Il festival giallonero fa il pienone di star

Si apre domani sera alla grande, con Roberto Costantini, l’ingegnere-inventore del commissario Michele Balistreri, da poco in libreria con Da molto lontano (Marsilio), in cui il poliziotto italo-libico e fascio-anarchico riaffronta un vecchio caso del 1990, quando le notti magiche dei tifosi della Nazionale di calcio si schiantarono contro l’implacabile e immenso Diego Armando Maradona, divinità napolargentina. Dopo Costantini, poi Gaetano Savatteri e Giampaolo Simi.

È questa l’ouverture della tredicesima edizione di Nebbiagialla, il festival del noir di Suzzara, in provincia di Mantova, nato da un’idea di Paolo Roversi, scrittore autoctono che in queste settimane ha pubblicato Addicted (Sem), thriller sulle dipendenze che rende asfissiante una sontuosa masseria salentina trasformata in un centro di cure sperimentali.

La rassegna durerà fino a domenica e ha un fitto cartellone di autori italiani e stranieri. Tra i primi: Giulio Massobrio, Romano De Marco, Flavio Villani, Carlo Lucarelli, Marcello Simoni, Valerio Varesi, Luca Crovi, Massimo Nava e Mariolina Venezia. Ma il pezzo forte di quest’anno sono le prime uscite pubbliche in Italia di tre star del giallo internazionale, in contemporanea coi loro ultimi libri. Si comincia sabato pomeriggio con B. A. Paris, manager anglo-francese diventata un’affermata autrice del cosiddetto thriller psicologico. Nel suo caso, a essere pignoli, il domestic thriller, come si capisce dai suoi primi due titoli di successo, La coppia perfetta e La moglie imperfetta. Adesso c’è il terzo: Non dimenticare (Editrice Nord), basato sulla storia di Finn che anni prima “perse” in un autogrill l’amata Layla, senza una spiegazione. Ovviamente il passato si ripresenta ed è angoscia pura, sino alla fine.

A seguire sarà il turno di Hanna Lindberg, reginetta scandinava che fa la giornalista di costume: Il gusto di uccidere (Longanesi) è ambientato nel mondo dei ristoranti stellati, una sorta di Masterchef granguignolesco. Domenica, infine, a chiudere Nebbiagialla Suzzara Noir Festival 2019, sarà Stuart MacBride, tra i più noti interpreti del tartan noir, il poliziesco scozzese ispirato dall’hard boiled americano. La sua ultima opera è Il ponte dei cadaveri (Newton Compton) con l’eroina Roberta Steel ossessionata da un uomo che odia le donne.

Nebbiagialla significa anche premi. Ben tre. Per la letteratura noir (gli ultimi tre vincitori: Barbara Baraldi, Gianni Farinetti e Giuliano Pasini), poi per il romanzo e il racconto inediti. Tutto per conciliare questa passione gialla (non in senso politico, meglio chiarire) con la Bassa padana. Per tre giorni, a Suzzara, di thriller e noir si parlerà anche nelle osterie, mangiando.

“Lagioia paninaro, Cognetti scolastico e Gadda mediocre”

“La distruzione degli idoli si presenta come il solo vero lavoro costruttivo” si legge nel ritratto che Matteo Marchesini dedica al suo maestro Alfonso Berardinelli e proprio a questo metodo ispira il suo Casa di carte uscito ora per Il Saggiatore dopo che lo scorso anno – con il libro già in bozze – fu bloccato da Antonio Franchini, direttore editoriale di Giunti-Bompiani, per il rifiuto dello stesso Marchesini di rimuovere le stroncature che riguardavano autori pubblicati dal gruppo.

Il quarantenne critico emiliano, che si divide tra pubblicistica militante, poesia e narrativa, è impegnato da anni in una irriducibile ridefinizione del canone letterario italiano. Recupera alcuni autori dimenticati o fraintesi e altri, monumentalizzati o mediatizzati, provvede a buttarli giù dalla torre. Se è vero che in Casa di carte brillano come meritorie le rivalutazioni (tanto per limitarci a due esempi: Saba e Cassola), è altrettanto vero che Marchesini resta impresso per le pagine nelle quali distilla tutto il suo estro di iconoclasta.

A metà tra rivalsa da giustiziere della notte e sberleffo da satiro, scaglia pietre a dispetto “delle tendenze accademiche che si sviluppano con la fatalità di certi eventi geologici”. E allora giù spallate agli intoccabili o presunti tali. Gadda, prosatore mediocre tra goliardia e dannunzianesimo; Montale, qualunquista scettico in pantofole; Celati, uno stile che è solo stucchevole stilizzazione; Michele Mari, ritenuto a torto il non plus ultra della raffinatezza con il suo mantecato gaddian-manganelliano; Arbasino, inchiodato alla sua frivolezza logorroica con un “krausismo ridotto a civismo repubblicano ed espanso in chiacchiera da party”.

Ma è quando sposta il suo sguardo sui narratori italiani midcult di oggi che Marchesini marca la sua definitiva inconciliabilità. I romanzi che si trovano impilati nelle librerie “credono di poter sostituire le immagini con roboanti didascalie per ciechi”, minati come sono da una “piattezza da serie tv su carta”.

Se Le otto montagne di Cognetti “è uno dei prodotti narrativi più scolasticamente prefabbricati, socializzati, virali”, autori come Scurati, Genna, Wu Ming, Scarpa, Lagioia, inseguono un modello di Grande Romanzo Definitivo (destini individuali sovrapposti a grandi drammi nazionali o planetari) il cui “respiro è corto, la lingua falsa, e impera il consueto cibreo di famigghia e finanza, parmigiana della zia e squali mafiosi, sadismo fumettistico e mélo”.

Su La ferocia di Lagioia la sentenza è implacabile: “L’estetica del romanzo viene dai fondi di magazzino del primitivismo decadente, illuminati con lo strobo di un paninaro”. Moresco, imputato come rappresentante dei romanzi della dismisura, è senza dubbio l’autore più dileggiato: “Più alza i toni con intenti nietzschian-celiniani più somiglia a Tonino Di Pietro” o ancora “Non è neppure un visionario. È un visivo che si autoipnotizza, e appena si stanca della sua ascesi imprime alla scrittura due pieghe che non sa assecondare: o scivola in una visionarietà dozzinale, o tenta di dinamizzarsi costruendo un’impalcatura di irredimibile corrività”.

Marchesini si scaglia contro i lettori adepti. E allora incrudelisce sugli autori dove “tira aria da Scientology”. I libri di Bolaño si leggono “come raccolte di aforismi” e per Foster Wallace parla di “inclinazione alla performance: parecchi dialoghi somigliano alle tesi, appena incorniciate dalle virgolette, di uno studente che vuole impressionare il professore”.

Non risparmia una disamina sulla poesia. Marchesini scrive che le collane dei grandi editori sono gestite con criteri di pessimo gusto, spesso sulla base di meri rapporti di amicizia e di potere. “Oggi il catalogo di Einaudi o Mondadori non vale molto di più del catalogo di uno qualunque di quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo L’orcio o Selva oscura”. Ne ha per quasi tutti i poeti in attività, che si sono costruiti “una meschina carriera” (“dal caso nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi”) e mena un fendente contro Alda Merini “della cui produzione si può dimenticare un buon novanta per cento”.

A lettura ultimata di Casa di carte, la tentazione è scomodare quello che Marchesini rimprovera ai detrattori di Calvino e cioè una violenza gratuita da tiratori di torta più che critici in grado di proporre una radicale operazione di smontaggio.

Marchesini ci perdonerà ma lui ci insegna: manteniamo vivo il beneficio del dubbio anche sul suo “bestiario”.

Io e Totò sfuggiti ai fasci. “Nascosti per 15 giorni”

Di seguito riportiamo una parte del libro “Totò con i quattro” scritto da Ciro Borrelli e Domenico Livigni. I due si sono documentati a fondo sulla vita del Principe e delle sue celebri quattro spalle (se spalle si possono definire), e da questo studio hanno tratto una serie di interviste immaginarie ma fedeli negli episodi narrati.

Lei e Totò eravate antifascisti, vero?

Fortemente! A me e a mio fratello Eduardo una sera i gerarchi mandarono degli squadristi, che finito lo spettacolo, salirono in palcoscenico per darcele. Per fortuna ci avvisarono a tempo; sgattaiolammo da un’uscita secondaria. Ad Antonio, in quegli anni, tirarono addirittura una bomba! All’epoca si esibiva al Teatro Valle di Roma insieme alla meravigliosa Anna Magnani.

Nel suo libro, “Strette di mano”, descrive un tentativo di deportare voi De Filippo e Totò in Germania?

In un tardo pomeriggio della primavera del 1944, a quell’epoca la mia compagnia si esibiva all’Eliseo di Roma, i miei fratelli e io stavamo per andare in scena, quando a un tratto vedemmo arrivare in teatro Totò. Senza troppi convenevoli mi prese per la giacchetta e mi trascinò in camerino. Aveva l’aria preoccupata ed era scuro in volto. Una volta soli, e lontano da occhi indiscreti, mi disse che aveva sospeso le prove in teatro e che stava andando a nascondersi da un suo amico. Lo fissavo senza riuscire a capire dove volesse arrivare. Poi, tentennando con la testa, si grattò il mento lungo e sporgente e mi disse, anzi mi sussurrò, che aveva ricevuto una soffiata da un suo confidente che lavorava presso la Questura centrale. I fascisti avevano preparato una lista. Un elenco di persone destinate a un treno e alla deportazione in Germania. Sullo stesso treno, insieme a Totò, saremmo dovuti finire anche noi De Filippo.

Totò dove si nascose?

All’estrema periferia di Roma Nord, con la moglie e la figlia, ospite dei coniugi De Sanctis, suoi grandi ammiratori. Nessuno doveva sapere dove fosse ma in realtà alcuni estimatori del Principe andarono a fargli visita in cambio di un autografo.

Si rese conto subito del rischio che lei e suo fratello correvate?

All’inizio pensai che si trattasse di uno scherzo. Totò non era nuovo a scherzi pesanti e anche di cattivo gusto; tanto è vero che io quasi sorridevo mentre lui si agitava alzando il tono della voce: “Ci hanno messo pure a me… ma tu ci pensi? Un principe deportato come un malvivente? Ma io so dove nascondermi. Lo stesso dovete fare anche tu e tuo fratello, ma presto!”. Io e Eduardo fummo molto cauti. Sospendemmo le recite e ci rifugiammo presso una cara amica che abitava ai Parioli, una parente di Guido Alberti, futuro organizzatore del Premio Strega, nei pressi della dimora della mia amatissima moglie Lidia.

Quanto tempo restò nascosto con suo fratello?

Quindici giorni. Durante quell’isolamento ricevemmo una visita inaspettata.

Totò?

Assolutamente no. La cameriera venne a dirmi che alla porta vi era una ammiratrice in cerca di un mio autografo e con in mano un biglietto da consegnarmi: era di Totò, il quale, venuto a sapere del mio nascondiglio, mi chiedeva di concedere una dedica alla ragazza. Andai su tutte le furie. Ma come, il mio amico Totò spiattella alla prima che capita il nascondiglio? Lo avrei strozzato.

Dopo quanto tempo vi rincontraste?

Mesi. Nel frattempo mia madre ci aveva lasciati il mattino del 21 giugno del 1944 all’età di sessantasei anni. Sei mesi dopo si era sciolta la compagnia dei De Filippo, mi ero separato artisticamente dai miei fratelli, con i quali negli ultimi tempi ci si sopportava a malapena, specie con Eduardo. Mi ero separato dalla mia prima moglie e, con dolore, da mio figlio Luigi; avevo lasciato la mia Napoli e stabilito a Roma. Ero stato scritturato da Remigio Paone, grazie all’amico Michele Galdieri, per la Rivista Imputati alzatevi!. Soldi ne guadagnavo tanti, ma con questa compagnia di Rivista passavo continuamente da un cinema-teatro ad un altro, e non mi sentivo soddisfatto. Ecco perché avevo deciso di lasciare Paone, e sotto consiglio di Lidia, a metter su una mia compagnia, in lingua italiana con la quale debuttai a Milano nell’agosto del 1945. Un successo incredibile. Mentre eravamo in tournée per tutta l’Italia, passando per Roma incontrai Totò. Quell’anno fui talmente impegnato in teatro, che non girai nessun film e rinunciai ad una proposta cinematografica che mi avrebbe fatto comodo da un punto di vista economico. Totò, anch’egli impegnato in teatro, invece girò un film di poco conto, Il ratto delle sabine. Si salvano solo i duetti con colui che sarà la sola e vera spalla del principe: Mario Castellani. Mario fu la spalla di Totò! Non io, non Fabrizi né Taranto. Noi tre fummo dei primi attori, dei comprimari al pari di Totò. Con questo non voglio sminuire la memoria del mio amico Mario, ottimo interprete. Tanto è vero che ha collaborato con la mia compagnia per diverso tempo.

Torniamo al suo incontro con Totò nel Dopoguerra…

Dopo i convenevoli, lo presi in disparte e sotto braccio gli dissi: “Antò, ma il fatto dei tedeschi fu uno scherzo?”. Rispose: “Fossi matto! Ma tu sei scemo? Molti artisti dovevano essere deportati in Germania. Ti ho salvato la pelle”. Gli feci ancora: “E la ragazza alla porta? Quella dell’autografo?”. Accennò una timida smorfia tenendo a freno quel suo dolce e malizioso sorriso, poi, fissandomi con i suoi occhioni neri ed espressivi rispose: “Quello sì che era uno scherzo!”. Poi mi diede una pacca sulla spalla e ci abbracciammo.

Il vero problema della Brexit è l’Ue, non il Regno Unito

Secondo i social media, in Russia “Brexit” ha un nuovo significato: “Dici addio ma non te ne vai mai”. Vasilij Petrovich ha bevuto una mezza bottiglia di vodka, rotto parecchie porcellane preziose, offeso gli avventori ma, pur avendo detto addio a tutti, sta ancora al tavolo a bere. Verrebbe voglia di sbatterlo fuori al gelo, ma questo creerebbe più problemi che lasciarlo dentro.

Questa storiella riflette l’attuale dilemma dell’Europa. Per molti anni il Regno Unito ha goduto dei benefici dell’integrazione europea senza provare a essere un membro costruttivo (men che meno entusiasta) dell’Unione europea. Due anni fa ha deciso di andarsene ma sta ancora ponderando se farlo dalla porta, dalla finestra o dal camino. E così, intanto, la Gran Bretagna siede ancora al tavolo, come l’ubriaco Petrovich, e questo innervosisce parecchio il resto dell’Ue.

L’Europa è uno spazio politico profondamente integrato. Non si possono smontare 20.000 regolamenti comuni senza effetti collaterali.

Qualcuno può sostenere che i britannici dovrebbero pagare per il loro odioso comportamento, ma a soffrire sarebbero anche le imprese basate nel resto d’Europa e i loro dipendenti. Per non parlare di tutti quei milioni di cittadini europei che per sopravvivere dovranno comunque trovare un modus vivendi con la “perfida Albione”.

Lo slogan che recita “la Brexit è un problema dei britannici” rappresenta un modo disonesto e pericoloso di affrontare la questione. A Bruxelles nessuno sembra volersi prendere la responsabilità della perdita del Regno Unito, si limitano a sostenere questa linea: Michel Barnier, il capo negoziatore, ha trattato un accordo equo con la premier Theresa May e se al Parlamento inglese non piace, be’, affar loro.

In realtà, l’Unione europea non si è limitata a definire il quadro legale del “divorzio” della Gran Bretagna. L’Ue ha anche insistito (a ragione) sulla necessità di meccanismi di salvaguardia per il confine irlandese. Un compromesso su questo sotto la pressione del partito unionista dell’Irlanda del Nord significherebbe tradire la Repubblica d’Irlanda, cioè lo Stato europeo più colpito dalla Brexit.

La questione cruciale che i burocrati europei dovrebbero affrontare è perché i cittadini inglesi hanno scelto di andarsene. E insinuare che i britannici sono, in qualche modo, meno europei degli altri non è una risposta convincente. E neppure è plausibile sostenere che sono stati semplicemente manipolati dai tabloid euro-scettici.

Quando i francesi e gli olandesi hanno avuto l’opportunità di esprimersi sul progetto di Costituzione europea, nel 2004, anche loro hanno votato no. E negli ultimi anni i partiti anti-europei hanno riscosso successo in tutta Europa. C’è chiaramente qualcosa di sbagliato nel modo in cui funziona l’Ue e dobbiamo tutti affrontare la questione, invece che limitarci a insultare quegli ingrati dei britannici e i partiti populisti.

La verità è che l’Ue non è riuscita a offrire ai cittadini strumenti efficaci di partecipazione. Anziché proteggere le persone dalle conseguenze della globalizzazione, l’Ue è diventata uno degli strumenti della globalizzazione stessa. Anche le economie europee più solide faticano a crescere abbastanza e i sistemi di welfare stanno collassando.

La Commissione europea sembra essere molto sensibile a quello che dicono i 30.000 lobbisti attivi a Bruxelles, ma non alle richieste dei suoi cittadini, soprattutto di quelli più poveri. La politica estera e quella migratoria dell’Ue sono spesso immorali e inefficaci. I conflitti dentro l’Ue stessa abbondano: tra Paesi debitori e creditori, tra esportatori e importatori, tra quelli dentro l’euro e quelli fuori, poi ci sono le tensioni che riguardano l’Ucraina, la Russia e il Nord Africa.

Tutto questo non significa che l’integrazione europea è stata un errore e che dobbiamo tornare indietro alle vecchie glorie nazionali. Ma se vogliamo riconquistare la fiducia dei cittadini – che siano britannici o del resto d’Europa – dobbiamo introdurre alcune riforme fondamentali nell’Ue. Le ultime rilevanti risalgono al 1991, con Maastricht. Da allora l’Europa ha attraversato tre rivoluzioni; geopolitica, geoeconomica e digitale. C’è poco da stupirsi se ora l’Unione europea ci pare poco in grado di affrontare le nuove sfide. Intimare ai britannici di cambiare atteggiamento verso l’Ue senza cambiare l’Ue serve a poco.

Purtroppo i leader europei sembrano ignorare queste semplici verità. La Brexit per loro è soltanto lo spauracchio da agitare davanti ai partiti euro-scettici nei vari Paesi. Il risultato di questa tattica è perverso: i politici euroscettici ora non vogliono più lasciare l’Ue, ma conquistarla. I recenti incontro di Matteo Salvini con Viktor Orbán e Jarosław Kaczynski lo dimostrano. Potremmo presto trovarci ad avere una Ue senza Gran Bretagna ma anche con una Commissione e un Parlamento euro-scettici.

Ci sono solo due modi per evitare questo scenario: fermare l’orologio della Brexit e dare un messaggio di cambiamento molto netto nella campagna elettorale per le Europee di maggio.

I britannici hanno esaurito le opzioni e potrebbero chiedere di sospendere l’articolo 50 del trattato in modo da evitare il trauma di una uscita senza accordo. Un trauma che sarebbe devastante non soltanto per gli inglesi, ma per tutti gli europei che, peraltro, non sono minimamente preparati all’eventualità.

La proposta della Gran Bretagna non è ancora ben definita, ma i leader europei dovrebbero accettarla: sarebbe un segnale importante che siamo tutti sulla stessa barca e abbiamo una comune responsabilità riguardo al futuro del continente.

Ma sospendere l’articolo 50 sarebbe soltanto un modo di guadagnare tempo per impostare una seria agenda di riforme. Finora, le proposte concrete arrivano soltanto da figure laterali come Thomas Piketty e Yanis Varoufakis. Ma è tempo che i leader europei agiscano insieme e propongano la loro visione del futuro dell’Ue. Come dimostra il consenso popolare alle proteste dei Gilet gialli, la visione dell’Europa che ha Emmanuel Macron appaga soltanto pochi privilegiati.

Una visione dell’Europa nuova, coraggiosa, che tenda verso una maggiore uguaglianza potrebbe aiutare i leader liberali a resistere all’assalto dei partiti populisti alle Europee. Potrebbe anche spingere alcuni britannici a cambiare opinione sulla Brexit.

Ci meritiamo un’Europa che funzioni per la grande maggioranza dei cittadini, inglesi inclusi. La parola chiave dovrebbe essere solidarietà, non soltanto crescita, competizione e potere.

“Mosca e Pechino, i soliti sospetti”. Ci vuole ironia per essere nemici di Trump

Serioso come un tedesco, dotato di sense of humour come un inglese, si diceva nelle barzellette anni 50. Ai tempi della globalizzazione, i seriosi sono i cinesi e gli ironici i russi. Per crederci, basta guardare come la stampa di Mosca e di Pechino reagisce al rapporto che il gran capo dell’intelligence Usa Dan Coats ha fatto al Senato martedì scorso: le minacce all’America vengono dai cattivi del mondo, la Cina e la Russia, ma anche dalla Corea del Nord, che veste i panni dell’agnello, e l’Isis, bastonato, ma non eliminato. In realtà, Coats e i suoi colleghi di Cia e Fbi parlavano più a Trump che a Putin e a Xi: volevano dirgli che il pericolo per gli Usa non è l’Iran, come sostiene. Cinesi e russi, però, prendono per buona la parte che li riguarda. Così, il Global Times, voce della Cina in inglese, spiega in dettaglio perché le accuse di cyber-spionaggio fatte a Pechino, specie alla Huawei, siano infondate. Invece, Russia Today ci sorride sopra: “L’Iran bene, la Corea male, i russi sono ovunque”; e aggiunge: “Mosca e Pechino, i soliti sospetti”, che evoca la battuta finale di Casablanca. Chissà se scientemente.

“Non c’è un altro accordo di divorzio possibile”: l’Europa non è mai stata così unita come su Brexit

I conti senza l’oste. Nella trattativa sulla Brexit, li fanno – e non è la prima volta – i britannici, che danno mandato alla loro premier Theresa May d’ottenere un accordo migliore di quello già negoziato con i partner dell’Ue. Come se la May non ci avesse già provato. E come se potesse essere un colloquio tra la May e il leader laburista Jeremy Corbyn a indurre a concessioni l’Ue che continua a tenere il semaforo sul rosso, “l’intesa c’è e non si cambia”. In attesa d’incontrare per l’ennesima volta la premier britannica, Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, mette i puntini sulle i: “Il dibattito e il voto di martedì ai Comuni non cambiano il fatto che l’accordo di divorzio non sarà rinegoziato”, perché l’intesa “resta la sola e la migliore possibile, lo abbiamo detto a novembre, ribadito in dicembre e ancora a gennaio”.

Parlando a Strasburgo al Parlamento europeo, Juncker affonda ulteriormente il colpo ed evoca il “no deal”: “Il voto” di Londra “ha acuito il rischio di un’uscita non ordinata e quindi dobbiamo continuare a prepararci per tutti gli scenari, anche i peggiori”. Il presidente della Commissione rende alla May l’onore delle armi. E le getta persino un’ancora di salvezza: la premier – dice – “s’è personalmente battuta” per evitare il ritorno a una frontiera “vecchio stampo” tra le due Irlande, l’Eire e l’Ulster, ma “nessuna rete di sicurezza potrà mai essere sicura se è a durata determinata”. La chiusa dell’intervento è scontatamente ottimista: l’accordo ci sarà, “lavoreremo giorno e notte per farlo, ma pure per essere pronti al contrario”.

Alla voce di Juncker si somma quella di Michel Barnier, il negoziatore europeo: respinge il gioco dello scaricabarile che Londra tenta; critica la May che “prende le distanze dall’intesa da lei negoziata”.

Le reazioni dei deputati ai discorsi di Juncker e Barnier confermano un’impressione: l’Unione non è mai stata così coesa come sulla Brexit.

Piazza contro militari: braccio di ferro tra leader

Donald Trump non si ferma nel suo tentativo di legittimare Juan Guaidó alla presidenza del Venezuela e lo chiama al telefono. La Casa Bianca ha detto che Trump e Guaidó, il leader dell’opposizione che cerca di sostituire Nicolás Maduro, hanno deciso di mantenere una comunicazione regolare dopo che le autorità venezuelane hanno aperto un’indagine che potrebbe portare all’arresto del presidente del Parlamento autoproclamatosi capo dello Stato ad interim. Anche Maduro, il cui secondo mandato è iniziato dieci giorni fa – dopo aver vinto le elezioni dello scorso maggio giudicate truccate dalla maggior parte degli Stati del pianeta – però non molla. Dopo essersi detto disposto a tenere elezioni legislative anticipate, ha tuttavia escluso la possibilità di tornare alle urne per le presidenziali. Il successore di Chavez dunque non intende abbandonare lo scranno più alto del Paese, anzi rilancia marciando con i militari, ovvero coloro che finora hanno impedito la sua defenestrazione e che, a quanto pare, gli garantiranno ancora la sopravvivenza. Del resto i vertici dell’esercito sono stati indicati dallo stesso Maduro e pertanto gli sono fedeli, anche grazie ai ricchi stipendi di cui godono. “Noi soldati non siamo toccati dal virus del tradimento, giuriamo lealtà e fedeltà al popolo”, ha detto Jesus Suarez Chourio, comandante generale dell’esercito venezuelano, mentre in piedi accanto a Maduro si rivolgeva ai soldati nella zona di Fuerte Tiuna, a Caracas. “Voglio che tutto il mondo ascolti che tutti noi soldati bolivariani non siamo deboli né codardi e giuriamo fedeltà al nostro comandante generale”, ha quindi tuonato il comandante generale.

Tutto questo nel giorno in cui Juan Guaidó ha chiamato i venezuelani a manifestare per la democrazia e avrebbe ricevuto come risposta l’appoggio in “5 mila località del Paese” ringraziate dal presidente per la loro “resistenza”. Intanto la diplomazia internazionale cerca di trovare una soluzione per far uscire il Venezuela da questo inedita impasse.

Il premier spagnolo, Pedro Sánchez, è arrivato ieri in Messico per una visita di due giorni durante la quale esaminerà con il presidente messicano Andres Manuel López Obrador – che si è detto disposto a fare da intermediario tra gli attori della tragedia venezuelana, ha scritto il quotidiano di Città del Messico El Economista. Il giornale cita inoltre l’opinione di Jordi Bacaria, ricercatore associato del Barcelona Centre for International Affairs, per il quale “l’intenzione della Spagna è di studiare un nuovo approccio al caso Venezuela, e magari potersi avvalere del governo del Messico per individuare una strategia, in modo da non scontrarsi con i problemi che hanno portato al fallimento della mediazione dell’ex presidente del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero. A proteggere le spalle a Maduro, che ha denunciato l’intenzione degli Usa di ucciderlo, rimane saldamente il presidente russo Vladimir Putin. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha respinto le accuse del parlamentare dell’Assemblea nazionale venezuelana José Guerra, secondo il quale Mosca avrebbe cercato di trasferire 20 tonnellate d’oro da Caracas alla Russia. Dall’Italia, invece, è arrivato il messaggio del ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi: “Noi ci riconosciamo pienamente nella dichiarazione dell’Ue: l’obiettivo è arrivare a elezioni libere”, ha spiegato Moavero, sottolineando di “riconoscersi anche nell’indicazione di un termine temporale”. Moavero ha anche annunciato che il nostro Paese “ha stanziato 2 milioni di euro per i connazionali che si trovano in Venezuela”.

I fantasmi delle rovine di Mosul

“Non sappiamo quanti cadaveri siano ancora sepolti sotto queste pietre”. Hummam Talal, operatore iracheno dell’organizzazione umanitaria italiana Intersos, nato e cresciuto a Mosul è sicuro che “lo scopriremo solo un giorno, quando le macerie saranno finalmente rimosse”. La sensazione che si prova camminando per le strade della vecchia Mosul, in effetti è quella di trovarsi tra i fantasmi, compreso quello di una ricostruzione mai avvenuta. Né si conosce il numero esatto dei morti, militari e civili, caduti nel corso della battaglia per il controllo della città.

A un anno e mezzo dalla conclusione dello scontro armato, tutto è ancora distruzione, eppure, tra gli edifici crollati e le strade divelte, la vita sta riprendendo il suo corso. Spuntano qua e là precarie attività commerciali: un venditore di olive al crocevia, un ristorantino di fronte alla Grande Moschea di Al Nuri, simbolo della città, fatta saltare in aria dall’Isis il 21 giugno 2017.

“Nel mio quartiere ora si sta bene”, racconta Huela, una delle donne che frequentano il centro comunitario di Intersos a Mosul Ovest. “Abbiamo acqua ed elettricità, le persone che erano fuggite sono tornate e stanno riparando le loro case, gli alimentari hanno riaperto”. Durante i combattimenti, mentre intorno esplodevano i missili, è rimasta nascosta insieme alla famiglia, tra cui dieci nipoti, nella cantina dell’abitazione dove ancora vivono. Ora aiuta altre donne a imparare il cucito. Un modo, per tante, di sfuggire alla solitudine, contribuendo in qualche modo all’economia famigliare: il livello di disoccupazione è ancora molto elevato e bisogna arrangiarsi. Anche le donne, tradizionalmente confinate alla sfera domestica. “L’unica cosa che chiedo è di non tornare indietro – sottolinea Huela – Non rivivere ancora e ancora la nostra storia tragica”. Sicurezza è una delle parole che ritornano più spesso nelle nostre conversazioni. Questo Iraq è come un malato in lenta convalescenza, fragile, timoroso di una ricaduta del male che lo affligge da decenni. Sospeso tra speranza e paura. Tal Afar, 80 chilometri a ovest di Mosul, a un terzo della strada che conduce verso la Siria, è stata, per oltre tre anni, una delle principali roccaforti dell’Isis: centro logistico e piazza di reclutamento.

La sua storia è legata a una delle più diffuse minoranze presenti in Iraq, i Turcomanni, discendenti dai soldati, commercianti e funzionari di origine turca stabilitisi in Iraq all’epoca dell’impero ottomano. Dopo anni di violenze, la popolazione cerca sicurezza riscoprendo le proprie radici e la propria peculiare identità. “Di recente, la municipalità ha deciso di riaprire un centro culturale – racconta Mohammad Abdelamir Khalaw, direttore della clinica Shahid Sadr, uno dei centri di salute ricostruiti e supportati da Intersos con il contributo di Echo, l’ufficio della Commissione europea per gli aiuti umanitari –. Per la prima volta dopo decenni, non abbiamo voluto creare un centro di cultura sunnita o sciita, ma un luogo a disposizione di tutta la città e dei suoi giovani”.

Un tentativo di riconciliazione in una città simbolo delle lacerazioni che hanno segnato la recente storia irachena, di cui gli ultimi tre anni sono solo un capitolo. Nei racconti delle persone è ancora viva la memoria della repressione delle minoranze attuata negli anni 80, così come della guerra del 2003 e della lunga instabilità degli anni successivi. Ancora oggi le divisioni sono ben visibili. Dopo la “riconquista” della città da parte delle forze armate irachene è facile riconoscere la geografia settaria dei quartieri: su metà delle case sventolano bandiere sciite, sulle altre non c’è alcuna bandiera. “Siamo stanchi di violenze, la vita in città è ancora difficile – sottolinea il direttore – acqua ed elettricità scarseggiano, molte case sono danneggiate e la nostra storica cittadella è rasa al suolo”.

Su per giù le stesse parole che ci ripeterà, poche ore dopo, il direttore dell’altro centro di salute supportato da Intersos ed Echo. Lui che, essendo sunnita e avendo continuato per alcuni mesi a ricevere lo stipendio dal governo iracheno, nel periodo in cui l’Isis ha controllato la città, è rimasto al suo posto, cercando, come dice, “di avere meno problemi possibile”. Quando gli operatori umanitari sono arrivati a Tel Afar, su sei centri di salute, tre erano distrutti e tre, pesantemente danneggiati, erano stati abbandonati. La clinica Shahid Sadr era stata trasformata in magazzino ed era ancora piena di cumuli di coperte destinate ai combattenti. Ora la clinica offre un servizio di risposta alle emergenze, con visite quotidiane, attività specialistiche, analisi di laboratorio e farmaci gratuiti per chi ne ha bisogno, servendo circa 1500 pazienti ogni settimana: in una parola, resilienza.

La mamma di Biella ritrova le foto del figlio morto a 2 anni nel 2013

Il salvatore di Elisabetta Chiavarino, la donna a cui era stato rubato un hard disk con foto e video del figlio Gabriele Balanzino morto a due anni nel 2013, è un esperto informatico. Si chiama Michele Vitiello l’ingegnere informatico forense di Brescia che dopo aver letto il post che Elisabetta aveva scritto su Facebook dopo il furto a inizio gennaio non si è limitato a esprimerle la sua solidarietà. Riporta Repubblica Torino: “Ho due figli di 5 e 7 anni, non riesco neanche a immaginare cosa significhi perdere i loro ricordi. Ho pensato subito che avrei dovuto fare qualcosa”. Missione compiuta: tramite la scheda sd (scheda di memoria digitale per immagazzinare grandi quantità d’informazioni) di uno dei dispositivi – un pc, una fotocamera e una chiave usb – con cui erano state fatte le foto e i video ormai cancellati, l’esperto è riuscito a risalire i file con i ricordi del bambino. Oltre 150 scatti e una decina di clip di Gabriele potranno di nuovo lenire un po’ il dolore della donna per una perdita così drammatica. Il piccolo aveva battuto la testa mentre giocava con un collega della madre, morendo per emorragia cerebrale. Nel 2017 l’uomo si è suicidato, probabilmente per il senso di colpa.

Tony ammette: “Scopa, pugni e calci, così ho colpito Giuseppe”. Da chiarire il ruolo della madre

Ha confessatodi aver colpito a calci e pugni e con un manico di scopa i figli della compagna che cercava di fermarlo uccidendo il più grande, Giuseppe di 7 anni, e ferendo Noemi, di 6, – attualmente in ospedale – in un momento di follia e di non aver potuto portare il bambino in ospedale perché era senza macchina. Dopo l’interrogatorio di garanzia nel carcere di Poggioreale il gip del tribunale Napoli Nord ha emesso ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di omicidio e lesioni con l’aggravante dei futili per Badre Tony Essoubti, 24 anni, che domenica scorsa a Cardito ha picchiato i due bambini perché giocando avevano rotto una sponda del letto. Durante l’interrogatorio il 24enne avrebbe anche detto: “Volevo bene ai ragazzi come fossero miei, ma quando hanno distrutto la cameretta, in particolare la sponda del letto acquistata con tanti sacrifici, ho perso la testa”. Il suo legale Michele Coronella non esclude la richiesta di una perizia psichiatrica e descrive così le condizioni di Badre: “È andato oltre l’immaginabile, la testa è partita. È una tragedia anche per lui oltre che per il bambino”. Restano da chiarire ancora il rapporto tra l’uomo e la compagna, Valentina Casa di 31 anni, e il buco temporale di circa due ore tra la collera scaricata sui due bambini e la chiamata all’ambulanza. Secondo Badre la donna ha provato a fermato ma la Procura vuole vederci chiaro, intanto la donna si è spostata a casa della madre a Massa Lubrense e avrebbe dichiarato, secondo quanto riportano Corriere della sera e Corriere del Mezzogiorno, di aver messo il figlio ferito sul divano a chiamato il 118 ”poi quando hanno finito ho chiesto se potevo andare via”. Un testimone ha raccontato a Storie italiane su Rai1 che Badre picchiava i due bambini e litigava spesso con la donna: “Ultimamente, un mese fa, fuori dalle posta ha picchiato la moglie per i soldi. È un mostro”. Per quanto riguarda i soccorsi, Badre sostiene che se avesse avuto la sua macchina li avrebbe portati in ospedale mentre l’avvocato aspetta “l’autopsia per capire se c’era spazio per salvare il bambino”.