Primo obiettivo crescita ma basta sfide a Bruxelles

Da mesi i fondi che investono e speculano sul debito pubblico italiano hanno imparato a convivere con il governo gialloverde e la sua imprevedibilità. Ma poi ci sono i numeri. “La vera crisi dello spread sarà innescata dai dati negativi sulla crescita, non da un po’ di deficit in più”, prevedeva a settembre il capo di un macro hedge fund. La recessione è arrivata, con la stima dell’Istat diffusa ieri del secondo trimestre consecutivo con una contrazione del Pil: -0,2 e -0,1. È già cominciato il rimpallo di responsabilità: il governo Conte accusa quelli precedenti i cui esponenti rispondono che finché c’erano loro la crescita era positiva. Ma il dibattito sulle cause è sterile polemica da talk show se non porta a ragionare su cosa fare ora.

I dati disponibili indicano che c’è una componente esterna nella frenata, tra guerra commerciale Usa-Cina, rallentamento generale dell’economia mondiale e dell’eurozona. Ma c’è anche una componente domestica: “Come già nei tre mesi precedenti, la caduta del Pil è riconducibile principalmente all’industria e alla domanda interna (pensiamo più per investimenti che per consumi)”, riassume Paolo Mameli, economista di Intesa Sanpaolo, banca non certo ostile al governo. Lega e Cinque Stelle devono accettare un dato di realtà: in questi mesi le loro scelte di politica economica hanno generato un notevole scetticismo e soprattutto incertezza. Gli indicatori di fiducia di imprese e famiglie sono in caduta da mesi. Ed è inutile aspettarsi che arrivino miracoli dalle misure in legge di Bilancio: la stima di +1 per cento del Pil nel 2019 già comprendeva gli effetti di Reddito di cittadinanza e Quota 100, oltre che del (piccolo) aumento di spesa per investimenti. Oggi le stime sull’anno sono tra +0,5 e -0,2%.

Ci vuole molto sangue freddo per gestire la situazione. Se il governo, complice la campagna elettorale per le Europee, cercherà di nascondere il problema e reagirà ai dati negativi inevitabili sul mercato del lavoro con nuove promesse mirabolanti o con attacchi alla Commissione Ue, salirà la pressione dei mercati per ottenere una manovra correttiva, che tenga sotto controllo deficit e debito nel 2019 e in vista del 2020, sui cui conti incombono già 23 miliardi da trovare per evitare l’aumento Iva. Sarebbe una scelta suicida: già la legge di Bilancio prevede tagli automatici se si sfora sul deficit, aggiungerne altri significherebbe trasformare una modesta recessione in un disastro. Ma anche una crisi sul mercato obbligazionario sarebbe una catastrofe analoga: lo spread è intorno a 240 punti ma sappiamo con che rapidità si impenna. E un’esplosione della maggioranza di governo innescata dalla combinazione tra recessione e mercati potrebbe sembrare oggi allettante a qualche oppositore dei gialloverdi, ma sarebbe un catalizzatore per ulteriori peggioramenti, visto che gli investitori inizierebbero a scommettere al ribasso contro un governo tecnico (tutti ricordano che Carlo Cottarelli, a maggio, avrebbe preso zero voti in Parlamento).

Di opzioni non ne restano molte al premier Conte e ai suoi due vice Di Maio e Salvini. Un po’ di continenza verbale di sicuro aiuta (che senso ha prevedere un “nuovo boom” se sta arrivando la recessione?), ma non basta. Palazzo Chigi e il ministero del Tesoro, ma anche quello dello Sviluppo, devono fare di tutto perché le varie misure pro-crescita non finiscano impantanate e dare il segnale che, dopo una prima legge di Bilancio inevitabilmente elettorale, hanno un’agenda per far ripartire la crescita, oltre che per redistribuirne i frutti. Questo non significa Grandi opere che richiedono decenni prima di produrre effetti (il Tav Torino-Lione è invocato dagli imprenditori torinesi orfani del traino del settore auto, ma gli altri non sanno bene che farsene), ma qualcosa di più serve. Magari con la tanto attesa riforma del codice degli appalti e qualche liberalizzazione (sono gratis). Altrimenti dell’Italia gialloverde i mercati – e gli imprenditori – vedranno soltanto il debito e il deficit sopra le attese e le continue baruffe tra i due partiti di maggioranza.

L’Italia torna in recessione. Pil affossato dal calo di consumi e investimenti

La notizia era ampiamente attesa – e già anticipata dal premier Giuseppe Conte – ma non per questo meno pesante per le prospettive del governo e dell’economia. L’Italia è tecnicamente in recessione, la terza negli ultimi dieci anni, dopo quella del 2009, in seguito alla crisi finanziaria partita dagli Usa – e del 2012, auto-indotta per la stretta fiscale varata dal governo Monti. Il Pil italiano non ha mai recuperato il picco pre-crisi.

Ieri l’Istat ha svelato i dati. La stima preliminare (che andrà confermata) rivela che il Prodotto interno lordo si è contratto ancora: -0,2% nel quarto trimestre del 2018, dopo il -0,1% del terzo (dopo 14 consecutivi di crescita). Il dato ha un effetto negativo di “trascinamento” sull’anno in corso, che parte da -0,2% (la previsione del governo è +1%). Secondo il ministro dell’Economia, Giovanni Tria “più che in recessione l’Italia è in stagnazione”. Luigi Di Maio ha addossato la colpa ai precedenti governi (“I dati certificano il fallimento degli esecutivi Pd”), mentre Matteo Salvini ha spiegato che “non interessa di chi sia la colpa, ma che l’economia riparta”. Entrambi si sono riuniti a Palazzo Chigi in un vertice per decidere il da farsi.

Secondo Tria e Conte il dato si spiega con il rallentamento dell’economia mondiale ed europea. “Non dipende da noi ma dalla Cina e dalla Germania”, ha spiegato il premier. Nell’ultima crisi italiana giocano due componenti. La prima è di lungo periodo: il commercio mondiale sta rallentando, complici le tensioni tra Usa e Cina. Dopo anni di compressione della domanda interna (salari stagnanti, tagli di spesa e aumenti di imposte: in sostanza, l’austerità) la crescita italiana dipende all’export (è il secondo Paese esportatore dell’Ue).

Come ha notato Francesco Daveri su Lavoce.info dopo aver trainato la ripresa nel 2015-2017 (+4,2% medio), lo scorso anno le esportazioni hanno mostrato un brusco rallentamento: +1% dopo un inizio assai stentato. Il dato segue il generale rallentamento del Pil dei Paesi dell’eurozona, che rappresentano oltre metà dell’export italiano (40%). Dati negativi su consumi e produzione, specie nel settore auto, in Germania – il nostro primo partner commerciale – hanno spinto il governo tedesco a quasi dimezzare le stime di crescita del 2019 (all’1% dall’1,8% di ottobre). Anche la Francia ha un trend declinante nel ritmo di crescita dal 2017 e ha rivisto al ribasso le stime 2019, ma nell’ultimo trimestre il Pil ha segnato +0,3% (la Spagna, però, corre: +0,7%).

A questo si aggiunge però una componente tutta nazionale. Secondo l’Istat a fine 2018 l’export ha avuto un impatto comunque positivo, mentre la componente negativa arriva dalla domanda interna. Già nel terzo trimestre a pesare è stato il calo di consumi (-0,1%) e investimenti (-1,1%). Il consumo di beni durevoli si è arrestato dopo la forte crescita degli ultimi anni gonfiata dal settore auto (anche grazie agli incentivi fiscali come il super ammortamento per i mezzi di trasporto aziendali). Invece di un fisiologico calo, si è avuta una brusca frenata. Nel terzo trimestre 2018 il rallentamento è coinciso con lo scontro tra il governo e la Commissione europea sulla manovra. Nell’incertezza è probabile che aziende e famiglie abbiano frenato investimenti e acquisti in attesa di conoscerne l’esito.

Ora si apre la sfida più difficile. È quasi certo un nuovo calo nel primo trimestre 2019. Conte ha spiegato di aspettarsi una ripresa solo nel secondo semestre, quando entreranno in vigore Reddito di cittadinanza e Quota 100. Il governo deve sperare che accada. Secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio le due misure avranno un impatto marginale sulla crescita (0,2%) così come lo stop agli aumenti Iva previsti quest’anno (0,1%) mentre l’aumento degli investimenti è stato di fatto sacrificato nel negoziato con Bruxelles. Per farli ripartire il governo ha eliminato l’obbligo di gara per gli appalti sotto i 150 mila euro. Analoga cosa sarà fatta per i concessionari col decreto “cantieri veloci” annunciato ieri da Salvini per il 9 marzo.

Nelle stime del governo la crescita doveva essere trainata dalla domanda interna, che per ora è in stasi. Se le dispute commerciali dovessero aggravarsi o la crescita mondiale rallentare sarebbe per l’Italia il colpo definitivo. E per mantenere gli impegni con l’Ue nel 2020 a bilancio ci sono 20 miliardi di aumenti Iva.

Consob, per Minenna niente aspettativa se farà il presidente

La partita che sembra tutta interna al Movimento Cinque Stelle sulla nomina del prossimo presidente Consob sembra lontana dalla conclusione. L’unico nome in corsa in questi mesi è stato quello di Marcello Minenna, dirigente dell’autorità che vigila sulla Borsa a capo delle analisi quantitative. Tra le ultime indiscrezioni sulla sua mancata nomina, anche presunte perplessità del Quirinale sul fatto di nominare presidente un funzionario della stessa autorità. Minenna però ha fatto sapere che in caso di nomina si dimetterebbe da dirigente, rinunciando al diritto all’aspettativa e al posto a tempo indeterminato per non creare potenziali conflitti con il suo mandato al vertice. Ma Anna Genovese, commissaria con la maggiore anzianità che ora svolge il ruolo di reggente, non ha fatto mistero di considerarsi idonea alla presidenza, cercando su questo la sponda del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E ieri sono uscite indiscrezioni su Luigi Zingales, economista di Chicago, come possibile candidato alternativo a Minenna dal lato M5S. Ma Luigi Di Maio ha precisato: “Non ne abbiamo mai parlato in maggioranza”.

I candidati: una selva di sigle

 

Marco Marsilio candidato del centrodestra in quota Fratelli d’Italia, ha sempre vissuto a Roma e ha trascorsi nel Movimento sociale italiano, Alleanza nazionale e Popolo delle Libertà prima dell’approdo da Giorgia Meloni.
La sua candidatura è sostenuta da sei liste. Lega, Fratelli d’Italia, Forza italia, Azione politica, Popolo della famiglia-Popolari per l’Italia e Udc-Dc-Idea, anche questi ultimi recentemente hanno ventilato l’ipotesi di sfilarsi.

 

Giovanni Legnini l’ex vicepresidente del Csm, abruzzese doc, è sostenuto da partiti e da liste civiche in una coalizione che tiene dentro anche Liberi e Uguali e +Abruzzo. Oltre al Pd, le altre sigle che lo sostengono sono Legnini presidente, Centristi per l’Europa, Abruzzo insieme, Abruzzo in comune, Avanti Abruzzo.

 

Sara Marcozzi la candidata del Movimento 5 Stelle è al secondo giro nella corsa per la Regione dopo il terzo posto nel 2014. Avvocato con alle spalle un praticantato nello studio legale proprio del rivale Legnini, è stata scelta alle “Regionarie” sulla piattaforma Rousseau con il voto di circa un migliaio di iscritti. Dei suoi diretti concorrenti ha detto che hanno “zeru tituli” per governare l’Abruzzo.

La disfida di “Sara” tra un fascio romano e il grigio Legnini

La questione prima che politica è meteorologica. Nevicherà il 10 febbraio? “Con i fiocchi bianchi vedo bene la grillina, con il sole splendente il centrodestra è avvantaggiato, a meno che lui…”. Fabrizio Di Stefano, farmacista, già deputato, già senatore di Alleanza nazionale, zeppo di voti e di clienti, ma attualmente disoccupato, riceve nel Bistrot Camuzzi, a Pescara. “Il centrodestra con me avrebbe stravinto, trecento per cento sicuro. Ma amano il rischio e adesso ballano. Avrei anche tirato la carretta. Marco Marsilio, l’attuale candidato, mi chiese di dargli una mano: il programma, qualche nome da coinvolgere, il territorio da fargli conoscere. Gli risposi: ‘Va bene, ma poi quando bisognerà decidere chiederai a me?’ E lui, stupito: ‘No, faccio io’. E allora sai che c’è? Bello mio, buona fortuna”.

L’Abruzzo è andato a Giorgia Meloni. Dopo il sindaco di L’Aquila Giorgia ha indicato – su proposta di Fabio Rampelli (l’amministratore delegato di Fratelli d’Italia) il tesoriere e senatore Marco Marsilio alla carica di governatore d’Abruzzo. “Roma è la mia città, Roma è nel mio cuore e io voglio il meglio per il luogo in cui vivo”. Il video del 2016 è la pietra d’inciampo del Marsilio neoabruzzese che ogni giorno è costretto a ricordare genitori, nonni e avi viventi e defunti di Tocco da Casauria, il paese d’origine.

“Be’, tutto potrà dire ma ‘Prima l’Abruzzo’ proprio no”. Sara Marcozzi, la grillina, è la guerriera antisistema. Avvocata, dall’eloquio spigliato e anche forbito, figlia di buona famiglia. Il papà ingegnere, tecnico di Chieti affluente nel grande corso della Democrazia cristiana, il partito che ha dominato l’Abruzzo. Vuitton al braccio, dove imbucava l’amato chihuahua, di una beltà espansiva, consigliere regionale uscente, la Marcozzi si ricandida a governatore. Perse la volta scorsa ma con mille voti dei meetup (e qualche aiutino dai vertici) si è conquistata la seconda prova: “Siamo a un palmo dal centrodestra. Un punto percentuale ci divide e in questi giorni, vedrete…”. Sara, compagna di Giorgio Sorial, prima deputato oggi fedelissimo di Luigi Di Maio, nel cui ministero ha assunto il ruolo di vice capo di gabinetto, ha fatto lunga pratica forense – quattro anni, guarda un po’ tu – presso lo studio dell’avvocato Giovanni Legnini, il candidato del centrosinistra.

Legnini è il Remo Gaspari degli anni Duemila: viene però dal Pci, è macinatore di chilometri e di voti, grigio come i vestiti che indossa, calcolatore perfetto delle traiettorie politiche, dei punti d’attracco e di sbarco del governo. Tra L’Aquila e Pescara ballano ancora molti miliardi di euro, il bottino pesante è quello della ricostruzione del terremoto aquilano: ventuno miliardi sul bilancio dello Stato, metà dei quali ancora da spendere e appaltare. Piatto ricco mi ci ficco! E Legnini è dentro i gangli vitali del potere che accudisce e ossequia. Da sindaco a parlamentare, poi sottosegretario a Palazzo Chigi nel governo di Enrico Letta, infine vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

“Poco social, molto rurale, domestico, abruzzese, attrattore naturale di voti. Conosce tutti e soprattutto conosce i problemi di questa regione. Il meglio in campo secondo me”. Le simpatie di Daniele Toto, già deputato di Forza Italia, della famiglia del costruttore più influente, concessionaria dell’autostrada dei Parchi, vanno a lui. E sembrerebbero coincidere con quelle di Gianni Letta, gran ciambellano di Arcore. A un tizio che chiese udienza per promuovere la sua candidatura alle regionali, Letta avrebbe risposto quando le liste erano ancora da scrivere: “Assolutamente sì, a meno che Legnini non scenda in campo”. In campo è sceso, i potenti sono dalla sua parte. Gli manca il partito, ma non il popolo. Il Pd certo è divenuto di carta velina, quasi invisibile. Luciano D’Alfonso, il governatore uscente, è accuratamente oscurato: non porta voti, forse li fa perdere. La mossa di Legnini, che è la sua speranza, sono le otto liste con cui va all’assalto alla regione: “I sondaggi ci penalizzano perché i nostri candidati sono sul territorio. Poco conosciuti dalle società di consulenza, molto amati dai loro compaesani”.

Chi vincerà dunque? Silvio Berlusconi, tra un torrone e l’altro, è caduto in un qui pro quo: “Credo che il nostro candidato non ce la farà. Ma è molto competente”. La gaffe, contenuta in una intervista a una tv di Sulmona, è stata poi riparata. Però, il dubbio che pezzi del centrodestra vengano risucchiati dall’altra parte, resta. E che dire di Matteo Salvini? Viene in Abruzzo, sale sul palco a Sulmona, ha il candidato governatore alle spalle, la piazza è gremita. Purtroppo dimentica il suo nome, non sa. Amnesia. “L’Italia agli italiani e l’Abruzzo agli abruzzesi”, dichiarò il suo segretario regionale Giuseppe Bellachioma. La Lega, nel tavolo di destra, è quella che dà le carte e decide la vittoria. Dell’Abruzzo non sembra convinta. Marsilio, maratoneta di buon livello, si dà da fare come può. Resta in vetta ai sondaggi ma Roma, cioè la sua romanità, lo insegue e pure l’amata moglie diviene ora questione politica. Stefania Fois, pittrice e comunicatrice, dirige le relazioni esterne di Atac. È salita sul carrozzone romano ai tempi di Alemanno, con il suo nome che spiccava nella cosiddetta parentopoli, per via del ruolo e dell’ingaggio ottenuto dall’azienda di trasporti.

Marsilio la ama. Memorabile il suo ricordo della prima notte di nozze: “Amici, è stata una notte mooolto impegnativa! Ma avete visto che schianto di donna?”.

Spadafora a Pillon: “Noi contrari: quel ddl non sarà mai legge”

Giornataccia per il senatore leghista Simone Pillon, ormai famoso per sua proposta di legge su “norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”. Il ddl non piace ai movimenti femminili e nemmeno agli alleati di governo a 5 Stelle (nonostante il tema sia, ancorché vagamente, citato nel contratto). Parola del sottosegretario Vincenzo Spadafora: “Non solo io ho preso posizione contro il ddl Pillon, ma l’ha presa tutto il Movimento, quindi diciamo che la certezza è che la proposta così come è stata formulata non sarà mai approvata”. Il senatore leghista non s’è dato per vinto e nel pomeriggio s’è presentato in Campidoglio, a Roma, per magnificare il suo progetto di legge: ad accoglierlo ha trovato una manifestazione del movimento “Non una di meno” convocata apposta per contestarlo, mentre poco lontano il Consiglio comunale della capitale ha approvato una mozione del Pd proprio contro la proposta Pillon. Il nostro non s’è dato per vinto e, mentre fuori si urlava contro di lui, s’è dedicato al tema immigrazione a modo suo: “Non è la sostituzione etnica la soluzione al calo demografico, ma la perpetuazione delle nostre origini: si chiama famiglia”.

“Cronisti, Di Maio salvato da un amico nell’Odg”

C’è un filo che collega il vicepremier Luigi Di Maio al vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti della Campania Mimmo Falco – quell’Ordine che il M5S vorrebbe eliminare – e alla vicenda (raccontata a maggio dal Fatto e poi finita in un’inchiesta della pm di Napoli Maria Sofia Cozza) del tentativo di Falco di scalare il Sindacato dei giornalisti campano (Sugc) acquistando 150 tessere con 7.500 euro in contanti e un plico di moduli molti dei quali precompilati, secondo la perizia di un grafologo, da un’unica mano.

Quel filo passa anche attraverso lo studio dell’avvocato Maurizio Lojacono, uno stimato penalista di Napoli che assiste il ministro Di Maio da circa cinque anni e che lo ha difeso – vincendo – davanti al consiglio di disciplina dell’Odg campano, dopo il deferimento per le sue frasi sui giornalisti “infimi sciacalli”.

Anche Lojacono, come Di Maio, è giornalista pubblicista. È iscritto all’ordine dal 16 febbraio 2004, ed è avvocato anche di Falco sin dal 2010, sin da quando era vicepresidente dell’Odg nazionale, in alcune sue iniziative di denuncia. A tirarlo in ballo con una lunga nota al Fatto è stato Claudio Silvestri, segretario del Sugc. Silvestri ricorda che Lojacono è il legale di Falco nei ricorsi contro l’annullamento delle 150 tessere disposto dal Sugc, con la motivazione che le richieste devono essere presentate personalmente o almeno accompagnate da una delega.

Gli avvocati del sindacato infatti hanno riconsegnato proprio nelle mani di Lojacono (stavolta con un assegno) i 7.500 euro utilizzati per le tessere respinte. Uno degli step di una storia che vede Silvestri e Falco ai ferri corti: i due si sono denunciati a vicenda e nel frattempo la Procura di Napoli ha avviato alcuni accertamenti, acquisendo tramite la Finanza le copie dei ricorsi e della documentazione, e sentendo alcuni testimoni.

Silvestri è l’autore di uno degli esposti culminati nel deferimento di Di Maio e critica aspramente la decisione di tre giorni fa di archiviarne la posizione con la motivazione che la sua condotta non è riconducibile al giornalista, ma al ruolo di parlamentare. “È lecito pensare che il consiglio di disciplina non abbia lavorato serenamente – sostiene il segretario Sugc – perché la vicenda Di Maio coinvolge il vicepresidente Odg Campania Falco e i suoi legami solidi con il ministro”.

Silvestri sottolinea fatti e notizie ricavabili da fonti aperte. Come alcune dichiarazioni di novembre di Falco a Il Mattino con cui ricorda che un giovanissimo Di Maio lo sostenne alle elezioni 2010 dell’Ordine. E spiegando così perché il figlio, Luigi Falco, ora lavora come addetto stampa del ministero del Lavoro retto proprio da Di Maio: “Solo un caso: appena eletto (Di Maio, ndr), un amico mi chiese se c’era qualcuno che potesse seguirlo e io gli proposi mio figlio”.

Secondo Silvestri l’archiviazione di Di Maio è figlia di due errori, uno sostanziale e uno politico. Quello sostanziale: “Per il consiglio di disciplina i pubblicisti possono comportarsi come il dottor Jekyll e il signor Hyde, dimenticare le regole deontologiche quando sono Hyde e ricordarle quando sono Jekyll”. Quello politico: “Di Maio è un membro del governo che aggredisce con una violenza inaudita il principio costituzionale della libertà di informazione, bisognava tenere la schiena dritta”.

Contattato per una risposta o un commento, l’avvocato Lojacono con cortesia e professionalità ci ha fornito alcuni elementi utili a una più corretta e precisa ricostruzione dei fatti, ma ha preferito non replicare ufficialmente.

La contesa tra Luigi & Matteo per farsi ricevere a Washington

Luigi&Matteo a Washington, in visita ufficiale negli Stati Uniti, presto o più tardi, chissà, non assieme di certo, magari in campagna elettorale per le Europee. Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono in competizione pure in politica estera e da tempo fremono per un viaggio negli Usa per ragioni di geopolitica e anche di propaganda con l’aspirazione di incontrare Mike Pompeo, il Segretario di Stato, i consiglieri o i ministri di Trump o addirittura il presidente. L’uno rincorre l’altro, se va l’uno non può mancare l’altro. Gli americani, però, sono un po’ algidi. Per fastidiose e indecifrabili circostanze, Washington non riesce a reperire uno spazio, un pertugio, per ospitare i vicepremier italiani.

Il prof. Giovanni Tria, il ministro del Tesoro, da mercoledì è in missione negli Stati Uniti per rassicurare gli alleati sui conti e perciò copre il versante finanziario a New York. Enzo Moavero Milanesi, il ministro degli Esteri, con una formula un po’ irrituale (scarsa copertura mediatica), tra Capodanno e l’Epifania si è confrontato con i vertici del governo Trump e si conferma, anche per accreditare se stesso, un interlocutore affidabile di Washington. Il premier Giuseppe Conte, già ricevuto alla Casa Bianca, sfoggia una personale sintonia con l’imprenditore Trump, che per eloquio e maniere gli somiglia poco. E lo sbarco dei vicepremier a Washington è ancora senza data. Eppure Di Maio e Salvini hanno elogiato spesso le politiche di Trump.

Il leghista conserva ancora la preziosa fotografia strappata a The Donald a margine di un comizio, allora candidato mal sopportato dei Repubblicani contro la corazzata Hillary Clinton. Adesso Luigi&Matteo capiscono che gli interessi degli Stati Uniti vanno oltre la figura all’apparenza apolitica di Trump (con i suoi guai col Russiagate) e che diventa complicato ottenere la benedizione dell’amico americano mentre si intensificano i rapporti con la Russia e, soprattutto, la Cina.

Quando è atterrato a Mosca, lo scorso ottobre, Salvini ha faticato a trattenere l’entusiasmo: “Qui mi trovo a casa, in certa Europa no. Le sanzioni ai russi vanno fermate, sono assurde”. Il ministro dell’Interno ha ormai consuetudine con Vladimir Putin, lo stima, lo celebra, lo abbraccia. Salvini è di casa a Mosca, tant’è che si concede anche serate private, senza impegni istituzionali, come accaduto in ottobre. Al ritorno, però, il leghista si è precipitato a Villa Taverna, sede dell’ambasciata americana, per un colloquio con Lewis Michael Eisenberg. È dall’autunno che Salvini “a breve” deve andare negli Usa. Qualche giorno fa c’era l’ipotesi di un saluto con Trump alla conferenza dei Repubblicani di fine febbraio: ipotesi smentita dal Viminale e dall’apparato diplomatico, che non ha riferimenti neppure vaghi sui vicepremier negli Stati Uniti.

I collaboratori di Di Maio fanno sapere che il viaggio è slittato per lo shutdown, il blocco delle attività amministrative. Nell’ultimo periodo, e non soltanto perché Trump alza muri agli immigrati, Salvini segue la linea di Washington, a differenza dei 5 Stelle. Il Venezuela ha esplicitato la molteplicità di strategie in politica estera dei gialloverdi: il leghista appoggia il “presidente americano” Guaidó, il Movimento non accetta interferenze per scalzare il regime di Maduro. Di Maio è meno caloroso con la Russia, ma è molto a suo agio col modello cinese.

Il ministro dello Sviluppo, ispirato dal sottosegretario Michele Geraci, è un convinto sostenitore della nuova “via della seta”, un sistema di infrastrutture e investimenti che Pechino spinge per allargare la sua piattaforma commerciale. Per Washington è un progetto egemonico che mette in pericolo gli affari americani e la sicurezza Nato. In primavera Di Maio è atteso a Pechino per firmare un memorandum, gli Usa sono inviperiti e pretendono che l’Italia stringa una sinergia simile con l’India, l’argine a Pechino scelto dagli americani. Luigi& Matteo a Washington, sì. Con calma, però.

Bruxelles, non passa la norma per bloccare gruppi “non affini”

Il Parlamento europeo ha rigettato un emendamento che avrebbe modificato il regolamento in modo da rendere più rigida la formazione dei gruppi parlamentari. Le nuove norme avrebbero comportato nuovi obblighi, tra cui “una dichiarazione politica in cui viene definito l’obiettivo del gruppo” e una dichiarazione scritta in cui “tutti i membri del gruppo dichiarano di condividere la stessa affinità politica”. Il tentativo di introdurre queste regole era stato duramente contestato dagli europarlamentari del Movimento 5 Stelle, che ieri hanno esultato per la mancata approvazione. “Il Parlamento europeo ha rigettato gli emendamenti di Ppe, socialisti e Alde – si legge in una nota della delegazione grillina a Bruxelles – che davano la possibilità alla maggioranza di sciogliere i gruppi di opposizione scomodi. È una grande vittoria dei cittadini contro dei partiti ormai in via di estinzione. Il cambiamento non si può fermare con mezzucci da Prima Repubblica”. Per l’adozione degli emendamenti era necessaria la maggioranza qualificata (376 voti). Non sono bastati quindi i 354 voti a favore (a fronte di 267 contrari e 27 astenuti).

Archiviazioni e voti di “Casta”: i ministri non si processano mai

Mai come oggi, il Tribunale dei ministri, da quando è stato istituito nel 1989, è oggetto di attenzione mediatica spasmodica. Ecco come funziona: è competente per i reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri solo se nell’esercizio delle loro funzioni. È costituito da sezioni specializzate presso i tribunali distrettuali di tutta Italia. Ne fanno parte i giudici dei tribunali ordinari estratti a sorte in ogni distretto con 5 anni almeno di anzianità di funzione. Il collegio è composto da 3 magistrati, altri tre sono supplenti.

In questo sintetico excursus si vedrà che è tutto (quasi) finito, con un’archiviazione dello stesso tribunale dei ministri, o con lo scudo eretto dal Parlamento. Di mezzo ci sono stati anche diversi conflitti di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale.

Beppe Pisanu, ministro dell’Interno, Forza Italia. Nel 2006 fu indagato per abuso d’ufficio dopo una denuncia di 29 parlamentari per un rimpatrio irregolare di immigrati. Il Tribunale dei ministri ha archiviato l’accusa di abuso d’ufficio, concordando con la Procura di Roma.

Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente, Verde. Nel 2008 viene indagato per corruzione. Il Tribunale dei ministri ha archiviato. Anche perché precedentemente la Corte costituzionale, investita dai magistrati, aveva negato la possibilità di usare intercettazioni del ministro captate mentre si registravano altri indagati.

Roberto Maroni, ministro dell’Interno, Lega. Nel 2009 viene indagato (e archiviato) per aver rispedito in Libia 227 migranti che una motovedetta italiana aveva salvato nelle acque di competenza di Malta. Per quella vicenda, però, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia europea per “respingimento illegittimo”.

Silvio Berlusconi: presidente del Consiglio, Fi. Il 16 giugno 2009 i pm di Roma hanno chiesto al Tribunale dei ministri, che ha dato loro ragione, l’archiviazione per l’uso dell’aereo di Stato con a bordo ospiti come Mariano Apicella e alcune “olgettine”. L’ex premier era accusato di abuso d’ufficio e peculato.

Il 19 luglio 2011, invece, il tribunale dei ministri di Roma ha archiviato l’accusa di minaccia a un corpo dello Stato e concussione ai danni di Mauro Masi (ex direttore generale della Rai) e Giancarlo Innocenzi (ex commissario Agcom) dopo le pressioni per far chiudere la trasmissione di Michele Santoro Annozero. Il tribunale dei ministri ha ipotizzato, invece, l’abuso d’ufficio per tutti e tre i protagonisti e quindi si è dichiarato incompetente.

Il 12 aprile del 2012, per il caso Ruby, la Corte costituzionale, investita dalla Camera di un conflitto di attribuzioni contro la Procura di Milano, ha dato ragione ai magistrati: l’indagine non spettava, come avrebbe voluto Montecitorio, al tribunale dei ministri ma alla procura.

Il 19 luglio 2013 il Tribunale dei ministri di Genova ha archiviato una denuncia del gruppo editoriale L’Espresso per diffamazione (nel 2009 l’ex premier aveva detto che era in corso un “progetto eversivo” contro di lui condotto da Repubblica).

Franco Frattini, ministro degli Esteri, Fi. Nel 2011 il tribunale dei ministri di Roma ha archiviato l’indagine per abuso d’ufficio in merito a documenti arrivati alla Farnesina da Santa Lucia, relativi alla famosa casa di Montecarlo che inguaiò Gianfranco Fini.

Pietro Lunardi, ministro delle Infrastrutture, Fi. A marzo 2011 la Camera ha votato contro il via libera al tribunale dei ministri di Perugia che lo aveva indagato sugli appalti per il G8. Un altro no lo aveva detto già nel 2010.

Roberto Calderoli, ministro delle Riforme, Lega. Il 29 febbraio 2012 il Senato ha negato al Tribunale dei ministri di Roma l’autorizzazione a procedere per truffa aggravata per aver usato un aereo di Stato che lo ha portato dalla capitale a Cuneo a trovare in ospedale il figlio della sua compagna.

Clemente Mastella, ministro della Giustizia, Udeur. Il 12 aprile 2012 la Corte costituzionale ha stabilito che la competenza a indagare non fosse del Tribunale dei ministri – come aveva chiesto il Senato, sollevando un conflitto di attribuzione contro la procura di santa Maria Capua a Vetere – ma dei magistrati ordinari. L’indagine era sulla presunta gestione illecita dei finanziamenti all’Udeur. Per quell’inchiesta, nel 2008, Mastella fece cadere il secondo governo Prodi.

Michela Vittoria Brambilla, ministro del Turismo, FI. Il 26 marzo 2014 la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere per i reati di peculato e di abuso di ufficio, per aver usato due volte un elicottero dei carabinieri per impegni non istituzionali.

Roberta Pinotti, ministro della Difesa, Pd. Il Tribunale dei ministri a fine 2014 ha archiviato l’accusa di peculato d’uso per aver utilizzato un aereo militare che da Ciampino l’ha portata nella sua casa di Genova.

Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, FI. Nel dicembre 2014 il Tribunale dei ministri di Milano ha dichiarato il “non luogo a procedere” per una presunta tangente legata a uno dei filoni di indagine su Finmeccanica.

Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture, Pdl, morto in un incidente stradale nel 2017. Il 2 aprile 2015 il Senato ha autorizzato i magistrati di Venezia a procedere per corruzione per un filone dell’inchiesta sul Mose.

Claudio Scajola, ministro dell’Interno, FI. Il 12 maggio 2015 il tribunale dei ministri di Bologna, ha dichiarato la prescrizione dell’accusa per la mancata scorta a Marco Biagi, ucciso dalle Br.

Mario Monti, premier e Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia. Il 26 gennaio 2016 il Tribunale dei ministri di Roma ha archiviato l’indagine a loro carico sul pagamento a Morgan Stanley di 3,1 miliardi di euro per una clausola di risoluzione anticipata dei contratti di swap (derivati) stipulati tra il 1994 e il 2008.

Angelino Alfano, ministro della Giustizia con FI, dell’Interno e degli Esteri con Ncd. Quando era al Viminale, il 13 maggio 2016, il Tribunale dei ministri di Roma ha archiviato l’indagine per abuso d’ufficio in relazione al trasferimento del prefetto Fernando Guidi da Enna a Isernia. Il 27 maggio 2017 altra archiviazione dall’abuso d’ufficio per l’uso di voli di Stato da e per la Sicilia, quando era alla Farnesina.