Zalone fa cinque e vola in Kenya. Costa-Gavras adatta Varoufakis

Checco Zalone inizia a girare in questi giorni in Kenya il suo quinto e molto atteso film da protagonista dal titolo provvisorio Tolo Tolo, di cui è anche regista dopo l’interruzione del sodalizio artistico con il suo autore di riferimento, Gennaro Nunziante. La nuova produzione sarà ambientata tra Malindi, Watamu, Marocco, Puglia e Roma e realizzata come di consueto da Pietro Valsecchi per TaoDue e Medusa, che la lancerà a fine anno.

Dato tra i favoriti ai prossimi Oscar per la sua prova magistrale in Green Book Viggo Mortensen sta per interpretare Falling, un nuovo film di cui è per la prima volta anche regista e sceneggiatore, oltre che protagonista: in scena, le vicende dell’anziano allevatore tradizionalista Willis (Lance Henriksen, noto per Aliens – Scontro finale), che lascia la sua fattoria in campagna per andare a vivere i suoi ultimi anni a Los Angeles con la famiglia gay di suo figlio John (Mortensen). Un ruolo importante è previsto anche per Sverrir Gudnason, l’attore svedese quarantenne indovinato interprete di Borg/McEnroe)

Costa-Gavras tornerà a girare in primavera nella sua Grecia dirigendo Adults in the room, adattamento del libro omonimo dell’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, di cui aveva acquistato i diritti fin dalla fase di scrittura. L’85enne maestro del cinema d’impegno civile ha dichiarato di esser stato molto colpito dal resoconto dei difficili negoziati attivati qualche anno fa da parte del suo giovane connazionale nell’Eurogruppo, “organismo comunitario illegittimo, ma ultrapotente, governato da un gruppo di cinici, indifferente verso la situazione insostenibile in cui viveva il popolo greco, disconnesso da preoccupazioni umane, politiche e culturali e ossessionato dai numeri”.

 

Il testamento di Clint arriva con “Il corriere”

La cosa più giusta l’ha scritta The Hollywood Reporter: “Lodare The Mule dicendo che è il miglior film mai realizzato da un 88enne regista che vi recita anche non significa nulla, perché non è mai successo prima”. Del resto, stiamo parlando di un demiurgo, tra i più determinati e ostinati del cinema tutto: Clint Eastwood.

Nella doppia veste di regista e attore mancava da Gran Torino del 2009 e, dovesse malauguratamente esserlo, Il corriere – The Mule sarebbe un grande testamento. C’è tutto l’Eastwood che conosciamo, quello di oggi e quello di ieri, quello che abbiamo così lungamente e profondamente amato: il precedente Ore 15:17 – Attacco al treno è stato una topica, Clint ha ancora storie da raccontare, immagini da filmare, uomini da incarnare. Passando per la sceneggiatura di Nick Schenk, stavolta trova ispirazione nell’articolo del New York Times Magazine firmato da Sam Dolnick The Sinaloa Cartels’ 90-Year-Old Drug Mule e porta sullo schermo il vero Leo Sharp, ovvero il finzionale alter ego Earl Stone, che a 90 anni divenne “il mulo” più importante del cartello della droga messicano.

Pluripremiato floricoltore, veterano di guerra, marito e padre assente, nonché nonno affettuoso, Earl finisce sul lastrico per la concorrenza dei fiorai via Internet: vivaio dismesso, casa pignorata, eppure, ha qualcosa di appetibile, è un grande viaggiatore su ruota, ha percorso in lungo e in largo 41 Stati su 50 senza mai prendere una sola contravvenzione. Anziano, bianco e senza precedenti: quale corriere migliore? Così affidabile da meritarsi carichi sempre più ingenti, nonché la chiamata a corte del boss (Andy Garcia), ma sulle sue tracce è anche la Dea, segnatamente l’agente federale Colin Bates (Bradley Cooper).

Clint non si nasconde, il politically correct non sa nemmeno pronunciarlo, del resto, non ha l’età: va con le prostitute, incassa un “grazie, nonno” cui risponde con un “prego, lesbiche”, sopra tutto, battezza “negri” gli afroamericani in panne che si ferma ad aiutare. Criminale per necessità, Earl evoca i fuorilegge che Eastwood impersonò anche per Sergio Leone, e il western è della partita, eccome: la frontiera non è solo tra Stato e Stato, ma tra Bene e Male, e pur preso tra due fuochi, gli indiani-messicani e le giubbe blu delle Dea, il cavaliere pallido non si tira indietro.

Le braccia sempre più magre e quindi più lunghe, le vene a fior di pelle, la camminata che si fa più iconica a ogni piè sospinto, gli occhi come tagli, Eastwood al suo trentasettesimo film da regista è ormai pronto per la confessione: “Potevo comprare tutto, tranne il tempo”. Viene anche il sospetto che si sia scelto un erede, Bradley Cooper. Sì, forse A Star is Born – l’avrebbe dovuto dirigere Clint inizialmente – ma la stella polare è ancora quaggiù: dietro e davanti la macchina da presa, con 89 anni da compiere il 31 maggio.

Lino Banfi salvi Venezia

Banfi o non Banfi, l’Unesco è un ente serio: a giugno la conferenza annuale a Baku dovrà decidere se annoverare Venezia tra i “Patrimoni dell’Umanità in pericolo” (insieme ad Aleppo e Leptis Magna) per il mancato rispetto delle raccomandazioni esposte in un denso studio del 2015, degno emulo del Rapporto Unesco su Venezia uscito giusto 50 anni fa. In tempi recenti, Vienna e Liverpool sono state retrocesse per molto meno, per singoli progetti edilizi discutibili: a Venezia, è tutta la gestione della città ad andare nel senso sbagliato, come denunciano in un imminente e-book Giuseppe Tattara, Roberta Bartoloni, Gianni Fabbri e Franco Migliorini, autori anche di un libretto dal titolo Governare il turismo.

Proprio sul turismo, l’amministrazione Brugnaro sembra voler far cassa e confondere le acque: la “tassa di sbarco”, da applicare chissà come ai singoli avventori, mentre si poteva semmai agire sulle agenzie e sui gruppi; le campagne di manifesti per il decoro urbano e i tornelli giù dal ponte di Calatrava, del tutto inefficaci; altri 9.000 posti-letto nuovi di zecca a Mestre, che vanno ad aggiungersi ai 7.500 già esistenti e ai 37.500 complessivi (a spanne) della città storica. Si poteva intraprendere invece una regolamentazione (anche di Airbnb) come a Parigi, Barcellona, Amsterdam, e varare un sistema di prenotazioni gratuito online atto a contenere gli escursionisti giornalieri, che sono ormai i 2/3 dei visitatori e costano più di quanto rendano.

Intanto, continuano i cambi di destinazione d’uso degli immobili (pratica deleteria iniziata con le giunte Cacciari degli anni 90); più del 70% degli acquisti di case a Venezia sono fatti da non residenti (muoiono così i negozi di vicinato, intere aree della città si spopolano e si dimezzano i posti-letto all’ospedale); vengono osteggiate le esperienze associative dal basso, come la colletta per una gestione condivisa dell’isola di Poveglia o la co-gestione partecipata dell’ex teatro anatomico della Vida in Campo San Giacomo (in quest’ultimo caso, lo sgombero è addirittura avvenuto con la forza pubblica contro artisti e passeggini).

Peggio va per le arie (inquinate quanto quelle di Padova) e soprattutto per le acque: al Lido si posa l’ultima paratoia del Mose (assurdo mastodonte che, come la stessa Unesco ventila, si rivelerà inutile a fronte dell’innalzamento dei mari), nei canali si fa ben poco per regolare la velocità dei natanti a motore (pochissime le multe) e in Laguna si tengono le Grandi Navi, che da anni continuano a passare dinanzi a Palazzo Ducale in spregio alle dichiarazioni dei politici e – così un dettagliato studio di Tattara – alla stessa convenienza economica della città. Ora le si vuole dirottare nella prima zona industriale di Marghera (un luogo, per inciso, tutto da bonificare, prima di una fantomatica “riconversione”), facendole passare nel Canale dei Petroli e nel Canale Vittorio Emanuele III, i quali andranno entrambi scavati fino ad arrivare a 260 metri di ampiezza, e consolidati con argini di pietra solidi e irreversibili. Una decisione, questa, che, oltre a generare prevedibili difficoltà di ingorgo e rischi di collisione con le navi merci, taglierà definitivamente in due la Laguna asportando 7-8 milioni di metri cubi di sedimenti e approfondendo i noti e riconosciuti danni idrogeologici causati dagli scavi dei canali degli anni 60.

Secondo Stefano Boato, per anni anima della Commissione di Salvaguardia, le delibere comunali in questo senso (al pari di quelle che varano la seconda pista dell’aeroporto di Tessera, tramite l’interramento di pezzi di Laguna) sarebbero senza mezzi termini illegittime (pare che lo stesso ministro Costa abbia chiesto chiarimenti): di certo, il dossier Unesco del 2015 chiedeva l’opposto.

A oggi manca ancora il Piano morfologico della Laguna richiesto a gran voce dall’Unesco: nel 2018 la Commissione Vas ministeriale ha bocciato quello partorito dal Corila (l’apposito organo del Consorzio Venezia Nuova, travolto dallo scandalo Mose ma recentemente rifinanziato e di nuovo pronto a elargire i suoi denari a università e centri studi), le cui mostruosità furono denunciate, per tempo e nel dettaglio, da Italia Nostra e dalla sua presidente Lidia Fersuoch. Per le Grandi Navi una prima soluzione – ventilata dallo stesso rapporto Unesco del 2015 – ci sarebbe: la creazione di un apposito terminal off-shore, auspicato da anni dai veneziani più avveduti sulla base di dettagliati progetti che hanno avuto anche l’assenso della commissione Via.

In uno scenario che assomiglia a quello prefigurato da Vittorio Gregotti vent’anni fa (“gestire la ricca decadenza come fenomeno turistico”), scompare la Repubblica fondata sul rispetto e il governo delle sue acque e sulla gestione sapiente delle problematiche sociali; sembra non si voglia cogliere l’opportunità di creare (decisivo, in questo senso, il destino ancora incerto dell’Arsenale) una nuova “città della conoscenza” che non si risolva nella portaerei della Biennale ma porti ricercatori e studiosi di mare, di arte, di lingue, di futuro a stabilirsi qui per periodi medio-lunghi, ridando fiato a una residenzialità che non sia d’assalto.

È questo il sogno che ancora tenacemente coltiva, dalla sua casa di Campo Santa Margherita, uno dei massimi urbanisti italiani, il novantenne Edoardo Salzano, animatore del prezioso sito eddyburg.it e protagonista delle pagine finali, e più commoventi, di Non è triste Venezia di Francesco Erbani (Manni 2018).

Morto a 95 anni Stewart Adams, l’uomo che inventò l’ibuprofene

Voleva trovare un farmaco contro l’artrite reumatoide che non avesse effetti collaterali. Invece Stewart Adams, morto ieri a 95 anni, scoprì una delle medicine più utilizzate al mondo: l’ibuprofene. Classe 1923, nativo di Byfield, nel Northamptonshire, lasciò la scuola a 16 anni e iniziò un apprendistato in una farmacia gestita da Boots, quella che sarebbe diventata la casa farmaceutica dell’antinfiammatorio. Presentò il primo brevetto nel 1961. Raccontò poi di averne beneficiato soprattutto dopo una sbronza con gli amici. Il giorno dopo, spiegò, avrebbe dovuto tenere un discorso, ma aveva un forte mal di testa: assunse una pillola e si felicitò della (sua) scoperta.

Mueller “sorvegliato speciale” dagli hacker

Dalla Russia, con un tweet: a Mosca, c’è chi sa molto più di quanto dovrebbe sul Russiagate, cioè l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sui contatti tra la campagna presidenziale 2016 di Donald Trump ed emissari del Cremlino. Secondo la Cnn, che cita documenti del Dipartimento della Giustizia, un account Twitter russo o filorusso ha utilizzato informazioni riservate provenienti dal team di Mueller per gettare discredito sulle indagini del Russiagate.

Le informazioni, diffuse dall’account twitter, che non erano pubbliche, riguardano, in particolare, il coinvolgimento nell’indagine di un social media russo accusato di portare avanti una campagna di disinformazione. La Cnn intende scoprire chi stia dietro l’account @HackingRedstone, i cui gestori si definiscono “hackers anonimi come ve ne sono centinaia”, ma “gli unici a essere riusciti ad arrivare al database del procuratore speciale”, con il solo obiettivo di “condividere tutte le informazioni” carpite, così che ciascun follower “possa raccontare al Mondo la verità”. Che quella di @Hacking Restone sia proprio la verità, non ci giura nessuno. Ma ora che l’inchiesta di Mueller è prossima alla conclusione, per ammissione del segretario alla Giustizia ad interim Matthew Whittaker, l’attenzione dei media torna ad accentuarsi; e i tentativi di screditare il lavoro del procuratore rischiano di moltiplicarsi. C’è molta gente, a Washington e pure al Cremlino, interessata a che tutto si riduca a a una bolla si sapone. Trump, cui in passato era stata spesso attribuita l’intenzione di licenziare anti-tempo Mueller, assicura che lascerà al Dipartimento della Giustizia decidere come gestire il rapporto finale dell’inchiesta sul Russiagate, in particolare se rendere pubblico il documento o meno.

Secondo indiscrezioni del New York Times, che avrebbe avuto accesso a documenti riservati, durante la campagna elettorale e il periodo di transizione, cioè fino all’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, Trump e ben 17 suoi consiglieri e collaboratori ebbero contatti con intermediari russi e con Wikileaks: l’organizzazione di Julian Assange è sospettata di avere offerto una sponda alla disinformazione russa. Tra i cento contatti di Trump e del suo staff con intermediari russi e Wikileaks ci sarebbero incontri di persona, telefonate, sms via cellulare, email e messaggi privati attraverso Twitter.

Trump e i suoi hanno sempre negato contatti con i russi durante la campagna. I documenti pubblicati dal New York Times, con date e nomi, si basano su testi già in possesso del Congresso: le persone finite nei guai sono 34, con arresti, rinvii a giudizio, condanne di uomini molto vicini al magnate presidente. L’ultimo è l’amico e consiliori Roger Stone, che si dichiara innocente dalle accuse di aver mentito al Congresso, manipolato testimoni e ostacolato la giustizia nelle indagini sul Russiagate; e che, soprattutto, contrariamente ad altri, non intende collaborare con gli inquirenti.

Trump, tra il 16 giugno 2016 e il 18 luglio 2017, avrebbe avuto sei contatti diretti con intermediari russi o legati a Wikileaks. Aras Agalarov, miliardario russo che gestì un evento di miss Universo a Mosca, e il figlio, Emin avrebbero visto il candidato e il presidente in più occasioni. La prima volta , poco dopo l’ufficializzazione della candidatura del magnate alla Casa Bianca. Agalarov lo invitò a una festa, prospettandogli la possibilità d’incontrarvi il presidente russo Vladimir Putin – cosa che non avvenne -. Poche settimane dopo, Trump firmava una lettera d’intenti per costruire una Trump Tower a Mosca.

Su Guaidó Italia a ranghi sparsi: “No a ingerenze”

La crisi venezuelana spacca in due anche la politica italiana. L’Unione europea ha deciso di “stabilire un gruppo di contatto internazionale per accompagnare il processo democratico verso nuove elezioni presidenziali in Venezuela”. Ne faranno parte alcuni Paesi dell’Unione, tra cui l’Italia, e Stati dell’America Latina, come annunciato dall’Alto rappresentante Federica Mogherini. Tuttavia gli eurodeputati del M5S e della Lega si sono astenuti nel voto dell’Eurocamera sul riconoscimento a Guaidó come presidente legittimo ad interim del Venezuela. La risoluzione è comunque passata.

“L’Italia non riconosce Guaidò perché siamo totalmente contrari al fatto che un Paese o un insieme di Paesi terzi possano determinare le politiche interne di un altro Paese. Si chiama principio di non ingerenza ed è riconosciuto dalle Nazioni unite” ha detto il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano. Michele Anzaldi del Pd si scaglia contro “i colleghi eurodeputati Pd che sul Venezuela si sono astenuti: chiariscano al più presto e senza esitazioni se si è trattato di un imperdonabile e inammissibile errore o se davvero sostengono la stessa posizione di Lega e M5S”. Le dichiarazioni di Picchi, altro sottosegretario agli Esteri, riporta la Lega su posizioni anti Maduro: “Il suo governo per noi è finito, convochi le elezioni”.

In attesa della manifestazione nazionale che lo sfidante di Maduro, Juan Guaidó, ha indetto per domani, sembra improbabile che il giovane presidente del Parlamento riuscirà a convincere anche le forze armate ad abbandonare Maduro, successore di Hugo Chavez e passare dalla sua parte. Senza l’appoggio dei militari, come sapeva bene il Comandante Chavez, arruolatosi nell’esercito come paracadutista, non c’è alcuna possibilità di ottenere e mantenere il potere. E infatti il defunto Comandante, dopo gli anni di carcere per aver tentato un golpe militare, non appena eletto purgò le forze armate per garantire che i suoi alti dirigenti fossero allineati con la sua agenda. “In precedenza i militari erano stati più o meno confinati nelle caserme, ma Chavez li ha rilasciati e ha dato loro l’accesso ai posti di governo, al controllo delle banche e di altri servizi finanziari”, spiega Phil Gunson, analista senior dell’International Crisis Group di Bruxelles.

Maduro ha seguito la sua linea e infatti i settori chiave dello Stato sono nelle mani di alti ufficiali. Per esempio la responsabilità della distribuzione alimentare è del ministro della difesa, l’ex capo di Stato Maggiore Vladimir Padrino, e la società petrolifera statale Pdvsa è presieduta dal maggiore Manuel Quevedo, capo della guardia nazionale. “Nel corso degli anni l’esercito è stato autorizzato a prendere parte al saccheggio delle risorse dello Stato, a esercitare in prima persona la corruzione endemica”, sottolinea Gunson. Nel frattempo il giallo dell’aereo russo atterrato a Caracas, sarebbe stato risolto da Novaya Gazeta. Il Boeing 757 non sarebbe stato inviato da Mosca per mettere in salvo l’oro venezuelano (o lo stesso Maduro) bensì per portare dollari grazie alla vendita (a Dubai) delle riserve auree di Caracas custodite nei forzieri della Banca centrale russa. Il giornale scrive che le riserve ammontano “a 30 tonnellate d’oro”. Secondo Novaya Gazeta l’aereo conteneva circa 1,2 miliardi di dollari. Si è trattato del secondo viaggio del Boeing 757.

Gilet gialli e casseurs, è reato coprirsi il viso ai cortei

Misura repressiva o decisione di buon senso per fermare i violenti? A più di due mesi dall’inizio della protesta dei Gilet gialli, il Parlamento francese ha votato per rendere reato il travisamento del volto, totale o parziale, durante le manifestazioni. Una misura anti-incappucciati che prevede fino a un anno di detenzione e 15 mila euro di multa per chi nasconde “volontariamente” il volto dietro casco, cappuccio, sciarpa, per commettere violenze e danneggiamenti senza correre il rischio di essere riconosciuto. Per giustificarsi la persona fermata dovrà provare che ha avuto un “motivo legittimo” per nascondere il viso. È una delle misure principali della legge anti-casseurs, in esame da martedì scorso in Assemblea, e che divide persino la maggioranza di governo. Finora nascondere il viso durante le proteste di piazza era considerato solo un’infrazione, punita con una multa di 1.500 euro, introdotta da Nicolas Sarkozy nel 2009 dopo l’invasione devastante di black bloc a margine di un summit della Nato a Strasburgo. Le violenze dei casseurs a Parigi e gli scontri con la polizia hanno spinto il governo a introdurre sanzioni più dure sul principio della “tolleranza zero”.

Il risultato è una “legge liberticida” per il leader della gauche Jean-Luc Mélenchon, mentre per la destra la risposta alle violenze è “insufficiente”. La legge (che deve essere votata definitivamente il 5 febbraio) introduce anche il “divieto amministrativo di manifestare”, una misura simile al Daspo per gli stadi: i prefetti potranno cioè vietare i cortei alle persone che rappresentano “una minaccia per l’ordine pubblico”. In caso di infrazione si rischiano fino a sei mesi di carcere e 7.500 euro di multa. Di fronte alle critiche, il ministro dell’Interno Castaner ha assicurato che il divieto riguarderà “poche centinaia di persone”.

India, “reddito minimo a tutti”: va in campagna pure il nipote di Gandhi

“Non ci saranno più persone affamate in India. Nessuno sarà più povero”. Questo ha promesso pochi giorni fa ai suoi elettori Rahul Gandhi, leader del principale partito di opposizione indiano, il Congress.

Il figlio di Sonia Gandhi (politica indiana di origine italiana, vedova del figlio di Indira Gandhi), ha infatti promesso in caso di vittoria alle prossime elezioni generali (che si terranno tra aprile e maggio) che implementerebbe una variante del reddito minimo universale, diretto unicamente alle fasce più basse della popolazione.

“Al momento non ci sono dettagli, ma sembrerebbe trattarsi più che altro di una forma di pagamento ai redditi più bassi, piuttosto che di un vero e proprio reddito universale minimo, che in quanto tale è destinato a soggetti ricchi e poveri, in modo incondizionato” sottolinea Luke Martinelli, ricercatore associato dell’Institute for Policy Research dell’Università di Bath. “Non è ancora chiaro a quanto ammonterà il costo della misura o quali prove dovranno essere fornite per rientrarvi, né se il pagamento avverrà per nucleo familiare o su base individuale”. Se i destinatari del reddito sono incerti, quelli della dichiarazione politica sono noti. Non è infatti un caso che la dichiarazione di Rahul Gandhi sia avvenuta in uno Stato contadino, quello Chhattisgarh, dove il partito del Congress ha di recente vinto le elezioni locali, vittoria salutata come un segnale del successo dell’opposizione tra le file dei lavoratori rurali. Quasi il 70% della popolazione indiana ha interessi o lavora nel settore rurale e agricolo.

“Per questo i partiti si concentrano ora sul settore agricolo, nel senso più ampio del termine” ricorda Kenneth Bo Nielsen, analista dell’Università di Oslo. “È ormai evidente che il governo in carica del primo ministro Modi non è riuscito a fare molto per questa fetta di popolazione: il Congress sta capitalizzando il crescente malcontento nel mondo rurale e agricolo”.

Uno scacchiere politico, prima ancora che sociale, tutto da definire. Via Twitter, il Congress ha fatto sapere che i numeri della misura saranno rivelati in futuro, contestualmente alla pubblicazione del manifesto politico del partito. Qualche esempio di cosa potrebbe prefigurarsi, però, c’è: “Tra il 2011 e il 2013 un esperimento di reddito universale di base è stato condotto nello Stato indiano di Madhya Pradesh, con ottimi risultati in termini di livelli di indebitamento delle famiglie, salute e equità di genere. Ma era un progetto finanziato dall’Unicef, non tramite tassazione” ricorda Martinelli. E se il medesimo piano fosse esteso all’intero subcontinente, i numeri sarebbero imponenti: basti pensare che, secondo la Banca Mondiale (dati del 2011) il 21,9% degli 1,2 miliardi di indiani vive sotto la soglia della povertà. “La sfida è proprio il finanziamento dovendo assicurarne uno sufficiente e stabile in un contesto, come quello indiano, di insufficienti incassi provenienti dalle tasse”, continua Martinelli. “Tuttavia l’alto livello di disuguaglianza sociale, l’ampio e complesso spettro di programmi di sussidi anti-povertà rendono l’India un candidato ideale al reddito minimo. Senza contare che esiste un database per le carte d’identità biometriche, chiamate Aadhaar, che potrebbe ridurre le eventuali frodi”.

Quanto alle reazioni del governo in carica, il primo a parlare è stato il portavoce del Bjp, partito del primo ministro Narendra Modi, che ha bollato l’idea come populista e inattuabile, perché troppo costosa. In India esistono già oltre 900 piani e programmi di sussidio, che arrivano a pesare per quasi il 5% del Pil nazionale, periodicamente tacciati di inefficienza, frodi e sprechi. Nonostante i dubbi, il colpo di scena è atteso: i commentatori politici indiani sono pronti a scommettere che, pur di non perdere voti, il Bjp si troverà costretto a fare un annuncio simile nelle prossime ore. “È davvero troppo presto per dire se si arriverà mai all’approvazione del piano che dovrebbe confrontarsi con l’opposizione delle élite rurali, dei proprietari terrieri e della classe media urbana”, secondo Nielsen. “Portare il tema della povertà al centro dell’agenda politica indiana, è comunque importante”, chiosa.

Mail Box

 

La Lega promette più sicurezza, ma con quali risultati?

Vorrei scusarmi con Salvini per aver dubitato della sua maturità. Mi era sembrato che con il decreto sicurezza facesse come i bambini che credono, mettendosi le mani davanti agli occhi, di diventare invisibili. Allo stesso modo pensavo volesse far sparire i migranti negando loro una veste e una collocazione legale ma mi sbagliavo. Salvini potrebbe essere, magari inconsapevolmente, uno stratega raffinato. Tutti quei migranti buttati dall’oggi al domani in strada finiranno facilmente per delinquere, confermando la linea dura della Lega, come le famose profezie che si autoavverano. Se poi coloro che si credevano accolti ed integrati trasformeranno la loro delusione in odio, ci potrebbe sempre scappare qualche attentato. Finora la Lega non ha potuto annoverare tra i pericoli di cui fa scudo all’Italia alcun atto di terrorismo di matrice islamica. A parte l’ironia, la parola “sicurezza” non è sufficiente a creare sicurezza. Ma la domanda è: quale sarà oggettivamente il risultato del decreto sicurezza?

Maria Zorino

 

Basta con gli steccati ideologici: non tutto il privato è “male”

Nella replica di Stefano Fassina alla proposta popolare sui beni comuni ci leggo il metodo preferito degli intellettuali, soprattutto di sinistra: sostituire al giudizio logico il giudizio definitorio. Quello di Fassina non è nient’altro che un sillogismo dialettico che si basa su premesse false. Una in particolare: il pubblico è il Bene superiore, il privato è il Male impronunciabile e il primo è ontologicamente dalla parte della giustizia contro il secondo che non può non essere male. La legge sui beni comuni è importante perché farebbe uscire anche il diritto da quel bipolarismo di cui certa sinistra si è cibato – Stato contro privato o il lavoratore intoccabile contro il padrone – e ci fa rendere conto che non tutto è bianco o nero, ci aiuta a pensare, a fare distinzioni, ad applicare le regole generali ai casi particolari. Non basta tirare stilettate al governo gialloverde per far passare l’idea che questa divisione da Berlino est e Berlino ovest è irrazionale e dannosa. Fassina deve soltanto accettare che l’assolutismo ideologico è preistoria e uscire dal suo materialismo ingombrante.

Stefano Rodotà parlava di biotecnologie, diritti sul web, aree urbane, ma anche bisogni, non solo del biglietto al Colosseo.

G.C.

 

Le Poste locali garantiscono un servizio sempre in ritardo

Una cartolina che mi è stata spedita da Berna il 26 gennaio ha impiegato quattro giorni per arrivare a destinazione a Perugia.

Nella stessa, odierna mattinata, un’amica in Sardegna ha ricevuto i miei “auguri natalizi più di un mese e mezzo dopo dalla data del timbro, il 12 dicembre.

Un’altra amica li aveva invece ricevuti una settimana fa, ed erano stati imbucati lo stesso giorno. Disservizi di cui fanno spese solo le isole? Occorre fare ulteriori considerazioni? Non credo convenga.

Perché il comune cittadino italiano, costantemente vessato ed ingiuriato da tutte le amministrazioni pubbliche, sicuramente si beccherebbe anche un’accusa per diffamazione se solo desse sfogo alla sua più che giustificata rabbia e costante indignazione contro le “irredimibili” disfunzioni delle stesse.

Simonetta Ascani

 

Io, ex migrante italiano abbraccio i 47 profughi

Ho 73 anni di cui 40 passati da immigrato tra Svizzera e Svezia. Sono antifascista da sempre e mi vergogno profondamente di essere italiano per quello che fanno a quelli che io da ex migrante chiamo fratelli. La mia è stata una vita nella bambagia mentre queste persone fuggono da guerra e miseria ma è forse un crimine cercare di stare bene? Guardacaso poi fanno pure girare la voce che al Viminale avevano il sospetto ci fossero dei terroristi sulla nave… i veri criminali sono Salvini e Di Maio, per me non c’è differenza. Ribelliamoci. Mando un abbraccio a questi 47 profughi.

Giorgio Dal Ponte

 

Macron critica i nostri politici ma i francesi non lo amano più

Emmanuel Macron, in Egitto, nella conferenza stampa, accanto al noto “benefattore dell’umanità” Al Sisi, ha dichiarato: “L’Italia merita dei leader all’altezza della sua storia !”. Forse ha ragione. Anche in Francia, tuttavia, dalle parti dell’Eliseo e di Matignon, non si vedono degli statisti del livello di Charles de Gaulle e di François Mitterrand. E, stando ai sondaggi, la pensano così anche i francesi.

Pietro Mancini

 

Il negazionismo non muore e fa male quanto l’Olocausto

La follia di Hitler ha lasciato nell’intera umanità ferite che, nel ricordo, non potranno mai rimarginarsi. Nel rivedere le immagini nei videoclip di enormi cumuli di scheletri, di scarpe, di vestiti deteriorati dalla furia umana e dal tempo, la mente si blocca. Ma ci sono quelli che negano l’Olocasuto. Saperlo mi porta ancor più a inorridire, e a tremare nell’anima per la natura distorta e disumana, al contempo, di tali pensieri.

Non si può togliere alla vita quel valore sacro e indissolubile che ci contraddistingue come esseri umani, vocati alla fratellanza e alla misericordia.

Ines e Antonio Di Gregorio

Grammatica. Un conto è l’analfabetismo, un altro l’uso della lingua, che è viva e varia

 

Gentile SIlvia Truzzi, a proposito del suo articolo sull’analfabetismo di ritorno mia moglie, vecchia maestra ottantenne in pensione, ha detto che oggi si pretende di non rispettare le regole. Tutte le cosiddette novità, che purtroppo anche l’Accademia della Crusca ritiene di dover accettare, sono soltanto l’ignoranza delle regole grammaticali e linguistiche. Oggi si vuol far passare l’ignoranza per vetustà ed è purtroppo un modo di fare generalizzato. La conoscenza e il rispetto delle regole grammaticali sono la fonte della cultura linguistica.

Romano Lenzi

 

Gentile Romano, non sono affatto del parere che ogni novità sia da accogliere acriticamente. Però non penso che ogni novità rappresenti una manifestazione di ignoranza. Provo, lo confesso, una certa diffidenza verso l’idea di una lingua cristallizzata in paradigma di purezza e perfezione. E che magari ignori anche le indubbie differenze tra italiano scritto e parlato. Mi è sembrata comunque una buona notizia che il post “siedi il bimbo” sul sito dell’Accademia della Crusca abbia avuto tanta diffusione: vuol dire che c’è, oltre a un sorprendente bisogno di certezze linguistiche, interesse verso il tema . Ho letto e riletto lo scritto del professor Coletti e non riesco a trovare il passaggio in cui lui sdogana l’uso transitivo di alcuni verbi: mi pare si limiti a prendere atto di un’abitudine linguistica, accettabile “in àmbito domestico”. Per questo ho evocato la questione dell’analfabetismo, perché mi pare che il problema riguardi più che altro la scarsa comprensione del testo.

Ho trovato molto condivisibili le riflessioni del professor Giuseppe Antonelli, sul Corriere: “Se ci si mette sul piano del gusto, le scelte sono facili e nette. Se ci si mette sul piano della grammatica, si è costretti a riconoscere che tra giusto e sbagliato c’è spesso una zona grigia. Alla domanda si può dire?, il linguista non può rispondere quasi mai con un secco sì o no. Per il semplice fatto che in una lingua viva la norma non è mai data una volta per tutte, ma si ridefinisce ininterrottamente in base alla coscienza linguistica collettiva”. Con ciò non si vuol affermare che, come disse qualche tempo fa la sciagurata maestra di un nipote, “un po’ si può scrivere sia con l’apostrofo che con l’accento”. Ma solo che la lingua è viva e che si trasforma con il passare del tempo, mentre viene “usata”.

Silvia Truzzi