Western ispanico: omicidi a ripetizione per una rapina finita male a Valladolid

Una fiction western a Valladolid, nel nord castigliano della Spagna, aggiornata ai giorni nostri. Una banda di rapinatori ruba una preziosa statuetta dal Museo Nazionale ed è subito morte. Violenta. Vengono uccisi un killer libanese, l’esperto di fogne e spurghi ingaggiato all’uopo, due guardie giurate e poi ancora il minatore che ha scavato il tunnel sotterraneo per arrivare ai bagni del museo, due gitani avidi e l’elenco ancora non è completo. Il colpo è stato progettato dal rappresentante della mafia russa nel sud ispanico. Il martirio di San Sebastiano, questa la statuetta rubata, vale quattro milioni di euro e serve a finanziare un grosso carico di stupefacenti. I mafiosi agiscono in combutta con un mago dei furti d’arte.

Ma il furto, con tutti quei morti, va male. E il povero San Sebastiano viene nascosto dal minatore poi ammazzato. A questo punto il boss russo manda un altro sicario libanese a risolvere l’inghippo, si tratta dello zio di quello ucciso in precedenza. L’ultima a morire (traduzione di Thais Siciliano) è la fiction pulp con cui César Pérez Gellida sbarca in Italia per i tipi di Ponte alla Grazie.

L’autore è presentato come un fenomeno di vendite in patria. Viene definito un giallista e a dire il vero il mistero viene sopraffatto sempre dall’azione. L’eroina che indaga è l’ispettrice Sara Robles che non crede alla predestinazione ma pensa di essere perseguitata dalla sfiga. Va in terapia per la sua dipendenza dal sesso. Con questo caso troverà il suo vecchio amore di un tempo e rischia finanche di morire, in un golf club andaluso, a Malaga. È la scena che apre il libro. Indi Gellida prosegue a ritroso per arrivare al punto di partenza, laddove la predetta Sara, ferita gravemente, si concentra tra gli estremi filosofici della vita: “Avremo il destino che ci meritiamo” (Einstein) e “Chi vive sperando muore cagando” (proverbio spagnolo).

 

L’ultima a morire, César Pérez Gellida, Pagine: 545, Prezzo: 18,50, Editore: Ponte alle Grazie

“Succession 3”, la lotta parricida non conosce noia

Più spietati dei boss di Gomorra, più disturbati dei pazienti di Freud e più shakespeariani di Shakespeare stesso. I personaggi creati nel 2018 dal genio di Jesse Armstrong per la serie tv Succession hanno riformulato l’immaginario collettivo televisivo sul potere mediatico formato famiglia del nuovo millennio.

Serial cult pluripremiato, assoluto e assodato della scuderia HBO, e con la produzione esecutiva (anche) di Adam McKay la cui astro-commedia Don’t Look Up è fresca di sala, Succession ha finalmente sfoderato i primi episodi della terza stagione su Sky Atlantic e Now, soddisfacendo l’attesa di milioni di fan planetari. Un apprezzamento non scontato e quanto mai rischioso, sia perché le “terze stagioni” tendono a segnare il passo anche delle serie migliori, sia perché la saga dei Roy è racchiusa in un manipolo di individui con minime aperture all’esterno. Perché al centro, per chi non lo sapesse, vi è la guerra fratricida per la successione all’impero di Logan Roy, magnate liberamente ispirato a Rupert Murdoch. I quattro rampolli sono cresciuti schiacciati dall’ego di un genitore cinico, arrivato povero dalle lande scozzesi alla conquista del capitalismo newyorchese: accecati dalla ricchezza, privati di autonomia di giudizio, psicologicamente fragili, Connor, Kendall, Siobhan e Roman possiedono l’unica consapevolezza di essere burattini del padre padrone che però, ormai anziano, dovrà presto nominare un erede al trono della sua colossale Waystar.

Terminati prologhi e preamboli delle prime due, la terza stagione – più da intendersi quale atto terzo di una tragedia classica – accende il tempo della guerra aperta: Logan – splendidamente interpretato dall’attore veramente scozzese e gloriosamente shakespeariano Brian Cox – è un novello Riccardo III opposto al “ribelle” Kendall, complessato come un Amleto tossico, e con gli altri figli in bilico fra i due. Ancestrale e contemporanea, Succession condensa questi e altri drammi del Bardo sul Potere includendovi personalità dark, candide, nevrotiche e beffarde.

Ma comunque finirà, a vincere sarà un meschino, giacché padri, figli & congiunti altro non sono che il lato oscuro di questa nostra schizofrenica civiltà abbagliata da dittatori luccicanti e abbagliante per azionisti e vassalli.

Diabolik alla Mole: ricca mostra per il più ghiotto dei ladri. In attesa del film

Aquasi 60 anni dalla nascita, Diabolik si prepara a tornare in grande spolvero. Non solo con il film diretto dai Manetti Bros, in uscita nei cinema il 16 dicembre, ma anche con una mostra dedicata che aprirà a Torino proprio in concomitanza dell’arrivo della pellicola in sala. Si intitola Diabolik sotto la Mole e a ospitarla sarà il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Un evento che andrà avanti fino al prossimo 14 febbraio e che si rivolge a tutti i fan del Re del crimine, da chi l’ha conosciuto solo con la serie animata del 2000, indietro fino ai lettori che, dal 1962, non hanno perso neanche un numero del fumetto creato dalle sorelle Giussani.

Oltre alle tavole originali, la mostra torinese racconta il personaggio attraverso le arti: le vignette così come il design e il cinema. A cominciare dal lungometraggio di prossima uscita, i cui ambienti sono ricostruiti nel museo e arricchiti da tantissimi oggetti di scena.

Visitando la Mole si potrà entrare nel rifugio di Diabolik ed Eva Kant, oppure nello studio dell’ispettore Ginko, suo storico antagonista. C’è spazio anche per gli altri due film sul personaggio delle Giussani: la pellicola del 1968 girata da Mario Bava, proiettata in un’apposita sala del museo, e la versione mai conclusa da Seth Holt nel 1965, sconosciuta persino ai più incalliti appassionati e qui presente con esclusive foto di scena. La sezione più peculiare riguarda tuttavia il rifacimento delle atmosfere che hanno accompagnato Diabolik dal suo debutto; quelle di un’Italia nel pieno del boom economico, vivace e colorata, che si contrapponeva però a un Nord grigio e ad alta criminalità raccontato proprio nel fumetto, e qui rappresentato con una serie di foto d’epoca che vanno dalle bande che scorrazzavano fra Milano e Torino in quegli anni fino ai più sconsigliabili locali notturni del periodo. Una mostra ricchissima, dedicata al più ghiotto ladro della letteratura a fumetti d’Italia.

 

Ora il “Vaudeville” è una brezza fresca

Uno diceva che, in tempi di tragedia, a teatro si recitano le commedie. Ben tornato, allora, Vaudeville!, col punto esclamativo come da titolo dello spettacolo di Roberto Rustioni in scena all’India di Roma.

Dopo i racconti di Cechov, il regista si confronta qui con tre atti unici di Eugène Labiche, da lui riscritti e riadattati in chiave contemporanea insieme con la dramaturg Chiara Boscaro e le notevoli intuizioni e invenzioni di un gruppo di attori straordinari, di quelli che meriterebbero un premio, ma in Italia sarà difficile: Francesca Astrei, Luca Carbone, Loris Fabiani, Paolo Faroni e Laura Pozone. Talenti comici genuini, “speciali e rari”, a detta dello stesso direttore, gli interpreti sono avvezzi a recitare anche a braccio e “alla ribalta”, sempre pronti a interagire col pubblico: reggono oltre due ore di recita senza mai smorzare il ritmo e ammosciare gli intrecci e i meccanismi della risata; certo, talvolta gigioneggiano, ma sempre con garbo e leggerezza che li rendono perdonabili.

In breve, le trame: il primo atto si ispira a Mystere de La Rue Rousselet (1861) sulla strana coppia, formata da una giovane donna da poco sposata e da suo zio, che attira l’attenzione della domestica canterina e del vicino di casa allocco; al seguito, il marito fedifrago della giovane donna. Da un matrimonio in crisi a uno che si sta per celebrare: nel secondo quadro, tratto da Les Deux Timides (1860), sono infatti protagonisti due futuri coniugi, una ragazzina riluttante e uno psicoanalista tedesco; tra le baruffe di un padre animalista, una pedante wedding planner e un giovanotto sfigato. Chiude la trilogia un racconto giallo, L’affaire de la rue de Lourcine (1857), che in italiano diventa Il delitto di via dell’Orsina, in replica anche al Teatro Franco Parenti di Milano (fino al 23 dicembre), diretto da Andrée Ruth Shammah e con, tra gli altri, Massimo Dapporto e Antonio Cornacchione: solo per dire quanto il vaudeville sia brezza fresca in questi tempi di sofferenza polmonare.

Le storie ridicole – spiega Rustioni nelle note – sono affabulate da Labiche con “umorismo arguto e folle, profondamente sovversivo, che abbatte le convenzioni dei ruoli sociali e le ipocrisie delle relazioni. La commedia è sin catartica”. È encomiabile lo sforzo del regista di riabilitare un genere considerato – almeno in Italia – minore, volgare, basso. Per questo, egli ha persino stilato, insieme con Boscaro, un ideale manifesto: “Da alcuni anni ci interroghiamo su un certo tipo di teatro, un teatro popolare che parte dalla commedia ottocentesca francese e arriva fino a Cechov, passando attraverso Scarpetta, Viviani, Eduardo De Filippo. C’è ancora spazio, oggi, per quel teatro? O il fast food dello sketch da prima serata ha riempito quello spazio, e allora è meglio che il teatro d’arte si concentri su altro?”. Sì – a giudicare da questo Vaudeville! –, c’è ancora spazio per questo tipo di commedia, nobile e generosa nel suo essere “soap opera” per il palco. Lo testimoniano innanzitutto le risate e gli applausi a scena aperta del pubblico, bambini compresi. E pazienza se la regia talvolta si perde appresso ai dettagli, dagli arredi, alcuni inutilizzati, alle canzoncine moraleggianti. Ad asciugare c’è sempre tempo: la comicità non ha bisogno di molto.

 

Roma, Teatro India, fino a domani. Vaudeville! Tre atti unici da Eugène Labiche Roberto Rustioni

“Mollo tutto”, ma non le risate da “Imbruttito”

Figa e Fatturato: il Signor Imbruttito (Germano Lanzoni), dirigente di una grande multinazionale, ne ha fatto una ragione di vita, ovvero di lavoro, nella Milano da bere 4.0. Ma fatale gli è una bottiglietta di plastica che manda all’aria l’accordo con l’eccentrico quanto danaroso Brusini (Paolo Calabresi): caduto in depressione, molla la Mini per prendere lo “spostapoveri” (il tram), le cialde per la moka, finché il sodale Brera (Alessandro Betti) non gli spalanca la seconda possibilità, un business in infradito in Sardegna, l’avverarsi dell’agognato “mollo tutto e apro un chiringuito!”.

Accompagnato dal fedele e stolido Giargiana (Valerio Airò), lo “stagista di una vita”, si scontrerà però contro l’indifferenza e l’ostilità dei “locals”, gli abitanti di Garroneddu avversi alle novità: riuscirà l’Imbruttito a esportare la doppia F tra i pastori? È il piccolo caso di questa piccola – per incassi – e imprevedibile – per Covid – stagione cinematografica: Mollo tutto e apro un chiringuito porta in sala l’eponimo Milanese imbruttito, nato quale pagina social nel 2013, evoluto in brand e agenzia creativa, oggi seguito da tre milioni di persone. La collaborazione dei fondatori Tommaso Pozza, Marco De Crescenzio e Franco Marisio c’è, la regia è affidata a Pietro Belfiore, Davide Bonacina, Andrea Fadenti, Andrea Mazzarella e Davide Rossi, l’assolo interpretativo a Germano Lanzoni, che dà al Signor Imbruttito, tripartito tra circonvalla, Santa e Courma, ammogliato con esigui slot per il sesso e orgoglioso genitore del Nano (Leonardo Uslengo), dodicenne con partita Iva iraniana, beneficio d’inventario – come non ritrovare nel suo “Taac!” il mitico cumenda del Dogui, alias Guido Nicheli? – e d’invenzione, che dall’“office” in giù è sopra tutto linguistica.

Mai volgare, raramente banale, sempre garbato, Mollo tutto è una bella sorpresa, ancor più in un periodo gramissimo per le commedie: una sfida già vinta per Medusa, che s’è rifugiata in corner meneghino dopo l’abbandono di Pio e Amedeo, creature Mediaset che per Belli Ciao, dal 1° gennaio al cinema, si sono però accasati, complice il produttore Lorenzo Mieli di Fremantle, a Vision Distribution. L’indicazione geografica è ovviamente tipica, ma non esclusiva, ovvero escludente, e il box-office conferma: terzo dopo il redivivo Harry Potter e la pietra filosofale e l’animazione Disney Encanto, l’Imbruttito predica buoni sentimenti e percula – meglio, prende per i ciapp – cattivi costumi, con un occhio agli yuppie digitali e l’altro a Fantozzi. Nulla per cui gridare al miracolo, ma più di qualcosa per cui essere soddisfatti: la regia è svelta e curata, Lanzoni, Airò e Betti perfetti, la F di Fatturato nettamente prevalente sulla seconda, e la trovata del “Fuori pastore”, declinazione del Fuori Salone (del Mobile) a vocazione agro-casearia, da applausi. Il segreto probabilmente stava già nel nome: Imbruttito, ma non abbrutito, l’attributo principe di tante altre commedie made in Italy.

@fpontiggia1

Sono vile: un autore proletario “Tra i creditori e il carcere”

Anticipiamo alcuni “Pensieri. Aforismi. Polemiche” di Fëdor Dostoevskij, raccolti ne “La bellezza salverà il mondo”, a cura di Claudia Sugliano e in libreria con De Piante editore.

Gogol’ è un genio titanico, ma è anche stupido come un genio.

L’uomo russo pecca contro l’amore molto e spesso; ma è anche il primo a soffrirne per causa sua. Egli è il proprio boia. È l’aspetto più caratteristico dell’uomo russo. Per Oblomov, poi, dovrebbe esistere solo la comodità, lui è solo un fannullone e, in aggiunta, un egoista. Non è neppure l’uomo russo. È un prodotto di Pietroburgo. È un fannullone e un signorino.

Bisogna descrivere la realtà com’è! – dicono, mentre tale realtà non esiste affatto e mai è esistita sulla terra, perché l’essenza delle cose non è accessibile all’uomo, ed egli percepisce la natura come si riflette nella sua idea, attraverso i suoi sentimenti.

Sono solo, come una pietra abbandonata.

Non sono un comunicatore, sono cupo, e non possiedo affatto il dono di esprimere me stesso. Non ho forma, gesto.

E cosa peggiore, la mia natura è vile e troppo appassionata: dovunque e in ogni cosa io raggiungo il limite estremo, per tutta la vita ho oltrepassato il limite.

Studiare la vita della gente è il mio primo fine e divertimento.

Io sono un letterato proletario e se qualcuno vorrà il mio lavoro, deve innanzitutto provvedere a me. Io stesso maledico tale sistema. Ma questa è la consuetudine e, si direbbe, mai cambierà.

Se Lei sapesse quanto è duro essere uno scrittore, vale a dire sopportare questo destino! Mi creda, io so di certo che se avessi denaro garantito per due-tre anni da dedicare a questo romanzo, come accade a Turgenev, Goncarov o Tolstoj, ebbene, io scriverei un’opera, della quale fra cento anni si parlerebbe ancora!

Per me non c’è niente di più terribile dello scrivere una lettera. Se lo faccio, vi metto tutto me stesso e, terminatala, quel giorno non sono più in grado di mettermi al lavoro. Fra l’altro io scrivo le lettere più ordinarie, insufficienti, soprattutto a chi vorrei dire qualcosa.

Non c’è per me niente di più odioso al mondo del lavoro letterario, vale a dire dello scrivere romanzi e novelle…

Ho preso Zola perché negli ultimi anni ho terribilmente trascurato la letteratura europea, e immagina un po’: è una tale schifezza, riesco a malapena a leggerlo. E da noi proclamano che Zola è una celebrità.

Noi crediamo che l’arte abbia una vita propria, completa, organica e, di conseguenza, leggi basilari e immutabili per questa vita. L’arte è per l’uomo una necessità come mangiare e bere.

La letteratura è l’espressione di tutta la vita.

A volte, secondo me, bisogna abbassare il tono, prendere la frusta in mano e non difendersi, ma colpire noi stessi, molto più brutalmente.

Il romanzo è qualcosa di poetico, richiede, per essere scritto, di tranquillità d’animo e immaginazione. Ed io sono tormentato dai creditori, vale a dire minacciano di mettermi in carcere.

Quasi tutti i talenti, sia pur solo un pochino, sono poeti, persino i falegnami, se hanno talento.

Il dolore in gioventù è pericoloso!

Spesso sono molto triste, di una tristezza addirittura immotivata – come se avessi commesso un delitto davanti a qualcuno.

La realtà talvolta fa cadere anche le persone geniali.

Tutto è nelle mani di Dio ma io, sperando in lui, non sto certo a dormire.

I nostri democratici non lo sono abbastanza.

I pensieri ora si vendono già pronti sulle bancarelle, come delle ciambelle.

L’amore è fatica; è persino necessario imparare l’amore, ci credete?

Una lettera è già di per sé maledetta, perché ricorda il distacco.

La depravazione indurisce l’anima.

Il mio cuore è sempre stato così: si attacca a quanto gli è caro, così che dopo bisogna strapparlo e farlo sanguinare.

Biden celebra la democrazia, ma Julian sarà segregato

Ci sono coincidenze che illuminano la verità. La conclusione del Summit delle democrazie, convocato virtualmente dagli Stati Uniti e che ha riunito circa 100 paesi del mondo, si conclude lo stesso giorno in cui la Corte di appello britannica rende possibile l’estradizione negli Usa di Julian Assange. Estradizione che, lo dice Amnesty International, il Commissario europeo alla Giustizia, il nostro sindacato dei giornalisti, rappresenta una minaccia concreta alla libertà di stampa.

Se estradato, in un paese che non gli ha mai perdonato le rilevazioni di Wikileaks, Assange verrebbe rinchiuso di un carcere di massima sicurezza, probabilmente a vita, e di fatto morirebbe.

Joe Biden non ha parlato, ovviamente, di Assange né lo hanno fatto gli ospiti che hanno arricchito, con una passerella buona per Youtube, la inedita Conferenza delle democrazie. Partita già con il piede sbagliato annoverando tra i campioni dello stato di diritto paesi come il Pakistan, le Filippine, il Brasile di Bolsonaro o paesi malfermi come l’Iraq.

Una iniziativa che sembra avere nostalgia del “containment” da Guerra fredda, tanto evidente è l’obiettivo di isolare Russia e Cina e di tracciare l’ennesima frontiera tra il mondo “libero” e le cosiddette autocrazie. In questa vocazione passatista – che confligge nettamente con quel “multilateralismo” sbandierato dall’Italia all’ultimo G20 – si intravede invece la ricorrente insicurezza del mondo occidentale costretto a tracciare linee e frontiere ideologiche per governare il pianeta. I vari interventi, tutti ascoltabili sul sito approntato dalla Casa bianca si dilungano sulla solidità delle democrazie “liberali” (come ha sottolineato Macron) nell’affrontare il Covid anche sul piano economico (Draghi). Ma si tratta di interventi la cui genericità viene esaltata dalla formalità del messaggio pre-registrato e trasmesso ognuno da casa propria.

Il paradosso è che una delle iniziative più concrete di questo Summit potrebbe essere lo stanziamento di 424 milioni per favorire la libertà di stampa nel mondo. Secondo la classifica di Reporters sans frontieres, però, gli Stati Uniti figurano al 44° posto nella classifica mondiale e tra i paesi del Summit troviamo paesi al 111° posto (Brasile), al 112° (Bulgaria), 134° (Colombia) o 138° (Filippine). Se davvero si vuole convocare un incontro mondiale sulla democrazia si potrebbe cominciare proprio dalla libertà di stampa.

Verdetto contro Assange. BoJo “vende” Mr. Wikileaks

Nessuno si aspettava una sentenza giusta, perché di giustizia in questo caso non ce n’è mai stata. Julian Assange potrà essere estradato negli Stati Uniti e processato per la pubblicazione dei documenti segreti del governo Usa, che hanno permesso di rivelare crimini di guerra e torture. Se riconosciuto colpevole rischia 175 anni in galera. A decidere di ribaltare completamente il verdetto del giudice di primo grado, Vanessa Baraitser, che il 4 gennaio scorso aveva negato l’estradizione, è stata la High Court di Londra con una sentenza dei giudici Lord Burnett e Lord Holroyde, letta da quest’ultimo in appena dieci minuti. Il fondatore di WikiLeaks non era presente in aula o perlomeno non si è mostrato ai giornalisti, ma lo choc è prevedibile.

“È un giorno oscuro per il giornalismo ed è agghiacciante che questa sentenza sia stata emessa proprio nel giorno in cui si celebra la Giornata mondiale dei diritti umani e in cui altri due giornalisti, Maria Ressa e Dmitry Muratov, ricevono il premio Nobel per la Pace”, dichiara al Fatto Quotidiano l’attuale direttore di WikiLeaks, il giornalista investigativo islandese Kristinn Hrafnsson, che continua: “Julian è oggetto di vendetta per aver praticato il giornalismo e questo processo penale, voluto da Donald Trump, non è altro che una persecuzione politica”.

In primo grado, il giudice Baraitser aveva rigettato ogni argomento della difesa di Assange, tuttavia, aveva negato l’estradizione esclusivamente sulla base del fatto che, se trasferito negli Stati Uniti, rischierebbe di commettere un suicidio, sia per le sue condizioni fisiche e mentali, fotografate nella loro gravità dalle perizie psichiatriche agli atti, sia per il regime carcerario di eccezionale durezza a cui sarà soggetto. Le udienze del procedimento di estradizione, infatti, hanno permesso di chiarire che se mandato negli Usa, verrebbe sottoposto alle cosiddette “sams”, misure di isolamento totale, e verrebbe, in tutta probabilità, detenuto nella prigione più estrema degli Stati Uniti: l’Adx Florence, in Colorado, che, secondo le autorità americane, è destinata a condannati che non mostrano alcun rispetto per la vita umana, come il re del narcotraffico, El Chapo. Dopo aver perso in primo grado, gli Stati Uniti avevano subito incassato una vittoria, ottenendo che Julian Assange rimanesse comunque in carcere, nella prigione di massima sicurezza di Londra, Belmarsh – dove si trova dall’11 aprile 2019 –, nonostante, a oggi, non sia condannato per alcun reato. Poi, avevano prontamente appellato la sentenza del giudice Baraitser, argomentando, tra l’altro, che il giudice di primo grado ha errato nella sua valutazione del rischio di suicidio e che le autorità americane hanno fornito garanzie diplomatiche. In cosa consistono esattamente queste “garanzie?

Si tratta di pure rassicurazioni verbali sul fatto che, se estradato, Assange non verrà né sottoposto alle misure carcerarie sams né mandato nella prigione Adx Florence, gli verranno assicurate le cure mediche necessarie per il suo grave stato di salute mentale e potrà chiedere di scontare la pena nel suo Paese, l’Australia. I giudici della High Court non hanno rigettato il rischio suicidio, hanno però dato ragione agli Stati Uniti sul fatto che le garanzie diplomatiche offerte possono mitigare questo rischio e quindi hanno stabilito che il fondatore di WikiLeaks può essere estradato. Poco importa che nelle settimane scorse sia emerso, grazie a un’inchiesta giornalistica di Yahoo! News, che la Cia aveva pianificato di uccidere o rapirlo e che organizzazioni eminenti per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International, abbiano denunciato la completa inaffidabilità delle garanzie diplomatiche messe sul piatto dagli Usa.

Il team legale di Julian Assange, coordinato dall’avvocata inglese Gareth Peirce, ha prontamente annunciato che appellerà la sentenza alla Corte Suprema inglese.

Per Julian Assange si prospettano anni di battaglia legale, in carcere. Sempre che non si suicidi prima. I criminali di guerra e i torturatori, denunciati dalle pubblicazioni di WikiLeaks, invece, non hanno mai fatto un’ora in galera. Dormono sonni tranquilli con questa “giustizia”.

Cina, “nel Partito ognuno con 3 figli”. Poi la retromarcia

La Cina in crisi demografica – oltre il 18% della popolazione è over 60 e nel 2020 ci sono state appena 8,5 nascite per ogni 1.000 persone, per la prima volta in decenni sotto quota 10 – tenta una nuova strada per invertire la tendenza: tutti gli iscritti del Partito comunista devono attuare personalmente la politica dei “tre figli”. La mobilitazione è stata lanciata da un editoriale apparso a novembre su China Reports Network, portale di news controllato dallo Stato, diventando però virale solo in settimana dopo che il testo è finito sui principali social network, i cui utenti hanno espresso indignazione e choc per le singolari istruzioni fornite. La bufera ha causato la cancellazione dell’articolo, ma non della foto del testo in cui l’autore rimarcava che ogni membro del Partito, che ne conta 95 milioni, “dovrebbe assumersi la responsabilità e l’obbligo della crescita della popolazione e agire sulla politica dei tre figli. Nessuno dovrebbe usare alcuna scusa, oggettiva o personale, per non sposarsi o non avere figli, né può usare alcuna scusa per averne solo uno o due”.

Le parole à la carte dei finti ribelli

“Grande sovrana è la parola: minuta e invisibile, essa compie azioni assolutamente divine”. Forse memore del detto del sofista Gorgia di Lentini (V secolo a.C.), e sensibile a quelle che ravvisa come le “ferite del nostro linguaggio”, Gianrico Carofiglio rimanda in libreria, aggiornandolo, un volumetto feltrinelliano del 2010, ora La (nuova) manomissione delle parole.

L’autore non è solo uno dei nostri scrittori più popolari, ma anche un ex deputato e uno dei “saggi” che coordinano le “agorà democratiche” tese a rinnovare il lessico e l’agenda della politica italiana (mozione pedante: uno dei tanti esperti pugliesi di cose antiche potrebbe ricordare la prima declinazione e restaurare il plurale corretto che è agorài?). Una voce dunque quanto mai autorevole per demistificare la corrupta eloquentia del discorso pubblico.

Carofiglio ha in verità poco di nuovo da dire: il libro, denso di riferimenti e corredato da 30 pagine di note erudite a cura di Margherita Losacco, è sostanzialmente un “gioco personalissimo” (p. 107) che saccheggia e assimila alcuni autori classici e altri libri di scrittori “da festival” (Belpoliti sulla vergogna, Nussbaum sull’etica, Harari sull’homo deus, Müller sul populismo, Canfora sulla democrazia…). Nel proclamare a più riprese la necessità della “ribellione” (non si sa bene a cosa), l’autore finisce per inanellare una serie di citazioni che più midcult non si può: Bob Dylan e l’Attimo fuggente, don Milani e i discorsi di Obama, Bartleby lo scrivano e Primo Levi. Il tutto farcito da qualche facile etimologia greca e qualche riferimento a Tucidide o Sallustio, che hanno almeno (siamo il Paese di Andrea Marcolongo!) il pregio di essere precisi.

Rispetto alla prima edizione, dominata dall’indignazione per le giravolte leguleie e le intemperanze verbali ed etiche di Silvio Berlusconi, l’obiettivo è in parte cambiato: sussistono, certo, sezioni sul lodo Alfano o sulle leggi ad personam, ma ora si constata (p. 36) che “sia Berlusconi che Bossi… utilizzavano un lessico nonostante tutto pertinente alla sfera politica” (e alle sfere senz’altro pertengono il celoduro e la patonza). Mentre l’abisso, signora mia, si è toccato con il turpiloquio di Beppe Grillo e con il populismo dei Cinque Stelle, quelli che nel loro delirio eversivo pensavano di essere “l’unico argine alla violenza” (“se va male questo movimento, che è l’unico pacifico, è finita” disse Grillo anni fa: ed ecco infatti che come i 5Stelle arretrano ci troviamo la Meloni al 20%, precisamente come Le Pen e Zemmour, l’AfD, Vox, Alba Dorata; ma Carofiglio non registra manomissioni verbali da parte della destra estrema). Uno studio incrociato dei discorsi di Bossi, Berlusconi e Grillo ha mostrato che tra le 20 parole “esclusive” del comico genovese (non usate cioè dagli altri due) ricorrono “cazzo”, “culo” e “merda” – o forse il problema sta negli altri lemmi, ancor più ostici alla pruderie dei benpensanti dimentichi di Aristofane (“inceneritore”, “pregiudicato”, “cemento”, “Tav”, “bocconiano”…)?

Verso la fine di questo campionario di spirito faziofabico, di questa santa messa di rito gruberiano, Carofiglio ostende en entier il celebre articolo di Antonio Gramsci Odio gli indifferenti (1917), per argomentare la necessità di prendere posizione, perché (p. 95) “la scelta è un atto di coraggio e di allegria; di responsabilità e di intelligenza; di rivolta e di scoperta”. Evviva. C’è da chiedersi se l’autore abbia letto gli articoli che Gramsci pubblicava sull’Avanti! negli stessi mesi del ’17, in cui i rivali politici erano definiti “Stenterello”, “tafano inconcludente”, “abiezione lurida”, “morto della vita sociale”, “re degli zingari”, “pagliaccio del pensiero”. Inquietanti risvolti cripto-grillini (o travaglieschi?) ante litteram.

Infine, lavorando sulla distorsione delle parole non si può non citare 1984 di Orwell, e Carofiglio lo fa a più riprese (pp. 24, 71 etc.). Ma a chi, pur allergico al turpiloquio, non ritenga né che la Neolingua totalitaria s’incarni nelle sparate di Grillo né che cammini sulle gambe di Spadafora, Appendino e Patuanelli, consiglierei di investire i suoi 15 euro in un altro volumetto meno pubblicizzato in tv ma senz’altro più originale: le Contronarrazioni dell’Officina dei Saperi (a cura di Tiziana Drago ed Enzo Scandurra, Castelvecchi 2021) raccolgono una serie di microsaggi che mettono a tema alcuni slogan ormai diventati luoghi comuni (questa sì, una vera neolingua che trasforma dolosamente il nostro modo di pensare) e in poche mosse ne mostrano l’inconsistenza, li demistificano, li perculano. “Prima i meritevoli”, “le grandi opere aiutano lo sviluppo”, “la crescita illimitata è irrinunciabile”, “la tutela del paesaggio impedisce lo sviluppo economico”, “aiutiamoli a casa loro”, “autonomo è bello”: tutte parole d’ordine di quell’ideologia neoliberista che ha permeato di sé anche la lingua e la prassi di certa sinistra, assurgendo a inopinata koinè financo in larghi settori del partito di Carofiglio (il quale, sia detto per chiarezza, è un colto galantuomo e non ne è mai stato alfiere in prima persona).

Certo, non tutte le analisi raccolte da Drago e Scandurra (essi pure severi coi Cinque Stelle, ma per le loro promesse tradite) saranno condivise da tutti i lettori: esse però, anche quando giudicate troppo “radicali”, getteranno semi utili a chiunque voglia acquisire una prospettiva critica (o semplicemente sia aperto a qualche sospetto) circa le smart cities e il Bosco Verticale, il project financing e la “sostenibilità”, la digitalizzazione forzata e la performance, la meritocrazia e la didattica a distanza, il portfolio di competenze e il problem solving. Le Contronarrazioni servono a orientare il dibattito linguistico sulla base non di colti riboboli o di ovvi manifesti, ma di esperienze precise di cosa implichi, nella vita quotidiana, il cedere alla retorica dominante, e di come si possa ricucire una lingua sincera, sfuggendo all’ipocrisia.

“Scrivere è essere qui” conclude Carofiglio citando Nadine Gordimer, e il “qui” è il mondo immateriale dell’intellettuale pensoso. “Il varco è qui” si chiudono le Contronarrazioni citando Montale, e il “qui” è l’aula deserta della III C, e i suoi ragazzi che aspettano di leggere Dante.