Perché la legge sui beni comuni. È pericolosa

La proposta di legge di Iniziativa Popolare (LIP) per i beni comuni, illustrata su queste pagine dal prof. Ugo Mattei, è estremamente pericolosa, nonostante il brand di Stefano Rodotà. L’impianto culturale sottostante e le norme qualificanti del testo sono, certo involontariamente, sinergiche al paradigma liberista e ne allargano il dominio sui residui spazi sociali ancora preservati dai beni pubblici.

Per motivare tale affermazione, richiamo l’epicentro della LIP. L’art 1, comma 3, Lett c), al terzo paragrafo prevede: “Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o soggetti privati”. Qui, a parte la riduzione del pubblico a semplice “persona giuridica” pari-ordinata ai soggetti privati, si programma di sottrarre alla sfera pubblica e affidare a titolarità privata i beni comuni. Va sottolineato che, nella LIP, i soggetti privati possibili titolari dei beni comuni non sono definiti. Secondo i proponenti, dovrebbero essere cooperative di milioni di cittadini, dove “uno vale uno”. Nella realtà, invece, “il sapiente uso contro-egemonico dell’autonomia privata”, previsto dal prof. Mattei, giocherebbe a favore proprio di imprese nazionali o multinazionali. Anche perché la LIP è Legge Delega (nella versione presentata dal Pd a febbraio 2010 al Senato). Quindi, si affidano al governo i decreti attuativi. Vuol dire che il governo (Salvini?), in coerenza con i generici principi di delega, potrebbe emanare decreti per consentire l’attribuzione, tramite gara, della titolarità dei beni comuni a qualunque tipologia di soggetto privato. Così, potrebbe essere indetta una gara per la titolarità del Colosseo, di una foresta in Umbria o di una spiaggia in Calabria tra la cooperativa “Stefano Rodotà”, da un milione di euro di capitale, e la Pirelli R.E. di ChemChina da 60 miliardi di fatturato. Così, si consegnerebbero, tramite il mercato, i beni pubblici e la connessa “fruizione collettiva” allo sfruttamento capitalistico e al profitto, esplicitamente previsto dalle norme.

Attenzione: è necessario introdurre in legislazione la categoria di bene comune e consentirne la gestione partecipata e l’autogestione ai lavoratori, agli utenti, ai cittadini, di un ampio insieme di beni pubblici. È anche necessario correggere gli articoli del Codice Civile oggetto della LIP per garantire la funzione pubblica della proprietà privata. A tal fine, il prof. Paolo Maddalena ha elaborato un’efficace proposta in via di presentazione alla Camera. È, invece, un clamoroso autogol proporre i beni comuni come categoria alternativa ai beni pubblici e prevederne la titolarità privata. È un autogol frutto dell’ideologia dell’imminente sollevazione delle “moltitudini comunitarie” e dell’“autonomia del sociale” contrapposta allo Stato-strumento immanente del capitale.

Va, al contrario, confermata la nostra Costituzione dove la proprietà è pubblica o privata, dove la proprietà privata è vincolata a irrinunciabili funzioni sociali, dove lo Stato è comunità e la forma necessaria all’espressione della sovranità popolare. Stato non è governo. Privatizzazioni e liberalizzazioni sono opera dei governi. Lo Stato è la posta in gioco del conflitto sociale e della dialettica politica, ricorda in un bel post su senso-comune.it Marco Adorni.

Amara conclusione: nella fase storica davanti a noi, schiusa dall’insostenibilità sociale del neo-liberismo, è davvero difficile costruire una cultura e un soggetto politico utile a ridare valore costituzionale a lavoro e sovranità popolare. Oltre alla destra nazionalista, si deve affrontare, da un lato, la sinistra riformista ancora subalterna all’europeismo liberista e, dall’altro, la sinistra antagonista di ottime intenzioni, ma di fatto funzionale al dominio dell’economico sul sociale attraverso iniziative di ulteriore smantellamento dello Stato e privatizzazione dei beni pubblici.

Aristodem a bordo della Sea Watch

Siccome stiamo sempre dalla parte dei più deboli, siamo indotti dagli eventi recenti a disinteressarci della tragedia dei 47 migranti adulti e bambini tenuti a galla dentro una confortevole nave al largo di Siracusa per dedicarci anima e corpo al vero dramma di tutta la questione: le condizioni dei deputati del Pd che sono saliti a bordo per visitare i profughi. Tutti infradiciati e infreddoliti sulla scialuppa che li ha condotti alla bagnarola e poi di nuovo a terra, i prodi sono riusciti comunque a comunicare con la terraferma: “Non è di me e @maumartina che bisogna parlare oggi”, ha valorosamente twittato Matteo Orfini vestito da marinaretto, “ma delle 47 persone salvate in mezzo al mare e scappate da una condizione terribile. Noi abbiamo fatto solo il nostro dovere”, bontà sua (con lui e Martina c’erano Faraone, Miceli, Raciti, Sudano e Verducci).

Per nulla spaventati dalla sfida, pronti alla morte, i dem devono aver pensato che la sbarazzina iniziativa di protesta intitolata “Non siamo pesci” non fosse sufficiente, chissà perché. Così si sono uniti a Nicola Fratoianni – che però, al contrario di loro, ha sempre seguito i calvari delle navi delle Ong e visitato i peggiori Cara d’Italia quando questi erano sponsorizzati come modelli di accoglienza dal Pd di Minniti che voleva moltiplicarli – e, inopinatamente, a Stefania Prestigiacomo, che coi brillocchi alle orecchie e la giacca a vento da regata a Montecarlo s’è offerta alle onde dacché si è scoperta l’uzzolo umanitario, benché sia stato il governo Berlusconi di cui era ministra a ideare la Bossi-Fini, quel gioiello tuttora vigente di accoglienza e solidarietà (dobbiamo a essa il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per chi soccorre una persona che sta affogando). Non sorprende che tra chi l’ha insultata ci siano i peggiori, che è tutto dire, del suo partito.

Ma torniamo ai nostri eroi. Appena tratto in salvo, Orfini ha twittato le strazianti testimonianze: “I campi in Libia sono un inferno che non finisce mai, ci hanno detto i migranti sulla #SeaWatch. Io e @maumartina siamo appena rientrati in porto”. Evidentemente Orfini, che del Pd è non a caso presidente, non ha mai letto il memorandum di accordo tra Italia e Libia stilato nel gennaio del 2017 dal governo Gentiloni sotto le grazie del ministro Minniti, accordo che prevedeva che l’Italia desse soldi e mezzi a Tripoli in cambio del gentile trattamento di soggiorno offerto dal regime ai potenziali migranti. Singolare che dell’“inferno che non finisce mai” Orfini abbia notizia solo adesso che sono al governo gli altri. A dare coloritura drammatica alla vicenda invero farsesca, è sopravvenuta per fortuna una notizia di indagini: “Sbarcando dalla nave abbiamo scoperto di essere indagati”, ha detto Orfini togliendosi lo scafandro, “perché a quanto pare la nostra presenza sulla Sea Watch costituirebbe un reato” (se solo fossero stati al governo, avrebbero potuto abolirlo).

Immediata solidarietà da tutti i valorosi del Pd. Fiano: “Indagati Martina e Orfini. Bene tra poco potrete indagare anche tutti gli altri parlamentari del Pd perché saliremo tutti”, ha minacciato. La Morani ha retwittato: sì, “Saliremo tutti”. Trattasi di una “staffetta democratica”, simile a quel singolare sciopero della fame per lo Ius Soli a cui aderirono alcuni pidini perché il Pd non aveva i numeri per approvarlo in aula, ma appunto a staffetta, perché gli stomacucci delicati non avessero a patirne troppo. Insomma, per i poveri migranti l’inferno non ha davvero mai fine.

Ma al di là del fact checking, che sarà pure utile ma ha il difetto di liofilizzare l’umano, basta guardarli in faccia, questi aristodem dell’Operazione Sottoveste. Gente mai vista in prima linea a difendere nessuno, né italiani da sette generazioni, né migranti, né nuovi italiani, né sfollati, né naufraghi, né diseredati, e che prima di varare la delegazione marittima, al freddo della miseria ha sempre preferito il calduccio degli studi televisivi. Prestare soccorso ai disperati è l’ultima cosa che farebbero se non ci fossero elezioni all’orizzonte, un po’ come quando tennero una direzione del Pd a Tor Bella Monaca, di cui avevano sentito parlare come di una landa desolata alla periferia estrema di Roma, vestiti da esploratori, con sahariana e binocolo, a caccia di quella fauna esotica e misteriosa i cui esemplari, noti col nome volgare di “poveri”, votano tutti – stando a loro i fascisti, gli incompetenti e i cialtroni – fuorché loro. Solidarietà dunque a questi crocieristi della solidarietà, magari dotati improvvisamente di buone intenzioni ma in definitiva figurine incoerenti e fuori luogo, di quelle che da piccoli ritagliavamo dagli album per attaccarle nei posti più impensati (il postino nella centrale nucleare, il contadino in banca, il deputato del Pd dove si soffre).

Mail box

 

Renzi ci ha lasciati alla Lega ma una parte sana del Pd c’è

Ieri a Presadiretta è andato in onda un servizio sul senatore leghista Pillon e il suo allucinante progetto di legge che fa davvero temere un arretramento di decenni, viste le gravi limitazioni per le più importanti conquiste del secolo scorso che propone, dal divorzio all’aborto. Per non parlare del tentativo di ridimensionare il tema della violenza sulle donne, offrendo più attenuanti a chi le violenze le mette in atto. Se Renzi avesse mantenuto le promesse e si fosse ritirato dalla politica insieme ai suoi adepti anziché paralizzare il partito, oggi non dovremmo sopportare i diktat della Lega, e niente di quel che fa parte del governo puzzerebbe di razzismo, fascismo e omofobia. Da vecchio elettore di sinistra, ringrazio il Partito democratico renziano per questo bel regalo. Ancora oggi, viene davvero difficile capire perché il partito che dovrebbe rappresentare la sinistra, ha così ostinatamente rifiutato di ascoltare e provare a costruire qualcosa con gli unici che tra le loro istanze, avevano ed hanno molte delle loro idee e dei loro programmi di sinistra. D’altra parte, con grande soddisfazione, oggi apprendo che l’assemblea capitolina ha approvato a maggioranza una mozione proposta dalla parte sana del Pd votata anche dai consiglieri del Movimento 5 Stelle per sgomberare CasaPound.

Paola Sanna

 

Ricordiamo da dove veniamo perché rischiamo di tornarci

Vorrei poter dire ai miei connazionali che dopo questo governo, che muove i primi passi verso il cambiamento c’è solo il nulla. Quel 51% di votanti che avrebbe portato il Movimento 5 Stelle a governare da solo, se non fosse stata approvata una legge elettorale capestro, deve ricordare ogni giorno da che dissesto morale, economico siamo partiti e meditare sul dato incontestabile che il Paese è devastato. Come è possibile che nel giro di poche settimane il giudizio di persone possa modificarsi generando questo pericoloso e sterile vortice di critiche e riprovazione sull’operato dell’esecutivo tanto da produrre la migrazione delle preferenze dai Cinquestelle a Salvini? Com’è possibile che la gente non sia in grado di valutare che occorrono tempo, prudenza e pazienza per la realizzazione di riforme pesanti? Io una piccola idea me la sono fatta, è il tam tam dei social e l’abuso di Whatsapp.

La gente non si prende più il tempo di leggere o ascoltare con spirito critico le notizie del giorno. Invece ama trasmettersi centinaia di boutade, incessantemente, assumendole per verità assolute, specie sull’onda delle emozioni che generano.

Dovrebbero capire che non si deve seguire passivamente e che, dopo la caduta di questo governo, non ci sono margini di scelta. Anche perché all’orizzonte della politica si è riaffacciato (se mai se ne fosse allontanato) Berlusconi.

Nicoletta Wetzl

 

La giustizia italiana chiede aiuto ma la politica non ascolta mai

Ormai è una scontata consuetudine che a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario i Procuratori generali e Presidenti delle Corti d’appello della penisola elevino il loro kyrie eleison sempre più stanco ai rappresentanti del governo e del Parlamento seduti ascoltare. I problemi della giustizia in italiana sono da decenni sempre gli stessi e a farne le spese sono tutti i cittadini tutti e il sistema economico che si trova privo di quelle certezze indispensabili per programmare ed affrontare mercati e concorrenza. Anche le risposte a questa mancanza irrisolta sono, purtroppo, sempre le medesime anzi, a ogni cambio di governo c’è sempre un di più ad aggravare lo stato delle cose. Basti dire, per fare un esempio affatto irrilevante, che da dicembre scorso in Veneto sono per la strada definitivamente circa 1500 tirocinanti precari in forza dal 2010 presso tribunali e procure, depennati dall’ultima finanziaria che non ha erogato alcuna cifra nè per una proroga del loro servizio nè tantomeno per una stabilizzazione in pianta organica. Un servizio rivelatosi decisivo per consentire un regolare funzionamento di uffici, archivi , sportelli per il pubblico. Questo a fronte di piante organiche rimaste ferme a quando questa regione era terra di migranti e contadini, sempre “incerottate” ricorrendo al personale di altre amministrazioni o a gente in quiescenza.

Vittorio Trabucco

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo di Lo Bianco e Rizza pubblicato nell’edizione del 29 gennaio, desidero precisare che il saluto con i funzionari della Questura di Palermo e le cariche istituzionali è stato organizzato da me presso il chiostro della Questura con un modesto catering del bar Marocco di corso Vittorio Emanuele e non certo al ristorante la Cuccagna. Il tutto è ovviamente documentabile e ampiamente riscontrabile. Chiedo la rettifica ritenendo lesivo quel riferimento in quanto inserito in un contesto storico che non mi appartiene.

Guido Longo, ex Questore di Palermo

 

Prendiamo atto della precisazione del dottor Longo relativa alla testimonianza del funzionario di polizia Gioacchino Genchi che ha deposto l’11 gennaio scorso all’udienza del processo sul depistaggio di via D’Amelio. Da noi interpellato, Genchi ha però insistito sulla sua versione.

G.L.B. e S.R.

Meridione. Una “questione” che si risolve solo copiando la Germania di Leibniz

Ho letto il dibattito tra Angelo Petrella e Fabrizio d’Esposito a proposito della “questione napoletana”. Mi sembra un argomento interessante, alla luce del fiorire di letteratura, musica e arte partenopee cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni. Mi chiedo e vi chiedo, però, che senso ha nel 2019 parlare ancora di una “questione meridionale”. Non dovremmo aver superato i confini territoriali, almeno nel mondo della cultura?
Agnese Arbasino

 

Signora Agnese Arbasino, gentilissima, ha senso parlare di questione – partenopea, siciliana, calabrese e meridionale in genere – perché proprio non s’è mai risolta. Nel mondo della cultura, poi, meno che mai se l’Italia non ha mai saputo manovrare un Giambattista Vico, tra i giganti del pensiero universale, alla stregua di quel che fanno i tedeschi con un Gottfried Leibniz. Non serve che al pittoresco un “Gomorra”, tanto quanto un Mario Puzo col “Padrino”, se tutto quel profondersi di gnagnera va a finire nella retorica della legalità o, Diocenescampi, nell’impegno. Il pensiero meridiano ha una sola funzione, svegliare finalmente la politica nella direzione obbligata: il Mediterraneo. E non per farne un campanile, un cortile chiuso, al contrario: per l’opportunità ghiotta di acchiapparsi il futuro perché la contemporaneità – quella di tutti, Europa, Africa, Asia e quel che resta dell’Occidente – passa sotto il nostro naso. La Questione meridionale, infine, si risolve in un solo modo: copiando. Non c’è altro che ripetere ciò che Helmut Kohl fece nella sua Germania: riunire la nazione. Ed è un atto politico che impegna l’Italia in qualcosa che non è mai stato fatto. Ecco, riunire le due parti separate: il Sud che ebbe risorse e sapienza intellettuali, il Nord che ha guadagnato un benessere collaudato nelle virtù sociali. Basti pensare a cos’era il Veneto dell’esodo migratorio, e così osservare – oggi – a cosa si sia ridotto il Mezzogiorno della penisola: un territorio svuotato di vita e di speranza. La questione è tutta al Sud: coi giovani che se ne vanno via, e con un’emorragia inarrestabile di “cervelli”, “professionalità” e “speranze” neppure compensata dall’arrivo dei migranti. Lo so di ripetermi, gentile signora, ma devo ripetermi perché a questo punto il copione lo prevede. Con Leo Longanesi, stanco di troppe retoriche, urge la battuta: “Per quel che mi riguarda il problema del Mezzogiorno io l’ho risolto, mangio all’Una!”.
Pietrangelo Buttafuoco

 

Al punto informazione c’è una sola persona. “Aspettiamo che la Regione ci dia indicazioni”

Il centro è affollato, ma non pienissimo. La lunga coda inizia già prima dell’apertura. Al punto informazione c’è solo una persona, che smista le pratiche in base alle esigenze. Qualcuno si è prenotato via web, tramite l’agenda online, altri invece hanno iniziato a fare la fila nella mattinata. Alle 10.12 sono arrivati al numero 50. “Oggi non c’è confusione – ci spiega Matteo –, dovrei finire entro un’oretta”. Con la sua pratica in mano, il 28enne aspetta il suo turno. “Ho finito gli studi l’anno scorso, ho lavorato nei call center, come fattorino e nella ristorazione, ma non posso farlo tutta la vita, mi serve altro”.

Nella città metropolitana di Catania, secondo gli ultimi dati Istat, la disoccupazione tra i 15 e 34 anni è del 42,8%, mentre gli inattivi sono al 67,8%. Nell’ultimo anno, alle pendici dell’Etna si è registrato un aumento della disoccupazione dell’1,6%. Per una platea di disoccupati pari almeno a 137 mila persone, tante sono in media quelle che ogni anno accedono alla disoccupazione (la Naspi).

A poco a poco la fila si snellisce, ma negli uffici continua ad arrivare gente. Ad aspettare ci sono molte persone adulte e tanti giovani. Tra loro c’è Denise, una ragazza madre accompagnata di genitori, che non ha neppure trent’anni. “Ho fatto un corso d’estetista e uno da parrucchiera, ho due figli ma non c’è lavoro. Reddito di cittadinanza? Non ci credo molto, ma spero di rientrarci”.

Se gli utenti hanno dei dubbi, i dipendenti non sono da meno. Dagli uffici del Centro dell’impiego traspare una netta difficoltà nella gestione delle procedure per il reddito di cittadinanza. “Quello che potrei dirle sono le stesse cose che leggiamo sui giornali – ci spiega un dipendente – non abbiamo avuto disposizioni dalla Regione, aspettiamo di avere indicazioni ufficiali. Al momento non si sa neppure come si dovranno fare le istanze per il reddito di cittadinanza”.

In Abruzzo a gestire le domande dei 250 mila aventi diritto ci si sono solo 169 impiegati

Sono 70 mila le famiglie abruzzesi che potrebbero aver diritto al reddito di cittadinanza. Un numero importante, che declinato nel dettaglio dei residenti si traduce in qualcosa come 250 mila persone. Più o meno, un sesto di tutta la popolazione regionale.

Certo, quello elaborato da Abruzzo Lavoro, la struttura regionale dedicata alle politiche dell’occupazione, è un dato “ampio”, che non intercetta, in questa fase, tutta una fascia di famiglie che potrebbero essere escluse dal godimento del reddito di cittadinanza per la presenza di un “disoccupato volontario”.

“Il comma 3 dell’articolo 2 del decreto prevede che non abbiano diritto al reddito di cittadinanza i nuclei familiari che hanno tra i componenti soggetti disoccupati a seguito di dimissioni volontarie – spiegano da Abruzzo Lavoro – e questo significa escludere non il singolo ma la famiglia intera”. Intanto, mentre in Abruzzo imperversa la campagna elettorale (il 10 febbraio si vota per la Regione), c’è chi fa i conti e scopre che a reggere l’impatto con i 250 mila aventi diritto sarà una macchina organizzativa gravemente sottodimensionata, visto che i 15 centri dell’impiego possono contare su 169 impiegati totali, ma distribuiti in maniera non omogenea.

Così, se nell’Aquilano la situazione è tutto sommato accettabile, nelle altre province le cose sono molto diverse. A Chieti, capoluogo di provincia con 51 mila residenti, gli impiegati sono solo 3 e a Pescara, che deve gestire oltre 200 mila persone, più volte, sono dovuti intervenire i carabinieri, chiamati dai cittadini esasperati dalle file che i 16 dipendenti gestiscono a fatica. Intanto, allo sportello di Teramo continua la processione di quelli che vanno a chiedere: “Ma quando ce lo date il reddito di cittadinanza?”.

Dal prossimo mese entreranno in servizio 68 nuovi addetti. “Ma l’offerta è di basso livello”

“Scusi, è qui che devo venire per il reddito di cittadinanza?”. Sì, rispondono nel Centro per l’impiego di via Cesarea a Genova. Personale cortese, uffici puliti nel palazzo stile Ventennio del centro città. Tutto a posto? L’assessore regionale Giovanni Berrino (Politiche del Lavoro) non nasconde i dubbi: “I centri per l’impiego finora seguono 59 mila persone (il 52% sono ultraquarantenni). Da maggio, con il reddito di cittadinanza abbiamo calcolato che in Liguria altre 115-125 mila persone si rivolgeranno a questi uffici. È una grande incognita, il rischio è che tutte le novità restino sulla carta. Non ci si può limitare all’assistenzialismo, bisogna avviare una politica attiva”, è la teoria di Berrino. Ma le preoccupazioni sono molto pratiche: “Da febbraio entreranno in servizio 68 nuovi assunti – con contratti a tempo determinato di due anni – che ci dovrebbero aiutare a migliorare il funzionamento del centro per l’impiego”. Certo, restano vecchi problemi: “Soltanto il 3 per cento della popolazione si rivolge a questi uffici”, spiega Berrino. Pochi, troppo pochi. L’offerta talvolta è di livello basso, lo vedi anche dai volantini appesi ai muri: “Si cercano badanti”. In Liguria proprio a fine gennaio era previsto un cambio organizzativo: dalle cooperative agli enti accreditati. Che saranno sparsi sul territorio e dovrebbero ottenere l’accreditamento a seconda della loro capacità di fornire un effettivo accesso al mondo del lavoro. Luci e ombre. Ed ecco arrivare il reddito di cittadinanza che aumenterà gli utenti di questi uffici di quasi il 300%. “Vero, le pratiche saranno sbrigate dai navigator”, spiega Berrino, ma non nasconde i dubbi: “Queste nuove figure, assunte come Co.co.co, saranno inquadrate da Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), ma lavoreranno nei nostri centri per l’impiego. E allora non possiamo tacere i dubbi pratici: saranno formate in tempo? Dove si sistemeranno? Avranno attrezzature adeguate per svolgere il loro compito? Altrimenti il reddito di cittadinanza rischia di restare assistenzialismo e velleità”.

Istituto di statistica, confermato il prof. voluto dalla Lega

C’è il via libera del Parlamento alla nomina di Gian Carlo Blangiardo a presidente dell’Istat. Demografo, professore ordinario all’università Bicocca di Milano, classe 1948, Blangiardo attendeva da mesi questo voto. Manca il passaggio definitivo in Consiglio dei ministri e l’ufficializzazione con decreto del presidente della Repubblica. Il demografo di Arona (provincia di Novara), esperto in flussi migratori e politiche per la famiglia, è pronto a succedere a Giorgio Alleva, che in realtà è già stato sostituito, il suo mandato è scaduto a fine agosto. Ora all’Istat, infatti, siede Maurizio Franzini, docente di politica economica alla Sapienza, per gestire la “vacatio”. Per completare la procedura potrebbe essere necessaria ancora qualche altra settimana. Ma intanto è stato superato lo scoglio del consenso nelle commissioni affari costituzionali del Senato e della Camera, dove per passare la nomina ha dovuto raggiungere il quorum dei due terzi. A Montecitorio e Palazzo Madama determinanti, infatti, sono stati i voti di Forza Italia, che si è unita alla maggioranza. Una mossa che il sindacato della conoscenza, l’Flc Cgil, giudica come un “atto di forza del Governo contro il mondo della ricerca pubblica”.

Assegno&trucchi. Tutti i guai dell’impiegato Caf di Palermo

La Cgil ha aperto un procedimento disciplinare e il Pd è in attesa di una sua autosospensione. “Ma se non arriva – dice il segretario palermitano Carmelo Miceli – saremo noi a sospenderlo in via cautelativa”. Per Sandro Russo, consigliere comunale del Pd a Monreale, l’impiegato del Caf sorpreso dalle telecamere di Massimo Giletti a distribuire consigli per aggirare i paletti del reddito di cittadinanza, è arrivato lo stop temporaneo alla vita sindacale e di partito, avallato dai vertici nazionali. Il segretario regionale della Cgil, Michele Pagliaro, ha confermato che la contestazione, ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, gli è stata già notificata martedì scorso. “Ora ha 5 giorni per produrre le controdeduzioni”. Consigliere comunale del Pd (e già assessore) a Monreale, e da 15 anni nella Cgil, Russo ha negato tutto: “Sono stato raggirato dal giornalista. Io ho solo raccontato tutte le falle del sistema’’. Il caso sollevato dal vicepremier Di Maio ha provocato l’intervento della Guardia di Finanza nella sede del Caf, in piazza Marina a Palermo, dove sono stati sequestrati numerosi documenti. E per Russo – difeso dall’omonimo (ma non parente) deputato del Pd, Tonino Russo – non è il primo inciampo in una vicenda imbarazzante. Da presidente della cooperativa Sintesi di Monreale nel 2016 finì sul banco degli imputati accusato di peculato per avere organizzato tirocini di formazione per la pulizia e la sanificazione, quasi 2 milioni di euro ottenuti dall’ospedale di Villa Sofia per due corsi di sei mesi a favore di 150 disoccupati tra il 2006 e il 2007. Per lui il pm Gaspare Spedale aveva chiesto la condanna a quattro anni e mezzo di carcere, ma il giudice monocratico Erica Di Carlo aveva considerato regolari quei tirocini. Per un curioso paradosso, le indagini erano partite da un esposto della Cgil che considerava quelle prestazioni di lavoro effettivo mascherato da tirocinio.

Reddito, troppi vincoli per gli stranieri: rischio bocciatura alla Consulta

Limitare l’accesso al reddito di cittadinanza ai soli cittadini extraeuropei che risiedono in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo, rischia di andare contro la Costituzione. A rilevarlo sono i tecnici del Servizio studi del Senato riportando alcune sentenze della Corte Costituzionale che hanno sancito come “lo status di cittadino non sia di per sé sufficiente al legislatore per operare nei suoi confronti erogazioni privilegiate di servizi sociali rispetto allo straniero legalmente risiedente da lungo periodo” e che hanno “ritenuto irragionevoli alcune disposizioni che richiedono come requisito necessario una permanenza nel territorio di molto superiore a quella necessaria all’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo (5 anni)”.

Il reddito agli stranieri è stato uno dei punti più dibattuti negli scorsi mesi: dagli avvertimenti di Matteo Salvini alle conferme, multiple, di Luigi Di Maio passando per le trattative sui termini per limitarne la platea. Secondo la relazione tecnica, il reddito andrà a 154mila nuclei familiari composti da stranieri, il 19,3 per cento del totale dei destinatari, con una spesa di 1,4 miliardi di euro su 7,5 circa. Restano fuori (perché non rientrano nei parametri) circa 87mila nuclei familiari. Alcuni dei quali potrebbero fare ricorso.

Se da un lato, infatti, le osservazioni riconoscono nei due anni continuativi un lasso di tempo ragionevole, sembra esserlo meno prevedere la residenza per dieci anni. In pratica se il legislatore, per l’attribuzione di una misura assistenziale, può decidere liberamente quale sia il lasso di tempo che equipari un cittadino da uno straniero che, però, è residente di lungo periodo la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ritenuto non fossero ragionevoli requisiti di permanenza nel territorio di molto superiore a quella invece prevista per avere lo status del soggiornante di lungo periodo (che invece prevede almeno cinque anni di permesso di soggiorno). Viene citato l’esempio della sentenza della Consulta contraria alla Valle d’Aosta, nel 2014, che prevedeva l’obbligo di residenza nel territorio regionale di almeno otto anni per il diritto a una casa popolare. La Corte la considerò “un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione… sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo…”. Simile la sentenza contro la Liguria del 2018 che prevedeva invece un periodo di residenza di dieci anni “rilevando in tale caso una irragionevolezza e mancanza di proporzionalità risolventesi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari”. La Consulta non preclude poi la possibilità di richiedere un radicamento territoriale continuativo e ulteriore a patto che sia entro limiti “non arbitrari e irragionevoli” mentre la disciplina differenziata può essere prevista “per l’accesso a prestazioni eccedenti i limiti dell’essenziale” e “purché i canoni selettivi adottati rispondano al principio di ragionevolezza” e non rispondano a una legge “arbitraria”.

Dubbi anche sul riscatto degli anni di laurea, previsto dal decreto quota 100 che, si legge, andrebbe valutato tenendo presente “il principio costituzionale della parità di trattamento” perché esclude chi ha già 45 anni dalla possibilità di presentare la domanda di riscatto dei corsi di studio universitario per i periodi da valutare con il sistema contributivo. Su questo punto, si legge nel dossier, “sembrerebbe opportuna una più chiara definizione di tale profilo”.