dirompenti: il riconoscimento che si tratta di lavoro subordinato, il riconoscimento dei danni parametrati sullo stipendio di un togato di prima nomina etc. Poi è arrivata pure la Corte di Giustizia Ue, che a luglio 2020 ha sancito l’ovvio: chiamateli pure onorari, ma quelli sono lavoratori, alcuni in servizio da vent’anni e dunque hanno diritto ad alcune tutele minime.

Nel frattempo, alluvionata di ricorsi, nel 2015 anche la Commissione Ue aveva aperto un’inchiesta sulla questione: per farla breve, nonostante una “riforma” firmata da Andrea Orlando nel 2017 per aggirare il contenzioso e rispondere a Bruxelles, il 15 luglio 2021 è giunta a Roma pure la lettera di messa in mora della Commissione che rade al suolo la riforma Orlando (mai entrata in vigore peraltro) e impone al governo italiano di mettersi subito in regola.

E qui veniamo ai giorni nostri. Per evitare la procedura di infrazione, il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha escogitato una soluzione da vecchio padrone delle ferriere, inserita in un articolato emendamento alla manovra che Il Fatto ha potuto leggere e sarà presentato a breve per essere approvato a passo di carica col resto del ddl Bilancio. Senza entrare troppo nei dettagli, ai magistrati onorari in servizio si propone – previo colloquio/procedura valutativa – una finta assunzione (mancano, a leggere bene, cosette tipo il Tfr) con stipendi parametrati su quelli del personale amministrativo (20-30mila euro lordi, dipende da alcuni fattori) per continuare a fare quel che fanno ora (non gli amministrativi) diventando dipendenti dello Stato di serie B.

Per accedere a questa cuccagna però, il sciur padrun del ministero scrive in una legge che quei lavoratori dovranno rinunciare a rivendicare alcunché per il pregresso, persino se già hanno sentenze a favore. Chi non dovesse accettare questo ricatto è oggetto di un ricatto di secondo grado: per il regime illegittimo precedente, Cartabia e soci riconoscono al massimo un’indennità da 2.500 euro lordi per anno di sfruttamento fino a un massimo di 50 mila euro (sempre lordi). Ovviamente, “la percezione dell’indennità comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura”.

Né più né meno che uno dei tanti padroncini quando finalmente si decidono a mettere in regola i lavoratori in nero: col che si dimostra che il magistrato magari è onorario, ma il ministero non è onorevole.

Delocalizzazioni, Conte e Letta vogliono il Dl fermo da agosto

Stavolta, ripetono, è la volta buona. Eppure è da agosto che il decreto contro le delocalizzazioni selvagge è a un passo dal traguardo senza mai passarlo, nonostante sia stato più che ammorbidito sotto le bordate di Confindustria. Il tempo però è scaduto, se entro Natale non si sblocca, il testo è morto. La palla è nelle mani di Mario Draghi, a cui si appella la fu maggioranza giallorosa per rimuovere l’ostacolo principale: la contrarietà del ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti.

A spingere il testo, fermo da mesi, sono ancora i casi di cronaca. L’ultimo è la Caterpillar di Jesi che, senza preavviso, ha annunciato 270 licenziamenti, con tanto di dipendenti che hanno messo in fuga il direttore dello stabilimento. Un mese fa è toccato alla SaGa Coffee nel Bolognese: chiusura dello stabilimento con licenziamento di 220 operai e relativo spostamento della produzione. È proprio dal presidio dei lavoratori a Gaggio Montano che ieri il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha alzato il tiro: “Io il decreto l’ho scritto ad agosto e mandato all’altro ministero competente, allo Sviluppo. Noi dobbiamo fare qualcosa”.

Si muovono anche i leader politici, desiderosi pure di far pace con i sindacati dopo l’annuncio dello sciopero generale. “Il governo deve fare uscire il provvedimento, una questione matura e importante”, dice Enrico Letta. Sui social Giuseppe Conte cita il caso Caterpillar: “Il governo intervenga immediatamente. Da parte nostra alzeremo il livello della voce e dell’azione politica: acceleriamo ora l’iter delle misure per tutelare i lavoratori da un far west di delocalizzazioni, licenziamenti e precariato”.

La vicenda è partita a luglio, sulla scia del caso della fiorentina Gkn (componentistica auto) i cui 422 lavoratori furono licenziati via mail per spostare la produzione all’estero. Il testo – studiato da Orlando e dalla viceministra allo Sviluppo Alessandra Todde (M5S) – è stato fermato da Giorgetti dopo che dal palco del meeting di Rimini il leader di Confindustria Carlo Bonomi aveva tuonato contro un “decreto punitivo”.

Da allora il testo è stato ridimensionato. Via le multe e lo stop ai fondi pubblici per chi non rispetta le regole. In sostanza si è trasformato nella previsione di un percorso condiviso con istituzioni e territorio prima di procedere alla chiusura e sanzioni per chi non lo rispetta. Due giorni fa i tecnici di Lavoro e Mise hanno lavorato all’ultima bozza: prevede l’obbligo per aziende dai 250 dipendenti che vogliono licenziarne almeno 50 di comunicarlo a ministero, sindacati, Anpal e Regioni 90 giorni prima, presentando entro 60 giorni un piano per mitigarne gli effetti, che comprenda ipotesi di riconversione industriale, ricollocazione degli operai, ammortizzatori etc. Chi non lo fa pagherà una maggiorazione sui costi di licenziamento previsti dalla legge Fornero: era previsto un aumento di 6 volte, ma non c’è accordo col Mise e forse si scenderà a tre. Basterà a Giorgetti e Bonomi? Non si sa. Il 17 novembre Draghi aveva promesso il testo ai leader di Cgil, Cisl e Uil: se si scavalla Natale, è tutto finito.

MailBox

 

Ma davvero vi scrivete le lettere da soli?

Gentile direttore, ho letto che Dagospia, fonte oggettivamente autorevolissima, la accusa di essersi inventato la lettera del detenuto nel carcere di Perugia. Le scrivo per dirle che non si approfitta dell’ingenuità delle persone semplici come me. Da povero ignorante quale sono, non ho la capacità di informarmi selezionando fonti attendibili. Frequentando la sede che per eccellenza si occupa di sopperire alle lacune di chiunque in campo politico, legale e financo medico, ossia il bar sotto casa, ho scoperto con estremo disappunto e irritazione che avete inventato anche tutte le altre lettere pubblicate. Ho quindi compreso che, alla luce dei fatti insindacabili, di sana pianta avete inventato pari pari anche le mie, e avete pure avuto l’impudenza di inventare il mio nome, in calce al mio scritto. Ora che il misfatto è stato scoperto, mi auguro che non succeda mai più, altrimenti mi vedrò costretto a inviarvi lettere che non potrete in alcun modo inventare.

Gianluca Pinto

Caro Gianluca, i giornali senza lettori e i siti senza visitatori pensano che siano tutti come loro. Come dice Massimo Fini: “Omnia sozza sozzis”. P.s. Ovviamente anche questa lettera me la sono scritta da solo.

M. Trav.

 

Vespa attacca “Il Fatto” (alle vostre spalle)

Bruno Vespa, ospite a Quante Storie su Rai3, ha detto che “Il Fatto Quotidiano è il giornale di Conte”. Mi dispiace che certe verità non vengano svelate in presenza dei giornalisti del Fatto, ad esempio durante la puntata di Accordi & Disaccordi.

Stefano Tolomelli

Caro Stefano, è difficile per i servi immaginare che al mondo esistano anche uomini liberi.

M. Trav.

 

Due articoli autorevoli e non allineati sui vaccini

Vi sottopongo due articoli del prof. Gonter Kampf dell’Università di Greifswald, pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet. Il primo si intitola “Covid-19: stigmatising the unvaccinated is not justified”, mentre il secondo “The epidemiological relevance of the Covid-19 vaccinated population is increasing”. Qui, dati alla mano, si affermano, sostanzialmente, i seguenti concetti: che stigmatizzare i non vaccinati non è scientificamente giustificato, in quanto anche chi è stato vaccinato è “rilevante” nella pandemia; che le persone vaccinate sono rilevanti in quanto possono contagiare, contagiarsi e persino gravemente ammalarsi; che la carica virale può essere elevata anche tra le persone vaccinate; che ignorare le persone vaccinate, come rilevante fonte di contagio, è un comportamento profondamente negligente, quando si assumono decisioni di salute pubblica; che occorre ricompattare la società evitando ingiustificate discriminazioni tra vaccinati e non vaccinati (l’autore suggerisce, tra le righe, anche un raffronto tra tali discriminazioni e terribili esperienze del passato).

Massimo Vigiani

Caro Massimo, a parte gli azzardati paragoni col passato, condivido queste tesi, che nel nostro piccolo esponiamo anche noi da tempo.

M. Trav.

 

I giornalisti di sinistra odiano (e oscurano) i 5S

Strano sentire Corrado Formigli suggerire di copiare il programma del governo tedesco sul salario minimo: forse non si è accorto della ministra Catalfo nel governo Conte. Poveretto: ha questa ansia di distruggere il Movimento, e poi tutte le proposte più di “sinistra” dei 5Stelle le ha sistematicamente demolite insieme ai suoi colleghi.

Rita Martini

 

Per avere la terza dose ci vuole più di un mese

In televisione non passa giorno che si sente parlare dell’avanzare delle terze dosi, poi però provo a prenotarmi e, nonostante la riduzione a cinque mesi della durata del Green pass, le prime date utili sono a partire dall’11 gennaio 2022, ovvero fra un mese. È questo il cambio di passo del generale in mimetica?

Tanino Armento

 

La letalità del Covid-19 va misurata sull’età

Ho letto, fra le lettere pubblicate dal Fatto, che la letalità dell’epidemia Covid è dello 0,2 per cento. In realtà secondo l’Iss (dati aggiornati a settembre 2021) la letalità dipende fortemente dalla fascia d’età, cosicché è 0,2 per cento nella fascia 40-49 anni, ma sale allo 0,6 fra i 50-59, al 2,7 per i 60-69 e fino al 27,8 per cento per chi ha più di 90 anni. In altre parole, quasi uno su dieci dei contagiati settantenni, due su dieci degli ottantenni, e tre su dieci dei novantenni sono morti di Covid.

Paolo Malberti

No-vax, la celebrità a costo della vita

“Il suo ultimo intervento in trasmissione è del 30 novembre quando si era vantato di aver fatto l’’untore’ in un ipermercato andando in giro con la febbre a 38° C e con la mascherina sotto il naso”.

Dai giornali

 

Nel 1976, il film “Quinto Potere” di Sidney Lumet si concludeva con le seguenti parole: “Questa è la storia di Howard Beale, il primo caso conosciuto di uomo che fu ucciso perché aveva un basso indice di ascolto”.

Quarantacinque anni dopo un video dedicato alla vicenda di Mauro da Mantova potrebbe raccontare la storia di un uomo che, affetto da Covid, viene ricoverato in gravi condizioni in terapia intensiva per aver cercato di mantenere alto il suo indice di ascolto. Perché chiunque abbia ascoltato alla “Zanzara” le performance radiofoniche di Mauro Buratti sarà sicuramente stato colpito e anche divertito dalla straordinaria energia con la quale il carrozziere di Curtatone perfezionava, strillando come un’aquila (ben supportato dai conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo), l’iper-provocatorio personaggio pronto a cavalcare qualsiasi causa “anti-sistema”: fascista, razzista, antisemita. E quella no vax, naturalmente. In un’ipotetica sceneggiatura, un Mauro da Mantova disturbato dall’irruzione sul palcoscenico mediatico di una concorrenza sempre più agguerrita e competitiva (squinternati, terrapiattisti, casi umani, fino al tizio con il braccio di silicone) decide di sacrificarsi alla causa offrendo il proprio corpo. Come un kamikaze che usa il contagio al posto delle cinture esplosive sparge germi in un ipermercato, e lo comunica al mondo nella sua ultima, agghiacciante diretta radiofonica. Dopodiché, infatti, tutti parlano di lui.

Quanto è più mediaticamente travolgente il Mauro da Mantova rispetto agli sciapi show dei cattivi maestrini televisivi, a cui il sommo Altan fa dire (mentre scartabellano preziosi volumetti): “A differenza della plebaglia no-vax sono un no-vax colto e raffinatissimo”. Andy Warhol disse che ciascuno avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità. Forse non pensava anche a costo della vita.

 

La politica che trae profitto dall’arrivo degli immigrati

I conti sono presto fatti: la paga giornaliera di un bracciante agricolo dovrebbe aggirarsi sui 65 euro per 7 ore di lavoro. Invece nelle aziende poste in amministrazione controllata dalla Procura di Foggia per reclutamento e sfruttamento della manodopera immigrata, la paga era di 35 euro al giorno, ma ai lavoratori ne venivano in tasca solo 25 perché ben 10 euro gli venivano trattenuti per il trasporto e per la mediazione illegale dei caporali.

Mantenerli sottomessi senza diritti civili e sindacali, dunque, presenta un duplice vantaggio. C’è la convenienza economica: li paghi la metà del dovuto. E c’è la convenienza politica: nel frattempo puoi accanirti nella propaganda contro la “piaga” della “clandestinità”. Magari rivoltando la frittata e accusando, come hanno fatto ieri i giornali della destra, la “sinistra buonista” che avrebbe concesso loro di violare i sacri confini della patria, e agitando con lingua biforcuta lo scandalo dello schiavismo. Il classico predicare bene e razzolare male.

Sono misfatti risaputi, pratiche abituali che non fanno più notizia. Stavolta però il diavolo ci ha messo la coda. Tra gli indagati figura la moglie di Michele Di Bari, il prefetto (dimissionario) chiamato da Salvini alla direzione del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale. Lo stesso funzionario che fra il 2017 e il 2019, alla prefettura di Reggio Calabria, dispose le ispezioni che hanno portato all’incriminazione di Mimmo Lucano e alla demolizione del modello di accoglienza del comune di Riace.

Ora tutto è più chiaro. Interi settori della nostra economia, dall’agricoltura, alla logistica, ai servizi, si reggono sullo sfruttamento dei migranti; nel mentre chi ne trae profitto non si merita di tuonare contro l’“invasione straniera”. Per questo il modello Riace dava tanto fastidio.

La tempesta “Barra” ha portato la neve nel Nord dell’Italia

In Italia. Il Cnr-Isac comunica che novembre 2021, benché depressionario e agitato con memorabili nubifragi all’estremo Sud, è stato il tredicesimo più caldo nella serie climatica nazionale dal 1800 con 1,2 °C sopra media a causa del frequente scirocco. Situazione simile nell’intero autunno (settembre-novembre), dodicesimo più caldo con anomalia di +0,8 °C. Nel trimestre piogge eccezionali si sono abbattute in Sicilia orientale, 743 mm totali a Catania, 782 a Siracusa e perfino 1349 mm sopra Linguaglossa, sui fianchi dell’Etna (dati servizio Sias), valori superiori alle medie annue! Ora l’inverno meteorologico 2021-22 è cominciato con una prima decade di dicembre da 1 a 3 °C più fredda del consueto al Nord, nella norma nel resto del Paese. La perturbazione atlantica dell’8 dicembre – spettacolare a vedersi da satellite, avviluppata intorno al centro della tempesta “Barra” sulle isole britanniche – ha portato la prima neve in pianura al Nord-Ovest, circa 5 cm a Torino e Parma, 20-30 cm su Langhe e Monferrato. La precipitazione è proseguita giovedì 9 sulle Alpi orientali depositando anche mezzo metro di manto a 800 m sulle Prealpi Bellunesi, mentre piogge intense battevano ancora una volta la Campania allagando il Casertano. Nuova imbiancata venerdì da Alessandria a Piacenza, e adesso nubi, pioggia, vento e neve in montagna si concentrano al Sud e soprattutto, di nuovo, in Sicilia: a Castellammare del Golfo è crollato il ponte della statale 187 sul fiume San Bartolomeo in piena.

Nel mondo. Ieri notte un’eccezionale serie di tempeste ha spazzato gli Stati Uniti centrali: il bilancio è ancora provvisorio, ma si teme che il tornado più catastrofico abbia causato oltre 70 vittime distruggendo una fabbrica di Mayfield, Kentucky. Secondo il servizio Eu-Copernicus, sia novembre sia l’autunno 2021 hanno registrato temperature nel complesso normali in Europa, benché con notevoli differenze tra una zona e l’altra: in Irlanda del Nord è stato ad esempio l’autunno più caldo nella serie dal 1884, mentre ha fatto più freddo del solito tra Balcani e Mar Nero. Quinto novembre più caldo nel mondo (+0,35 °C rispetto all’ultimo e già caldo trentennio), dopo i casi recenti del 2015, 2016, 2019 e 2020, a conferma dell’accelerazione del riscaldamento globale che peraltro non esclude temporanee anomalie fredde regionali come quelle che stanno interessando il Centro-Nord Europa. Minima di -43,8 °C in Lapponia, valore che in Svezia non si registrava così presto nell’inverno dal caso del 1945, gelo estremo anche in Estonia (-27,6 °C a Tartu), a inizio dicembre non accadeva dal 1959. La tempesta atlantica “Barra”, dopo essersi sviluppata con una rapidità e intensità vista poche volte in passato (ciclogenesi esplosiva), martedì 7 ha spazzato l’Irlanda con piogge alluvionali e venti fino a 135 km/h che hanno abbattuto linee elettriche lasciando al buio oltre ventimila utenze. Diluvi giovedì-venerdì nel Sud-Ovest della Francia (fino a 187 mm di pioggia in 24 ore), “vigilance rouge” di MétéoFrance per i fiumi in piena, sui Pirenei innevamento eccezionale per inizio dicembre (un metro e mezzo a 1.300 m) e pericolo estremo di valanghe di neve bagnata (livello 5 su 5, raro a vedersi). Inondazioni in Kenya, 32 vittime in un autobus trascinato via da un fiume straripato. Nelle Americhe invece a stupire è il caldo, straordinario per questa stagione in Texas (33 °C), Cile (40 °C non lontano da Santiago) e Patagonia (37,3 °C a El Bolsòn, un primato per dicembre). In periodo di shopping natalizio è bene interrogarsi su quanti danni ambientali possano fare i consumi superflui: Tansy E. Hoskins, nel volume Lavorare con i piedi (Einaudi) analizza le conseguenze di 24 miliardi di paia di scarpe prodotte annualmente nel mondo, che in massima parte finiscono in discarica.

 

Il battesimo. Giovanni insegna alla folla a condividere con gli altri ciò che si ha

Le folle interrogavano Giovanni, il Battista. Le folle e Giovanni: un solo uomo davanti a tanti. Luca ci dischiude questa scena drammatica. La folla è speso raccontata come un corpo unico che agisce, si muove, protesta, ma qui la penna di Luca la inquadra nel gesto insolito di interrogare una persona sola con una voce sola. Non si tratta, però, di un interrogatorio: le folle sono lì per farsi battezzare e cambiare vita, convertirsi. Che cosa leggiamo nelle bocche interroganti che pronunciano una sola domanda che presto scopriremo? C’è una istanza condivisa di cambiamento, un appello comune, un desiderio di novità che fa corpo. E questo movimento si concentra su un grido: “Che cosa dobbiamo fare?”. Ecco la domanda: come dobbiamo comportarci? come vivere se si vuol davvero cambiare?

Nella sua risposta Giovanni tralascia ogni pratica centrata sul sé: non propone né pratiche di self help, né tattiche di autocoscienza, nemmeno la fuga dal mondo o penitenze. Invece rispondeva loro: “Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Cambiare mentalità significa condividere ciò che si ha, ammettere che non si è soli a questo mondo, non accumulare. Crolla il principio dell’“a ciascuno il suo”. È negata l’economia del possesso, dell’accentramento e dell’accumulo. E Giovanni fa riferimenti concreti al vestito e al cibo, che non sono cose superflue, e anzi sono relative alla vita quotidiana: proprio quello è il luogo della condivisione.

Ma ecco che vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: “Maestro, che cosa dobbiamo fare?”. Addirittura i pubblicani, che sono gli esattori delle tasse per conto del dominatore straniero! Anche loro vogliono sapere che cosa fare per cambiare vita. Giovanni disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Li accoglie, non impone loro di cambiare mestiere, ma di essere giusti, di non approfittare della loro posizione. Ma poi lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Chi sono questi soldati? Non erano né romani, né loro ausiliari ebrei, ma mercenari al servizio di Erode Antipa che lì regnava. Essi affiancavano i pubblicani nel loro mestiere di riscuotere i tributi. Possiamo immaginare il clima di timore che la gente – per altro lì presente, la folla – doveva provare in loro presenza. I soldati potevano facilmente abusare della loro posizione per estorcere denaro. Questi soldati adesso sono anche loro da Giovanni per chiedere che cosa fare. Ed egli rispose loro: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe”. La folla, i pubblicani e pure i soldati sono benvenuti da Giovanni che li accoglie nel loro desiderio di cambiare, e nel suo desiderio di formare un popolo ben disposto al Messia. Anche alle persone più distanti, a coloro che vivono la condizione più paradossalmente lontana dalle “norme” e dalla specchiata onorabilità sono aperte le porte della salvezza. Non importa chi sei e che fai. Non sei mai escluso. Ma chi è Giovanni? Qualcuno dice che è il Messia. Giovanni dice di no e contrappone acqua e fuoco. Lui è quello dell’acqua che lava, il Messia, invece, “vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”, purificherà da dentro. E chiude con una immagine forte: il Messia con una pala in mano. A che gli serve? A pulire la sua aia dalla paglia mandandola a bruciare, e a raccogliere il frumento nel suo granaio. È così: quel che resta di una vita è solo ciò che si trasforma in pane buono e caldo, pronto a essere condiviso. Il resto brucerà via. Inutile.

 

Le parole (da temere) che raccontano il 2021

Giorgia Meloni è uno spirito semplice. Crede che mettendo le sue iniziative di questi giorni al coperto di anziane parole che si usavano in altri tempi, come “conservatore”, le metta al riparo dalla polvere di fascismo che ogni tanto si trova, nonostante la continua pulizia, sulla mobilia del suo partito e dei suoi eventi. Per esempio, una volta rimessa in piedi la sua “festa di Atreju” (educherà i giovani che rifaranno l’Italia) ha deciso di chiamarla “Natale conservatore”. Gesto impulsivo e poco meditato se si pensa che Meloni è, come dice lei, “donna, mamma, cristiana”: dovrà accettare il Natale cristiano per quello che è, una rivoluzione dei poveri. Un uomo e una donna con un bambino in fasce devono sfuggire a un re crudele che vuole lo sterminio dei neonati (un conservatore che cura con attenzione i suoi interessi). I tre sono profughi, non hanno mezzi e possono contare solo solo sulla solidarietà di altri poveri e di buoni animali. Dove, chi, cosa sarà conservatore nel Natale cristiano, che è fondato sul soccorrere e sul donare?

Ma anche Enrico Letta deve essere un’anima semplice (nel senso di gente che vede solo un lato delle questioni). Infatti, senza notare, da credente, che Giorgia Meloni ha inventato per i suoi Lupetti una versione rovesciata e dunque blasfema del Natale, si affretta ad accorrere alla festa inventata dalla Meloni come se avesse visto la stella della narrazione cristiana, e spiega a tutti che l’importante è dialogare.

Dunque Letta si presenterà alla festa pronto (per ragioni che non si capiscono) a incontrare la Meloni, l’amica e complice di Orbàn, l’uomo che ha sradicato il sistema giudiziario in Ungheria, e amica e complice del premier polacco Morawiecki, che ha creato i confini della morte, filo spinato a volontà e getti di acqua gelata per chi viene trasportato (a cura del bielorusso Lukashenko) nel luogo giusto per la eliminazione dei profughi, migliaia di bambini inclusi. Libia è la parola giusta per ricordare in che modo l’Italia tenta ancora di inserirsi fra i Paesi peggiori nello sterminio dei migranti. Pare che il nostro governo abbia regalato al Paese che da Gheddafi (padre) sembra sia punto di ritornare (con le elezioni del 24 dicembre) a Gheddafi (figlio) navi con nuova tecnologia per rintracciare la gente in mare. Come si sa, lo scopo della Libia non è mai di trovare per salvare, ma di trovare per uccidere. Ed è stato il Papa a dire che il Mediterraneo “non è più Mare Nostrum. Adesso è il Mare Morto”.

Il lavoro, che è sempre stato il grande misuratore delle crisi e del benessere, adesso appare un misterioso spazio grigio che non sai se porta buone notizie quando sale, o se sia meglio tenersi lontani dai grandi numeri e dalle convinzioni d’altri tempi (tanti lavorano, dunque tutto bene). Il leader sindacale Landini ha bruscamente separato i lavoratori che lo seguono dalla politica, creando un pezzo di organizzazione sociale simile alle Unions americane: grandi corporation del lavoro che badano non all’insieme del momento ma ai suoi dividendi.

Fuori, lontano da ogni valutazione, guida o conoscenza, ci sono i poveri. Il fenomeno della povertà è il più grave, perché manca esperienza a e conoscenza. A differenza del mondo dickensiano, che li disprezzava, li perseguitava ma li conosceva (anche per l’andare e venire dalle carceri), i poveri del mondo organizzato di oggi non hanno volto, non hanno storia, non si sa da dove vengano e dove vadano e in che modo sopravvivano, visto che non ci aiutano né le figure della grande letteratura (“I Miserabili”) né le infaticabili attività di ricerca e aggregazione dei grandi santi.

Opere come quelle realizzate da personaggi come Don Bosco e Cottolengo a Torino nella seconda metà dell’800 (miriadi di scuole, dalle elementari alle specializzate, e una rete di avanzatissimi ospedali gratuiti) non sono mai più accadute. E i poveri che ci consegna la sociologia al momento sono gli impoveriti dalla sorte o dalle guerre, dunque vittime di una sventurata provvisorietà che, in parte, volendo, si dovrebbe e potrebbe curare. Ma la povertà che, in altri tempi, ha agitato la ricerca e la politica, la povertà che dura una vita e si poneva come classe, non è più raggiungibile. E senza strutture di comunità e di religione, non si vede un ingresso. Però non si tratta di un puntiglio di ricerca, ma del ritrovamento di tracce che guidino verso un problema che resta grande e ignoto.

 

Quella favola di Esopo con bastonate, fichi dolci e vestiti di lino

Dai racconti apocrifi di Stefan Themerson. Esopo, il grande favolista, per buona parte della sua vita visse a Samo come schiavo di Xantos, un proprietario terriero che pareva godesse a farlo frustare: ogni scusa era buona. Anche alla moglie di Xantos, Criside, piaceva assistere a quelle punizioni crudeli. Esopo non era stato favorito dalla natura (testa grossa con ciuffi sparsi di capelli, niente collo, gobba vistosa, ventre gonfio come un otre, gambe rachitiche e arcuate, fette da ippopotamo), se non nel cervello e nel pisello, entrambi portentosi; e le vessazioni continue lo avvilivano; ma la sua sorte mutò un pomeriggio d’estate, quando Esopo, vinto dall’afa, si recò al fiume, si tolse le vesti sudicie e si tuffò nudo nelle acque limpide e fresche.

Il caso volle che da quella parte del bosco passasse Criside, anche lei in cerca di refrigerio: allibì al vedere quanto fosse grossa e lunga l’appendice dello schiavo. Uno strano languore prese il sopravvento in lei, al punto da cancellare nella sua mente ogni deformità di Esopo. S’avvicinò dunque alla riva e gli rivolse la parola: “Hai avuto la mia stessa idea, Esopo”. “Il fiume è lungo, signora”. “E non solo il fiume, a quanto vedo. Vorresti essere più felice del tuo padrone?”. Esopo rifletté a lungo sul significato di quelle parole, e alla fine replicò: “E se lui venisse a saperlo, sarei di nuovo dalla parte sbagliata dello staffile. Bella felicità!”. “Ti giuro che non lo saprà mai”, disse Criside, con la frenesia della donna che nella sua fantasia ha già tradito il marito cento volte, e la sua voglia è ormai incontenibile. “Facciamo un accordo, buon Esopo: se riuscirai a farmi godere per dieci volte di seguito, ti regalerò una veste nuova di ottimo lino”. Esopo pensò che poteva essere l’occasione per vendicarsi del malvagio Xantos: “Promesso?”. “Lo giuro sulle due dee”. Lo schiavo emerse dalle acque, prese in braccio la donna e la portò all’ombra di una quercia secolare.

Nell’ora seguente, nove sorrisi estasiati illuminarono il volto di Criside, finché Esopo, esausto, si scostò da lei madido di sudore e si distese sul prato: “Basta. Non ce la faccio più”. “Ma se abbiamo appena cominciato!” disse la donna. “Dieci volte, o niente lino!”. Esopo guardò i propri stracci, strinse i denti e diede fondo alle ultime energie, ma proprio sul più bello qualcosa andò storto: una vespa gli punse il sedere, ed Esopo dovette tuffarsi di nuovo nelle acque del fiume. “Comunque” urlò alla donna, mentre il dolore passava, “se adesso non mi dai la veste promessa dirò tutto a tuo marito!”. “Dieci, avevamo detto” replicò Criside, allontanandosi piccata. Quando Xantos tornò a casa, la sera stessa, Esopo gli disse: “Padrone, chiedo il suo aiuto per risolvere una disputa fra me e la sua signora”. Criside, che era appena entrata nella stanza, impallidì. “Dimmi, schiavo, e non farmi perdere tempo” lo esortò Xantos. “Ecco, vede, questo pomeriggio sua moglie mi ha chiesto di raccogliere per lei dieci fichi maturi. Mi ha detto: ‘Prendi il tuo grosso, lungo bastone e vedi se riesci con dei colpi energici a tirar giù dieci fichi da quel ramo, i più dolci. Se ci riesci, ti regalo una veste nuova di ottimo lino’. Ho usato tutta la mia forza, ma il decimo fico è caduto su un mucchio di letame. Adesso sua moglie dice che il decimo non conta e non vuole darmi la veste promessa”. La donna si sentì sollevata dallo scampato pericolo: “Si era detto dieci fichi. Mi dia il decimo e sarò soddisfatta”. Xantos annuì: “Mia moglie ha ragione, schiavo della malora. Domani andrai con lei a cogliere il decimo fico”. “E io gli regalerò la veste nuova come tu comandi, marito mio” disse Criside col più vanigliato dei sorrisi, facendo l’occhiolino a Esopo.

 

Amato presidente tra disney e high tech

Il rebus sul Quirinale ci sembra francamente risolto. La soluzione arriva da un prezioso articolo uscito sul Dubbio a firma di Antonella Rampino: “Amato, un dottor Sottile figlio di ferroviere perfetto per il Quirinale”. Senza neanche ricordarci di aver lavorato una vita per l’Aspen Institute di cui Amato è presidente onorario, la Rampino dipinge un genio: “un autentico problem solver”, “ha una cassetta degli attrezzi infinita, un’intelligenza poliedrica e velocissima”, “usa l’high tech, del quale in Italia è stato tra i primi utilizzatori”. Come no. “Come un problema si manifesta, subito sfodera la soluzione”. In lui c’è “qualcosa di disneyianamente giocoso”. All’estero “sarebbe un onorato self-made man, da figlio di ferroviere” (ma guai a fare lo steward allo stadio). Il prelievo forzoso dai conti correnti nel 1992? “Spiccioli” di contro “al default” evitato. Insomma è ora di ricompensarlo. Resta solo una domanda: questo Paese è pronto per un Colle disneyianamente high tech?