Era il 7 agosto quando Luigi Di Maio, capo politico dei 5 Stelle, e i due capigruppo di Camera e Senato Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli si sono ritrovati, ha scoperto l’agenzia Adnkronos, da un notaio di Roma per creare un nuovo organismo grillino: il Comitato per le rendicontazioni che gestirà i tagli agli stipendi obbligatori per gli eletti M5S (in questa legislatura si restituisce una quota fissa, almeno 2.000 euro al mese, anche se le spese effettuate vanno comunque rendicontate). I soldi sono destinati, come in passato, al fondo per il microcredito del Mise, ma c’è una bizzarra novità all’articolo 16 che riguarda eventuali residui: “Se allo scioglimento del comitato dovessero restare fondi a disposizione, verranno devoluti all’Associazione Rousseau”, quella presieduta da Davide Casaleggio che è una sorta di sede digitale del Movimento. Bizzarra novità, si diceva, perché non si vede quali residui dovrebbero restare e che non è piaciuta ai “dissidenti” grillini. Paola Nugnes: “È inconcepibile, pazzesco…”. Elena Fattori: “L’impegno era restituire i soldi ai cittadini, non a Rousseau”. Lo staff di Di Maio, in serata, precisa: “Tutti i nostri comitati prevedono che, in caso avanzino soldi, questi vadano a Rousseau”.
E i vice-Capitani raccolgono le firme per lui
Ora Matteo Salvini passa all’incasso. La strategia del Capitano sul caso Diciotti entra nella fase due. Prima ha mandato in tilt i Cinque Stelle (costretti a considerare una decisione drammatica: votare a favore dell’immunità di un ministro), adesso si appresta a massimizzare i profitti anche in piazza, convocando il suo popolo.
I salviniani doc si sono già mobilitati: questo fine settimana (domani e dopodomani) la Lega allestisce gazebo e banchetti per raccogliere firme a favore del suo “improcedibile” Capitano. Tre nomi, tre città: Fabrizio Cecchetti a Milano, Susanna Ceccardi a Firenze, Lorenzo Fontana a Verona. Il primo è il commissario cittadino del partito e vicecapogruppo alla Camera. “Milano scende in piazza con Matteo Salvini sabato 2 e domenica 3 febbraio – lo slogan di Cecchetti – In città è tutto pronto per dirlo forte e chiaro: un ministro dell’Interno che difende il proprio Paese dall’invasione di clandestini e blocca il business degli scafisti non si tocca”.
Poi è stato il turno di Ceccardi, luogotenente di Salvini in Toscana (e sua consigliera a Palazzo Chigi): “È inaccettabile ed inammissibile che s’ipotizzi un procedimento giudiziario. Invitiamo tutti i toscani a venire presso i nostri gazebo per mettere nero su bianco la loro solidarietà al nostro segretario federale”.
Infine il fraterno amico Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia: “Il ministro Matteo Salvini ha agito nell’interesse pubblico, l’autorizzazione a procedere va negata perché ogni sua scelta è stata operata per il bene degli italiani e per la difesa dei confini” ha detto, presentando la raccolta firme a Verona (città e provincia) domani e dopodomani.
Insomma, quella che pareva una situazione delicata e psvantaggiosa per il Capitano leghista si sta trasformando in un’occasione. Ieri ha trovato l’ennesimo palcoscenico – Porta a Porta con Bruno Vespa – per raccontare ancora il suo punto di vista sui fatti di questi giorni: “È stato un atto politico (quello della Diciotti, ndr) che rifarei: ho agito da ministro, mica da milanista”. Poi è tornato a incalzare i senatori che dovranno decidere della sua sorte. E soprattutto gli alleati, sull’orlo di una crisi di nervi: “Tutti gli amici mi hanno detto che il processo sarebbe stato un’invasione di campo senza precedenti. Il Senato dovrà dire se l’ho fatto per interesse pubblico o mio capriccio personale. Chi ha letto le carte sa che è stato un atto politico. Lascio ai Cinque Stelle la loro scelta, ma penso che voteranno di conseguenza, avranno le idee chiare”.
Il gioco è sempre lo stesso: Salvini tira la corda, ma leva la mano. Dal voto in Giunta dipende la tenuta dell’alleanza, ma lui in pubblico giura di no: “Non ci sarà alcuna crisi di governo”. E così risponde pure a Silvio Berlusconi, che aveva lanciato in un’intervista a Repubblica una nuova profezia di un imminente governo di centrodestra (secondo l’ex Cavaliere “tutto precipiterà se i pentastellati voteranno per l’autorizzazione a procedere contro Salvini e a quel punto matureranno le condizioni per un nuovo gabinetto presieduto dal leader leghista”). Il Capitano nega: “Un conto sono le scelte locali, un altro le scelte nazionali: non c’è nessun sondaggio che mi possa spingere a far cadere questo governo”, Gioca sempre sul doppio tavolo: divora il resto del centrodestra e logora i Cinque Stelle. Anche quando l’indagato è lui. E a proposito di sondaggi, pure quello commissionato da Agorà a Emg Acqua, gli dà ragione: secondo il 57% degli intervistati, il ministro non dovrebbe essere processato.
Salvini imputato: pressing di Conte, cresce il ‘no’ nel M5S
L’analisi costi/benefici, per dirla con una formula assai contemporanea, è già pronta: se si decide per il no all’autorizzazione a procedere, i danni saranno limitati, ininfluenti, assolutamente sostenibili.
Tradotto, la presunta rivolta che spaccherà il gruppo parlamentare dei Cinque Stelle in caso di uno “scudo” a Matteo Salvini, tutto potrà tranne che mettere a rischio la tenuta dei rapporti con il governo gialloverde. Ergo, se votare “no” salva Palazzo Chigi, non sarà qualche onorevole dissidente a far propendere il Movimento per la decisione contraria. Anzi, si arriva a dire: proteggere Salvini sarà financo un “segnale di stabilità” per il governo guidato da Giuseppe Conte.
Una storia a lieto fine, se non ci fosse di mezzo la parola di Luigi Di Maio in persona. Il capo dei Cinque Stelle ha difeso da subito la “collegialità” della scelta del ministro, ma ha pure detto che avrebbe detto sì al processo a Salvini, tanto più che era lo stesso titolare del Viminale a chiedere di essere messo alla sbarra.
Però, come noto, Salvini ha cambiato idea. E per farlo ha scritto una lettera al Corriere in cui chiedeva al Parlamento di avere pietà. Il voltafaccia ha irritato parecchio Di Maio, non fosse altro perché sostiene che Salvini – nonostante ieri il leader della Lega a Porta a Porta abbia detto il contrario – non l’avesse nemmeno avvisato. Aggiustare la linea in base ai voleri dell’alleato di governo non è esattamente una prova di forza per il leader del Movimento. Ma in questa scelta, Di Maio si ritrova sostanzialmente solo. Ieri il premier Giuseppe Conte ha ribadito pubblicamente quello che aveva già detto martedì notte, nella riunione a casa sua: “Bisogna avere chiaro il quesito giuridico a cui saranno chiamati a rispondere i senatori: se abbia agito per il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico inerente alla funzione di governo o se abbia agito al di fuori del suo ruolo ministeriale per i suoi propri interessi personali”. Una dichiarazione che arriva dopo giorni di dichiarazioni sulla “responsabilità” collettiva che ha portato al sequestro delle 177 persone a bordo della nave Diciotti, ferma per cinque giorni al molo di Catania, per il quale è stato chiesto il rinvio a giudizio del ministro dell’Interno.
In sostanza, Conte dice “no”. E riporta il cuore della faccenda a un problema di “informazione”, ovvero di come spiegare agli eletti – e agli elettori – che quella che trasformerà il “chi siamo noi per negargli il processo” al rifiuto di consegnare Matteo Salvini ai magistrati non è una giravolta, ma solo una ponderata riflessione sull’oggetto del contendere.
“Parlare di immunità è uno strafalcione giuridico – rimbrotta l’avvocato Conte – Definire questo voto un salva-Salvini è un falso che rischia di sviare il dibattito pubblico”. Per spiegare, dentro e fuori, su cosa la Giunta è chiamata a votare, è dunque pronta una memoria a firma dello stesso Conte, di Di Maio e di Danilo Toninelli, l’altro ministro coinvolto nel mancato sbarco, che spiegherà l’atto politico che ha portato al fermo della Diciotti. Ancora non è chiaro se potrà essere depositata liberamente in Giunta (il presidente Maurizio Gasparri non pare dell’idea) o se dovrà essere l’indagato Salvini ad allegarla alla sua difesa.
Poco male, la linea è segnata. E Di Maio, che ufficialmente è ancora dell’idea che “bisogna vedere le carte”, ha intenzione di spiegarla nei prossimi giorni ai parlamentari riuniti. Si aspettano già che le voci fuori dal coro siano più o meno le stesse che si sono levate in dissenso in altre occasioni. E che quindi arriveranno scariche all’appuntamento con la Giunta per le autorizzazioni del Senato. Stavolta, dalla loro parte, non sembra intravedersi nemmeno il “custode delle origini” del Movimento, il presidente della Camera Roberto Fico. Che si è limitato a un no comment su un fatto che, per di più, riguarda il ramo del Parlamento a lui concorrente.
Cinquanta Ong contro governi Ue: “Complici di stragi in mare”
Due anni dopo l’accordo sulla migrazione tra Italia e Libia, oltre 5.300 persone sono morte nel Mediterraneo e altre ancora stanno soffrendo nei campi di detenzione libici”. Con una lettera aperta indirizzata ai governi dell’Ue, 50 organizzazioni e piattaforme umanitarie, tra cui Oxfam, Msf, Caritas Europa, e Human rights watch accusano le cancellerie europee di essere “diventate complici della tragedia nel Mediterraneo” e affermano che “alcuni Stati membri dell’Ue hanno deliberatamente costretto molte Ong che conducono operazioni di ricerca e soccorso ad interrompere la loro attività di salvataggio”.
Nel documento le 50 organizzazioni chiedono di “dare sostegno alle operazioni di ricerca e salvataggio”, di “adottare una gestione degli sbarchi che risponda ai criteri di prevedibilità e tempestività” e d’“interrompere la cooperazione con la guardia costiera libica”.
Intanto l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ricorda in un documento che le Ong “hanno un ruolo vitale” per il salvataggio dei migranti nel Mediterraneo e, dunque, deve essere “ripristinata la capacità di soccorso e sbarco” per le navi umanitarie.
Due associazioni accusano il Viminale: “Questa è tortura”
Contro Salvini si mobilitano anche l’associazione “LasciateCIEntrare” e un gruppo di avvocati di Legal Team Italia, che hanno presentato alla procura di Siracusa un esposto, firmato anche dall’europarlamentare di sinistra Eleonora Forenza, in cui si chiede a fare chiarezza se il titolare del Viminale, nella gestione del caso Sea Watch, abbia commesso reati. L’iniziativa, partita da Torino, ne elenca alcuni: attentato alla costituzione, abuso in atti di ufficio, sequestro di persona, violenza privata, tortura. Per gli estensori dell’esposto alla motonave della Ong andava concesso lo sbarco dei migranti, mentre i trasferimenti in altri Paesi delle persone soccorse possono essere decisi ed effettuati dopo averli fatti scendere a terra in un porto sicuro. Le due associazioni sostengono inoltre che gli accertamento sulle eventuali responsabilità di chi ha trasportato i migranti, o su chi li deve accogliere, non può “elidere l’obbligo al rispetto della normativa in materia di soccorso in mare e rispetto dei diritti della persona”, mentre i naufraghi “non sono stati fatti scendere dalla nave”.
Ispezione a bordo per cinque ore. Nessun sequestro per la nave Ong
Nessuna anomalia evidente e valutazioni in corso fino a tarda sera: gli agenti della Squadra mobile e i militari di Guardia costiera e della Guardia di finanza ieri hanno effettuato un lungo sopralluogo a bordo della Sea Watch 3. Un’attività normale prevista per ogni sbarco. Equipaggio e comandante sono stati ascoltati per circa cinque ore. Sono stati verificati i tracciati e tutti i documenti a bordo. L’obiettivo: verificare se il soccorso dei 47 migranti operato dalla Sea Watch possa configurare il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A una prima analisi – gli investigatori hanno terminato il loro lavoro intorno alle 21 –non sono emerse irregolarità evidenti. Ma è ancora presto per escludere definitivamente l’ipotesi. Alle 23 gli investigatori fanno il punto per valutare eventuali denunce in procura.
Squadra mobile, Sco della polizia, Guardia costiera e Guardia di Finanza ieri hanno agito – come sempre in questi casi – di propria iniziativa. Non su impulso della procura di Catania: quindi almeno fino alle 21 di ieri sera non è stata aperta alcuna indagine.
Nelle prossime ore invieranno ai magistrati l’informativa sui primi rilievi e le prime testimonianze raccolte a bordo. Toccherà poi alla procura guidata da Carmelo Zuccaro, sulla base delle informazioni ricevute, decidere se aprire un fascicolo d’indagine e – nel caso – per quali ipotesi di reato.
Gli unici dati certi, in serata, sono due. La nave non è stata sequestrata. Il comandante e il primo ufficiale sono stati sentite come persone informate sui fatti e non come indagati.
Cambia invece lo scenario che riguarda i 15 minori non accompagnati. È stato revocato il provvedimento che li aveva affidati ai Servizi sociali del Comune di Siracusa.
Il Tribunale di Catania ha disposto il loro affidamento al Servizio sociale del capoluogo etneo e, nel frattempo, è mutata la competenza per valutare si vi sia stata inerzia nell’applicare la legge Zampa, che – vietando il loro respingimento – impone nei fatti lo sbarco dei minori non accompagnati.
La competenza per valutare questa eventuale ipotesi di reato non è più della procura siracusana, guidata da Fabio Scavone, ma della procura di Catania.
Quel che resta da capire, quindi, è se la Procura catanese deciderà di aprire un fascicolo sul comandante e sull’equipaggio della Sea Watch per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Ipotesi già esclusa – sulla base delle informative giunte nei giorni scorsi da Gdf e Guardia Costiera – dal procuratore di Siracusa.
Secondo il procuratore Fabio Scavone la manovra del comandante della Sea Watch 3, che aveva scelto di virare verso le coste italiane, invece che in direzione di quelle tunisine, era stata corretta. E il documento olandese sul “porto sicuro” in Tunisia, in realtà, non era altro che un’indicazione verso un “rifugio” e quindi, anche in questo caso, la manovra di Sea Watch non ha violato alcuna norma.
Resta da vedere se sarà dello stesso avviso la procura di Catania quando avrà ricevuto le informative di Guardia Costiera, Gdf e Sco della Polizia, relative al sopralluogo effettuato ieri a bordo.
Morirono in 117, Roma indaga per omissione di atti d’ufficio
Omissione di atti d’ufficio. È il reato ipotizzato dalla procura di Roma che indaga sul primo naufragio di quest’anno, quello del 18 gennaio in cui, secondo quanto raccontato dai superstiti, persero la vita 117 migranti. Gli investigatori – che, come rivelato da Repubblica, hanno ricevuto il fascicolo dai colleghi di Agrigento – devono capire nel dettaglio cosa avvenne quella notte: ha avuto qualche responsabilità il Centro di coordinamento di ricerca e soccorso della Guardia costiera italiana? Ci sono stati ritardi nei soccorsi? Quando è arrivato dal Centro di coordinamento l’allarme al cacciatorpediniere della Marina Caio Duilio (che si trovava a oltre 200 chilometri di distanza) che ha poi disposto il decollo del proprio elicottero SH 90 per inviarlo sul luogo del naufragio? Per avere risposte sono fondamentali le comunicazione di quel pomeriggio.
Dopo l’intervento di quel giorno la Guardia costiera, in una nota del 18 gennaio, spiegava: “Un aereo da pattugliamento marittimo P72 del 41° Stormo di Sigonella dell’Aeronautica Militare, in volo nell’ambito dell’Operazione Mare Sicuro, ha avvistato un gommone, in fase di affondamento, con circa 20 persone a bordo. L’equipaggio dell’aereo, viste le pessime condizioni di galleggiabilità, ha subito lanciato in prossimità del gommone due zattere di salvataggio di tipo Coastal”. L’informazione è stata ricevuta dal cacciatorpediniere Caio Duilio, che in quel momento si trovava “a oltre 110 miglia, 200 chilometri” e che “ha disposto il decollo del proprio elicottero SH 90”. Sono stati poi i tre naufraghi recuperati in mare a raccontare come poco prima dell’interno il mare avesse fatto uno sterminio, con 117 morti. Si poteva evitare?. È la domanda alla quale gli investigatori dovranno trovare una risposta.
Promesse mancate, l’Europa è solidale soltanto a parole
Appena toccata terra, a Catania, i 47 naufraghi che stavano a bordo della Sea Watch 3 da oltre dieci giorni in mezzo al mare si sono abbracciati. È stata la fine di un incubo, ma non la fine del viaggio. Gli adulti – 32 – sono stati trasferiti nell’hotspot di Messina. I minori, invece, si sono fermati in un centro di accoglienza di Catania.
Giuseppe Conte il 30 gennaio scorso ha dichiarato di aver trovato l’accordo per trasferire i migranti in altri Paesi europei. Hanno accettato Lussemburgo, Francia, Germania, Portogallo, Romania e Malta. Una parte invece resterà in Italia. Da Palazzo Chigi spiegano che numeri e tempi non sono ancora disponibili: i trasferimenti dipendono dai risultati delle verifiche che si faranno negli hotspot.
La partita politica è complessa perché, da quando non esiste più una regia europea dei ricollocamenti (dopo il mancato finanziamento a dicembre 2017 del programma di relocation dei rifugiati varato dalla Commissione e che disponeva misure temporanee di trasferimento a beneficio dei Paesi maggiormente esposti alla pressione migratoria quali Italia, Grecia e Ungheria), tutto il meccanismo si basa sulla volontarietà e su accordi “ad hoc”, ovvero sono concordati di caso in caso tra i singoli Paesi e non seguono alcuna prassi. Questo significa poca trasparenza sui risultati e sui criteri di selezione dei migranti da trasferire: è stato scritto nero su bianco anche negli accordi di giugno firmati dai governi europei. Conte nell’occasione aveva detto: “Da oggi l’Italia non è più sola. Da questo Consiglio europeo esce un’Europa più responsabile e più solidale”. Ma, nei fatti, ogni accordo bilaterale sottoscritto tra singoli Paesi contribuisce ad allontanare una visione comune in materia di asilo, e avvicina al contrario l’ipotesi che ogni sbarco faccia storia a sé.
Può reggere un sistema basato su accordi tra galantuomini per cui non è prevista nemmeno una sanzione per chi non rispetta la parola data? Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), no. Oim e Unhcr hanno sottoposto nei mesi scorsi alla Commissione europea una proposta per introdurre delle disembarkation platform, piattaforme di sbarco obbligatorie dalle quali poi gestire le procedure di ricollocamento: in sostanza sistemi di cooperazione internazionale per gestire almeno a livello macro-regionale la suddivisione dei richiedenti asilo. Ma la proposta, dopo essere stata a lungo riposta in un cassetto, è stata definitivamente cestinata da Jean- Claude Juncker a ottobre: “Non è più in agenda”. In mancanza di alternative, la discussione sulla riforma del Ceas – il Sistema europeo comune d’asilo – resta ferma da anni, così come la modifica del Regolamento di Dublino, tanto più che quest’anno ci sono le elezioni europee.
In questo clima di completa autogestione, si susseguono i buchi di informazione rispetto a chi ha effettivamente rispettato gli accordi presi. L’Italia deve gestire il ricollocamento di almeno 320 migranti, per cui si erano impegnati: Francia, Germania, Portogallo, Spagna, Malta, Irlanda e Albania. Risultato? Secondo il Viminale, i trasferimenti effettivamente avvenuti sono solo di 47 persone in Francia più altre 16 in Irlanda. Ai 320, vanno aggiunti i 47 sbarcati ieri a Catania che andrebbero ricollocati tra Lussemburgo, Francia, Germania, Portogallo, Romania e Malta.
Da quando Salvini proclama di chiudere i porti – circostanza smentita dagli atti a cui ha avuto accesso l’Asgi, l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione, secondo cui le autorità portuali non hanno mai di fatto vietato l’attracco – anche Malta è tornata a essere un porto d’arrivo. La scorsa estate in tre episodi (due con protagonista Aquarius, uno con Lifeline) sono sbarcati in 493 persone. Di queste, 180 sono state trasferite nei soliti Paesi che offrono ospitalità con il supporto dell’Oim. Un altro numero imprecisato – il governo maltese non è stato disponibile a fornirlo – sono state trasferite in autonomia da La Valletta. E l’Italia? Disattendendo gli impegni presi, non ha ancora mandato nessuno per recuperare le 10 o 15 persone che si trovano al centro d’accoglienza a Malta dal 9 gennaio. Di fatto in stato di detenzione. Fonti del Viminale confermano e aggiungono di non avere nessuna fretta. Allora non appare un caso che anche a Malta manchino proprio 15 migranti da ricollocare tra gli sbarcati in Italia nel 2018.
Non che la situazione con il piano di relocationfosse molto meglio. Lanciato nel 2015, a dicembre 2017 avrebbe dovuto ricollocare da Italia, Grecia e Ungheria agli altri Paesi dell’Ue 160 mila persone, scelte tra coloro che avevano almeno il 75% di possibilità di ottenere l’asilo. Risultato: ci si è fermati sotto i 40 mila, e per l’Italia a 12.722.
Secondo quanto riportava ieri Il Messaggero, il premier Conte avrebbe detto ai suoi ministri di auspicare in una “cooperazione rafforzata” a livello europeo per costruire un meccanismo automatico per il ricollocamento dei migranti. Eppure il passato recente e la poca disponibilità a trasformare i proclami in trasferimenti reali, lascia l’impressione che in Europa la linea oltranzista impressa d Matteo Salvini stia facendo sempre più proseliti.
“Finalmente terraferma”. I 47 migranti a Catania
Pensavano che fosse come in Libia o nei loro Paesi di origine. E così, d’istinto, alcuni dei 15 ragazzi – appena sbarcati a Catania dopo 12 giorni a bordo della Sea Watch – si sono gettati a terra, convinti di esser finiti sotto bombardamenti. Erano invece i fuochi d’artificio, in vista della Festa di Sant’Agata, santa patrona della città. Poi i mediatori culturali gli hanno spiegato che non c’era nessuna guerra in corso. E così sono arrivati i sorrisi, gli abbracci e i canti. Sono i primi istanti su terra ferma dei 47 migranti, sbarcati nella tarda mattinata di ieri nel porto di Catania. Scendendo la scaletta sono stati accompagnati dagli applausi scroscianti degli operatori della ong. Il porto era completamente militarizzato, con le lance delle Fiamme gialle e della Guardia costiera a pattugliare il mare, mentre polizia e carabinieri controllavano la banchina.
I migranti hanno dovuto attendere dodici giorni prima di poter toccare terra. Negli ultimi sei hanno aspettato di sapere il loro destino, mentre lo scafo si trovava nella fonda a poco più di un miglio dalla costa di Siracusa. Per tutto questo tempo, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha negato lo sbarco, rifiutando la richiesta della Procura dei minori di Catania e dei garanti per la tutela dell’infanzia di far scendere i più giovani.
Alla fine, la partita l’ha vinta proprio il vicepremier, grazie alla soluzione trovata nel corso del vertice europeo di martedì a Cipro, dove il premier Giuseppe Conte ha raggiunto l’accordo con cinque Paesi per la ridistribuzione dei migranti. Germania, Francia, Portogallo, Romania e Malta sono stati i primi ad accettare di accogliere gli “ospiti” della Sea Watch, alla quale si è poi aggiunto il Lussemburgo.
Le ultime 48 ore dei migranti sulla nave sono state lunghe e concitate. Nella giornata di mercoledì, il ministro Salvini ha atteso la “certezza” che i Paesi europei avrebbero accolto i migranti, prima di dare il via libera. Nel pomeriggio Palazzo Chigi comunicava che lo sbarco si sarebbe svolto a Catania, ma a tarda sera la nave era ancora ferma a Siracusa. La partenza è stata quindi rinviata al giorno successivo, per un “problema al motore”. La Sea Watch, nave della ong tedesca battente bandiera olandese, ha inviato la navigazione intorno alle cinque del mattino di giovedì, attraccando nel porto etneo poco dopo le dieci. Mentre si avvicinava alla banchina, dall’altra sponda del molo, alcuni manifestanti hanno gridato lo slogan “Freedom, Hurria. Libertà”.
“Siamo contenti che il calvario sia finito per i nostri ospiti – ha dichiarato la ong tedesca tramite Twitter –, Auguriamo loro il meglio. Speriamo che l’Europa possa accoglierli e permettergli di vivere come meritano”.
Fatalità ha voluto che a poche centinaia di metri era ormeggiata in banchina la nave della Guardia costiera Ubaldo Diciotti, che la scorsa estate aveva trasportato 119 migranti, ed era rimasta bloccata nel porto etneo per quasi una settimana, prima che il Viminale consentisse lo sbarco. Salvini ha spiegato che la decisione è ricaduta di nuovo su Catania per la “presenza di centri ministeriali per l’accoglienza di minori”. Questi ultimi, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, sono stati affidati ai servizi sociali del comune etneo, dopo che in un primo momento il Tribunale dei minori li aveva assegnati a Siracusa. Gli adulti invece sono stati trasferiti nell’hotspot di Messina per essere identificati e poi ridistribuiti ai Paesi che hanno trovato l’accordo con l’Italia.
Le procedure dello sbarco sono durate circa tre ore, al termine del quale è salita la Guardia di finanza. L’equipaggio della Sea Watch è rimasto a bordo per tutto il tempo, fino al primo pomeriggio.
Sotto il giubbotto niente
Non sappiamo ancora se quello dei 177 migranti sulla nave Diciotti fu un sequestro e se Salvini ne risponderà in Tribunale. Ma sappiamo già che un sicuro sequestro è in atto in queste ore: quello del cervello di milioni di italiani poco o male informati che, concentrati sugli eventuali reati commessi dal ministro dell’Interno nell’agosto scorso, non si accorgono dei suoi fallimenti. Anzi, pensano che si voglia processarlo per aver salvato l’Italia dai clandestini, dal disordine e dall’insicurezza, tre fenomeni che invece le sue politiche non fanno che aggravare. Mercoledì il Fregoli del Viminale s’è presentato in Parlamento travestito da poliziotto, con giubbotto d’ordinanza, manco fosse il colonnello Tejero. Il Pd e la sinistra hanno subito abboccato all’amo, strillando all’“attacco alle istituzioni”, cioè spacciando quella visione tragicomica per una prova di forza. In realtà è l’ennesimo attestato di debolezza, tipico della sua concezione carnevalesca della funzione ministeriale. Siccome Salvini non riesce a fare quasi nulla di ciò che aveva promesso agli elettori, cioè non sa governare e neppure ci prova, getta fumo, annunci, proclami, dirette Facebook, felpe, ruspe e uniformi negli occhi di chi ci casca. La sicurezza richiede faticosi compromessi, noiose scelte politiche e un quotidiano lavoro diplomatico lontano dai riflettori: per risolvere i problemi a uno a uno, con pazienza ed efficienza. Ma questa, volgarmente detta “amministrazione”, non fa per lui. Così come la sicurezza, a cui preferisce la “rassicurazione”. Anche perché, se risolvesse almeno qualcuno dei problemi legati all’immigrazione e alla sicurezza (che solo in parte coincidono), poi di cosa parlerebbe?
Ieri Salvini ha annunciato che un giovane migrante gambiano di 21 anni, prima ospitato nel Cara di Castelnuovo di Porto e poi, dopo la chiusura di questo, in una struttura di Melfi, era stato arrestato mentre rubava una radio in un negozio e, durante il fermo, aveva aggredito i carabinieri con calci e pugni. E ha ironizzato: “L’episodio mi stupisce, visto che per la sinistra e parecchi commentatori gli ospiti del Cara erano un esempio straordinario di integrazione. Grazie alle forze dell’ordine. Garantisco che la nostra linea non cambia: tolleranza zero per clandestini e delinquenti. E vogliamo chiudere tutti i grandi centri che producono problemi, sprechi e illegalità. Altro che ‘modello di integrazione!’”. Ora, che il Cara di Castelnuovo (e anche altri, come quello scandalo a cielo aperto del Cara di Mineo) andasse chiuso, lo sapevano tutti, anche chi ha menato scandalo per partito preso.
Ma un ministro dell’Interno attento alla sicurezza dei cittadini, oltre a chiudere i centri troppo ampi, dunque incontrollabili e spesso infiltrati da clan tangentizi e malavitosi, dovrebbe sostituirli con strutture più piccole, snelle, diffuse e vigilate. Come gli Sprar comunali, che invece il suo sciagurato decreto Sicurezza depotenzia e svuota. Col risultato di mettere per la strada migliaia di migranti, perlopiù clandestini che, non avendo più nessuno che li sorveglia e li tiene impegnati in progetti di integrazione, si danno nella migliore delle ipotesi all’accattonaggio e nella peggiore al crimine. Aumentando l’insicurezza, percepita e reale. Ma regalando a Salvini altra propaganda gratuita, in un Paese ipnotizzato e anestetizzato che non gli chiede di risolvere i problemi, ma di denunciarli con parole roboanti e di promettere soluzioni nella settimana dei tre giovedì. Possibilmente in divisa da poliziotto. Mentre Conte e Moavero si dannano l’anima per stabilizzare la Libia, sulla scia delle politiche avviate da Minniti, per garantire standard di efficienza della Guardia costiera locale e rispetto dei diritti umani nei campi profughi un po’ meno inaccettabili degli attuali, Salvini che fa? Dichiara guerra all’ex direttore dell’Aise (il servizio segreto estero) Alberto Manenti, massimo esperto italiano di Libia (di cui è originario), in ottimi rapporti con tutte le fazioni, lasciandolo a lungo senza un successore; blocca per mesi la nomina del nuovo ambasciatore a Tripoli, difendendo quello di prima, il noto gaffeur Giuseppe Perrone, tornato in Italia perché sgradito sia al governo Al Sarraj sia al generale Haftar; e si reca ripetutamente in Libia, in concorrenza e sovrapposizione con Conte, Moavero e la Trenta, creando solo casino.
In campagna elettorale prometteva di espellere i 600 mila clandestini dal suolo patrio; poi ha scoperto che “ci vorrebbero 80 anni”, oltre a risorse finanziarie e accordi con i Paesi d’origine attualmente inesistenti. Ma, se non si comincia mai, gli anni diventeranno 100. L’impossibilità di rimpatriare tutti non è una buona ragione per non rimpatriare nessuno. Possiamo sapere a quanti governi africani ha proposto accordi e che risposta ne ha avuto? E, già che ci siamo: ha mai chiesto ai suoi amici dell’Ungheria e del fronte Visegrad di supportare gli sforzi diplomatici di Conte e Moavero per ottenere una cabina di regia stabile in Commissione Ue per l’accoglienza condivisa di chi sbarca nei porti italiani? E, se sì, che cosa gli hanno risposto? E, se gli han risposto “prima gli ungheresi”, “prima i polacchi”, “prima gli slovacchi” ecc., come può restare loro alleato e ripetere “prima gli italiani”? Questo, oltre a bloccare una nave italiana in un porto italiano, dovrebbe fare un ministro dell’Interno che voglia tutelare “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o un preminente interesse pubblico”. E questo dovrebbero pretendere da lui i suoi partner di governo a 5Stelle e i suoi oppositori in buona fede. Cioè intentargli un processo politico che, per lui, potrebbe rivelarsi molto più imbarazzante e insidioso di quello giudiziario.