Da mesi i fondi che investono e speculano sul debito pubblico italiano hanno imparato a convivere con il governo gialloverde e la sua imprevedibilità. Ma poi ci sono i numeri. “La vera crisi dello spread sarà innescata dai dati negativi sulla crescita, non da un po’ di deficit in più”, prevedeva a settembre il capo di un macro hedge fund. La recessione è arrivata, con la stima dell’Istat diffusa ieri del secondo trimestre consecutivo con una contrazione del Pil: -0,2 e -0,1. È già cominciato il rimpallo di responsabilità: il governo Conte accusa quelli precedenti i cui esponenti rispondono che finché c’erano loro la crescita era positiva. Ma il dibattito sulle cause è sterile polemica da talk show se non porta a ragionare su cosa fare ora.
I dati disponibili indicano che c’è una componente esterna nella frenata, tra guerra commerciale Usa-Cina, rallentamento generale dell’economia mondiale e dell’eurozona. Ma c’è anche una componente domestica: “Come già nei tre mesi precedenti, la caduta del Pil è riconducibile principalmente all’industria e alla domanda interna (pensiamo più per investimenti che per consumi)”, riassume Paolo Mameli, economista di Intesa Sanpaolo, banca non certo ostile al governo. Lega e Cinque Stelle devono accettare un dato di realtà: in questi mesi le loro scelte di politica economica hanno generato un notevole scetticismo e soprattutto incertezza. Gli indicatori di fiducia di imprese e famiglie sono in caduta da mesi. Ed è inutile aspettarsi che arrivino miracoli dalle misure in legge di Bilancio: la stima di +1 per cento del Pil nel 2019 già comprendeva gli effetti di Reddito di cittadinanza e Quota 100, oltre che del (piccolo) aumento di spesa per investimenti. Oggi le stime sull’anno sono tra +0,5 e -0,2%.
Ci vuole molto sangue freddo per gestire la situazione. Se il governo, complice la campagna elettorale per le Europee, cercherà di nascondere il problema e reagirà ai dati negativi inevitabili sul mercato del lavoro con nuove promesse mirabolanti o con attacchi alla Commissione Ue, salirà la pressione dei mercati per ottenere una manovra correttiva, che tenga sotto controllo deficit e debito nel 2019 e in vista del 2020, sui cui conti incombono già 23 miliardi da trovare per evitare l’aumento Iva. Sarebbe una scelta suicida: già la legge di Bilancio prevede tagli automatici se si sfora sul deficit, aggiungerne altri significherebbe trasformare una modesta recessione in un disastro. Ma anche una crisi sul mercato obbligazionario sarebbe una catastrofe analoga: lo spread è intorno a 240 punti ma sappiamo con che rapidità si impenna. E un’esplosione della maggioranza di governo innescata dalla combinazione tra recessione e mercati potrebbe sembrare oggi allettante a qualche oppositore dei gialloverdi, ma sarebbe un catalizzatore per ulteriori peggioramenti, visto che gli investitori inizierebbero a scommettere al ribasso contro un governo tecnico (tutti ricordano che Carlo Cottarelli, a maggio, avrebbe preso zero voti in Parlamento).
Di opzioni non ne restano molte al premier Conte e ai suoi due vice Di Maio e Salvini. Un po’ di continenza verbale di sicuro aiuta (che senso ha prevedere un “nuovo boom” se sta arrivando la recessione?), ma non basta. Palazzo Chigi e il ministero del Tesoro, ma anche quello dello Sviluppo, devono fare di tutto perché le varie misure pro-crescita non finiscano impantanate e dare il segnale che, dopo una prima legge di Bilancio inevitabilmente elettorale, hanno un’agenda per far ripartire la crescita, oltre che per redistribuirne i frutti. Questo non significa Grandi opere che richiedono decenni prima di produrre effetti (il Tav Torino-Lione è invocato dagli imprenditori torinesi orfani del traino del settore auto, ma gli altri non sanno bene che farsene), ma qualcosa di più serve. Magari con la tanto attesa riforma del codice degli appalti e qualche liberalizzazione (sono gratis). Altrimenti dell’Italia gialloverde i mercati – e gli imprenditori – vedranno soltanto il debito e il deficit sopra le attese e le continue baruffe tra i due partiti di maggioranza.