Una fiction western a Valladolid, nel nord castigliano della Spagna, aggiornata ai giorni nostri. Una banda di rapinatori ruba una preziosa statuetta dal Museo Nazionale ed è subito morte. Violenta. Vengono uccisi un killer libanese, l’esperto di fogne e spurghi ingaggiato all’uopo, due guardie giurate e poi ancora il minatore che ha scavato il tunnel sotterraneo per arrivare ai bagni del museo, due gitani avidi e l’elenco ancora non è completo. Il colpo è stato progettato dal rappresentante della mafia russa nel sud ispanico. Il martirio di San Sebastiano, questa la statuetta rubata, vale quattro milioni di euro e serve a finanziare un grosso carico di stupefacenti. I mafiosi agiscono in combutta con un mago dei furti d’arte.
Ma il furto, con tutti quei morti, va male. E il povero San Sebastiano viene nascosto dal minatore poi ammazzato. A questo punto il boss russo manda un altro sicario libanese a risolvere l’inghippo, si tratta dello zio di quello ucciso in precedenza. L’ultima a morire (traduzione di Thais Siciliano) è la fiction pulp con cui César Pérez Gellida sbarca in Italia per i tipi di Ponte alla Grazie.
L’autore è presentato come un fenomeno di vendite in patria. Viene definito un giallista e a dire il vero il mistero viene sopraffatto sempre dall’azione. L’eroina che indaga è l’ispettrice Sara Robles che non crede alla predestinazione ma pensa di essere perseguitata dalla sfiga. Va in terapia per la sua dipendenza dal sesso. Con questo caso troverà il suo vecchio amore di un tempo e rischia finanche di morire, in un golf club andaluso, a Malaga. È la scena che apre il libro. Indi Gellida prosegue a ritroso per arrivare al punto di partenza, laddove la predetta Sara, ferita gravemente, si concentra tra gli estremi filosofici della vita: “Avremo il destino che ci meritiamo” (Einstein) e “Chi vive sperando muore cagando” (proverbio spagnolo).
L’ultima a morire, César Pérez Gellida, Pagine: 545, Prezzo: 18,50, Editore: Ponte alle Grazie