Rodotà succube dei neoliberisti? Ma per favore…

Scopro leggendo un commento ospitato dal Fatto del 31 gennaio che Stefano Rodotà fu culturalmente succube del neoliberismo! Mio padre mi disse un tempo di evitare scrupolosamente i litigi con gli incompetenti perché chi guarda da fuori potrebbe non capire la differenza! Mi sono sempre attenuto a questo insegnamento e credo che i lettori del Fatto e chiunque abbia conosciuto Stefano siano in grado di capire da soli lo spessore culturale e la credibilità politica di queste affermazioni, senza bisogno di una mia chiosa esplicativa. Aggiungo solo che fra i neoliberali succubi, oltre al sottoscritto, lavorarono nella commissione guidata nel 2007 da Stefano (Rodotà), certamente determinandone gli esiti, Alberto Lucarelli, Luca Nivarra, Daniela di Sabato e Antonio Gambaro! Tutta gente il cui itinerario intellettuale parla da solo e che certo non è particolarmente portata alla succubanza. La Commissione Rodotà inoltre generò i quesiti referendari del referendum c.d. sull’Acqua Bene Comune… altro progetto neoliberale? Così è purtroppo il fuoco “amico”! Siccome tuttavia fra pochi giorni parte la raccolta delle firme per la Legge Iniziativa Popolare che recepisce il ddl Rodotà, contestualmente alla costituzione della Cooperativa di mutuo soccorso fra generazioni presenti e future ad azionariato diffuso, preferisco pensare in positivo, lanciando una proposta collettiva in tutta umiltà. Spero che essa possa essere raccolta anche da alcuni di quanti (non tantissimi a dire il vero!), in nome di una militanza più pura della nostra nel mondo dei beni comuni, storcono il naso rispetto alla definizione della Commissione Rodotà (beni tanto in proprietà privata quanto pubblica che sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona e vanno governati nell’interesse delle generazioni future). Costoro pongono infatti l’accento su una incombente eterogenesi dei fini (volgarmente si direbbe gufano!). La LIP Rodotà (con cui vogliamo introdurre definizioni e garanzie dei beni pubblici e comuni nel codice civile per rimetterlo in sintonia con la Costituzione) nel caso di discussione parlamentare porterebbe a una nuova ondata di privatizzazioni! Anche qui non voglio drammatizzare per pregressa esperienza di dieci anni fa. Ho trascorso un mese dopo il lancio del referendum contro il decreto Ronchi a rintuzzare le accuse di chi, dall’interno dei Forum per l’Acqua, accusava Rodotà, Lucarelli e il sottoscritto di aver accelerato e imposto dall’alto un referendum in cui manco avremmo raccolto le firme… Fortuna che tenemmo duro perché alla fine ci sono stati tutti (27 milioni di italiani) e proprio in corner (giugno 2011) tutti insieme abbiamo sventato un saccheggio di beni e servizi pubblici da circa 200 miliardi. Non si poteva fare meglio: il decreto Ronchi prevedeva per il 31 dicembre 2011 la messa a gara di tutti i servizi pubblici comunali…

Insomma, esistono le urgenze (quella ecologica e sociale è oggi drammatica) e il meglio è nemico del bene. La nostra proposta è la seguente: in questi sei mesi, durante il dibattito che ci sarà in Italia nelle centinaia di serate pubbliche in cui raccoglieremo le firme, scriviamo insieme, giuristi e movimenti sociali, un articolato del codice civile attuativo del ddl Rodotà capace di recepire i progressi fatti in queste materie negli ultimi dieci anni. Si scriva anche una Carta di principi irrinunciabili in materia di beni comuni. Come Garanti del Comitato Rodotà ci impegniamo a presentare tale lavoro insieme alle firme che raccoglieremo sul ddl originale alla presidenza della Camera dei deputati in modo che sia chiaro che per chi ha firmato indietro non si torna.

Portare al cuore del nostro ordinamento giuridico i diritti delle generazioni future è una grande impresa in cui merita metter cuore, soldi e cervello. Chi volesse accompagnarci iscrivendosi al Comitato può farlo sul sito www.benicomunisovrani.it

Recessione, quando arriveranno gli investimenti?

Quando le cose vanno male è francamente fastidioso sentire chi, come Luigi Di Maio che sta ormai da 7 mesi al governo, imputare il fallimento ai propri predecessori. Certo, è perfettamente vero che la legge di Bilancio in vigore fino allo scorso 31 dicembre era stata pensata e firmata dal vecchio presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dai suoi uomini. E altrettanto vero che, recessione tecnica a parte, l’Italia va come è sempre andata da anni. Cioè ha un andamento del Prodotto interno lordo che costantemente si mantiene circa a un punto di distanza da quello del resto d’Europa: nel 2018, secondo le stime preliminari, segniamo un misero più 0,8 per cento contro il più 1,8 per cento della media Ue, conservando di fatto lo stesso gap del 2017 (+1,5 contro +2,4) e aumentandolo leggermente rispetto al 2016 (+0,9 Italia +1,7 Europa) e 2015 (+0,8 e +1,6).

Per chi governa, questa però non può essere né una consolazione né una giustificazione. Per un semplice motivo. Se da anni il differenziale con i Paesi dell’eurozona resta pressoché invariato e noi nella classifica della crescita ci ritroviamo regolarmente all’ultimo o al penultimo posto, la questione avrebbe dovuto essere una delle priorità di Giuseppe Conte, Di Maio e Matteo Salvini già dalla scorsa estate. A fine agosto, quando in occasione della Festa del Fatto Quotidiano, intervistammo il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ci era sembrato che il governo avesse ben presente il problema. E che avesse capito come, per creare immediatamente lavoro e sviluppo, ci fosse una sola strada: semplificare subito le normative sugli appalti, far celermente partire le piccole opere e i lavori di manutenzione delle nostre malandate infrastrutture. I dati, già allora da tempo pubblici, dimostravano che, al contrario di quanto previsto dai precedenti esecutivi, gli investimenti dello Stato nel settore costruzioni tra il 2016 e il 2018 erano calati di 3,7 miliardi, quando invece avrebbero dovuto aumentare di 6,8. E che tutto questo non era accaduto per mancanza di fondi. Ma principalmente a causa delle nostre leggi e della nostra burocrazia.

Bene, da allora è successo poco. Più volte è stato annunciato l’arrivo della riforma del codice di procedura civile, senza che però si sia visto niente. È stata assicurata la revisione del codice degli appalti, che però nel decreto Semplificazioni non è entrata. E non si è assistito a nessun dibattito sul ruolo del Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica. Un organismo davanti al quale passano ora tutte le modifiche progettuali delle opere più grandi, causando così stop ai lavori spesso superiori ai sei mesi perché dopo le delibere Cipe deve sempre intervenire la Corte dei Conti e si deve attendere la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Il governo gialloverde, di fatto, in questi mesi ha mosso solo due passi di rilievo. La legge Anticorruzione che, secondo l’idea dell’esecutivo, rendendo più semplice scoprire i ladri, permetterà di allentare altri tipi di controllo preventivi e la norma che consente ai Comuni di assegnare direttamente l’esecuzione di lavori fino ai 150 mila euro. Ma, in entrambi i casi, si tratta di leggi entrate in vigore solo adesso. Per questo gli attuali governanti invece che prendersela con scarsa eleganza con gli errori dei loro predecessori (mandati a casa dai cittadini proprio per questo), dovrebbero cortesemente spiegarci quando e come inizieranno a spendere i soldi che già ci sono.

Diciotti, solo Salvini deve risponderne

Nel dibattito suscitato dalla decisione del Tribunale dei ministri di richiedere al Parlamento l’autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini per il reato di sequestro di persona aggravato in relazione all’episodio della nave “Diciotti” rimasta attraccata nel porto di Catania per molti giorni senza che fosse consentito ai migranti di sbarcare, si sono inserite polemiche che hanno investito sia il governo sia i magistrati che si sono interessati della vicenda. Il ministro dell’Interno, che in un primo momento aveva dichiarato di essere pronto a farsi processare e “non aveva bisogno di aiutini”, ha improvvisamente cambiato idea (sembra su consiglio dell’ex magistrato Carlo Nordio) affermando “ritengo che l’autorizzazione debba essere negata”. A questo punto è intervenuto il presidente del Consiglio che si è assunto la responsabilità della politica migratoria e della vicenda “Diciotti”, affermando che il Senato dovrà “giudicare la linea politica del governo”. Si tratta di un’affermazione inesatta poiché non è affatto vero che, nel caso della “Diciotti”, debba essere “giudicata la linea politica del governo” in quanto il procedimento penale a carico del Salvini riguarda, invece, le modalità (improprie e illecite) con le quali è stata gestita dal ministro la vicenda “Diciotti”. Ciò, innanzitutto, con riguardo alla circostanza che i 177 migranti si trovavano su una nave italiana, addirittura della Guardia costiera impegnata in un’operazione di salvataggio, e che essi si sono trovati, per giorni e giorni, ammassati, sotto il sole, sulla tolda della nave, in condizioni disumane. Certamente il ministro non aveva il potere di impedire lo sbarco dei minori non accompagnati che ivi si trovavano dal momento che la legge Zanda stabilisce “il divieto di respingimento di minori non accompagnati”.

In sostanza, non è in discussione la “linea politica del governo” in tema di migrazione, ma il comportamento attuativo del ministro che ha posto in essere un abuso continuato in atti di ufficio, invadendo sfere di competenza di altri ministri ed esautorando di fatto sia il governo sia lo stesso presidente del Consiglio e gestendo direttamente in prima persona la vicenda “Diciotti” in violazione di precise disposizioni di leggi costituzionali, ordinarie e internazionali.

Nel caso di specie, quindi – al di là del delitto di sequestro di persona, sulla cui precisa configurazione, nella specie, vi è certamente materia per discuterne in sede dibattimentale – non vi è dubbio che il comportamento del ministro Salvini possa integrare il reato continuato di cui all’articolo 323 del codice penale. In questo contesto è impropria l’assunzione di responsabilità del “premier” e il riferimento a una posizione collegiale assunta dal governo, dal momento che un provvedimento che avesse riguardato specificamente la nave “Diciotti” doveva essere assunto con formale delibera del Consiglio dei ministri, a meno che non si voglia impropriamente ritenere che la volontà di Conte, Di Maio e Toninelli, oltre che di Salvini, rappresenti la volontà dell’intero governo. Sicché, quanto mai irrituale, oltre a costituire una palese ingerenza nell’attività del Senato, è la memoria difensiva che il governo, a firma di Conte, Di Maio e Toninelli, si appresterebbe a inviare alla Giunta delle autorizzazioni rivendicando, appunto, una, informale e tardiva, collegialità del governo in ordine alla vicenda.

Per quanto concerne i magistrati, si è già in precedenza evidenziato come il Procuratore di Catania avesse, nel trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri, richiesto immediatamente l’archiviazione degli atti a carico di Salvini, senza attendere (né richiedere) le indagini del Tribunale e formulando un’archiviazione sotto il profilo della “scelta politica” del ministro (valutazione consentita solo al Parlamento). Quanto al Procuratore di Agrigento – se gli va riconosciuto il merito di essere salito, per gli accertamenti del caso, sulla nave “Diciotti” (circostanza sicuramente determinante per il successivo sbarco dei minori) – deve, però, rilevarsi che egli, dopo gli accertamenti in loco, avrebbe potuto avvalersi – ai fini di disporre l’immediato sbarco di tutti i 177 migranti – dell’articolo 55 del codice di procedura penale, in virtù del quale la polizia giudiziaria, e, naturalmente, il Procuratore della Repubblica che ne è il capo, “impedisce che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori” e si poteva avvalere, a tal fine, di un provvedimento emesso, ai sensi dell’art. 650 c.p., “per ragioni di giustizia” che, peraltro, non si esauriscono in quelle attinenti allo svolgimento dell’attività giurisdizionale, ma riguardano anche l’attività di accertamento dell’osservanza del diritto obiettivo (norme costituzionali, ordinarie e internazionali). E in tali sensi poteva muoversi anche il Procuratore dei minori di Catania in relazione ai minori non accompagnati che si trovano sulla nave Sea Watch.

Raggi scrive a Tria: sgomberate il (vostro) palazzo da CasaPound

La sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha scritto una lettera al ministero dell’Economia per chiedere di avviare le procedure per lo sgombero della sede di CasaPound a Roma. La lettera arriva dopo l’approvazione di una mozione, approvata in consiglio comunale martedì scorso con i voti di Pd e M5S, che impegna la sindaca “ad attivarsi per lo sgombero immediato” dell’immobile. Lo stabile in via Napoleone III, a due passi dalla stazione Termini, è di proprietà del Demanio. Da qui la lettera di Raggi al Mef, ministero competente. “Ci sono centinaia di centri sociali occupati da decenni – suggerisce Giorgia Meloni di Fd’I – Partiamo da quelli occupati prima”.

Crac Etruria, ex vertici condannati a 5 anni per bancarotta

Condannati in primo grado gli ex vertici di Banca Etruria dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Arezzo Giampiero Borraccia nel processo per bancarotta. Cinque anni di reclusione per l’ex presidente Giuseppe Fornasari e l’ex direttore generale Luca Bronchi, imputati di bancarotta fraudolenta per il dissesto dell’istituto di credito aretino. Il giudice ha poi condannato a due anni l’ex vicepresidente Alfredo Berni e a un anno l’ex membro del consiglio d’amministrazione Rossano Soldini, l’uno per bancarotta fraudolenta e l’altro per bancarotta semplice. Nel corso della requisitoria sono state indicate le attività che avevano portato al crac dell’istituto: l’acquisto dello yacht di Civitavecchia (registrando una perdita di 25 milioni di euro) mai uscito dal cantiere; i finanziamenti al relais di lusso villa San Carlo Borromeo; i prestiti a società e imprese. Dei 30 indagati, i quattro condannati erano gli unici ad aver chiesto il rito abbreviato. Gli altri 26 indagati, tra ex dirigenti e consiglieri di amministrazione, si sono visti rinviare a giudizio con rito ordinario.

Il Grande Oriente d’Italia esulta: “Finalmente in scena il vero Mozart massone”

Aprite i teatri, arrivano i massoni. Dieci giorni fa Catania ha fatto da apripista e adesso il Grande Oriente – la più grande obbedienza italiana – è pronto a promuovere in tutto il Paese cartelloni all’insegna della Luce. In barba a chi scredita la “fratellanza”.

“il 20 gennaio – proclama entusiasta il Goi sul proprio sito – sotto gli occhi del pubblico inconsapevole e positivamente colpito, si è verificato un avvenimento storico”. Nella Sicilia che pochi mesi fa ha istituito una legge per obbligare gli eletti a dichiarare la propria eventuale appartenenza massonica, è andato infatti in scena Il Flauto Magico, opera “dichiaratamente massonica” in mezzo alla “moltitudine di opere massoniche” di Mozart, illuminato convinto e precoce la cui prima opera ispirata alle obbedienze “risale a quando aveva undici anni”.

E così, per una volta, Catania ha assistito al vero Flauto magico, come racconta la recensione del Grande Oriente: “Il regista Pier Luigi Pizzi ha presentato un’inedita trasposizione dell’opera, spogliandola di tutti i variopinti simboli fiabeschi e facendole indossare il suo originale abito”. Quello della massoneria, appunto, con ampia riflessione sul bene e il male, l’essere e l’apparire, la fratellanza e la numerologia.

“Uno spettacolo per gli occhi – gioisce il Grande Oriente – il pubblico a fine serata è uscito soddisfatto e le critiche sono state tutte lusinghiere, a dispetto di tanto clamore antimassonico, sbandierato nel passato recente”.

È così che si accende la fantasia del Goi, che sul palcoscenico adesso vede il margine per un’operazione-simpatia: “È stata un’operazione vincente che andrebbe ripetuta in altri teatri, per testimoniare che i liberi muratori non cospirano nelle cripte, ma lavorano realmente per il bene e il progresso dell’umanità”.

Ecorec, Ingroia accusa: “Indagini pretestuose contro Ciancimino jr mentre parlava della Trattativa”’

Hanno cercato di vendere la più grande discarica d’Europa impedendo agli inquirenti di rintracciare una parte del tesoro dell’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. A metterlo nero su bianco è stata la Nona sezione del Tribunale di Roma, che ieri ha pronunciato una sentenza di condanna nei confronti di cinque persone. Si tratta di Sergio Pileri, imprenditore reatino residente in Romania, condannato a scontare 5 anni di reclusione. Proprio come l’ingegnere amico della famiglia Ciancimino, Romano Tronci. Agli imprenditori Victor Dombrovschi e Raffaele Pietro Valente sono stati invece inflitti 4 anni e mezzo di reclusione. La condanna più lieve è stata emessa nei confronti di Nunzio Rizzi: 3 anni e mezzo. Si tratta di pene comunque più miti rispetto a quelle sollecitate dalla Procura. Secondo l’accusa gli indagati cercavano di disfarsi della Ecorec, l’azienda che gestisce la più grande discarica d’Europa, per “impedire l’identificazione della provenienza illecita da quei delitti dei beni della proprietà della Sirco”, ovvero di una società controllata che custodiva anche i soldi “sporchi” di Ciancimino, condannato per i suoi rapporti con i corleonesi e scomparso nel 2002.

Durante il processo però è emerso il ruolo dell’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara, “attuale imputato di una serie infinita di reati”, aveva spiegato l’avvocato Antonio Ingroia, che insieme al collega Giovanni Liotti difende l’imprenditore romeno Victor Dombrovschi. “Il piano criminale non era di Victor Domrovschi, ma di Gaetano Seminara”, aveva detto l’avvocato. Poi l’ex pm aveva collegato questa indagine a una ben più nota, spiegando che le intercettazioni “appaiono pretestuosamente puntate su Massimo Ciancimino nel momento in cui stava diventando un teste chiave nel processo Trattativa”. Questi fatti però non hanno pienamente convinto la Corte. “Sono stupito – ha dichiarato Ingroia – attendiamo le motivazioni per impugnare questa sentenza”.

Jerry, 25enne nigeriano si getta sotto un treno: il suicidio dopo il rifiuto della richiesta di asilo

Laureato, attivo nel volontariato e tornato sui libri per costruire la sua vita in Italia. È questo il ritratto di Prince Jerry, 25enne di origine nigeriana arrivato in Italia il 16 giugno 2016 dopo aver attraversato il Mediterraneo, che lunedì si è suicidato gettandosi sotto un treno che passava nella stazione di Tortona, in provincia di Alessandria. Così sarà ricordato oggi alla cerimonia funebre nella chiesa dell’Annunziata a Genova. Il giovane era ospite della comunità di accoglienza Multedo del capoluogo ligure, collaborava con diverse associazioni di solidarietà e aveva ripreso a studiare perché non si sentiva sufficientemente valorizzato per la sua laurea in chimica presa in Nigeria. A metà dicembre aveva presentato domanda per il permesso di soggiorno umanitario. La richiesta gli era stata respinta ma Prince a metà gennaio aveva impugnato il respingimento e aspettava venisse fissata l’udienza di presentazione al tribunale di Genova. “Come ricorrente ante decreto Sicurezza era tra quanti avrebbero potuto ricevere il permesso di soggiorno per motivi umanitari”, racconta Maurizio Aletti della cooperativa genovese “Un’altra storia”. Sembra non esserci un nesso diretto tra la morte del giovane e la domanda di permesso respinta, le forze dell’ordine stanno indagando per verificare se sia veramente stato un suicidio. Intanto razzismo e la cattiveria social non si fermano neanche stavolta di fronte alla tragedia. Se ne rammarica don Giacomo Martino responsabile di Migrantes Genova, che aveva scritto nella chat dei parrocchiani un messaggio su quanto era successo al giovane che poi era finito in rete. “Erano parole di dolore e di sofferenza personale confidate a degli amici. Vi sono indagini giudiziarie che stanno stabilendo esattamente i fatti ed eventuali responsabilità. Non desidero in nessun modo che questo ragazzo e la sua triste storia vengano strumentalizzate” ha scritto il monsignore sulla sua pagina Facebook.

Calci e colpi di manico di scopa: arrestate due maestre

Calci, schiaffi, bastonate con un manico di scopa e bacchettate sulle mani. Per questo ieri la polizia di Prato ha arrestato due maestre cinesi, Zheng Moli (38 anni) e Hong Pingping (26), che insegnavano in un doposcuola nella zona sud-est della città. A incastrarle sono state le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza dell’istituto.

La Procura di Prato, che ha condotto le indagini, ha accertato ben 35 casi di maltrattamenti nei confronti di dieci bambini tra i 3 e i 6 anni. Le due maestre sono state arrestate con l’accusa di “maltrattamenti e percosse” mentre una terza ha ricevuto un avviso di garanzia per gli stessi reati ma non è stata sottoposta ad alcuna misura cautelare.

Nelle immagini registrate dalle telecamere dell’istituto si vedono con nitidezza le due maestre picchiare ripetutamente e senza motivo i piccoli alunni di nazionalità cinese: in un caso un bambino viene portato in un angolo della stanza e preso a schiaffi, in un altro una delle due maestre sferra un calcio violento contro un ragazzino fino ad arrivare ai maltrattamenti con la scopa o con una lunga bacchetta di legno che serviva per colpirli su tutte le parti del corpo. Non solo: le due maestre spesso sollevavano i bambini che non rispettavano gli ordini prendendoli per i capi di abbigliamento come il cappuccio della felpa o i pantaloni. La stanza dove venivano commesse le percosse è un centro culturale che si trova nella zona di China Town di Prato ed era frequentato solo da bambini cinesi. Secondo le indagini il centro, che si trova in un ex lanificio cittadino che fa capo all’istituto Marco Polo, è attivo tutti i giorni della settimana dalle 9 alle 20 e sono in corso ulteriori accertamenti per capire se disponesse di tutte le autorizzazioni necessarie per una struttura educativa. L’indagine, coordinata dal Procuratore aggiunto Giuseppe Nicolosi e condotta dal sostituto procuratore Laura Canovai, è partita dopo una segnalazione ad una connazionale di una quarta maestra del centro che era stata testimone dei ripetuti pestaggi. Sarebbe stata la confidente a riferire tutto alla polizia che a quel punto avrebbe fatto partire le indagini. Secondo la ricostruzione degli investigatori, invece, i genitori delle vittime non erano minimamente al corrente di quello che succedeva nella struttura e sono state avvisate dai magistrati. Quello di ieri è solo l’ultimo caso di maltrattamenti su bambini all’asilo: due giorni fa in un istituto privato di Torino due maestre sono state arrestate perché maltrattavano i ragazzini per farli ammalare e lo stesso è avvenuto a inizio anno in provincia di Bari con il fermo di quattro educatrici. Dieci giorni fa invece è emerso il caso di una scuola d’infanzia di Venafro (Isernia) dove alcune maestre obbligavano bambini tra i due e i tre anni a picchiare i propri compagni: “Appiccicalo con la testa vicino al muro… tiragli i capelli più forte… così capisce” urlavano riprese dalle telecamere dell’istituto.

Lotta al panino: dopo Burger King è il turno del nuovo McDonald’s

Dopo le proteste delle scorse settimane contro il Burger King (che affitta locali di una palazzina universitaria di nuova costruzione di fronte a Palazzo Nuovo, sede della facoltà umanistiche di Torino) è la volta del McDonald’s che apre poco lontano. Un centinaio di studenti del movimento “Noi Restiamo Torino” ha ieri cercato di raggiungere i locali della residenza universitaria di via Sant’Ottavio dove è prevista l’apertura del ristorante. Bloccati dalle forze dell’ordine, hanno di nuovo fatto rotta verso il Burger King ma sono stati respinti dalla polizia. Le tensioni con i manifestanti, che ritengono “inaccettabile” che gli studenti non abbiano spazi per studiare ma l’università affitti i suoi spazi alle multinazionali, sono proseguite davanti all’ingresso del rettorato, in via Po. Gli studenti, insieme ad alcuni esponenti del centro sociale Askatasuna, prima hanno acceso un fumogeno, poi hanno cercato di entrare tirando mandarini, mele, uova e cartelli. Le forze di polizia schierate li hanno respinti con una carica di alleggerimento. I giovani si erano prima diretti in via Verdi chiedendo di parlare con il rettore Gianmaria Ajani.