Soldi Lega, ci vorranno “solo” 76 anni. “I 49 milioni li paghiamo noi onorevoli”

“I pagamenti sono cominciati subito”. Le prime due rate sono state versate. La terza è in arrivo. “A versare insieme 100 mila euro al bimestre sono stati, finora, i parlamentari della Lega su base volontaria”, spiega Giulio Centemero, tesoriere del Carroccio.

Era settembre quando i vertici e i legali del Carroccio raggiunsero un’intesa con la Procura di Genova. Il punto di partenza erano i 48,8 milioni che i pm intendevano sequestrare al partito in quanto presunto provento di una truffa ai danni del Parlamento. Ogni bimestre, si disse, verranno prelevati 100 mila euro da uno specifico conto fino all’estinzione del debito. In concreto fanno 600 mila euro ogni dodici mesi per 76 anni. La Lega dovrebbe estinguere il debito entro il 2094 (ammesso che sopravviva tanto a lungo).

I vertici del Carroccio assicurano che la procedura è stata avviata. Ambienti della Procura confermano: “Sì, dopo l’accordo sono cominciati i pagamenti”. Da dove vengono prelevati i denari? Spiega Centemero: “Finora la quasi totalità delle somme arriva dai contributi volontariamente offerti da deputati e senatori. Tutti i nostri rappresentanti riservano una parte dei loro redditi al partito”. Come una volta i comunisti? “Siamo un partito monolitico, solido”. Ma quanto versa ogni parlamentare? “La scelta è libera, sta alla coscienza del singolo”.

Per farsi un’idea, suggerisce il tesoriere fidatissimo di Matteo Salvini, è possibile consultare il bilancio della Lega dove sono riportate tutte le donazioni superiori ai 5 mila euro. I dati visibili sul sito leganord.org, per un totale di 1,3 milioni, si riferiscono quasi tutti ai versamenti del 2017 o dell’inizio 2018, quindi alla passata legislatura, ma aiutano lo stesso a farsi un’idea dei maggiori donatori. Così ecco figurare ex onorevoli come Stefano Allasia (42 mila euro) o Marco Rondini (41 mila), ma c’è anche lo stesso Salvini (36 mila) e membri del governo come Nicola Molteni o Lorenzo Fontana. A quota 33 mila c’è Massimiliano Fedriga, oggi governatore del Friuli Venezia Giulia. Roberto Calderoli arriva a 30 mila.

Ma che cosa ne pensano i parlamentari dell’era Salvini dell’idea di saldare i debiti lasciati dalla gestione Bossi-Belsito? La disciplina del partito non vacilla: “A noi sono richieste donazioni volontarie da sempre”, spiega il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, “Lo facevo in passato da assessore o consigliere regionale, lo faccio a maggior ragione oggi che sono in Parlamento. Sappiamo tutti che la politica costa, specie quando si lavora tanto sul territorio”.

Però un conto dovrebbe essere l’attività politica e un conto riparare i disastri commessi in passato, da altri. “Gestioni passate, presenti, future, cambia poco – insiste Romeo –. Uno lo fa per senso di appartenenza, perché crede nella Lega”. Il piemontese Marzio Liuni, neodeputato e segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio, è sulla stessa lunghezza d’onda: “Immagino che una parte dei nostri contributi siano usati per pagare le rate del debito, ma non me ne curo. Le nostre donazioni servono, da sempre, per mandare avanti l’attività della Lega, a livello locale come a livello nazionale. I 49 milioni per noi non sono un argomento, che io sappia nessun parlamentare si è rifiutato di fare il versamento, o si è lamentato di Bossi (che è ancora presidente della Lega, ndr). Anzi, se i fatti ci daranno ragione, alla fine quel denaro verrà restituito alla Lega”. Nemmeno un neofita del Carroccio come Claudio Durigon – romano, ex sindacalista dell’Ugl, oggi sottosegretario al Lavoro – è particolarmente turbato dall’idea di ripagare il debito di Bossi: “Mi pare Umberto sia stato assolto, alla fine, no?”. In realtà no, a Genova era stato condannato in appello, ma alla fine i reati sono stati prescritti. Mentre a Milano, dopo una condanna in primo grado, è uscito dal processo perché la Lega ha rinunciato a querelarlo. “Non ho seguito bene la vicenda – continua Durigon – per noi non esiste. Noi paghiamo un contributo alla Lega, per mandarla avanti e sostenere le sue iniziative. Poi loro con quelle donazioni fanno ciò che credono”.

Salvini, pellegrinaggio Tav M5S: “Il tunnel non esiste”

Sembra una manovra a tenaglia per mettere con le spalle al muro il Movimento 5 Stelle, dove aumentano gli scontenti dell’alleanza con la Lega. Ieri mattina, su due versanti diversi, due ministri, uno italiano e uno francese, hanno confermato il loro obiettivo: portare a termine la linea ad Alta velocità Torino-Lione. “Prima si fa, meglio è – ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini nel cantiere di Chiomonte –. Se va bene, tornare indietro costerà quanto andare avanti”. In Savoia, il ministro dei Trasporti Elisabeth Borne, in visita al cantiere di Saint-Martin-de-la-Porte, ha affermato che la linea deve “arrivare fino in fondo”: “I nostri vicini italiani auspicano delle expertise complementari e rispettiamo il loro processo decisionale – ha dichiarato –. Ma ci sono anche delle scadenze che necessitano che delle decisioni vengano prese nel quadro di un calendario compatibile con lo stanziamento dei finanziamenti europei”. A Chiomonte, atteso da un piccolo gruppo di No Tav (caricati dalla polizia dopo aver tentato di superare il cordone), Salvini arriva sotto una fitta neve, coperto dal giaccone della polizia e accompagnato dai vertici delle forze dell’ordine di stanza a Torino. Il motivo ufficiale della visita è un incontro con militari e agenti impegnati a difendere il cantiere: “Abbiamo impiegato decine di migliaia di uomini per un costo di 63 milioni di euro che hanno pagato gli italiani, con quasi 400 feriti”, spiega. Poi, accompagnato dal direttore generale di Telt, Mario Virano, visita la galleria geognostica che diventerà una galleria di servizio del tunnel di base. Mario Borghezio, che lo ha accompagnato nel viaggio dentro la montagna, confida che Salvini “è rimasto molto impressionato”. E infatti Salvini dichiara: “Si completi questa incredibile ed eccezionale opera pubblica di cui l’Italia dovrebbe avere vanto in giro per il mondo perché di opere così fatte ne ho viste poche”. E dire che ha visto soltanto un tunnel fatto per studiare la conformazione del terreno.

In questa occasione, oltre al giaccone della polizia, sfoggia anche un lato ecologista (“penso sia meglio avere meno inquinamento, meno auto in giro e più treni”, aggiunge) e si dice favorevole a una linea low cost.

Un amo lanciato agli alleati, forse con l’intento di dividere il fronte No Tav: “I 5 Stelle hanno ragione, il progetto è partito probabilmente sovrastimato, ma ci sono 25 km già scavati: ritengo più utile completarli anziché riempire i buchi. L’opera si può ridimensionare, il contratto di governo è chiaro. A occhio si può risparmiare almeno un miliardo da reinvestire sulla metro di Torino o per il sostegno ai Comuni interessati dall’opera”. D’altronde il testo del contratto di governo non parla di cancellazione dell’opera, ma di sospensione dei lavori e ridiscussione del progetto “nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”: “Si possono tagliare alcuni costi eccessivi”, afferma il leghista, pensando in particolare alla stazione internazionale di Susa. Il M5S, però, non lo segue, anzi. “Non vado a Chiomonte, non è stato scavato ancora un solo centimetro: c’è solo un tunnel geognostico”, affermava ieri il vicepremier Luigi Di Maio. Il sottosegretario all’Economia Laura Castelli, di lunga militanza No Tav, consiglia alla Lega “di non strumentalizzare questo tema per mera campagna elettorale. Sono sicura che Salvini abbia visto con i propri occhi, oggi, cosa c’è di un’opera che è diventata oramai leggenda: quasi nulla”. Più dura la capogruppo del M5S in consiglio comunale a Torino Valentina Sganga, che lancia un messaggio: “Salvini sbaglia. Ha cifre falsate, diffuse solo per creare confusione e la cassa di risonanza che il ministro offre a questi propalatori di fake news mette a rischio la tenuta di un governo che su altri temi sta facendo bene”.

Perché Sì

Più crescono i 5Stelle contrari all’autorizzazione a procedere su Salvini nel caso Diciotti, più aumentano gli elettori e i simpatizzanti che ci scrivono inferociti e/o sconcertati per quello che considerano un tradimento imperdonabile e un suicidio di massa. E hanno almeno 10 buoni motivi per pensarlo.

1. Il premier Giuseppe Conte, da giurista, spiega che qui “l’immunità non c’entra nulla”. E ha ragione. Aggiunge: “Chi ha letto le carte sa che è stato un atto politico”. E anche questo è vero. Ma il fatto che un atto sia politico non implica che sia anche legittimo o lecito, né tantomeno che vada sottratto al giudizio della magistratura: altrimenti qualunque governo nazionale e giunta locale sarebbero autorizzati a violare impunemente le leggi con atti politici senza che i tribunali possano sanzionarli.

2. Ancora il premier: “Bisogna avere chiaro il quesito giuridico a cui saranno chiamati a rispondere i senatori: se Salvini abbia agito per il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico inerente alla funzione di governo; o se abbia agito al di fuori del suo ruolo ministeriale per i suoi propri interessi personali”. E qui Conte ha ragione fino al punto e virgola. Su quei 5 giorni di divieto di sbarco per i migranti dalla nave Diciotti, le possibilità non sono soltanto le due evocate da lui (Salvini ha agito o “per un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico inerente alla funzione di governo”, oppure “al di fuori del suo ruolo ministeriale per i suoi propri interessi personali”). Entrambe possono tranquillamente essere escluse, a vantaggio di una terza: cioè che Salvini, pur animato da finalità politico-istituzionali (richiamare l’Ue agli impegni assunti e all’accoglienza condivisa dei migranti) e non personali (i suoi interessi propagandistico-elettorali), abbia assunto una decisione discrezionale, per nulla obbligata da “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o da “un preminente interesse pubblico”. Quale sarebbe infatti l’articolo della Costituzione che gl’imponeva di vietare quello sbarco? Quale catastrofe si sarebbe abbattuta sulla Nazione se i 177 migranti fossero sbarcati nel porto di Catania dopo un giorno o due anziché dopo cinque e avessero atteso nell’hotspot le decisioni degli altri Paesi Ue? Non è vero, dunque, che l’autorizzazione a procedere squalificherebbe la scelta di Salvini come “personale” consegnandolo a condanna sicura.

Il governo può difendere quella scelta e chi la firmò, ma senza spacciarla per un obbligo costituzionale né sottrarla al giudizio della magistratura. Anche chi scrive dubita che il caso Diciotti sia stato un sequestro di persona. Ma in uno Stato di diritto spetta ai giudici stabilirlo, non alla maggioranza parlamentare (di cui l’imputato fa parte). Salvini si difenda nel (e non dal) processo e porti le sue ragioni in tribunale, insieme alle testimonianze o alle autodenunce degli alleati. Ma nessuno crei un pericoloso precedente che potrebbe in futuro consentire a questo o ad altri governi di sottrarsi al giudizio dei magistrati.
3. Salvini usa il caso Diciotti per regolare i conti con la magistratura, a nome di tutto il vecchio centrodestra. B. lo aizza alla battaglia finale contro le odiate toghe rosse. Che lo stesso vicepremier accusa, copiando dall’armamentario berlusconiano, di “invasione di campo”, come se il Codice penale non fosse il loro campo. Intanto i suoi giannizzeri, fra cui il cosiddetto ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, raccolgono le firme in piazza, chiamando a raccolta il popolo leghista nei gazebo contro i magistrati. Una deriva eversiva che i 5Stelle – quelli di “onestà! onestà!” – devono denunciare, non assecondare.
4. I 5Stelle, Conte in primis, temono per la solidità della maggioranza e la tenuta del governo. Ma è improbabile che Salvini aprirebbe la crisi se facessero ciò che lui stesso auspicava fino a una settimana fa, cioè autorizzassero il suo processo: lo sa benissimo che gli italiani, inclusi i suoi fan, vogliono la stabilità e non il caos, men che meno il suo ritorno fra le braccia di B. Se rovesciasse il governo, sarebbe il primo a pagarne le conseguenze. In ogni caso, nessun governo vale il prezzo di una rinuncia ai valori indisponibili della legalità.
5. Un conto è la lealtà fra alleati, un altro è la complicità fra compari. Lealtà è sostenere che Salvini e tutto il governo non hanno sequestrato nessuno. Ma impedire ai giudici di stabilirlo sarebbe complicità. E sinora l’unico sleale con i partner è stato proprio Salvini, che tratta i 5Stelle come zerbini. Per cinque mesi si dice pronto a farsi processare. Poi, senza alcun preavviso, intima al M5S di salvarlo dal processo con una lettera al Corriere. Infine va a Porta a Porta a raccontare il falso, cioè di averli avvertiti. Tanto sa che il prezzo delle sue giravolte non lo pagherà lui, ma il M5S. Un “alleato” così scorretto merita a stento la lealtà, non certo la complicità.
6. Sul Tav, Salvini si comporta con la stessa slealtà del caso Diciotti. Firma, nel contratto di governo con i 5Stelle, l’impegno a “ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Poi se lo scorda e dichiara mille volte che il Tav si fa. Poi si rimette all’analisi costi-benefici degli esperti incaricati dal (suo) governo nella persona del ministro Toninelli. Poi manda i suoi parlamentari a marciare due volte in piazza con i Sì Tav, a braccetto con FI e Pd, cioè con gli oppositori del (suo) governo. Poi commissiona una controanalisi costi-benefici della Lega a presunti esperti in pieno conflitto d’interessi (lavorano per i costruttori) a base di dati farlocchi (“danni fino a 24 miliardi” se si bloccano i cantieri), come se lo studio del governo fosse roba di partito dei 5Stelle. Poi va in visita ai cantieri e spaccia un tunnel geognostico per l’opera vera e propria, fortunatamente mai iniziata, chiedendo di “completarla”. E intanto pretende lealtà dai 5Stelle. E qualcuno di loro vorrebbe pure dargliela: sindrome di Stoccolma?
7. Avendo già cambiato idea una volta, Salvini potrebbe cambiarla una seconda. Poniamo che in Giunta i 5Stelle votino no all’autorizzazione a procedere, perdendo faccia, consensi, parlamentari ed elettori. Chi garantisce che in aula, all’ultimo momento, Salvini non farà il beau geste di chiedere lui stesso il processo, scavalcandoli a sinistra e lasciandoli in brache di tela?
8. Da tutte le sue giravolte e provocazioni, si capisce benissimo che a Salvini del processo Diciotti importa poco o nulla: ciò che gli interessa è affermare che comanda lui, che il governo è cosa sua. E non perché ciò sia vero, come scrive falsamente fin dal primo giorno la stampa mainstream (ignorando che finora il M5S ha prodotto molte più leggi della Lega, ferma al ridicolo dl Sicurezza); ma proprio perché sa che è falso. Non riuscendo a far nulla e avendo tradito quasi tutte le promesse, punta tutto sulla sua immagine propagandistica di uomo forte e furbo che mette nel sacco tutti. Se i 5Stelle ci tengono a finire nel suo sacco, non hanno che da negare l’autorizzazione al suo processo.
9. Quando arrivò la richiesta di autorizzazione a procedere, Di Maio annunciò che il M5S l’avrebbe concessa. Può bastare il voltafaccia di Salvini per giustificare quello del Movimento? I sondaggi insegnano che gli elettori leghisti seguono Salvini in tutte le giravolte senza fiatare perché lo considerano “il capo”; invece quelli del M5S pretendono coerenza dai propri leader ed eletti, perché li considerano i propri “dipendenti”.
10. I 5Stelle hanno sempre ripetuto che il Movimento prescinde dagli eletti del momento (“uno vale uno” e tutti scadono dopo due mandati, compreso il capo politico). Ciò che conta sono il mitico “programma” e i valori retrostanti, dall’onestà alla legalità. Se gli attuali capi ed eletti pro tempore salvassero Salvini dal processo, non perderebbero soltanto la propria diversità e la propria innocenza, ma comprometterebbero quelle dell’intero movimento, invece di consegnarle intatte a chi verrà dopo di loro. Sempreché, dopo di loro, i 5Stelle esistano ancora.

Rembrandt e la tolleranza nelle incisioni

Se oggi Amsterdam (e l’Olanda tutta) è riconosciuta come la patria della tolleranza, non è solo per la “trasgressiva” (e amena) presenza dei coffee-shop autorizzati, ma per la sua Storia: nel ’600, infatti, mentre il resto dell’Europa conosce lotte religiose (cattolici contro protestanti: in Spagna e in Italia si viene torturati se solo si professa una religione che non sia quella cattolica), culturali (il 22 giugno 1633 a Roma viene condannato per eresia Galileo Galilei con l’abiura forzata della sua concezione eliocentrica), l’Olanda vive la sua età dell’oro. Riunite le sue province, accoglie l’immigrazione dei protestanti da Brabante, degli ebrei sefarditi da Spagna e Portogallo e degli ugonotti dalla Francia e fonda nel 1602 la Compagnia delle Indie per il commercio con l’Oriente.

Un tale abbraccio culturale genera l’Umanesimo di Commentario filosofico sulla tolleranza di Pierre Bayle e Lettera sulla tolleranza di Locke (che in Olanda è venuto a rifugiarsi). Coevo di questi pensatori è il grande pittore olandese Rembrandt (1606-1669), nella cui opera riverbera questo stesso umanesimo come testimonia l’imperdibile mostra Rembrandt. I cicli grafici. Le più belle incisioni (fino al 24 Marzo, a Palazzo Arnone, Cosenza) dedicata alla arte incisoria.

Un’arte tollerante che si fa enciclopedia tribale, in cui riconosciamo uomini con turbanti e panneggi orientali come in I musicisti ambulanti, un’acquaforte che cattura la tenerezza degli umili, ritratti di borghesi e commercianti come Ritratto di Abraham Francen, insieme a grandi narrazioni della Bibbia quali L’angelo abbandona la famiglia di Tobia, con un interessante studio sulla luce e l’ombra, e ancora San Gerolamo in meditazione nella cella, La lapidazione di Santo Stefano. Esposta anche la rarissima Deposizione dalla croce, una scena di complesso equilibrio formale e prospettico in cui Rembrandt unisce cielo e terra. Combinando sapientemente le tecniche incisorie (acquatinta, acquaforte, bulino, puntasecca), aureola a capolavori azioni quotidiane come fare il bagno in Uomini al bagno, chiedere l’elemosina in Mendicante con bastone, cacciare in La piccola caccia al leone con due leoni.

Con Rembrandt l’arte dell’incisione raggiunge uno dei momenti più sapienti e, se nelle acqueforti del coevo (e meno noto) praghese Wenceslaus Hollar brilla il gusto leonardesco della caricatura e in Giambattista Piranesi (un secolo più tardi) la narrazione delle rovine, nelle opere di Rembrandt risplende la luce quanto mai attuale della tolleranza civile.

Tutte le famiglie si somigliano, anche quelle arcobaleno

“Non tutte le famiglie sono formate da una mamma e un papà. Io ho due papà che si vogliono un sacco di bene”. A raccontare l’amore dei tempi moderni è La bambina con due papà, un libro di Mel Elliot uscito in libreria in questi giorni per i tipi della DeAgostini. In trentadue pagine la scrittrice inglese riesce a parlare di un tema così scottante ai bambini più piccoli grazie a un racconto che ha il pregio di usare l’ingenuità e la curiosità infantile.

Pearl ha una nuova compagna di scuola e non vede l’ora di conoscerla. Si chiama Matilda, corre velocissima, si arrampica sui rami più alti, sguazza nelle pozzanghere, ma c’è qualcosa di inusuale: ha due papà. Una “novità” che non crea alcun problema a Pearl, che come ogni bambino farebbe, di fronte alla compagna che le presenta la sua famiglia, risponde: “Okay, forte”. Chissà come ci si diverte, a casa sua, pensa Pearl, che si immagina già cene a base di torte e caramelle e serate a saltare sul letto. Quando però va a trovare Matilda, Pearl si accorge che la vita dell’amica è esattamente come quella che fa lei: piena di regole e di raccomandazioni. Insomma, avere due papà è… noioso quanto avere una mamma e un papà.

 

Una casa di riposo piena di misteri e il vero orrore: diventare vecchi

Sono così pochi i tabù rimasti che è una notizia quando se ne riesce a violare uno. Ci provano Marco Taddei e Simone Angelini, che si sono fatti conoscere con lo straniante Anubu (prima sul web e poi in libreria), i due talenti di un genere inclassificabile del fumetto italiano. Quattro vecchi di merda, come suggerisce il titolo, viola il tabù del declino fisico, dell’affrontare la morte tra incontinenza, perdita di lucidità, cinismo e angoscia. In un futuro vicino, gli anziani sono costretti a lavorare e a essere produttivi molto più a lungo di qualunque riforma Fornero possa prevedere. E quando smettono di essere attivi, vanno rottamati (questa parte della distopia è poco plausibile: in società con pochi giovani e molti anziani saranno al massimo i ragazzi a essere discriminati). Colt è un punk invecchiato male, con un nipote che sta crescendo ancora peggio. Racconta sempre la stessa storia, quella della sua folle band durata pochi mesi, tra droghe, provocazioni sul palco e relativo successo. Dopo una serie di incidenti, finisce col nipote in una strana casa di riposo dove la direttrice ha un terzo occhio sulla fronte coperto da un cerotto e succedono cose poco chiare. Anche se il vero orrore è quello palese, tra pannoloni, sedie a rotelle e tutto il resto. È un fumetto lungo, lunghissimo, molto parlato, dove per gran parte delle pagine succede pochissimo. Eppure Taddei e Angelini hanno la capacità di costruire mondi di disagio assoluto attraverso slittamenti progressivi rispetto al nostro. Non ci sono metafore, messaggi, la follia (come la violenza) pare gratuita, inspiegabile e per questo così disturbante. Leggere Taddei e Angelini genera un misto di nausea e vertigini, un disagio profondo, eppure non si riesce a distogliere lo sguardo.

 

Nel Salento del sole c’è una masseria dove ammazzano sette piccoli addicted

Una meravigliosa masseria nel Salento che rievoca la migliore tradizione christiana, nel senso di Agatha, fra Dieci piccoli indiani e soprattutto Trappola per topi (citata nel finale), entrambi senza il caro Poirot. Il classico dei classici, la trama ideale per le affamate celluline grigie del lettore.

Grigory Ivanov è un magnate russo guarito da una misteriosa addiction a Londra dalla bella dottoressa Rebecca Stark, psichiatra che usa un sistema sperimentale. Gli addicted sono uomini e donne caduti nell’abisso delle loro dipendenze. Gioco, sesso, Internet, smartphone, cibo. Ivanov si presenta dalla donna con un progetto superlusso per il metodo Stark: una clinica esclusiva in Italia dove curare gli addicted. Il posto è una meravigliosa masseria del Salento, in Puglia. Per l’inaugurazione, i pazienti sono selezionati dopo una campagna pubblicitaria internazionale. Sono sette: l’italiano Claudio, malato di poker; la sedicenne Rosa, svizzera, dipendente dallo smartphone e che si spoglia in webcam; l’americano Tim, lupo di Wall Street e cocainomane; la tedesca Lena, che ha l’ossessione del cibo e per questo fa solo sport; la francese Julie, ninfomane; il giovane Jian di Hong Kong, pornomane incollato al computer; l’olandese Jessica che si ferisce con tagli.

I sette più Rebecca, il suo assistente Dennis e il tuttofare Klaus (galoppino del magnate russo) sono isolati dal resto del mondo. I primi due morti sono sgozzati. Addicted è il nuovo thriller di Paolo Roversi, lo scrittore che ha inventato il festival Nebbiagialla di Suzzara, che comincia oggi. Una curiosità: il finale è uguale a quello dell’Uomo delle castagne di Søren Sveistrup, uscito da poco per Rizzoli.

 

 

Miorandi, sulle orme del genio di Walser

Ci vuole coraggio, e indifferenza ai dettami del mondo e del commercio, a dare alle stampe un libro scritto attorno all’ossessione per una fotografia che ritrae un cadavere. Nella foto, cruda e lieve, c’è il corpo di un uomo disteso nella neve al termine di una doppia fila di sette impronte di passi, vicino a una recinzione. È il cadavere di Robert Walser, lo scrittore svizzero che è stato uno geni letterari del Novecento, il “camminatore” a cui W. G. Sebald dedicherà la sua elegia, morto il pomeriggio di Natale del 1956 dopo una vita di isolamento, trattamenti psichiatrici e quest’ultima passeggiata, impressa con un grafismo potente nel biancore di una foto. Lo ha fatto Paolo Miorandi, scrittore e psicoanalista, con Verso il bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser (Exòrma). In pellegrinaggio al manicomio di Herisau, dove Walser trascorse gli ultimi ventitré anni della sua vita in una routine da pazzo o da monaco, Miorandi ne cerca il fantasma ricostruendo i pochi frammenti noti di quest’anima delicata e selvatica che trovò nella lacerazione definitiva una specie di anestesia salvifica. “Non appena ha preso in mano la penna”, scrisse Walter Benjamin di Walser, “entra in uno stato di disperazione. Tutto gli sembra perduto”. E così fu la sua vita: “Sono sordo ai richiami sentimentali”, disse a un amico che andò a trovarlo comunicandogli il desiderio di una lettrice di incontrarlo; e del resto “tutti i suoi amori sono impossibili”, e i suoi personaggi, come il Brigante del romanzo omonimo, nell’amore annaspano tra pensiero magico, sudditanza psicologica, desiderio di fuga e fusione col nulla. Miorandi segue le tracce dell’anelito allo zero che finirà nel bianco abbacinante della neve: ritrae Walser impegnato in una frenetica attività di scrittura su minuscoli pezzi di carta (i “microgrammi”) per poi tornare con voluttà a svolgere mansioni da pensionante e a dormire in camerate comuni insieme agli altri dementi. Immerso nello stesso gelo, Miorandi si domanda: e se Walser avesse “fatto il matto”, come Amleto? Alcuni testimoni raccontano che ancora nel 1954, due anni prima di morire, era a tratti lucido e abile nel conversare, prima di cadere nelle sue catatonie stuporose. Autore prediletto da Kafka, Walser inventò col suo capolavoro Jakob von Gunten, del 1909, il prototipo del Castello kafkiano, l’Istituto Benjamenta, luogo del potere dove convivono gioia, inerzia e tortura, e dove gli allievi sono istruiti secondo una “educazione a rovescio”: “Qui s’impara ben poco, e noi ragazzi non riusciremo a nulla nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato”. La subordinazione all’arbitrario e all’assurdo come regno della libertà è uno dei temi ricorrenti in Walser, che scrisse: “Nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla. Da vecchio sarò costretto a servire giovani tangheri presuntuosi e maleducati, oppure farò il mendicante, oppure andrò in malora”. La neve ne proteggerà il corpo, che per ironia della sorte – davvero kafkiana – sarà ritrovato da alcuni ragazzini. Nella scrittura di Walser, contratta come un crampo e innocente come un gioco di fanciulli, Miorandi trova e indica il conforto e forse la salvezza per chi si sente perduto.

Andrew Basso, l’erede di Houdini: “L’illusionismo è esercizio spirituale”

“La mia è una vocazione: a sette anni una voce mi ha sussurrato all’orecchio ‘questo è il tuo percorso, la tua missione’. Per me è stato Houdini”. Andrew Basso – trentino di nascita – è uno degli otto illusionisti più famosi nel mondo, protagonista dello spettacolo The Illusionist: Direct From Broadway (dopo Milano, sarà visibile a Roma sino al 3 febbraio al Palazzo dello sport).

“Il mio maestro è stato Sergio Molinari, mi ha trasmesso i segreti della magia. Ricordo la mia prima sfida: farmi incatenare in una cassa d’acqua calata nel lago di Caldonazzo. Sono sempre stato attratto da Houdini, era un supereroe dei suoi tempi come oggi per noi è Spiderman con la differenza che era reale. Un giorno ho chiesto a mio padre di legarmi a una sedia: l’essere bloccato mi provocò una carica nervosa incredibile. Il primo esperimento l’ho fallito come molti altri, ma un giorno sono riuscito a liberarmi e ricordo il senso di soddisfazione estrema mai provata prima. Da quel momento ho aggiunto elementi nuovi sino a rischiare la vita”.

È possibile che sia la concentrazione il grimaldello per un numero di escapologia? “Mi rendo conto che è l’abilità più importante in ciò che faccio. Aprire un lucchetto, con un lungo allenamento, è possibile per tutti, ma quando ti trovi a testa in giù in una vasca d’acqua legato e ammanettato puoi controllare la tensione solo con la concentrazione, è un esercizio spirituale. La prima cosa da fare è visualizzare con la mente tutti i dettagli che seguiranno, la seconda è diventare un tutt’uno con l’elemento prescelto, ad esempio l’acqua. Ho impiegato sette anni per mettere a punto la performance, ho seguito corsi di respirazione e apnea ispirati a Mayol oltre alle tecniche yoga. Mi dedico a quello che ho sempre sognato da bambino, girando il mondo sui palchi più prestigiosi, continuo a guardare la montagna e la sua vetta è ancora lontana, ho ancora voglia di scalare”.

“Cuore di cane” e solo d’attore

In ordine di apparizione in locandina: Massini, Bulgakov, Sangati. In ordine di apparizione in scena: Pierobon, Lombardi, Franzoni. Vincono quest’ultimi: se Cuore di cane sta in piedi è grazie agli attori, e poco altro.

Prodotto dal Piccolo Teatro e dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi, lo spettacolo replica al Grassi di Milano fino a marzo: scritto da Michail Bulgakov nel 1925, Cuore di cane fu censurato in Russia fino al 1987, mentre in Italia fu pubblicato negli anni Sessanta. Il romanzo, ora adattato da Stefano Massini e diretto da Giorgio Sangati, ha per protagonista un cane, appunto: Pallino, vecchio, randagio e mezzo invalido, raccolto per strada dal professor Preobrazénskij e usato come cavia di un ardito esperimento scientifico. Il dottore, insieme al collega Bormentàl’, trapianta l’ipofisi di un ragazzo nell’animale: l’obiettivo è quello di ringiovanirlo, ma il risultato sarà quello di trasformarlo in un essere umano. Giovane, sì, e criminale, com’era il donatore: laddove Pallino si esprimeva a guaiti e rispondeva solo al “linguaggio del salame”, il rinato “homunculus” Pallinov è un cinico sofista, che cita Marx ed Engels, adora il compagno Stalin, si atteggia da cittadino modello e arriva persino a denunciare il professore, che pure l’aveva emancipato dalla condizione ferina, allevandolo ed educandolo come un cucciolo di uomo.

Il rapporto tra creatore e creatura si declina in affettuoso gioco tra padre e figlio e, simmetricamente, in feroce catena tra padrone e servo: le scene dell’addestramento – la lezione sulla camminata in primis – sono tra le più crudeli e toccanti; è merito – come detto – dei superlativi interpreti, dai protagonisti Paolo Pierobon (Pallino) e Sandro Lombardi (Preobrazénskij) al Bormentàl’ di Giovanni Franzoni, alla cameriera di Lucia Marinsalta, alla cuoca di Bruna Rossi e al commissario di Lorenzo Demaria. A parte l’ottima concertazione dell’ensemble, la regia sembra un poco timida e in balia delle maestranze e della drammaturgia: da un lato, scene e luci (di Marco Rossi e Claudio De Pace) disordinate e disomogenee; dall’altro, un canovaccio minimo, a mo’ di “diario clinico”, con lunghi monologhi e parti narrative. D’altronde per Massini “il racconto si adattava perfettamente a classica commedia di dialogo, troppo classica per interessarmi. Decisi allora di alternare i registri”, ma dopo i Lehman la magia non gli è più riuscita, almeno non con Freud né con Bulgakov.

Intanto non funzionano l’inizio e la fine della pièce: tanto il primo è dilatato quanto il secondo è accelerato. Oltretutto, l’ingresso della star – il cane – è visibile solo dalle prime file o dalla balconata, essendo la sua gabbia ai piedi del palco (!). Ciononostante il pubblico apprezza: la satira sociopolitica fa ridere assai, le battute anticomuniste ancora di più. Eppure bersaglio di Bulgakov non erano solo il padre-padrone Stalin, il regime sovietico, l’ossessione per i 12 metri quadrati a testa; bersagli erano anche la ricerca dell’eterna giovinezza, l’ipocrisia borghese, il delirio di onnipotenza della scienza… Al di là della politica sta il cuore della commedia: cosa ci rende umani? Forse più un cuore di cane che un cervello di uomo.