Clan Casamonica, nuovo arresto per droga. La “pentita” Debora Cerreoni conferma tutto in aula

“Quando entri in una famiglia scoprì cose che non sapevi e vedi ciò che non vorresti. C’è violenza, sottomissione, paura e minacce. Vedevo tutto, anche lo spaccio di stupefacenti”. Mentre nella Capitale la prima collaboratrice di giustizia del clan Casamonica, Debora Cerreoni, testimonia al processo che vede alla sbarra gli elementi di spicco della famiglia da cui è riuscita a scappare, i finanzieri di Roma mettono a segno l’ennesimo colpo nei confronti del clan. Un’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa nei confronti di Salvatore Casamonica, Silvano Mandolesi, del fiancheggiatore Marcello Schiaffini, del montenegrino Tomislav Pavlovic, e dell’albanese Dorian Petoku. Secondo gli inquirenti sarebbero i promotori di un cartello di gang attive nel settore del narcotraffico internazionale. È il “completamento delle indagini svolte nell’ambito del procedimento denominato operazione Gramigna”, si legge negli atti che ricordano l’importante ruolo svolto dalla collaboratrice che ha voltato le spalle ai Casamonica per proteggere i suoi figli.

Gli arrestati si sarebbero associati per importare cocaina purissima dal Brasile, dalla Repubblica Dominicana e dalla Bolivia. Avevano aerei, armi e dispositivi per eludere i controlli. E grazie a questi mezzi inondavano di polvere bianca Napoli e Roma. Si tratta di “due diverse organizzazioni che operano su livelli diversi: mentre la prima ha il carattere della transnazionalità (…) ed è finalizzata a importare ingenti quantitativi di cocaina dal Sudamerica, la seconda è dedita alla cessione di grandi quantità di sostanze stupefacenti”, recita l’ordinanza di custodia cautelare che narra di cartelli della droga colombiani, di agenti svizzeri sotto copertura e della collaborazione tra forze dell’ordine, Dea inclusa. Solo così è stata fermata l’organizzazione capace di importare 7 tonnellate di cocaina grazie a funzionari doganali corrotti e talpe negli aeroporti.

’Ndrangheta made in Piemonte, per riciclare soldi sporchi serve anche il calcio dilettantistico

La squadra di calcio militava in Promozione, campionato delle serie minori, ma faceva gola: permetteva di far girare un po’ di soldi, gestire lo stadio comunale e assumere anche un compare sorvegliato speciale. È una delle storie più rappresentative delle infiltrazioni mafiose rivelate dall’indagine “Barbarossa” della Dda di Torino che ieri ha chiesto il processo a 30 persone di cui 17 ritenute appartenenti alla locale ‘ndrangheta di Asti e uno – Pierpaolo Gherlone, ex assessore di Forza Italia ed ex presidente dell’Asti Calcio – indagato per concorso esterno.

L’inchiesta è stata condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri che il 3 maggio 2018 ha arrestato 26 persone. A capo di tutti c’era Rocco Zangrà, colui che nell’estate 2009 aveva incontrato, in un agrumeto di Rosarno, il boss Domenico Oppedisano, capo del “crimine”, per poter avviare una nuova locale di ‘ndrangheta in Piemonte. Zangrà, “quello dotato di maggiore autorevolezza” (sostiene il gip che ne ha disposto l’arresto), era sostenuto dalle famiglie Catarisano, Emma e Stambé che avevano messo le radici tra le colline dell’Astigiano, infiltrandosi nelle attività economiche a colpi di minacce ed estorsioni ai danni di imprenditori della zona. Qualcuno, sospettano i pm, sarebbe diventato un complice.

L’ex presidente dell’Asti Calcio Gherlone, ex assessore comunale alle finanze, si era rivolto a Giuseppe Catarisano (e tramite lui a Zangrà) per calmare le pretese di un creditore. E mentre i due presunti mafiosi cercavano fondi per la società sportiva, Gherlone aveva nominato amministratori del club i figli del primo, Ferdinando e Giovanni Catarisano. Nonostante gli arresti e le ammissioni di alcuni indagati, due imprenditori vittime di estorsioni e minacce sono rimasti zitti e omertosi davanti agli investigatori, ragione per la quale ha Dda li ha indagati per false dichiarazioni.

Igor il russo senza rimorsi: “Ho seccato il barista, il poliziotto dovevo sdraiarlo”

“Ho sparato a Ravaglia perché aveva una pistola in mano. Poi ho sparato a Verri senza guardare se era armato perché per me era un poliziotto pure lui e dovevo ‘sdraiare’ tutti e due”. Sicuro di sé, senza esitazioni o rimorsi, Igor il russo ha raccontato per la prima volta come, nel 2017, uccise tre persone nel giro di otto giorni tra la provincia di Bologna e Ferrara. Collegato in video dal carcere di Saragozza, al processo con rito abbreviato che si sta svolgendo contro di lui, Norbert Feher (il suo vero nome) ha risposto in italiano alle domande del gup Alberto Ziroldi sulle due accuse di omicidio. La prima vittima fu Davide Fabbri, barista in un piccolo paese di campagna, ucciso durante un tentativo di rapina nell’aprile del 2017. “Dovevo schiacciare tutto quello che avevo davanti, mi sono sentito minacciato allora ho tirato fuori la seconda arma e l’ho seccato” ha detto Feher, aggiungendo che era in quel bar non per una rapina ma per riscuotere un credito di 10 mila euro da parte di una terza persona di cui però non ha voluto fornire i dettagli.

Con il barista non risultano rapporti antecedenti alla sua morte. “Ho un codice, se non devo usare l’arma non la tiro fuori” la spiegazione data per la seconda vittima, Valerio Verri, guardia ecologica volontaria, uccisa in un agguato mortale durante un servizio di anti-bracconaggio nelle valli del ferrarese. Igor si sarebbe sentito “messo alle strette” e per questo avrebbe sparato.

“Per noi – ha spiegato Fabio Anselmo, legale della famiglia Verri – è stata un’udienza estremamente significativa, era importante capire perché Valerio sia stato vittima dei colpi di arma da fuoco in quel modo così spietato. Credo che questo lo abbia chiarito. Ha agito con una freddezza allucinante ma quello che serviva ai figli era sapere come è morto il padre”. Subito dopo in Emilia iniziò una imponente caccia all’uomo condotta nella “zona rossa”, un’area di circa 40 km nella cosiddetta ‘bassa’ tra la provincia di Bologna e quella di Ferrara. Per giorni 150 militari setacciarono il territorio ma senza successo. Il russo, a bordo di una bicicletta secondo i suoi racconti, era già lontano. Direzione Spagna dove è stato arrestato dopo otto mesi di latitanza, che rivendica spavaldo: “La natura è casa mia”.

Il 15 dicembre viene trovato, svenuto, in una macchina uscita di strada a Teruel, in Aragona, dopo aver ucciso a El Ventorillo un allevatore e due agenti della Guardia civile. “Tornai indietro per la mia Bibbia”: è questa la causa della morte delle ultime vittime di Igor. Il killer tornò indietro per riprendere la sua Bibbia dimenticata nel covo imbattendosi così negli agenti. Le perizie spagnole lo dipingono come un killer freddo, lucido, narcisista e senza rimorsi, ben capace di intendere e di volere. Nuova udienza il 25 marzo per la discussione finale.

Allarme di Libera: riciclaggio e droga, boom nel Nordest

Ogni giorno nelle banche e negli enti creditizi del Nord est vengono fatte 21 segnalazioni di operazioni finanziarie sospette di riciclaggio. Nella stessa area, nel 2018, sono stati verbalizzati oltre 4,5 reati ambientali al giorno, per un totale di 1.914 persone denunciate e arrestate e 552 sequestri. E per quanto riguarda la droga, aumenti “record” di denunce si sono registrati tra il 2016 e il 2017 in particolare in Trentino Alto Adige (+37,34%) e Friuli Venezia Giulia (+21,17%). Parte da questi numeri il focus “Passaggi a Nord Est” sulle principali illegalità nelle tre regioni del Nord est – Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige – che Libera diffonde in vista di Contromafiecorruzione, a Trieste dal 1 al 3 febbraio. Secondo i dati elaborati da Libera, che riprende l’ultima relazione semestrale 2017 della Direzione Investigativa Antimafia, nelle tre regioni sono state complessivamente segnalate 3.836 operazioni finanziarie sospette pari al 8,6% del totale nazionale. Nel dettaglio, sono 723 quelle attinenti alla criminalità organizzata mentre 3.113 quelle relative ai reati spia. Il maggior numero di segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio si hanno in Veneto (2.642), seguono TAA (621) e FVG (573).

Il pm: “Poggiolini non era così potente”

Ve lo ricordate Duilio Poggiolini? Il dominus della sanità nella Prima Repubblica, l’ex direttore del Servizio sanitario nazionale gonfio di mazzette delle case farmaceutiche, l’incarnazione del male di chi speculava sulla salute della gente? A quasi 90 anni, condannato in via definitiva per le tangenti, è ancora imputato a Napoli per la diffusione dei plasmaderivati infetti da Hiv ed epatite, provenienti dal sangue di mercenari esteri, che contagiarono migliaia di emofiliaci negli anni 70 e 80. Il pm Lucio Giugliano, della sezione coordinata dall’aggiunto Vincenzo Piscitelli, gli dedica otto pagine della requisitoria con la quale il 21 gennaio, come riferito dal Fatto l’indomani, ha chiesto la sua assoluzione e quella degli altri imputati – ex funzionari del gruppo farmaceutico Marcucci – dalle accuse di omicidio colposo plurimo. Otto pagine che articolano le valutazioni della Procura e aprono una finestra su un’Italia che quegli anni ricorreva al plasma estero perché “la carenza era quasi totale e sarebbe stato irresponsabile bloccare tout court le importazioni, gli emofiliaci sarebbero ripiombati nelle condizioni quasi drammatiche di venti anni prima”. Situazione figlia della “totale inadeguatezza ed arretratezza della legislazione italiana”, che costringeva i medici, come ha raccontato uno di loro, a prepararsi di nascosto in ospedale i crioprecipitati, sostanzialmente plasmaderivati anche questi, che per legge potevano essere prodotti solo in officine farmaceutiche.

“Il mio ospedale non rispettava la legge, lavorava clandestinamente, lo facevo anche io”. Ma Poggiolini va assolto perché, spiega il pm, non era così potente da condizionare da solo le scelte politiche, il suo ruolo – e le presunte omissioni nei controlli – avrebbe potuto incidere solo sugli emoderivati italiani e non su quelli esteri, il 93% del mercato (per le case farmaceutiche straniere c’è stata un’archiviazione), e perché il suo capo d’imputazione “del tutto generico” fa riferimento solo alle cariche e non ai reali poteri. A distanza di tanti anni, ricostruirli è impossibile.

Indagini sulla morte del legale che parlò dei 5 milioni a Ruby

Prima le dichiarazioni all’Ansa sui soldi dati a Ruby per pagare il suo silenzio con la presunta regia dell’avvocato Niccolò Ghedini, il giorno seguente le repliche del legale di Berlusconi e minacce di querele, poche ore dopo il suicidio assistito in una clinica svizzera. La vicenda dell’avvocato Egidio Verzini, malato da tempo e morto il 6 dicembre scorso, resta un punto di domanda per la Procura di Milano che ha portato Berlusconi (processo Ruby ter) sul banco degli imputati con l’accusa di corruzione in atti giudiziari per aver pagato, è l’ipotesi dei pm, il silenzio delle Olgettine.

La notizia della morte di Verzini è stata data dall’Arena il 12 gennaio e ieri dalla Stampa. Ieri la Procura di Milano ha ascoltato per due ore, come persona informata sui fatti, la compagna del legale. Tema: la morte di Verzini. Già acquisiti il certificato di morte e i documenti relativi alla cancellazione dall’Ordine degli avvocati di Verona. Non i “documenti” sui pagamenti a Karima El Mahroug di cui Verzini diceva di essere in possesso. Gli accertamenti sono in corso.

Per capire meglio bisogna tornare al 4 dicembre quando Verzini, che difese Ruby per pochi mesi nel 2011, rilascia una dichiarazione all’Ansa. L’avvocato veronese spiega che Ruby nel 2011 ha ricevuto da Berlusconi “un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico” e in particolare due milioni “sono stati dati a Luca Risso”, ex compagno di Karima, e tre “sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby”. Verzini mette sul tavolo cose note e meno note. Quella dei 5 milioni era notizia risaputa e svelata dallo stesso legale nel 2015 in un’intervista all’Espresso. Sconosciuta invece la triangolazione del denaro con Antigua e il Messico. L’ipotesi di una rogatoria viene subito scartata. Ad Antigua non è possibile fare rogatorie.

Verzini prima del colloquio con l’Espresso era stato sentito tre volte in Procura, aveva detto poco e svelato nulla. Il legale era già nella lista dei testi dell’accusa nel processo Ruby ter. Quando nel giugno del 2011 prende la difesa di Ruby, a Milano nessuno lo conosce. Lui dirà: “Io non conosco nessuno, ma dalle mie parti sono conosciuto”. Con uno degli imputati del Rubygate, Lele Mora, condivide prtò i natali veneti. È solo un particolare. Qualcos’altro invece fino a quel 4 dicembre non è noto ed è la presunta regia di Ghedini. Sempre Verzini spiega: “Dopo lunga e attenta valutazione reputo mio dovere etico e morale rendere pubblico ciò che si è realmente verificato nella vicenda Ruby (…). L’operazione Ruby – sostiene – interamente diretta dall’avvocato Ghedini con la collaborazione di Luca Risso (messo al fianco di Ruby per controllarla), prevedeva in origine il pagamento” di “7 milioni di euro, di cui un milione per me e un milione per la persona incaricata da Ghedini di accompagnarmi nell’operazione”. Dopo aver “analizzato la situazione ho proposto una linea difensiva diversa (legale e non illegale) che prevedeva la costituzione di parte civile nei confronti di Emilio Fede (…). Ruby aveva condiviso e accettato. La mia proposta è stata rigettata da Ghedini-Risso, pertanto non ho proseguito nell’operazione come da loro prospettata”. Sulla questione della parte civile, lo stesso Verzini, anni fa, dopo aver lasciato la difesa di Ruby, aveva raccontato che c’erano “stati degli interventi esterni”. Il giorno dopo Niccolò Ghedini commenta: “Queste dichiarazioni sono totalmente destituite di qualsiasi fondamento e saranno perseguite in ogni sede”.

Sempre il 5 dicembre, Verzini, che è già in Svizzera nella clinica Dignitas di Zurigo (la stessa di Dj Fabo), replica: “Le querele per calunnia non avranno esito, tutto corrisponde a verità”. Poche ore dopo Verzini muore. Oggi quelle sue dichiarazioni rischiano di aprire un nuovo fronte per Berlusconi. Sul tavolo sempre il denaro per il silenzio sui bunga bunga di Arcore. “Il pagamento – aveva detto Verzini – è avvenuto su un conto presso una banca in Messico nella località di Playa del Carmen (…) . Due milioni sono stati dati a Luca Risso, il quale ha acquistato il ristorante Sofia a Playa del Carmen, una villa e un terreno edificabile”. Nulla di tutto questo allo stato è stato accertato dalla Procura. Berlusconi, conclude Verzini, “era a conoscenza sin dall’inizio della minore età di Ruby, motivo per cui ha elargito il denaro”. Per l’entourage dell’ex Cav. sono solo “farneticazioni”.

“Non ho segreti, vi denuncio”

“I soldi di Licio Gelli, la mia partecipazione a Gladio, aver ucciso Piersanti Mattarella, la conoscenza di ‘Faccia di Mostro’: sono tutte falsità e congetture che sfido a provare, denuncerò infatti per calunnia l’associazione delle vittime dei familiari della strage del 2 agosto”. Inizia così la testimonianza di Gilberto Cavallini, accusato, 39 anni dopo, di essere il quarto responsabile della strage, insieme a Luigi Ciavardini, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, già condannati in maniera definitiva. Nell’aula della Corte d’assise di Bologna non vola una mosca. Nessuna reazione da parte dei tanti familiari presenti, un composto silenzio sdegnato. Solo alla fine Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione, commenta: “Ci denunci pure, risponderemo con i documenti, come sempre”.

Cavallini non esita, non si avvale della facoltà di non rispondere, nega di avere segreti: “L’unica persona che non ho mai presentato ai miei ‘compagni’ è il Sub, uno che modificava le armi. Il 2 agosto andammo a Padova per lui, ma a Fioravanti e agli altri non potevo dirlo e loro erroneamente pensarono che fosse Carlo Digilio”. Chi è, allora, il Sub? Rimane un mistero: “Non faccio nomi che possano finire in questo tritacarne come me”. Ambiguo sui suoi ex sodali, però ammette: “Nel 1980 con le rapine realizzammo un miliardo di lire, lo gestivo io, noi non avevamo una struttura come le Br”

L’ultrà nero dei “piani alti” tra Piazza Fontana e Bologna

La faccia l’ha messa Giusva. Faccia da tv, bimbo del Carosello e ragazzino dello sceneggiato La famiglia Benvenuti. Poi faccia da guerrigliero dello spontaneismo armato, diavolo vendicatore che spara a bruciapelo a comunisti e poliziotti e magistrati. È lui, Giusva Fioravanti, il killer nero della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Ma quella faccia da guerrigliero senza padroni ha tenuto nell’ombra tante altre facce, con più rughe e più anni e rapporti inconfessabili ai piani alti dello Stato e della P2. Il Negro, per esempio, per tutti questi anni è rimasto defilato: Gilberto Cavallini è stato condannato per banda armata, ma solo ora è a processo anche per la più sanguinosa delle stragi italiane. È lui, secondo le ipotesi d’accusa, l’anello di congiunzione dei guerriglieri neri di Giusva con i vecchi stragisti della strategia della tensione, ma anche con le barbe finte degli apparati dello Stato.

Gilberto cresce a Milano, nel quartiere Calvairate. Suo padre è fascista. La mamma – ricorda ora che dice di essersi convertito – “mi insegnava l’amore per il Vangelo di nostro Signore”. Da bambino canta nel coro della parrocchia di San Pio V. Ma finisce presto per preferire i cori di San Siro. Diventa un ultrà, è uno dei fondatori dei “Boys San” dell’Inter. La prima denuncia la becca nel 1974, a 22 anni, per aver sparato a un benzinaio che si era rifiutato di fargli il rifornimento. Ormai è un nero, un fascista, un picchiatore. A differenza di molti suoi camerati, non ama le sofisticherie germaniche e le Ss, preferisce l’italico fascismo mussoliniano, versione Salò. Il suo mito: i torturatori della Legione Muti.

La sera del 27 aprile 1976, per vendicare il camerata Sergio Ramelli ucciso dai rossi un anno prima, il suo gruppo aggredisce tre compagni in via Uberti. Resta a terra, accoltellato, Gaetano Amoroso, 21 anni. Morirà due giorni dopo. Cavallini è arrestato e condannato a 13 anni, ma evade durante un trasferimento e scompare. A proteggerlo, da qui in avanti, è il gotha del neofascismo italiano. Massimiliano Fachini, uno dei leader di Ordine nuovo (il gruppo delle stragi di piazza Fontana e di Brescia), lo nasconde in Veneto. L’ambiente è quello di Franco Freda, considerato l’ideatore della strage del 12 dicembre 1969. Per tutti, Cavallini diventa Gigi Pavan, mandato più volte in missione a Roma, dove tiene i contatti con Sergio Calore e il gruppo di Paolo Signorelli, “Costruiamo l’azione”. A Roma incontra anche un ragazzo emergente, Giusva Fioravanti. Quando questi è in difficoltà, per aver sparato ad Antonio Leandri, ucciso per uno scambio di persona, Cavallini porta Giusva con sé in Veneto, a Villorba di Treviso, dove lo nasconde a casa della sua ragazza, Flavia Sbroiavacca, allora incinta. Abile ad apparire ciò che non è, Cavallini le ha fatto credere per mesi di essere un pendolare, di lavorare in una fabbrica di Padova. Solo quando nascerà il figlio le confesserà di essere un evaso e un latitante.

Per Giusva e il suo gruppo, la trasferta veneta è l’occasione per il salto di qualità. Il 23 giugno 1980, i Nar uccidono a Roma il sostituto procuratore Mario Amato, titolare delle principali inchieste sui neri. A sparargli alla nuca, mentre aspetta l’autobus 391, è Cavallini. Due mesi dopo, esplode la bomba di Bologna. In quelle settimane, c’era un altro giudice che doveva morire: Giancarlo Stiz, il primo che aveva indagato sulla pista nera per piazza Fontana. L’attentato non fu poi compiuto, ma Stiz ebbe la prova di essere stato nel mirino quando, giudice nel collegio che stava processando Fioravanti e Cavallini per una rapina a un gioielliere, il difensore di Giusva gli chiese di astenersi perché era stato obiettivo del suo assistito.

Amato, Stiz, la stazione di Bologna: era una campagna di morte quella progettata nell’estate 1980, che con l’uccisione di Stiz avrebbe unito la prima strage, piazza Fontana, all’ultima e più cruenta. Giusva è un brigatista nero, che spara prima di pensare. Il Negro è invece un uomo di collegamento, che lega i nuovi guerriglieri dello spontaneismo armato ai vecchi stragisti degli anni Sessanta: il medico veneziano Carlo Maria Maggi, capo di Ordine nuovo triveneto, processato e assolto per piazza Fontana e condannato per la strage di Brescia; Carlo Digilio detto zio Otto, l’esperto di armi di Ordine nuovo, in contatto con gli americani di Aviano, informatore della Cia con il nome in codice di Erodoto. Unico condannato (reo confesso) per la strage del 12 dicembre a Milano, Digilio prima di morire ha raccontato dei suoi incontri con Maggi e “un giovane che aveva bisogno di far valutare una partita di armi”: era Gilberto Cavallini, che ieri, al processo in corso a Bologna, ha finalmente ammesso di averlo incontrato. Ora è difficile che quel processo, che corre parallelo a una nuova indagine sui mandanti condotta dalla Procura generale, non si ponga due domande: Cavallini aveva contatti con apparati dello Stato? E ha ricevuto finanziamenti da Licio Gelli e dalla P2? Un vecchio documento sequestrato a Gelli, intestato “Bologna-525779XS”, racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS, proprio tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Altre note, scritte a mano da Gelli, riguardano contanti da portare in Italia: 4 milioni di dollari solo nel mese che precede la strage. A chi erano destinati? Un altro documento è stato invece trovato il 12 settembre 1983 in un “covo” di Cavallini a Milano: è una mezza banconota da mille lire. Secondo le carte di Gladio, la mezza banconota è il lasciapassare per i gladiatori – o per i membri di una pianificazione ancor più segreta, l’Anello – per presentarsi nelle caserme e ritirare armi ed esplosivo.

Perfino Giusva, convocato come testimone al processo nel giugno 2018, ha dovuto ammettere: “Su mio fratello Cristiano, su Francesca Mambro e Alessandro Alibrandi, sui miei amici fraterni, sono sicuro che non hanno mai avuto rapporti con i servizi segreti. Per quanto riguarda Cavallini non metto la mano sul fuoco, certe sue risposte mi sono sembrate strane, come l’aver negato a lungo di conoscere Digilio, uno che disse spontaneamente di aver lavorato per 20 anni con i servizi segreti militari e non”. Ieri Cavallini ha replicato alla cronista: “Sa dove se la deve mettere, Giusva, la mano?”. La Corte d’assise che ora deve giudicarlo dovrà dunque decidere non soltanto se aggiungere un quarto responsabile della strage ai tre già condannati (Fioravanti, Mambro e Luigi Ciavardini), ma se collegare il 2 agosto 1980 al 12 dicembre 1969, con fili neri fatti di depistaggi, logge eversive, servizi segreti.

Autonomia, secessione, silenzio e T. S. Eliot

Sì, certo, c’è il caso Sea Watch e il processo a Salvini. Per carità, pure i 40 mila euro di Beppe Grillo, Maduro dittatore brutto e i talebani che invece si sono fatti democratici, la Brexit e le relative cavallette, il razzismo negli stadi, i benefici del Tav e mille altre importanti notizie raccontate (e/o fraintese) dai media, vecchio stile o social che siano. Vorremmo aggiungere, però, alla lista su cui si esercita la libertà di pensierino (che dio benedica Arbasino) del pubblico sovrano una bagattella trascurata forse, e ribadiamo forse, perché ha l’appoggio del 90% delle forze parlamentari: ci riferiamo alla famosa “autonomia differenziata” per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che dovrebbe essere approvata il 15 febbraio, nota ai suoi critici come “secessione dei ricchi”. Si tratta di una complessa cessione di poteri dallo Stato alle Regioni che, nelle intenzioni dei proponenti (in specie dei leghisti), dovrebbe coinvolgere il gettito fiscale e l’articolazione della pubblica amministrazione sul territorio (scuola, sanità) finendo, in sostanza, per creare un’Italia a 21 velocità. Ora, al di là delle opinioni, il problema è che di questa profonda riforma dell’assetto istituzionale – iniziata col governo Gentiloni e proseguita dai gialloverdi – nulla si sa: nessuno conosce i testi dei tre accordi in arrivo a Palazzo Chigi (che il Parlamento potrà solo bocciare o modificare con l’assenso delle regioni interessate), né risultano pubbliche discussioni nel merito. D’altronde è così, lo sapeva già T.S. Eliot, che finisce il mondo: con un lamento, non con uno sparo.

Aosta, là dove c’era la Vallée c’è la mafia (e pure le inchieste)

Da anni va dicendo e scrivendo che la Valle d’Aosta non è la versione francofona della patria di Heidi, che la corruzione qui rumina più delle mucche della Vallée e che la ’ndrangheta si è da tempo insediata nella regione più piccola, ricca e felice d’Italia. Si chiama Roberto Mancini, uomo di cultura e giornalista freelance. La ’ndrangheta è la sua ossessione, dice chi non lo ama. È da almeno dieci anni che scrive, su Nuova società, sempre nuovi capitoli della storia della ’ndrangheta in Valle. Ora gli chiederanno scusa? Gli daranno un premio? Ora che la ’ndrangheta in Valle d’Aosta è certificata dagli atti dell’inchiesta “Geenna” della Procura di Torino. Sì, anche ad Aosta la ’ndrangheta ha una sua “locale”, gruppo criminale della cosca Nirta-Scalzone con radici a San Luca, provincia di Reggio Calabria, e affari in Valle. Erano sotto osservazione da tempo, i Nirta, “famiglia che annovera numerosi soggetti dediti al traffico internazionale di droga. Alcuni appartenenti a tale famiglia negli ultimi anni si sono radicati in Valle d’Aosta”. Giuseppe Nirta, ucciso nel 2017 in Spagna, secondo gli investigatori aveva messo su un bel traffico di cocaina tra Spagna, Calabria e Valle d’Aosta. Il capo della “locale” valdostana, per le ipotesi d’accusa, è Marco Fabrizio Di Donato, cognato di Nirta, fiancheggiato da Bruno Nirta, fratello di Giuseppe, e Tonino Raso, titolare del ristorante pizzeria La Rotonda, dove avvenivano gli incontri in cui si decidevano scelte, strategie, business. Appalti, incarichi pubblici, traffici di coca. Non senza rapporti eccellenti, con la magistratura e la politica. Nirta è stato intercettato a lungo. I carabinieri avevano informato soltanto Pasquale Longarini, procuratore di Aosta facente funzioni. E di colpo – guarda caso – Nirta si era cucito la bocca: Longarini (già arrestato nel 2017 per altre vicende di corruzione) evidentemente parlava troppo. Gli arresti che hanno fatto più rumore sono quelli di tre politici locali dell’Union valdôtaine: Marco Sorbara, ex assessore ad Aosta poi eletto consigliere regionale; Monica Carcea, assessore del Comune di Saint-Pierre, che ora rischia lo scioglimento per mafia; Nicola Prettico, consigliere comunale ad Aosta, sindacalista della Uil e dipendente del Casinò di St. Vincent.

La politica: è questa che fa la differenza tra una banda di criminali e un gruppo mafioso. E la cosca valdostana li ha, i politici “amici”. I tre dell’Union, secondo l’accusa, erano a disposizione del gruppo ’ndranghetista. Raccontavano agli affiliati della cosca quello che succedeva dentro le amministrazioni pubbliche. Li aiutavano a ottenere (o mantenere) incarichi pubblici, come il servizio di trasporto scolastico, effettuato dalla Passenger Transport, azienda intestata al cognato di Tonino Raso. In cambio, i calabresi davano una mano agli amici dentro la politica: pacchetti di voti alle elezioni. “300 o 400 voti messi a disposizione nelle varie consultazioni elettorali”, spiegano i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Torino, sono sufficienti a garantire il successo politico degli “amici”. Se poi ci sono contrasti dentro l’Union, ecco l’intervento degli amici degli amici: per risolvere, “con metodo intimidatorio”, le tensioni che l’assessore Monica Carcea aveva dentro la giunta comunale di Saint-Pierre.

È una storia lunga, quella della ’ndrangheta in Valle. Iniziata almeno negli anni Ottanta. Nel 1991 ci fu anche il primo morto ammazzato: Gaetano Neri. Partì l’inchiesta “Lenzuolo”, a cui seguirono la “Tempus venit”, la “Hibrys”, la “Gerbera”, la “Caccia Grossa”. Infine, oggi, la “Geenna”. Nomi esotici per una realtà che ora non si può più negare: la mafia calabrese ha impiantato salde radici nella terra dell’Heidi che parla in patois.