Ha fatto riaprire il caso: minacce al luogotenente

Giugno 2020. Da una stampante del comando provinciale dei carabinieri di Siena esce per sbaglio una lettera anonima che getta accuse infamanti su un investigatore. Non si tratta di un nome qualunque: è il luogotenente Roberto Nesticò, comandante del nucleo investigativo dell’Arma di Siena. È l’inquirente che da qualche mese sta lavorando sotto traccia a un cold case, una pista che potrebbe condurre alla riapertura di una terza inchiesta sulla morte di David Rossi. I nuovi spunti investigativi si basano sulle dichiarazioni di un detenuto, William Villanova Correa, ex escort. È in carcere per l’omicidio di una prostituta, Lucelly Molina Camargo, 32 anni, di cui è reo confesso. Il delitto è avvenuto il 3 marzo del 2013 in un appartamento di via Vallerozzi, a Siena. Pochi giorni prima che Rossi precipiti dalla finestra del suo ufficio del Monte dei Paschi, il 6 marzo, a poche centinaia di metri da Palazzo Salimbeni.

Cosa dice Villanova Correa? Le prime rivelazioni riguardano il delitto che si è accollato, di cui non ha mai fornito un vero movente. Gli investigatori sono convinti che potrebbe non aver agito solo. E seguono una traccia: la strana “scomparsa” nei giorni successivi all’omicidio di un amico di Villanova, di nazionalità albanese. Viene dato per morto in un’immersione in provincia di Grosseto, per poi ricomparire mesi più tardi con una storia strampalata: “Volevo scappare dalle nozze combinate a cui mi voleva obbligare la mia famiglia”. Alla luce di nuovi elementi, e delle dichiarazioni di Villanova, gli inquirenti vorrebbero sentirlo come testimone. E fare qualche domanda in più anche a un’altra persona, una prostituta amica della vittima, scappata da Siena il giorno successivo alla morte della coinquilina. Villanova però fa altre dichiarazioni, che collegano potenzialmente questi fatti alla morte del manager Mps. Il movente del delitto della donna, dice, riguarderebbe alcuni video di incontri compromettenti. È il periodo in cui i pm genovesi indagano proprio su questo filone, a proposito del caso di David Rossi, per capire se possa spiegare eventuali insabbiamenti. Villanova, sentito dai carabinieri di Siena su delega di Genova, racconta di aver “partecipato a festini con magistrati e politici” e riconosce uno dei pm del caso Rossi, per questo i suoi verbali vengono inviati al Csm. Villanova dice anche di conoscere gli “autori dell’omicidio di David Rossi”: “Erano tre, fra loro un albanese che vive a Milano. Non si è ammazzato. Indagate sull’amante della persona che ho ucciso, un dirigente Mps”.

Queste affermazioni sono tutte da verificare, ovviamente. Ma è a questo punto che arriva il colpo di scena, che ci riporta all’estate scorsa: l’esposto anonimo, firmato “Avvocati onesti”. Accusa Nesticò, cioè il capo degli inquirenti, di avere “una relazione” con la sorella di Villanova Correa, e di aver favorito la propria moglie avvocato. Sono accuse vagliate dal pm Niccolò Ludovici e ritenute prive di fondamento. Ma l’aspetto forse più inquietante è l’origine interna della polpetta avvelenata: a stampare la lettera sono stati altri due carabinieri, sottoposti di Nesticò, scoperti da un terzo collega, che denuncia tutto. Sui due militari, oggi indagati per diffamazione del loro superiore, il gip Jacopo Rocchi nei giorni scorsi ha richiesto nuovi accertamenti e respinto la richiesta di archiviazione della Procura di Siena. Messi alle strette, hanno sostenuto di aver ricevuto l’esposto da una “fonte confidenziale”, di cui però non c’è traccia in atti ufficiali. Nesticò, invece, è stato ascoltato in segreto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta il primo dicembre. Come testimone dell’ennesimo mistero che sembra avvolgere tutto ciò che riguarda il caso David Rossi.

Morte David Rossi, tutti i misteri in 10 punti

Sono bastati cinque mesi di lavoro per trovare elementi mai scoperti prima. E nemmeno pochi. Sarebbe già sufficiente questo a far entrare d’ufficio la morte di David Rossi nel più classico filone dei misteri italiani: a 8 anni dai fatti, e dopo tre inchieste giudiziarie, c’è ancora da scavare. L’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi precipita dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo del 2013, nel pieno della bufera giudiziaria su Mps, e dopo aver manifestato la volontà di collaborare. La Procura di Siena, per due volte, ha archiviato la vicenda come un suicidio. Anche i pm di Genova, chiamati a indagare su possibili insabbiamenti, hanno concluso con un’archiviazione. Eppure, la Commissione parlamentare d’inchiesta istituita a luglio ha mostrato di poter aggiungere pezzetti di verità a un caso che ancora oggi ha molti aspetti da chiarire. Ecco quali.

1. La verità del colonnello. Si può cominciare dalla fine, dall’audizione di Pasquale Aglieco, ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena. Sentito giovedì per cinque ore, l’ufficiale ha rivelato una serie impressionante di possibili “inquinamenti della scena”. Per la prima volta si apprende che lui stesso era presente al primo sopralluogo nella stanza di Rossi, senza che questo sia mai comparso nei verbali dell’inchiesta, in capo alla polizia. Aglieco, questo era noto, aveva dichiarato di essersi trovato da quelle parti per caso: “Ero uscito a comprare le sigarette”. Ai parlamentari racconta adesso di essere entrato nell’ufficio insieme a tre pm: Nicola Marini (di turno), Aldo Natalini (l’altro collega che si occuperà delle indagini), e Antonino Nastasi (titolare del fascicolo sulle malversazioni della banca). Il suo sembra il resoconto di tutto ciò che non si dovrebbe fare sulla scena di un potenziale crimine: “Nastasi si è seduto sulla sedia di Rossi e ha acceso il computer”; “i pm hanno rovesciato sulla scrivania il cestino coi fazzoletti insanguinati e i biglietti strappati”; “Nastasi rispose a una chiamata di Daniela Santanché sul telefono di Rossi”.

2. I bigliettini strappati. Scritti da Rossi, spiegherebbero il suo suicidio. Secondo una perizia calligrafica, il manager potrebbe però averli compilati sotto costrizione. Federica Romano, assistente capo della polizia scientifica racconta di averli trovati “in un libro”, dove “li avevano ricomposti i magistrati”.

3. I fazzolettini. Sono sporchi di sangue (cosa che sconsiglierebbe di svuotarli su una scrivania). Verranno sequestrati solo giorni dopo il sopralluogo. Ne verrà disposta la distruzione dal pm Aldo Natalini, prima della seconda archiviazione dell’indagine. Senza che nessuno, mai, analizzi il Dna.

4. Il video sparito. Altra scoperta della Commissione: Federico Gigli e Livio Marini, poliziotti della volante intervenuta per prima, girarono un video della scena. La finestra era aperta. Il video però sparisce dagli atti. La Scientifica trova la finestra chiusa. È davvero caduto dal secondo piano?

5. L’orologio. Dalle indagini difensive della famiglia Rossi, che non ha mai accettato la versione del suicidio, emergono molti elementi anomali. Le contusioni sul corpo di David. Il segno dell’orologio sul polso, come se qualcuno lo avesse tenuto appeso. Lo stesso orologio, ritrovato a distanza dal corpo, che da un video sembra volare dalla finestra minuti dopo la caduta. Un uomo mai identificato che compare nelle telecamere che inquadrano il vicolo. Nessuno dispone l’acquisizione dei tabulati telefonici per capire chi era al Monte dei Paschi quella notte.

6. La perizia informatica. Qualcuno tentò di inviare due mail dal Blackberry di David Rossi, dopo la sua morte. Un’analisi informatica disposta dalla Procura di Genova nel 2020 (è la prima) accerta adulterazioni dei telefoni del manager: “Emergono numerose cancellazioni di messaggi e chiamate”, “oltre 300”. Da uno solo dei due cellulari sono stati eliminati “59 sms su 64”.

7. i festini. Nel 2017, dopo la seconda archiviazione di Siena, il caso viene riaperto dalle Iene. Tutto nasce da un’intervista dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, che parla di caso “abbuiato” e di festini compromettenti che coinvolgerebbero anche magistrati. Sul caso apre un’indagine Genova. Due testimoni, che si dichiarano ex escort, ricollegano due magistrati senesi a presunti festini. L’indagine viene archiviata: anche se fossero attendibili, rimarrebbe da provare il depistaggio. Gli atti finiscono al Csm. Uno dei testimoni, William Villanova Correa (vedi articolo a fianco) dice di conoscere gli autori del presunto omicidio.

8. La pista finanziaria. Nel cellulare di Rossi, dopo la sua morte, sembra esserci una chiamata in uscita al numero 4099009. La Tim dà una spiegazione tecnica: sarebbe in realtà il dirottamento di una chiamata in entrata. Gli avvocati della famiglia non hanno mai creduto a questa versione. Nel 2019 la Procura di Siena ha riaperto indagini su un certificato di fondi al portatore che collegherebbe il sistema delle sponsorizzazioni sportive, gestito da David Rossi, alla Lega. Gli accertamenti non danno esito.

9. il testimone e lo ior. Tre anni dopo la morte di Rossi un sedicente Antonio Muto si presenta all’ex avvocato della famiglia Rossi, Luca Goracci. Dice di aver mancato un appuntamento con Rossi il 6 marzo del 2013, di averlo trovato già morto, e di essere stato aggredito da tre sconosciuti armati. Due settimane dopo Report intervista Antonio Muto, imprenditore calabrese collegato a vicende di clan radicati a Mantova, indebitato com Mps. La coincidenza stupisce Goracci: non è la stessa persona da lui incontrata. Nello studio di David Rossi viene trovato il numero di cellulare dell’ex presidente della Banca Vaticana Ettore Gotti Tedeschi, mai sentito dai pm. Probabilmente sarà tra i prossimi testimoni convocati dalla Commissione, insieme all’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari.

10. Giancarlo Pittelli. L’ex parlamentare di Forza Italia, indagato nell’inchiesta Rinascita Scott e arrestato nuovamente pochi giorni fa su richiesta del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, parla di David Rossi in un’intercettazione: “Non si è suicidato, è stato ucciso. Se riaprono l’indagine sulla morte di Rossi succederà un grosso casino… Se si sa chi lo ha ammazzato”.

“Truffata da un pass ‘falso’ che non potevo verificare, ma tocca a me pagare la multa”

“Noi i controlli li facciamo, ma poi non possiamo sapere se i clienti ci danno un Green pass falso. E quindi come ristoratori che facciamo? Paghiamo ogni sera anche mille euro di sanzioni?”. A parlare è Paola Sturchio, titolare del ristorante romano “La Barchetta”, che venerdì sera è stata multata dai vigili urbani per aver fatto entrare un cliente con un certificato che, solo in seguito, si è rivelato non essere il suo.

Ci può spiegare com’è andata?

Intorno alle 23 sono arrivati i vigili per un controllo sui certificati. A un certo punto abbiamo notato che c’era questo giovane, in compagnia di una ragazza, che ha iniziato ad agitarsi alla vista della Municipale. Loro gli hanno chiesto i documenti, ma lui non aveva il pass e così hanno fatto due verbali da 400 euro: uno a lui e l’altro a noi.

Vi eravate assicurati che avesse il Green pass prima di entrare?

Certo. Li abbiamo sempre chiesti da quando sono in vigore. Una nostra cliente, che ha assistito alla scena, ha anche raccontato ai vigili che una sera precedente non l’avevamo fatta entrare perché si era scordata il pass a casa. Ma non possiamo sapere se chi arriva ci dà un certificato che non è il suo: perché a noi, per entrare, il Green pass lo presenta, e come facciamo a sapere che non è il suo, non essendo abilitati a chiedergli i documenti? Le forze dell’ordine invece possono e scoprono il raggiro, che è reato: ma perché dobbiamo andarci di mezzo noi?

Non potevate far vedere ai vigili quello che vi aveva mostrato?

No, perché una volta che il certificato risulta verde, scompare dopo poco dallo storico del sistema di verifica. E ripeto: noi i documenti, per verificare se il certificato appartiene a chi lo esibisce, non possiamo chiederli, né avremmo il tempo di farlo. L’ho detto ai vigili, ma non hanno colpe neppure loro. Però noi ristoratori come ci difendiamo dal rischio di pagare ogni sera migliaia di euro di multe?

“Su Omicron siamo senza certezze. Più soldi per gli ospedali”

“Le cose vanno abbastanza bene”, assicura Pierpaolo Sileri, sottosegretario M5S alla Salute, ma prima chirurgo.

Lo dica ai suoi colleghi dei pronto soccorso, che sono in difficoltà.

Stiamo andando bene con la vaccinazione. Contagi zero non esiste. Germania e Francia stanno peggio.

Torniamo ai pronto soccorso e al Covid che sottrae medici agli ambulatori e anestesisti alle chirurgie. L’ennesima sottovalutazione?

No. C’è stata per 15 anni, ora abbiamo aumentato i posti nelle scuole di specializzazione, ma chi entra oggi si specializza tra cinque anni. E gli ospedali fanno quello che possono. C’è sempre stata questa emergenza nei pronto soccorso, come la carenza dell’offerta per la chirurgia d’elezione (programmata, ndr), accentuata tra dicembre e gennaio con il picco dell’influenza.

Ora c’è anche il Covid e peggiora.

I pazienti in terapia intensiva sono raddoppiati in poco meno di un mese, dal 4 al 9%, è ipotizzabile che salgano ancora ma non fino alle percentuali del passato.

Ora però si tentava di recuperare visite e interventi rinviati. Cosa fate per non accumulare ritardi che possono significare morti futuri?

Potenziare le capacità per garantire le prestazioni ambulatoriali. Per le liste d’attesa le Regioni avranno mezzo miliardo di euro. Occorre occupare tutto il personale e incrementare le ore ai 20 mila medici con contratti Sumai, che ne fanno 22 di media a settimana e possono arrivare a 36. Ma servono più soldi per affrontare questa ondata e le sue ricadute, sperando che con la variante Omicron non ce ne sia un’altra. In Italia ci sono oltre 70 mila tra medici e infermieri stranieri, esclusi dai concorsi per la nazionalità. Da anni chiedo di aprire.

E per la chirurgia programmata?

In alcune Regioni apposite convenzioni portano i medici degli ospedali convertiti in Covid a operare in strutture private.

L’Iss dice che cinque Regioni, in un mese, possono superare i limiti della zona arancione, cioè il 20% di pazienti Covid nelle terapie intensive e il 30% nell’area medica. Secondo gli anestesisti andrebbero in crisi molti ospedali. Ma l’arancione prevede restrizioni solo per chi non è vaccinato o guarito. Saranno sufficienti?

Vaccinati e guariti hanno 7 possibilità in meno di infettarsi e 9 di andare in ospedale rispetto ai non vaccinati. Le misure avranno effetto. L’incognita è Omicron, non abbiamo certezze.

Ora la terza dose e poi magari la quarta e chissà. Però siamo 60 milioni, rivaccinare tutti richiede più dei 5-6 mesi di durata della protezione. Bastano i vaccini?

C’è anche il Green pass di base con il tampone negativo, le mascherine e molte precauzioni abbandonate da altri Paesi. Le terze dosi sono suggerite dal quinto mese, ma questo è importante soprattutto per gli over 60 e i fragili. L’immunità non scende subito a a zero. C’è tempo, al ritmo di poco meno di tre milioni di terze dosi a settimana. Diverso sarà a gennaio: a maggio ci fu il boom delle prime dosi.

L’Aifa raccoglie segnalazioni di reazioni avverse ma per lo più non le verifica, si fanno poche autopsie. Non bisogna investire sulla farmacovigilanza attiva?

La farmacovigilanza italiana è fra le migliori . E i dati degli eventi avversi confluiscono nel database europeo. Si fa l’autopsia se il medico ipotizza un nesso causale. La farmacovigilanza può essere migliorata ma abbiamo 45 milioni di vaccinati qui e altrettanti negli altri Paesi Ue. Una mole di dati mostruosa, impossibile nascondere un problema se davvero esiste.

Ci sono dubbi sul vaccino ai bambini, dalle miocarditi viste tra i 12-19enni al discusso rapporto rischi/benefici.

Per i bambini dai 5 agli 11 anni viene data un’opportunità, non c’è Green pass, non c’è obbligo. Il virus fa meno danni tra i bambini ma il 10-12% rischia il long Covid anche se asintomatico. Miocarditi e pericarditi indotte dal virus sono più numerose e più gravi. Ma il vaccino è un’opzione: chi vuole farlo lo fa, chi non vuole no.

Sembra che non si fidi neanche lei.

Se avessi figli sopra i 5 anni non esiterei.

Novavax, siero a base proteica che può convincere gli scettici

Entro fine anno l’Agenzia europea del Farmaco potrebbe autorizzare il vaccino made in Usa Novavax, il primo a base di “proteine”. C’è anche un secondo vaccino a “virus inattivato” in arrivo, progettato dalla società francese Valneva. Entrambi rientrano nel “gruppo” dei vaccini classici perché utilizzano una tecnologia già nota per molti altri vaccini – morbillo, rosolia, parotite, varicella, epatite A e B, meningococco B, poliomielite e l’antinfluenzale –, sviluppati attraverso “virus inattivati”, “vivi attenuati” e “proteici”.

Per Valneva – e il suo virus inattivato – ci sarà ancora da aspettare, la revisione appare più lunga e sforerà il 2022. Mentre, è arrivato al traguardo Novavax, questione di giorni. Il vaccino a proteine ricombinate è sicuramente una novità rispetto ai vaccini finora autorizzati in Ue contro il Covid. Le differenze, tra il vaccino proteico e i vaccini a mRNA, sono sostanziali. La prima: il vaccino “proteico” inocula direttamente la “proteina” Spike nell’organismo. Cosa diversa avviene con i vaccini a mRNA: sono inoculati “codici-ingredienti” che programmano le nostre cellule per assemblare la proteina virale (Spike) per poi proporla al nostro sistema immunitario.

Seconda differenza, le dosi (almeno in apparenza), Moderna inocula 100 microgrammi di mRNA, Pfizer 30 microgrammi di mRNA, Novavax 5 microgrammi di proteine Spike e 50 microgrammi di adiuvante Matrix-M1 (saponina). Per capire se esista una reale divergenza tra le dosi di mRNA e quelle espresse in proteine, abbiamo chiesto un chiarimento ad Antonio Cassone, ex direttore del Dipartimento Malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità: “Con l’mRNA non si sa di preciso quanta proteina Spike venga espressa (prodotta) dalle cellule, questo significa che si potrebbe produrre una quantità diversa di Spike in soggetti diversi, e ciò potrebbe influenzare anche la variabilità della risposta immunitaria. Mentre, con Novavax si ha una quantità definita di proteine, sono quelle e basta – continua il professore – il vantaggio di questa tecnologia a proteine ricombinanti è che è già nota”.

Una cosa in comune ce l’hanno invece: la proteina Spike è stata disegnata sulla sequenza del virus di Wuhan. L’Ema baserà la sua analisi sulla ricerca condotta dalla società americana. Uno studio è stato circoscritto a 15 mila soggetti, arruolati in Gran Bretagna, e un secondo trial, tra Stati Uniti e Messico. In quest’ultimo caso sono stati monitorati 25.452 partecipanti (17.312 destinatari di NVX-CoV2373 e 8.140 destinatari di placebo), tra il 27 dicembre e il 19 aprile. Tra questi si sono registrati 77 casi di Covid-19; 14 tra i vaccinati e 63 tra i destinatari del placebo. La maggior parte con variante Alfa.

L’efficacia complessiva dichiarata supera il 90%, per i ceppi Alfa e Beta. I casi da moderati a gravi sono stati riscontrati tra i 14 non-vaccinati, per i 63 vaccinati si parla di effetti mild, leggeri.

In Italia, oltre 6 milioni di over 12 non hanno aderito alla campagna vaccinale, per una costellazione di motivazioni, tra cui i dubbi sulle implicazioni di medio-lungo termine dei vaccini a mRNA (o con vettore adenovirale). Esistono dati comparati sulle reazioni avverse tra vaccini classici e quelli a piattaforma mRNA: il sistema di vigilanza semi-attiva “V-Save” dei Cdc (i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie degli Stati Uniti), riporta effetti avversi “severi” di grado 3 (su un massimo di 4) nel 25,4% degli adolescenti tra 12 e 15 anni, dopo la seconda dose del vaccino mRNA. Altrettanto è stato riscontrato dopo la seconda dose nella fascia 16-17 anni, ovvero il 28,6%. Mentre, per i vaccini morbillo-parotite-rosolia-varicella, se ne sono censiti il 3,8%.

I nuovi vaccini in arrivo, basati su piattaforme conosciute e con follow-up decennali, potrebbero avere un impatto importante su chi nutre dubbi.

Vaccini, ingorgo terze dosi Under12: prenota solo il 3%

Le Regioni hanno raggiunto il primo obiettivo fissato dal commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo (4,6 milioni di somministrazioni dall’1 al 12 dicembre) con due giorni di anticipo rispetto alla scadenza, venerdì. Ma dal 13 al 26, come sappiamo, dovranno alzare l’asticella: ne dovranno fare 6,3 milioni. E in questo periodo non dovranno essere garantite solo le dosi booster e le dosi aggiuntive, oltre a prime o seconde somministrazioni.

La prossima settimana, il 16, partirà infatti anche la campagna vaccinale rivolta alla fascia di età compresa tra i 5 e gli 11 anni, una platea potenziale di circa 3,6 milioni di bimbi. Questo contribuisce a spiegare perché alcune Regioni hanno chiesto rinforzi alla struttura commissariale. Personale dell’esercito per supportare l’organizzazione negli hub. Ufficiali medici ma anche semplici soldati. Lo ha fatto, per esempio, il Piemonte, chiedendo almeno due squadre vaccinali. Lo ha fatto l’Emilia Romagna, mettendo sul tavolo la richiesta di militari per garantire maggiore efficienza e rapidità, anche per le attività di tracciamento dei contatti. Fino ad ora, però, da Figliuolo – che sta valutando la situazione complessiva a livello nazionale – non è arrivata nessuna risposta. Nel frattempo alcune Regioni hanno già dato il via libera alle prenotazioni per i bambini. Altre – dalla Lombardia alla Liguria per arrivare al Lazio e al Friuli Venezia Giulia – partiranno tra oggi e martedì.

Le prime risposte delle famiglie delineano un’Italia a due velocità. La Toscana, che ha una platea di 215 mila bambini vaccinabili, ha raccolto, tra venerdì e ieri, oltre 9.600 prenotazioni, il 4,46%. E ancora di più, 11.500 sempre in 48 ore, sono quelle arrivate al portale della Regione Piemonte, il 4,69% dei 245 mila bimbi di questa fascia d’età. La Campania, che potenzialmente dovrebbe vaccinare 388 mila bambini, ha invece ricevuto fino ad ora solo 2.500 adesioni, appena lo 0,64%. Tutt’altro che un boom. Anche se la Regione guidata da Vincenzo De Luca, che ha già coinvolto con un protocollo di intesa anche i pediatri di libera scelta, lo considera un buon risultato. Ma per avere un quadro più dettagliato sarà necessario aspettare ancora qualche giorno. La Lombardia, che sulla carta deve vaccinare 600 mila bambini, parte oggi con le preadesioni. E il piano per procedere speditamente è già pronto. Prevede, grazie a 60 punti di somministrazione (alcuni rivolti solo a questa fascia, la maggior parte con percorsi specifici dedicati ai bambini e personale formato nella gestione del target pediatrico) di raggiungere 40 mila somministrazioni al giorno. “Gli accessi saranno facilitati e terranno conto degli impegni scolastici nei giorni feriali, mentre si potrà accedere tutto il giorno il sabato e la domenica”, ha spiegato Letizia Moratti, vice presidente e assessore al Welfare.

Anche l’Emilia-Romagna (qui i bambini da vaccinare potenzialmente sono 240 mila) comincerà domani a prendere le prenotazioni. Così la Liguria e il Lazio. Poi ci sono Regioni che hanno scelto altre strade. È il caso della Puglia, che ha deciso di puntare su specifiche sessioni vaccinali nelle scuole, con un accordo tra le aziende sanitarie e l’ufficio scolastico regionale, e sui pediatri, che faranno le vaccinazioni nei loro studi. Intanto, mentre i contagi continuano ad aumentare (ieri sono stati 21.042, i decessi 96), è il report dell’Istituto superiore della Sanità a confermare che i casi sono in crescita, in particolare, tra i bambini e i ragazzi fino a 19 anni. In due settimane, dal 22 novembre al 5 dicembre, sono stati 48.503. Di questi, 167 hanno richiesto il ricovero in ospedale e due il trattamento in terapia intensiva. Dall’inizio dell’epidemia le ospedalizzazioni si sono rese necessarie in oltre 8.800 casi, con 252 ricoveri in rianimazione.

Traviate&cappellate

Sono 27 anni che partiti e stampa di destra (quindi oggi Repubblica) la menano coi magistrati in politica. Eppure fu B., nel ’94, a offrire a Di Pietro e Davigo i ministeri dell’Interno e della Giustizia. Quelli però rifiutarono e lui ripiegò sulla Parenti. Nessun pm di Mani Pulite è mai entrato in politica: Di Pietro e D’Ambrosio lo fecero quando non erano più magistrati (uno s’era dimesso da due anni, l’altro era in pensione). Ma ci mancherebbe pure che l’elettorato passivo fosse consentito a chi ha violato le leggi (c’è un pregiudicato in corsa per il Quirinale) e proibito a chi le fa rispettare. Il guaio che nessun partito o ministro ha mai voluto risolvere (a parte l’esecrato Bonafede) non nasce quando una toga si candida, ma quando torna indietro: basterebbe imporle di farlo in ruoli civili o amministrativi.

Banalità che chi cerca pretesti anti-pm finge di ignorare. Tipo Stefano Cappellini, che delizia i lettori superstiti di Rep con un distillato delle migliori balle berlusconiane. “La magistratura non persegue singoli reati, ma combatte fenomeni supplendo alle carenze della politica” (Mani Pulite indagò oltre 4 mila singole persone per singoli reati senza supplire a una beneamata ceppa: i pm sono pagati per questo, i politici dovrebbero perlomeno evitare di rubare). Un “grande alibi che ha contribuito a traviare un pezzo di opinione pubblica progressista, spingendolo sulle rive di un giustizialismo sempre più rozzo” (a “traviare” i progressisti che sognano una legge uguale per tutti basta la Costituzione, come all’epoca scriveva pure Rep). “La lotta emergenziale in nome del Bene” (Mani Pulite non applicò leggi emergenziali, ma il Codice penale, prima che fosse sventrato per cancellare i reati e le prove). “I metodi dei pm di Mani Pulite: abuso della custodia cautelare” (che non spetta ai pm, ma a Gip, Riesame e Cassazione) e ”limitazione dei diritti di difesa” (mai visto tanti cavilli legulei e prescrizioni). “Perché Maresca dovrebbe sentirsi in imbarazzo” se si sono candidati “Di Pietro e Ingroia”? Forse perché Di Pietro non era più magistrato e Ingroia era in aspettativa, mentre Maresca fa contemporaneamente il giudice e il consigliere comunale. “Il partito dei giudici ha avuto esponenti… che non hanno fatto il salto ma è come se: Davigo, teorico della funzione supplente della magistratura” (qualunque cosa significhi);

“Colombo, teorico della ‘società del ricatto’… Scarpinato, teorico della magistratura ‘variabile non coerente col sistema consociativo’”. Cioè: i tre putribondi pm non si sono mai candidati, però osano avere delle idee, e le esprimono pure. Due attività pericolosissime, da abolire per legge, per non lasciare solo chi non ha mai avuto un pensiero.

Traverso illumina la “Rivoluzione”, un’esplosione di energie collettive

È un’immersione voluminosa nella rivoluzione così come si è presentata agli uomini e alle donne, l’ultimo libro di Enzo Traverso, uno degli storici più apprezzati a livello mondiale. Per spiegarne la struttura ricorre a Walter Benjamin, ispiratore con Karl Marx della sua ricerca: “Erigere grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione”. Quindi una collezione di testi, immagini, corpi, statue, colonne, barricate, dipinti, poster, vite individuali. Non è una storia sequenziale delle rivoluzioni, gli eventi non sono trattati in ordine cronologico, ma una serie di “immagini dialettiche” (ancora Benjamin) in cui gli eventi sono trattati insieme alla loro interpretazione.

Il metodo scelto obbedisce all’impostazione di fondo della ricerca stessa: uscire dalla logica deterministica e storicistica che ha alimentato il marxismo ufficiale per il quale, anche sulla base di scritti dello stesso Marx, le rivoluzioni obbediscono a una legge oggettiva che conduce a una progressione storica costante. Non è così, non è stato così, le rivoluzioni, molto più semplicemente, sono “invenzioni” che accadendo producono un’interruzione improvvisa nel corso storico, magari frenandone la corsa verso la distruzione dell’umanità.

Il metodo scelto costituisce il pregio e il fascino del libro: si prenda il bel capitolo sulla libertà in cui la ricostruzione delle differenti accezioni – “libertà negativa” o libertà positiva”, la differenza tra libertà e “liberazione” – offre una ricostruzione originale e “nascosta” della stessa rivoluzione.

Leggendo Lev Trockij, Walter Benjamin paragonò la rivoluzione alla fissione nucleare, “un’esplosione capace di liberare le energie contenute nel passato”. Traverso prende una torcia e illuminando retrospettivamente quegli accadimenti cerca di ravvivarli, ricostruendone una memoria complessiva.

 

Rivoluzione, Enzo Traverso, Pagine: 454, Prezzo: 39€, Editore: Feltrinelli

 

“Sono un piccolo delinquente, nevrotico e triste”

“Io sono in complesso un piccolo delinquente nevrotico e me ne sento a volte assai più infelice di quanto puoi credere”. È un passaggio di una lettera datata 17 giugno 1900 che Italo Svevo scrive alla moglie Livia Veneziani. Un carteggio privato che la nuova edizione delle Lettere, in libreria per Il Saggiatore, riproduce per intero.

Il corpus delle missive copre una quarantina d’anni, dal 1885 al 1928 (l’ultima, indirizzata alla figlia Letizia, risale a pochi giorni prima del decesso). La vita privata resiste fino al 1925. Da allora in avanti la moglie esce di scena e Svevo dialoga con gli interlocutori che hanno propiziato il suo successo letterario, da Montale a Joyce a Prezzolini. Un epistolario di milleduecento pagine che rinnova “il mito dello scrittore che pubblica due romanzi incompresi, tace religiosamente per vent’anni e poi regala al mondo un terzo capolavoro, nato di colpo da un attimo di forte travolgente ispirazione”.

Chi è quest’uomo dagli “occhi neri, prominenti, leggermente strabici” e che non supera il metro e 68 di statura? Chi è questo scrittore “quasi per caso” che si nasconde dietro un nom de plume e che generazioni di studenti conoscono come un classico del Novecento? Ettore Schmitz nasce nella Trieste austroungarica del 1861. Studia in Baviera e segue poi nella città friulana una formazione tecnica. Cresciuto a pane e tedesco, nelle ore libere dal suo impiego di bancario, studia in biblioteca lingua e letteratura italiana. Ebreo, si converte al cattolicesimo per sposare la cugina Livia e si reinventa come dirigente nell’azienda di vernici sottomarine del suocero. Una biografia spoglia, al limite dell’insignificanza (sovviene l’assicuratore Franz Kafka, suo “fratello separato praghese”). Ma il commerciante Schmitz ha in serbo per sé un doppio, Italo Svevo, persuaso che “fuori della penna non c’è salvezza”.

Può scrivere bene in tedesco ma preferisce “scrivere male” in italiano. Nel 1892 debutta con Una vita, romanzo che sublima la figura dell’inetto. Il protagonista, Alfonso Nitti, bancario con velleità letterarie, incapace di conquistare il cuore dell’amata Annetta, si lascia morire. Il secondo romanzo, Senilità, esce nel 1898 e si avvita sul travaglio esistenziale di un altro inetto. Emilio Brentani, assicuratore astratto e libresco, si innamora di una ragazza, Angiolina, che non ricambia i suoi sentimenti: “Viveva sempre in un’aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata”. Le due opere sono clamorosi insuccessi e Svevo ripone la macchina da scrivere in soffitta per venti lunghi anni. Nel 1923 sfida di nuovo il destino e fa centro con La coscienza di Zeno. Zeno Cosini, commerciante triestino, per liberarsi dal vizio del fumo mette per iscritto la propria vita su indicazione terapeutica del suo psicoanalista. Emerge il suo conflitto con il padre, la sua colpa di marito infedele, la sua autocondanna a una perenne inadeguatezza: “La malattia è una convinzione e io nacqui con quella convinzione”.

A Eugenio Montale da Charlton il 17 febbraio 1926 scrive: “È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dei romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie”. Influenzato dalla dottrina freudiana, il romanzo regala all’autore, ormai sessantenne, l’agognata canonizzazione. È James Joyce, che vive e insegna inglese a Trieste, a segnalare l’opera ad alcuni critici francesi e a determinarne di fatto la fortuna. Una fortuna che Svevo riesce a godersi solo per una manciata di anni. Resta da domandarsi, per richiamare Federico Bertoni, chi sia morto nel 1928 per i postumi di un incidente stradale: “Il commerciante triestino che si è ostinato a scrivere romanzi, intestandoli a un certo Italo Svevo, o lo scrittore misconosciuto e geniale che si è camuffato da borghese e ha calcato le scene del mondo con lo pseudonimo Ettore Schmitz”?

“Non ho verità da dire: ho solamente vissuto”

Due magliette scolorite, tre t-shirt bianche, un pantalone, tre paia di mutande, due di calze, un kanzu (l’abito maschile nazionale in Tanzania), un asciugamano e una scatola di legno a contenere oud-al-qamari (incenso) della miglior qualità, acquistato trent’anni prima “e che non avevo avuto la forza di abbandonare quando avevo intrapreso questo viaggio verso la mia nuova vita”. È tutto quello che Saleh Omar, 65 anni, porta con sé dalla natia Zanzibar, ove i commercianti scendono stagionalmente coi venti monsonici, verso Londra. Giunge all’aeroporto di Gatwick con un piccolo borsone, passaporto e nome falso, senza un soldo e il carico di una vita minata. Chiede asilo, protezione – “A quale età si dovrebbe smettere di temere per la propria vita? O di voler vivere senza paura?”, si interroga quando gli viene detto che non era il caso, alla sua età, d’imbarcarsi in una tale avventura – perché è parte di una minoranza musulmana di origini arabe perseguitata dal governo della Tanzania nella metà degli anni 60.

Parallelamente alla narrazione legata all’impresa di attecchire in un nuovo terreno corre il binario del passato di Omar, delle ragioni che lo hanno portato dov’è. Il filo si snoda-riannoda tra ieri e oggi anche in seguito all’incontro con un vecchio conoscente, Latif, poeta e professore, che, diciottenne, lasciò Zanzibar per studiare nell’ex Germania dell’Est, fuggendo subito dopo in Gran Bretagna. Tra i due c’è un conto in sospeso che brucia rabbioso e dolente nei cuori di entrambi, legato a un prestito che Omar ottenne per un mercante del Bahrain, rivelatosi poi determinante nell’espropriare Latif e famiglia della loro casa. Un irrisolto da chiarire per voltare pagina e andare oltre.

A ispirare la narrativa di Gurnah, Nobel per la narrativa 2021 (in Italia non lo conosce nessuno, Garzanti ne pubblicò a inizio Duemila tre titoli con poco successo) per “l’intransigente capacità di penetrare con pietà negli effetti del colonialismo e nel destino dei rifugiati”, è la sua stessa vita: anche lui, nato nel ’48, giunse nel Regno Unito come rifugiato alla fine dei 60, dove tuttora vive, e solo nell’84 poté tornare a Zanzibar.

Autore di dieci romanzi e una serie di racconti, ha iniziato a scrivere a 21 anni in esilio e anche se lo swahili era la sua prima lingua l’inglese è diventato il suo idioma letterario. Sulla riva del mare, con cui La nave di Teseo inaugura la (ri)traduzione delle sue opere, è un romanzo asciutto e pulito con belle venature poetiche, ma è soprattutto un racconto attuale, capace di scandagliare disorientamento, disperazione e sconforto di ogni esule. “Non sono a conoscenza di una grande verità che muoio dalla voglia di insegnare né ho vissuto un’esperienza esemplare che illuminerà le nostre condizioni o i nostri tempi. Ma ho vissuto, ho vissuto. È così diverso qui che sembra che una vita sia finita e adesso ne stia vivendo un’altra. So che la vecchia vita formicola e pulsa con volgare salute dietro di me e davanti a me. Ho il tempo sulle mani, sono nelle mani del tempo, per cui potrei anche render conto di me. Prima o poi ci tocca farlo”.

Sulla riva del mare, Abdulrazak Gurnah, Pagine: 384, Prezzo: 20€, Editore: La nave di Teseo