“Basta politici in toga”. E il berlusconiano Frattini va a presiedere il Consiglio di Stato

La ministra della Giustizia Marta Cartabia giura: “Mai più porte girevoli tra magistratura e politica”. Ma il bello per il governo dei Migliori, ancora indignati per il caso di Catello Maresca appena ricollocato dal Csm a Campobasso come giudice e senza dover mollare il seggio di consigliere comunale a Napoli, deve ancora venire: tra poco la presidenza del Consiglio firmerà la promozione a presidente del Consiglio di Stato dell’ex pluriministro berlusconiano Franco Frattini. Che ha di recente conquistato i galloni di numero due a Palazzo Spada grazie anche ai 20 anni di onorato servizio al fianco del Cavaliere che hanno fatto curriculum: ora che Filippo Patroni Griffi sta per traslocare alla Corte Costituzionale, Frattini sarà nominato da Mario Draghi ai vertici della giustizia amministrativa. Ma riavvolgiamo il nastro. Giancarlo Coraggio lascerà a breve l’incarico alla Corte Costituzionale di cui è da un anno presidente: era stato eletto giudice della Consulta nel 2013 dai suoi colleghi del consiglio di Stato (di cui era allora presidente) che ora devono di nuovo scegliere il suo successore. In corsa per staccare un biglietto per la Corte Costituzionale ci sono i consiglieri Luigi Maruotti e Oberdan Forlenza. Ma soprattutto Filippo Patroni Griffi: già ministro della Funzione pubblica con Mario Monti e sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Enrico Letta premier, è attualmente presidente del Consiglio di Stato dove il suo incarico terminerebbe a settembre 2025. Ma ha deciso di tentare l’impresa della Consulta e Frattini non vede l’ora, tanto che si starebbe prodigando in ogni modo, incontri e telefonate per sponsorizzarlo, certo che sistemata la pratica il posto attualmente ricoperto da Patroni Griffi a Palazzo Spada sarà suo. Il giorno da cerchiare in rosso è il 14 dicembre, quando si apriranno le urne per i grandi elettori, in tutto 121 mandarini di Stato. Chi sono? 47 consiglieri di provenienza Tar, pochi di più quelli diventati consiglieri di Stato dopo aver vinto il concorso. Infine quelli di nomina governativa, in tutto una ventina. A ottobre Draghi in un sol colpo ne ha nominati 7, (tra cui Daniele Cabras uno dei consiglieri più fidati di Sergio Mattarella ormai prossimo all’addio): pure loro sono tra gli aventi diritto al voto per la scelta del nuovo giudice costituzionale. Non resta che attendere martedì o al massimo, in caso di ballottaggio, il giorno dopo: Patroni Griffi parte favorito. E Frattini scalda i muscoli per subentrargli a Palazzo Spada. Quando si dice mai più porte girevoli.

Conte riunisce vice e comitati: “Siate vicini alla società”

“Dobbiamo essere ovunque, con la massima presenza sui territori e un dialogo costante con iscritti, amministratori, associazioni, società civile e Terzo settore”. Giuseppe Conte ha riunito ieri i 5 vicepresidenti e i 17 comitati tematici la cui nomina è stata appena ratificata dagli iscritti del Movimento con l’approvazione online. Obiettivo: sollecitare un raccordo con la base e spronare ciascun comitato a presentare proposte per il futuro: “Dobbiamo subito elaborare almeno tre proposte per ogni Comitato, il Movimento deve dettare l’agenda politica”. L’ex premier ha chiesto a tutti di presenziare “agli eventi sui territori, rafforzare i rapporti con associazioni e società civile”, perché se “il leader politico deve occuparsi da solo del problema del più piccolo Comune e della strategia in Europa, nemmeno Superman può riuscirci”. Spazio poi anche a qualche indicazione sulla Scuola di formazione: “Puntiamo sulla competenza, ci sarà un dialogo costante fra il Movimento 5 Stelle, grandi luminari ed esperti internazionali, con seminari e momenti di informazione e confronto a beneficio della nostra comunità e di tutti i cittadini”. Oltre alle raccomandazioni sui rapporti con la base, Conte ha però sottolineato anche come sia necessario “un maggior coordinamento” nella comunicazione, argomento di non pochi contrasti nelle ultime settimane dentro al M5S.

Pronti, via: abolisce per legge i suoi reati, le prove e una toga

2001, 11 giugno. Il governo Berlusconi 2 giura nelle mani di Ciampi e si mette subito all’opera per legalizzare l’illegalità. Il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi vara una serie di norme salva-inquinatori. E afferma che “con la mafia bisogna convivere”. Il ministro dell’Interno Claudio Scajola revoca scorte e tutele a vari magistrati ad alto rischio, compresi quelli antimafia e i pm Boccassini, Colombo e Greco che sostengono l’accusa contro il premier.

25 settembre. Il governo vara il decreto Tremonti (ministro dell’Economia) per lo “scudo fiscale” che premia il rientro dei capitali illegalmente guadagnati e/o detenuti all’estero in cambio di un modico 2,5% (le aliquote arrivano al 50) e della garanzia di anonimato: un mega-condono e un’operazione di riciclaggio di Stato del denaro sporco. Guardacaso il premier è imputato per aver fatto transitare oltre 1.500 miliardi di lire in nero su conti di 64 società del comparto estero Fininvest. Ma per neutralizzare i suoi processi ci vuol altro.

28 settembre. Approvata a tempo di record la legge delega che depenalizza di fatto il falso in bilancio: relatore Gaetano Pecorella, legale di Berlusconi e presidente della commissione Giustizia. Le pene massime, già lievi, scendono da 5 a 4 anni per le società quotate e addirittura a 3 per le non quotate (con prescrizione ancor più breve e niente più intercettazioni né custodia in carcere). Per le non quotate, il falso in bilancio sarà perseguibile solo a querela di parte (impossibile, visto che chi lo compie o chi lo ordina dovrebbe denunciarsi da solo). Totalmente depenalizzati i bilanci falsi delle banche. Per rendere vieppiù impossibili i processi, si fissano anche altissime soglie di non punibilità: una gigantesca franchigia fino al 5% del risultato di esercizio della società, al 10% delle valutazioni e l’1% del patrimonio netto. Per l’Economist, è “una legge di cui si vergognerebbero persino gli elettori di una repubblica delle banane”. Infatti manderà in fumo tutti i processi per falso in bilancio a carico di Berlusconi (oltre a cancellare condanne o patteggiamenti definitivi per Cesare Romiti, Carlo De Benedetti, Corrado Passera, gruppo Gemina ecc.). Ora restano da abolire le prove dell’altra specialità della casa: la corruzione.

Ottobre. Da mesi i legali del premier chiedono ai giudici del processo Sme-Ariosto di cestinare i documenti (e le testimonianze collegate) giunti per rogatoria dalla Svizzera. L’istanza, sempre respinta dal Tribunale, diventa legge il 3 ottobre. È la “riforma delle rogatorie” firmata da due giornalisti berlusconiani promossi senatori, Paolo Guzzanti e Lino Jannuzzi: tutte le rogatorie con documenti (circa 7mila) richiesti o già ricevuti da magistrati italiani dai colleghi stranieri diventano inutilizzabili e vanno richiesti da capo. Per fortuna, la legge verrà disapplicata da tutti i tribunali, in quanto contrasta col diritto superiore dei trattati internazionali e delle prassi seguite in tutta Europa.

Poi c’è la mafia, che reclama qualche legge anche per sé, come promesso a suo tempo nella “trattativa”. Il governo nomina a capo del Dap (Direzione amministrazione penitenziaria) l’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra al posto di Gian Carlo Caselli. Appena in tempo. Il capo dell’Ispettorato del Dap, Alfonso Sabella, scopre e sventa una manovra per favorire la “dissociazione” dei boss (uno dei punti-chiave del papello di Riina per vanificare ergastolo, 41-bis e pentitismo in un colpo solo). Tinebra, anziché premiarlo, lo licenzia.

Novembre. A Milano, nei processi “toghe sporche” (Imi-Sir/Mondadori e Sme-Ariosto), le difese di Berlusconi, Previti&C. tentano di usare una sentenza della Consulta su alcuni vizi formali per far annullare i due dibattimenti in corso e farli ripartire da zero dall’udienza preliminare. Ma il 17 e 21 novembre i presidenti dei collegi giudicanti Luisa Ponti e Paolo Carfì stabiliscono che si può proseguire.

5 dicembre. Il sottosegretario all’Interno, avvocato Carlo Taormina, chiede “l’arresto in flagrante” dei due giudici e il centrodestra approva al Senato una mozione che censura le loro ordinanze come atti di “lotta politica”, “interferenza nella vita politica” e “sovvertimento della gerarchia delle fonti stabilita dalla Costituzione”. Per la prima volta nella storia d’Italia, il Parlamento mette ai voti le decisioni di un Tribunale. La giunta dell’Anm si dimette per protesta, com’era avvenuto soltanto nel 1924, dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria di Benito Mussolini.

6 dicembre. A Bruxelles, Berlusconi annuncia che il governo italiano, unico nell’Ue, non voterà il “mandato di cattura europeo” perché “mette a rischio le libertà individuali”. E blocca l’approvazione della norma comunitaria. Ma solo per alcuni reati: corruzione, frode, riciclaggio e altri crimini finanziari (quelli di cui deve rispondere in Italia e in Spagna). Dure proteste dai partner Ue. Il ministro Bossi definisce la giustizia europea “Forcolandia ex comunista”. Newsweek commenta che il premier “teme di essere arrestato dai giudici spagnoli” per Telecinco.

Al Tribunale di Milano prosegue la corsa a ostacoli. Previti, che da marzo a novembre (quando i suoi processi erano fermi per le elezioni, le ferie e una sua malattia) era un deputato ultra-assenteista (80,44% di sedute disertate), scopre un’irrefrenabile vocazione oratoria, intervenendo alla Camera persino sull’“adeguamento ambientale della centrale termoelettrica di Polesine Camerini”, l’“impiego delle giacenze del bioetanolo nelle distillerie”, l’“esecuzione dell’inno nazionale prima delle partite del campionato di calcio”, “la previsione di un volo diretto Roma-Washington”. Ottime scuse per far rinviare le udienze per “legittimo impedimento”. Anche gli avvocati-deputati del premier, Pecorella e Ghedini, s’impegnano allo spasimo. Aderiscono persino allo sciopero delle Camere penali contro “gli interventi settoriali e la decretazione d’urgenza, sintomo della carenza progettuale”: cioè contro il loro governo e la loro maggioranza, anzi contro le leggi ispirate e votate da loro. In pratica, scioperano contro se stessi. La melina serve a prendere tempo per dare modo al ministro Castelli di rendersi utile anche lui.

31 dicembre. Mentre gl’italiani preparano il cenone di Capodanno, su richiesta “urgente” dei difensori di Previti, Castelli nega contro ogni prassi e logica la proroga in Tribunale a uno dei tre giudici del collegio Sme-Ariosto: Guido Brambilla (destinato al Tribunale di sorveglianza). E dispone la sua “immediata presa di possesso” nella nuova destinazione dal 2 gennaio. Così il processo dovrà ricominciare da capo. Fortunatamente, a salvarlo in extremis, provvede il presidente della Corte d’appello con un nuovo provvedimento di “applicazione” per Brambilla sino al termine del dibattimento.

(11. continua)

E B. si sfoga: “Casellati è ingrata, Casini traditore”

Pier Ferdinando Casini? “Un voltagabbana”. E Maria Elisabetta Alberti Casellati? “Un’ingrata” che pensa “solo alla sua carriera”. E ancora, nell’elenco dei reietti non può mancare Marcello Pera: “Un personaggio di una noia mortale”. Chi negli ultimi giorni ha parlato con Silvio Berlusconi lo ha trovato deluso. Mentre il suo shopping natalizio per il Quirinale continua, il leader di Forza Italia ha percepito un fatto: nemmeno Matteo Salvini e Giorgia Meloni credono più di tanto alla sua elezione al Colle. E quindi sui giornali sono iniziati a circolare – spesso messi in giro da fonti amiche – i nomi di possibili candidati su cui il centrodestra potrebbe puntare al quarto scrutinio. Profili che però fanno rabbrividire Berlusconi. L’umore ad Arcore, infatti, è questo: sarebbe una beffa vedere eletto un candidato del centrodestra al Colle nell’unica volta in cui Berlusconi ha qualche possibilità di vedere concretizzarsi il sogno della presidenza della Repubblica. Paradossalmente il leader di Forza Italia, dunque, preferirebbe che alla fine venisse eletto Draghi o il bis di Mattarella. Preferirebbe perfino un candidato espressione del centrosinistra. Ma Casini, per fare solo un nome, proprio no.

Ad Arcore sono arrivate le voci di una preferenza di Salvini, condivisa con Matteo Renzi. Un sodalizio pericoloso per Berlusconi. Che, conoscendo il personaggio, chiede e si informa sulle aspirazioni quirinalizie dell’ex presidente della Camera. E poi si sfoga: “Casini è un traditore, un voltagabbana” ha detto a chi gli ha parlato nelle ultime ore. Non è la prima volta che Berlusconi lo definisce così. Lo fece già dopo le pugnalate del 2006 e del 2008: prima, dopo cinque anni da presidente della Camera (voluto lì dall’ex premier), iniziò a costruire il centro in alternativa alla leadership di Berlusconi e poi, due anni dopo, alla vigilia delle elezioni, ruppe con la Casa delle Libertà presentandosi in solitaria con l’Udc.

Berlusconi però oggi ha anche dei sospetti sulla presidente del Senato Casellati. I suoi emissari al Senato gli hanno riferito che lei, sotto traccia, ci spera eccome nel Colle. Nei mesi scorsi, a partire dal ddl Zan, ha mandato diversi messaggi sia a Salvini che a Renzi e nelle ultime settimane si è eclissata. I suoi punti di vantaggio sono questi: è una donna ed è la seconda carica dello Stato. Ma Berlusconi non la sopporta. È stato lui a volerla presidente del Senato e non potrebbe prendere bene una sua elezione al Colle: “Pensa solo a se stessa”. Infine c’è Marcello Pera, il filosofo di Lucca che ha interrotto i rapporti con Arcore ed è diventato uno dei consiglieri più stretti di Salvini. Il tramite? Il suocero Denis Verdini. Tant’è che proprio Berlusconi sospetta sul doppio gioco dell’ex macellaio di Fivizzano. “Quando parla, Pera è noioso –­dice di lui Berlusconi, secondo fonti ben informate – ma ve lo immaginate al Quirinale?”. Come dire: con me, sarebbero sette anni di spasso.

“Sciopero sacrosanto, Cgil e Uil fanno bene: la politica è su Marte”

“Questo sciopero generale è pienamente giustificato”. Marco Revelli non ha dubbi, il problema semmai è un altro: “Arriva tardi. I buoi sono scappati dalla stalla da molto tempo. Sarebbe stato necessario uno sciopero generale all’anno negli ultimi due decenni, per contrastare la deriva del mondo del lavoro”.

L’opinione pubblica l’ha accolto come una provocazione, uno schiaffo, un insulto all’unanimismo dell’Italia draghiana e un ostacolo alla favolosa ripresa economica.

Il dibattito aperto tra le forze politiche e buona parte degli opinion leader è surreale. Leggo titoli di giornale del tipo “L’ira del premier”, come se Draghi fosse un nume irato. La scelta dei sindacati è fisiologica, lo sciopero è un fatto di normalità democratica, in presenza di una manovra che colpisce la parte inferiore della piramide sociale.

I lavoratori o i pensionati?

Entrambi. Quel pezzo di Paese che sta peggio viene sacrificato a chi sta in alto. Come se fossimo rimbalzati indietro di un secolo.

È una questione anche di metodo, sostiene Landini: tutto deciso in una stanza senza ascoltare le parti sociali. Così si uccide quel che resta della rappresentanza del lavoro?

È il metodo Draghi, tanto apprezzato dai “decisionisti” di parte. Lo applica allo stesso modo nei confronti del Parlamento e delle forze sociali. Poi c’è una questione di merito grande come una casa. Ci si aspettavano scelte che almeno in parte riequilibrassero il rapporto tra impresa e lavoro, non il contrario.

Quali sono le misure che ritiene più offensive?

Dalla rimodulazione delle aliquote Irpef che funzionano al rovescio rispetto a qualsiasi fiscalità progressiva, alla controriforma che ci regala l’età pensionabile più alta d’Europa, forse del mondo. Cecoslovacchi, austriaci, coreani: vanno tutti in pensione prima degli italiani. Siamo due anni al di sopra della media europea. Le nuove generazioni accederanno alla pensione a 71 anni. È una condizione medievale. Intanto, secondo il Censis, l’Italia è l’unico paese Ocse che negli ultimi 30 anni ha visto diminuire il livello dei salari, del 2,9%. Di cosa parliamo? Di un paese che ha una base sociale ridotta agli stracci.

Il Pd non si capacita. Letta è “sorpreso” dallo sciopero. Il ministro Orlando pure è “stupito”.

Sono reazioni grottesche. Il distacco tra paese reale e paese legale è arrivato a punti da teatro dell’assurdo. Il ministro del Lavoro di un partito che si definisce di sinistra non ha consapevolezza dello stato miserevole in cui si trovano parti consistenti di mondo del lavoro. Ma dove vive? Sembra sbarcato da Marte.

Orlando rivendica: “5 miliardi di investimenti sugli ammortizzatori sociali, un investimento importante sulla non autosufficienza, l’indicizzazione delle pensioni, un fondo per la parità salariale uomini-donne, una distribuzione fiscale che avvantaggia i lavoratori dipendenti”.

Sugli ammortizzatori sociali bisognava intervenire prima che fosse tolto il blocco dei licenziamenti, sono passati cinque mesi. Esibiscono due numeri, ma sotto non c’è nulla. Ciascuno si arrampica sugli specchi che predilige.

I Cinque Stelle sembrano dissociati, prima approvano la manovra, poi Conte dice che “bisogna ascoltare i sindacati”.

Stendiamo un velo pietoso, hanno smarrito la loro identità.

La sfida dello sciopero è rischiosa, soprattutto nel contesto ostile che lei ha raccontato. Se dovesse fallire sarebbe un colpo letale per i sindacati?

Supposto che arrivino fino in fondo, è una decisione giusta ma tardiva. Questo popolo messo in condizioni di deprivazione e di disagio sociale rischia davvero di perdere la bussola. Le manifestazioni che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, le piazze “sporche” dei no vax, attraversate da ventate di irrazionalità e superstizione, sono il prodotto di un malessere profondo di cui i portatori non sono in grado di identificare le responsabilità. È già successo nella storia, come negli anni 30, che di fronte alla caduta di ogni speranza di riscatto i ceti popolari si rifugiassero in comportamenti irrazionali o reazionari. Se dovessero fallire i sindacati, non si aprirebbero le porte alla “pace sociale” che auspica il leader di Confindustria Carlo Bonomi. Si aprirebbero le porte a manifestazioni di conflittualità irrazionale.

Renzi prono alla destra: “Il Quirinale è cosa loro”. Salvini si mette all’opera

L’intesa tra i due ormai è solida. Vogliono ripetere l’asse che, a gennaio, portò alla caduta del governo Conte II. E vogliono farlo da “kingmaker”. Un trono per due. Per far salire al Quirinale un presidente che possa garantire all’uno, Matteo Renzi, una nuova centralità politica, e all’altro, Matteo Salvini, l’incarico in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni. Per questo, ieri, i due “Matteo” si sono chiamati. A distanza. Dopo che il leader della Lega, venerdì sera ad Atreju, aveva detto che Renzi andava “coinvolto nell’elezione del capo dello Stato”, ieri mattina dallo stesso palco il senatore di Italia Viva gli ha risposto con parole al miele: “Stavolta il ruolo del kingmaker tocca al centrodestra”. Negli stessi minuti, da Bari, dove ha presenziato al congresso locale della Lega, Salvini ha ripetuto lo stesso concetto: “Dopo anni il centrodestra è centrale e ha le carte per essere protagonista nella scelta del presidente della Repubblica”. E per questo ha provato a intestarsi l’iniziativa: “Io da lunedì chiamerò tutti i segretari dei partiti, dal più piccolo al più grande, per dire sediamoci intorno a un tavolo e parliamone”. Un modo anche per rispondere indirettamente a Giorgia Meloni che in questi giorni, ad Atreju, è stata incoronata dai suoi avversari come la leader del centrodestra. Un sorpasso che Salvini non può accettare: a dare le carte sul Colle vuole essere lui. Un asse, quello tra Renzi e Salvini, che Enrico Letta prova a spezzare strizzando l’ occhio a Draghi: “L’elezione del prossimo Capo dello Stato sarà rapida e a larga maggioranza”.

A lanciareun appello al centrodestra è il leader di Italia Viva, poco dopo le 11, alla festa di Fratelli d’Italia durante un dibattito sulle riforme costituzionali con i “quirinabili” Marcello Pera, Sabino Cassese, Luciano Violante e il senatore di FdI Ignazio La Russa, moderati dal direttore di Libero Alessandro Sallusti. “Berlusconi rosica perché tutte le tre volte che ha vinto le elezioni non si votava mai per il Capo dello Stato – ha detto Renzi – ma oggi, per la prima volta, la destra ha i numeri in maggioranza con il 45% dei grandi elettori. L’iniziativa tocca a loro: o la destra si incarica di fare una proposta complessiva oppure va cercato tutti insieme un arbitro”. Il leader di Italia Viva tiene le carte coperte su Draghi (“farebbe bene anche al Quirinale”) anche se scommette su un “presidente eletto a larga maggioranza”. Il nome su cui punta Renzi, e piace anche a Salvini, è Pier Ferdinando Casini. Tant’è che di lui, il senatore di Scandicci dice: “Gli ex presidenti delle Camere hanno una carta in più”. Tra questi, oltre a Casini, c’è anche Pera che cerca – e riscuote – gli applausi della platea di Fratelli d’Italia: “Qui – ha esordito l’ex presidente del Senato – mi sento a casa. Grazie per lo slogan ‘il Natale dei conservatori’ perché io sono per il Santo Natale”. Standing ovation.

Dal palco, poi, Pera rilancia la sua proposta per riscrivere la Costituzione lisciando il pelo alla petizione di FdI per istituire il presidenzialismo. Poi si permette anche di attaccare Draghi, quasi autocandidandosi al Colle: “È normale che il candidato più forte neghi di esserlo?”. Giù applausi, di nuovo. E alla fine del dibattito, inaspettatamente, ottiene l’endorsement anche di Sallusti : “Su questo palco è lui la figura presidenziale”. Anche gli altri giuristi si offrono alla platea meloniana. Luciano Violante raccoglie applausi dicendo che, con il taglio dei parlamentari, il prossimo Parlamento “non funzionerà”, mentre Sabino Cassese, in collegamento, sostiene la battaglia di FdI sul presidenzialismo ricordando la frase del padre costituente Costantino Mortati: “Tutti temono la fatale degenerazione in regime autoritario personalistico”. Un assist per Violante: “Nei due referendum del 2006 e del 2016 gli italiani hanno votato contro Berlusconi e Renzi e non contro le riforme”. Il leader di Italia Viva ringrazia e annuisce: “Bene scegliere chi governa – conclude Renzi – la prossima legislatura dovrà fare le riforme costituzionali”. Lo snodo per arrivarci sarà proprio l’elezione del presidente della Repubblica. Renzi e Salvini, quella partita, vogliono giocarla da protagonisti.

Napoli, colpito con 10 colpi d’arma da fuoco

Nella nottefra venerdì e sabato un uomo è stato ucciso con dieci colpi di arma da fuoco a Ponticelli, quartiere della zona est di Napoli. La vittima è Gennaro Matteo, 35 anni, già noto alle forze dell’ordine. Secondo una prima ricostruzione degli investigatori, l’uomo era in auto quando è stato colpito; trasportato d’urgenza all’ospedale del Mare, è deceduto dopo poco. La salma è stata sequestrata e sarà sottoposta ad autopsia. Matteo era stato arrestato nel 2015, insieme ad altri due coetanei, per possesso di armi. La vittima non risulta collegata ad alcuna cosca, anche se nella zona è in corso una faida fra i De Luca Bossa-Minichini e i De Micco-De Martino che negli ultimi mesi ha messo in allerta le forze dell’ordine.

Genny Cantarero: l’ex, indagato, è irreperibile

È ricercato per omicidio l’ex compagno di Giovanna ‘Genny’ Cantarero, la 27enne uccisa a Misterbianco (Catania). L’ennesimo caso di femminicidio consumato venerdì, quando la ragazza è stata freddata con alcuni colpi di pistola alla testa, poco dopo essere uscita da lavoro e in attesa che arrivasse la madre per tornare a casa. Una testimone ha raccontato che l’aggressore aveva il volto coperto ed è fuggito in moto dopo l’agguato. Interrogando parenti e amici, gli inquirenti hanno scoperto una burrascosa relazione, mai denunciata dalla ragazza, con l’ex compagno, al momento irreperibile. Genny lascia una figlia piccola.

Prof. ucciso a Tarquinia. L’arrestato confessa

Dopo esserestato fermato dai carabinieri con l’accusa di aver ucciso Dario Angeletti, il professore dell’Università della Tuscia trovato morto martedì nella sua auto in un parcheggio di Tarquinia (Viterbo), Claudio Cesaris ha confessato l’omicidio dell’uomo. “Sono stato io a sparare” avrebbe detto Cesaris, secondo quanto riporta l’Ansa. Per gli investigatori alla base dell’omicidio ci sarebbe un triangolo amoroso fra i due uomini e una terza donna. Sono state decisive per le indagini le immagini della telecamera che inquadra il piazzale in zona Saline, dove il corpo del professore è stato trovato dentro la sua auto, con ancora la cintura di sicurezza allacciata.

Renzi usa Mps e si autoassolve: “Sono sconvolto, è il pm di Open”

Non dev’essere sembrato vero a Matteo Renzi di trovarsi di fronte un’occasione del genere: strumentalizzare i misteri della morte di David Rossi – e le rivelazioni che riguardano il pm Antonino Nastasi – per screditare l’indagine Open, in cui è accusato di finanziamento illecito. Ma i pianeti si sono allineati come neanche Matteo poteva sognare e allora ieri, dal palco di Atreju (la festa di partito di Fratelli d’Italia), l’ex premier si è sfogato contro Nastasi, titolare del caso Open a Firenze (insieme al collega Luca Turco) che secondo l’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco, la sera del 6 marzo 2013 avrebbe risposto al telefono di Rossi appena dopo la sua morte. Un comportamento ritenuto “irrituale”. Testimonianza rilasciata qualche giorno fa alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Rossi.

Il capo della comunicazione di Monte dei Paschi volò dalla finestra del suo ufficio una notte di otto anni fa, in circostanze ancora molto sospette nonostante la vicenda sia stata ufficialmente classificata come un suicidio. Nastasi non è mai stato titolare del fascicolo sulla morte di Rossi, ma Renzi ne fa il suo bersaglio: “La vicenda David Rossi è enorme, non vi sconvolge? – ha detto ieri ad Atreju – Vi rendete conto che un pubblico ministero, o più di uno, entra nella scena del delitto o del crimine e inquina le prove? Siccome quel pm è lo stesso del caso Open, io non posso attaccarlo. Ma in un Paese normale direi: vi rendete conto di chi mi fa l’indagine?”. E ancora: “Se è vero, è uno scandalo senza fine, sono sconvolto”. Al netto della testimonianza di Aglieco va detto, appunto, che Nastasi è legato solo in parte all’inchiesta e ai suoi tanti punti oscuri, non essendo stato incaricato del fascicolo. Eppure il suo è l’unico nome fatto da Aglieco in commissione, nonostante molte altre circostanze da chiarire, come quella per cui il cestino della carta dell’ufficio di Rossi, con dentro alcuni fazzoletti insanguinati, sarebbe stato rovesciato sulla scrivania senza guanti né alcuna accortezza, prima che arrivasse la scientifica. Ma, otto anni più tardi, per Renzi il colpevole è uno solo e ha il nome di chi indaga su di lui e sul suo Giglio magico.