“Falsi nei controlli sui ponti”. Altri cinque sono in pericolo

Falsi nei report sulla sicurezza dei viadotti. È l’ipotesi dei pm genovesi che ha portato all’apertura di un nuovo fascicolo finora con dieci indagati, tra dipendenti di Spea, di Autostrade e consulenti delle società. Ieri la Guardia di Finanza ha perquisito le sedi di Spea (controllata di Autostrade incaricata della manutenzione e della sicurezza) a Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano e Pescara. Nel decreto di perquisizione è scritto tra l’altro: “Si ordina il sequestro del materiale contenuto nelle caselle di posta elettronica”. Già, la corrispondenza tra i dirigenti delle due società potrebbe avere un ruolo chiave. L’ipotesi è che le analisi di alcuni ponti e viadotti possano essere state ritoccate. I magistrati genovesi si stanno occupando soprattutto di cinque strutture: tre in Liguria, una in Abruzzo e una tra Campania e Puglia.

L’inchiesta dei pm genovesi, nata dalla tragedia del ponte Morandi, si arricchisce di un nuovo filone. Il fascicolo – per falso – punta a fare chiarezza sulle diagnosi di sicurezza compiute sulla rete autostradale. I magistrati vogliono scoprire se negli anni passati le relazioni sullo stato di salute delle opere non siano state taroccate per far figurare condizioni migliori. I dubbi erano nati analizzando i dossier di Spea. A colpire i finanzieri guidati dal colonnello Ivan Russo sono state le analogie tra i diversi documenti. Passaggi molto simili. Tanto da ingenerare il dubbio che fosse stato compiuto un copia incolla. Così gli investigatori si sono recati più volte a Bologna, alla sede dei “Controlli non Distruttivi” di Spea. E hanno sentito Maurizio Ceneri – uomo di collegamento tra i vertici Autostrade e Spea – che oggi risulta indagato.

Tra gli indagati anche Gianni Marrone (Autostrade) fresco di condanna in primo a grado a cinque anni per il disastro del bus precipitato da un viadotto ad Avellino nel 2013 (40 i morti). Tra gli altri indagati risultano Massimiliano Giacobbi (responsabile ufficio progettazione per esercizio di Spea), Andrea Indovino (progettista di Spea), Marco Vezil (responsabile genovese delle verifiche di transitabilità dei trasporti eccezionali) e Lucio Ferretti Torricelli (responsabile ufficio del dipartimento di ingegneria strutturale di Spea). Compaiono inoltre diversi consulenti esterni, un geologo, un tecnico delle infrastrutture, il responsabile di una società di progettazione di Terni.

I report sotto indagine sono tre, di questi due riguardano infrastrutture liguri: c’è innanzitutto il viadotto Pecetti, sull’autostrada A26 Voltri-Alessandria, a una decina di chilometri dal Morandi. Una struttura che nei mesi scorsi era già finita nell’inchiesta genovese. Dai report interni ad Autostrade era risultato che i tecnici gli avevano attribuito un livello di criticità di 60 (che impone una riduzione dei carichi pesanti, mentre a 70 scatta la chiusura). Autostrade, dopo aver ridotto il traffico e avviato immediati lavori, aveva però minimizzato: “La struttura è sicura”. Dubbi anche sulle analisi del viadotto Sei Luci tra l’A7 e il casello Genova Ovest, accanto al Morandi.

La terza opera di cui si parla nel fascicolo della Procura è il viadotto Paolillo sulla A16, la Napoli-Canosa. Anche questa struttura recentemente aveva suscitato allarme: a novembre era arrivato un sollecito per una parziale chiusura dopo le ispezioni ministeriali. Ma ci sono altri due viadotti di cui si stanno occupando i pm genovesi. Qui l’attività non riguarda l’ipotesi di falso, ma sospette criticità strutturali. Si tratta, tornando in Liguria, del Gargassa (A26, vicino a Rossiglione), mentre in Abruzzo c’è il Moro, sulla A14, vicino a Ortona.

Spea respinge le accuse: “Ribadiamo la totale indipendenza, la correttezza formale e sostanziale e la trasparenza delle attività ispettive e delle relazioni tecniche condotte dalle nostre strutture”.

Ma Malta: l’accordo di 15 giorni fa è stato ignorato dall’Italia

Rispondendo alle domande della redazione del programma tv di La7 Tagadà, la portavoce del ministero degli Affari interni e la Sicurezza nazionale di Malta, Stacey Spiteri, sottolinea che dei Paesi che avevano promesso di suddividersi i migranti sbarcati dalla precedente missione della Sea Watch 3, quella di metà gennaio, solo l’Italia non ha ancora preso contatti con la Valletta. Proprio mentre il governo italiano annuncia l’accordo sullo sbarco dei migranti sulla Sea Watch 3, da giorni in balia delle acque e del maltempo, “solo l’Italia”, specificano da Malta, non ha tenuto fede ai patti. Le nostre autorità non si sarebbero mai recate sull’isola per le procedure d’identificazione, primo passo verso la ricollocazione dei migranti sbarcati allora (e che la Chiesa Valdese si era detta disponibile ad accogliere in Italia). Gli accordi bilaterali per i ricollocamenti non seguono alcuna prassi, e sono concordati tra i singoli Paesi. Non esistono regole, si basano solo sulla “volontarietà”. E se restano parole al vento, non ci sono sanzioni. In passato anche l’Italia ha lamentato il mancato rispetto dei patti, da parte di partner Ue, sulla ricollocazione di migranti sbarcati nel nostro Paese.

Talpe sulla Save the Children: il leader leghista ammette

Perché Matteo Salvini, tra il 2016 e il 2017, chiedeva e otteneva informazioni dagli agenti della security a bordo della Vos Hestia, nave della Ong Save The Children? Il deputato Erasmo Palazzotto di Leu – prendendo spunto dall’inchiesta del Fatto e dall’intervista esclusiva al contractor Pietro Gallo – ieri ne ha chiesto conto, in Parlamento, direttamente al ministro dell’Interno: “Pietro Gallo”, ha premesso Palazzotto durante il Question Time, “uno dei contractor della Imi Security Service, società che sembra vicina a organizzazioni di estrema destra, come Generazione Identitaria, infiltrati sulle navi delle Ong raccontano che lei, in prima persona, all’epoca dei fatti europparlamentare e segretario della Lega, chiese di raccogliere informazioni che fornissero argomenti per dimostrare i rapporti tra ong e trafficanti”. E quindi – poiché anche in questi giorni Salvini ha dichiarato di avere notizia su un comportamento opaco delle Ong – Palazzotto chiede: “Spieghi al Parlamento, e ai cittadini italiani, a quale titolo ha svolto questa attività. E se le informazioni di cui dichiara oggi d’essere in possesso sono state acquisite con le stesse modalità, o sono stati coinvolti corpi dello Stato che hanno agito sotto diretto impulso del suo ministero, quindi senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria”. La risposta del ministro: “Per mestiere io sentivo e sento spesso persone che lavorano nel settore dell’immigrazione. Qualunque elemento mi venga fornito viene trasferito a chi di competenza. Che ne valuterà la consistenza. Così operavo anche in passato, in maniera trasparente e senza promettere niente a nessuno. Nel solo interesse della sicurezza nazionale”. Dal fascicolo di Trapani, nato dopo le dichiarazioni di Gallo alla Squadra mobile, non si evince alcuna denuncia di Salvini: a chi di “competenza”, e per valutarne la “consistenza”, affidò le informazioni ricevute attraverso Gallo?

“Leviamo l’ancora, ma che sarà di noi?”

Alle 18.30 si rompe il silenzio: la capitaneria di Porto contatta il comandante della Sea Watch. È fatta. O quasi, visto che in serata, per la rottura di un verricello, bisognerà aspettare una notte ancora. Ma l’ordine ormai è arrivato: levate l’ancora. E poi dritti verso Catania. “Devo riscaldare i motori”, spiega il comandante via radio. Sono queste le uniche parole ufficiali che di bocca in bocca passano tra l’equipaggio e i passeggeri. Ma a bordo capisci quanto siano diverse le aspettative per ciascuno. Fino a quel momento, fino alla radio che gracchiando comunica il via libera, siamo tutti con lo sguardo fisso sui telefonini, alla ricerca di una notizia, nella speranza di capirci qualcosa. Dopo quell’annuncio, gli umori cambiano. Per i passeggeri, per i minori a bordo, l’odissea sembra finalmente volgere al termine. È per l’equipaggio, invece, che sembra iniziare. È una sorta di paranoia. È strisciante. È la nuova domanda senza risposta: che accadrà della Sea Watch a Catania? L’equipaggio ha già in mente l’esperienza dei primi di gennaio a Malta, certo, ma soprattutto teme che qualcuno sequestri la nave. E sarebbe la fine dei viaggi nel Mediterraeneo. L’interruzione dei soccorsi. Ormai è un’idea fissa: in prossimità di Catania chiederanno ufficialmente a quale destino vanno incontro. Tutto è iniziato dopo il salvataggio di sabato 19 gennaio. E di quel giorno ricordo soprattutto una frase: “Siamo europei”, gridata squarciagola, quando abbiamo avvistato il loro gommone alla deriva. Eravamo a 30 miglia a ovest di Tripoli.

“Quando vi abbiamo visti arrivare a tutta velocità – racconta Omar quel giorno – ci siamo abbassati sul fondo. Pensavamo fosse di nuovo la guardia costiera libica”. E lo ripete anche oggi, questo ragazzo senegalese, mentre navighiamo verso Catania, mentre riguardiamo le immagini di quel salvataggio. La Libia qui è l’ossessione. Perseguita tutti, costantemente. Durante le riunioni di aggiornamento mattutine con l’equipaggio. Ma anche la notte. Avvolti nelle coperte, come dei bozzoli, si agitano e si svegliano all’improvviso: “Ho questa maledetta Libia in testa” dice Issa. “Ho sognato un miliziano che mi colpiva in testa, come in prigione. Poi ho aperto gli occhi: ero qui, sulla nave, al sicuro”. La reclusione nei centri di detenzione libici è la maledizione che li accomuna. E poi ci sono i minori.

Sono quindici. Il più piccolo è Mamadou. Ha solo 14 anni e ha viaggiato da solo. È partito dal Senegal per raggiungere suo fratello in Francia: “Non ha mie notizie da due mesi, sicuramente mi sta aspettando ha raccontato in questi giorni – ma non c’è da preoccuparsi: dopo la Libia sono diventato un uomo”. E come un uomo adesso aspetta di sbarcare.

“Voi siete coraggiosi. I nuovi eroi della storia”: il manifesto appeso nel magazzino adibito a dormitorio è sempre lì. Doro, gambiano di 24 anni con la sua lunga cicatrice che attraversa il viso, mi ha detto che è orgoglioso di quelle parole. Sul suo corpo i carcerieri libici si sono accaniti solo perché era il più robusto dei prigionieri. “L’ultima pugnalata me l’hanno data in pancia. Prima si sono presi le braccia. Mi riprendevano mentre ero ricoperto di sangue – ci ha raccontato – e quel video è l’ultima testimonianza che hanno ricevuto i miei genitori. Penseranno che sarò morto”. Ma ora guarda verso la costa. Le cicatrici restano. La vita scorre. Nonostante tutto.

 

Omissione atti d’ufficio per i minori sulla nave

Quando Mamadou sarà sbarcato a Catania per il governo si aprirà un nuovo problema giudiziario: la Procura di Siracusa è pronta ad aprire un fascicolo per omissione di atti d’ufficio. Mamadou dice di avere 14 anni. È partito da solo. È un minore non accompagnato. E la legge prevede che “in nessun caso” possa essere espulso.

Mamadou è dinanzi alla costa di Siracusa da venerdì notte, in compagnia di altri 14 minori non accompagnati, secondo i documenti che, per primo, ha inviato il comandante della Sea Watch 3. Documenti giunti anche in procura. Se, dopo lo sbarco, la procura dei minori dovesse verificare che almeno uno di loro è effettivamente minorenne – Salvini nei giorni scorsi ha ironizzato sostentendo che hanno 17 anni e mezzo e il loro è un “escamotage” – il procuratore capo di Siracusa, Fabio Scavone, aprirà il fasicolo per verificare se vi siano state omissioni nel far rispettare la legge. Un fascicolo con l’ipotesi di reato – articolo 328 del codice penale: Rifiuto od omissione di atti d’ufficio – che inizialmente sarà a carico di ignoti.

L’indagine dovrà risalire la catena di comando e verificare l’eventuale “inerzia” che costretto Mamadou, e i suoi compagni di viaggio, ad attendere ben sei giorni prima di poter mettere un piede a terra. E a catena di comando riguarda solo marginalmente la Guardia Costiera: la vera istituzione coinvolta è infatti la prefettura e, quindi, ancora una volta il Viminale guidato dal vicepremier Matteo Salvini.

Non è detto che il conteggio, per la giustizia, debba estendersi per tutti i sei giorni trascorsi di fronte alla costa siracusana. Solo due giorni fa, infatti, la procura dei minori ha invitato il Viminale e il ministero delle Infrastrutture a rispettare la norma. Il conteggio dell’inerzia potrebbe quindi iniziare e, dopo l’apertura del fascicolo, essere considerato non rilevante. La partenza della Sea Watch intanto è stata ulteriormente rimandata dalla rottura di un verricello. È l’arrivo a Catania non è prevedibile quindi prima della tarda mattinata di oggi. E mentre a bordo si tenta di riparare il verricello, la polemica continua a restare alta, con il ministro dell’Interno Salvini che in serata annuncia: “Quando questa nave sbarcherà a Catania, spero ci sia un procuratore che verifichi se questi” della Sea Watch “sono generosi benefattori oppure complici degli scafisti”. E se a Catania è l’approdo individuato per i minori non accompagnati, quello per i maggiorenni sarà invece Messina, dove è previsto il trasferimento nell’hotspot. “Missione compiuta” dice comunque Salvini, commentando che “mentre gli altri chiacchierano e denunciano, la nostra linea della fermezza ha portato otto Paesi europei a farsi carico dell’accoglienza”.

Il riferimento è alle trattative intrattenute con gli altri Stati Ue per la redistribuzione dei migranti ormai pronti a sbarcare. Poi torna a denunciare: il capo del Viminale auspica che “l’autorità giudiziaria prenda in considerazione le ripetute irregolarità a carico della ong tedesca” e sottolinea ancora una volta il suo rammarico per la “assoluta mancanza di collaborazione del governo olandese nonostante lo yacht (perché così è registrato in Olanda) navighi con la bandiera di quel paese”. E mentre Salvini rivendica i risultati della “linea della fermezza”, il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli scrive su twitter: “L’Ue ha ceduto e i migranti della SeaWatch saranno distribuiti in sette diversi Paesi tra cui Francia, Lussemburgo e Germania. Ingranata la marcia giusta verso equa ripartizione di responsabilità. L’Italia torna ad alzare la testa in Europa”. Il medico di bordo, dalla Sea Watch, intanto denuncia “gravi conseguenze mentali” per i naufraghi “dopo dieci giorni in mare”.

Zingaretti sotto il 50%. Molti ricorsi al Sud. Boccia: “Dati falsi”

L’entusiasmodei sostenitori di Maurizio Martina per i dati ufficiali dei voti degli iscritti nei circoli è più che oscurato dall’abbandono della Commissione nazionale per il congresso di Umberto Marroni, della mozione di Francesco Boccia: “I dati sull’affluenza sono falsi, condizionati dai ricorsi pendenti in Calabria, Campania e Sicilia”. È la Sicilia la regione della discordia che ha fatto prolungare di tre giorni la diffusione dei numeri del congresso dei circoli, perché dall’isola sono arrivati decine di ricorsi sia perché si è andati al voto in ritardo sia per irregolarità come un circolo in cui tutti i 45 iscritti hanno votato Martina. Mentre a Roma avrebbe giovato di qualche signore della tessere la mozione di Nicola Zingaretti: in un circolo con più votanti che iscritti è stato fatto ripetere il voto ma il risultato è stato lo stesso, 47 preferenze su 47 per lui. Ma il presidente della Regione Lazio che si ferma sotto il 50% dei voti, arriva primo con il 48%. “La candidatura di Maurizio Martina” secondo al 36,5%, “ha saputo creare in poche settimane consenso” festeggia Debora Serracchiani. Anche se ha votato appena il 50% degli iscritti, 189mila su 374mila.

Bersani contro il fronte di Calenda-Macron

Una lista allargata, sì, ma che non si presenti come “antipopulista” e non tenti ammucchiate da Macron alla sinistra radicale. La ricetta di Pier Luigi Bersani per le Europee è chiara: non basta definirsi Fronte Repubblicano per recuperare i consensi perduti, così come sarebbe un errore mettersi insieme soltanto in contrapposizione a tutto ciò che è sovranista.

Dalla poltrona di C’ero una volta… la sinistra, il programma di Loft condotto da Antonio Padellaro e Silvia Truzzi (disponibile dal 14 febbraio su www.iloft.it e sulla app), Bersani riprende dunque le convinzioni espresse ieri da Massimo D’Alema alla Stampa, indicando la strada: “Non dobbiamo fare un’operazione pigliatutto contro la destra e i populisti, perché così gli tiriamo la volata. È ora di dire le cose ‘per’ e non ‘contro’”. Senza smarrire la propria identità: “Va bene mettersi insieme su uno schema critico verso l’Europa di adesso, ma dobbiamo confrontarci coi socialisti europei e le nuove forze di sinistra democratiche, come Podemos. Se ci metti dentro Macron non vai da nessuna parte”. La chiave, secondo Bersani, sta nel recuperare il rapporto con gli elettori dei 5 Stelle, per la gran parte delusi dal centrosinistra. Un tentativo che passa anche da mosse politiche verso lo stesso Movimento: “Nel 2013 intuii che dovevamo incrociare quella novità, ma loro non erano pronti e non ci furono le condizioni per far partire un governo su 7-8 punti. Chiedevo un’avventura, più che un matrimonio”.

Diverso il caso dello scorso marzo: “È stato un delitto non provarci, rifiutare il confronto. L’ho detto più di una volta anche a Di Battista, negli anni scorsi: il Movimento è in formazione, può prendere qualsiasi piega. Non è fascista, anche se il loro linguaggio è spesso fascistoide”.

L’occasione non è comunque del tutto sfumata per la sinistra. Secondo l’ex segretario dem, gran parte dell’elettorato grillino “comincia a non condividere questo rapporto pesantissimo con la destra”. A patto che il Pd, al netto di possibili riconciliazioni coi fuoriusciti, cambi rotta: “Non mi esprimo sulle primarie, ma invito sia Zingaretti sia Martina a considerare quale sia la priorità, ovvero se prendersela col Movimento o contrastare una destra aggressiva”. La risposta, per Bersani, è chiara da tempo: “Nei miei ultimi anni al Pd ho ripetuto che bisognava preoccuparsi della crescita della destra, che dovevamo discutere, e mi veniva risposto che ero un gufo”.

È proprio il rapporto con Matteo Renzi, allora leader dem, ad aver segnato il destino recente di Bersani. Come nel 2013, quando Romano Prodi, nome forte dell’ex segretario per la presidenza della Repubblica, fu impallinato da 101 franchi tiratori che tradirono l’acclamazione all’unanimità avuta dal Professore in assemblea. Erano i giorni del “No” del Pd a Stefano Rodotà (“I 5 Stelle ce lo portarono dalla piazza, non accettarono di parlarne in un confronto tra i gruppi”) che avrebbero portato a quel bis di Napolitano propiziato, come ricorda in trasmissione Massimo Giannini, dalla “manina” renziana: “Non ho ragione di smentirlo, lo voglio dire chiaro, quei 101 furono una confluenza tra chi ce l’aveva con Prodi e chi ce l’aveva con me”.

Le ovazioni nello studio di Floris per Salvini, il pifferaio martire

Laltra sera, a DiMartedì, il pubblico in sala faceva un tifo sfrenato per Matteo Salvini. Non certo una novità, alla luce della crescente popolarità del capo leghista consacrata dai sondaggi. Inusuale era invece la freddezza (e forse qualcosa di più) mostrata dal medesimo pubblico nei confronti di Giovanni Floris. O meglio, dell’ammirevole insistenza con cui egli, da giornalista libero, pressava l’ospite chiedendogli conto della politica di contraddizioni, errori (e costante ferocia) adottata nei confronti dei migranti che approdano sulle nostre coste. Cosicché, ogni volta che il ministro dell’Interno replicava con il consueto armamentario comiziante alle domande del conduttore, la platea esplodeva con la stessa potenza sonora di una curva calcistica. Applausi scrosciantissimi, urla di giubilo, invocazioni ritmate di bravo, bene, giusto, avanti così.

Tra le più scatenate alcune signore nelle prime file, a tal punto che non avrebbe destato sorpresa alcuna se tutte insieme prese da incontenibile emozione si fossero protese a sollevare il loro idolo per portarlo in trionfo. Chi guardava da casa non poteva non essere colpito dalla forza di quel debordante entusiasmo.

Come tutti sanno nei talk show il pubblico in sala è quasi sempre formato da figuranti arruolati per l’occasione (anziani pensionati, studenti a caccia di qualche euro) che in genere applaudono a un segnale convenuto. A DiMartedi la frequenza dei battimano è assillante, ai limiti della molestia, ma nello stesso tempo è di tipo meccanico e con un diapason standard: si festeggia tutto e il contrario di tutto, allo stesso modo. Perciò, a quell’entusiasmo alle stelle pro Salvini possiamo dare due spiegazioni.

Normale propaganda: la presenza di un rumoroso manipolo di fan infiltrato da via Bellerio. Oppure, passione autentica e irrefrenabile: “Lingua mortal non dice, quel ch’io sentiva in seno”. Propendiamo per la seconda, basandoci anche sulle nostre frequentazioni televisive nelle quali qualsiasi “non se ne può più” (degli immigrati, ovvio) pronunciato dal primo pisquano che passa suscita immancabilmente vivo apprezzamento. Figuriamoci poi se siffatto sentimento giunge espresso dal sommo Capitano. Soprattutto se costui si presenta come un San Sebastiano trafitto dalle frecce dei perfidi (e forse incauti) magistrati (richiesta di autorizzazione a procedere per la vicenda della nave Diciotti). Sol “per avere agito nell’interesse superiore del Paese, e nel pieno rispetto del mio mandato”, lui dice con voce incrinata. Un climax di profonda commozione che ha il suo acme quando il vicepremier pronuncia il sacro giuramento: “Rifarei tutto. E non mollo”. Mancano solo la Canzone del Piave, la fanfara dei Bersaglieri e la Bella Gigogin che si asciuga una lacrima.

A questo punto, onestamente, i quesiti di Floris e gli argomenti esposti dai giornalisti perplessi (mentre quelli salviniani gongolano) producono il rumore di una campana stonata al Te Deum. E, difatti, ecco che nello studio s’ode un brusio come di burrasca in arrivo, e non grandinerà solo per rispetto al conduttore, e forse anche per non pregiudicare la paghetta futura. C’è da interrogarsi infine, e seriamente, su cosa mai abbia causato questo gigantesco, ribollente giacimento di risentimento collettivo. Domandarsi quale senso di profonda ingiustizia e ripulsa, quali violenze subìte, quali offese alla amata Patria, quali devastazioni dello spirito abbiano generato le precedenti politiche sull’immigrazione.

Se per un pubblico sempre più vasto le immagini dei disgraziati destinati a marcire (questi sì) sopra una carretta nel mare, oppure sotto, oppure nei lager degli amici libici, suscitino inconfessabili pensieri. Il meno inconfessabile dei quali è: se la sono cercata. Senza dubbio il pifferaio Matteo è stato bravo a farsi pastore di una moltitudine che quando si tratta di “quelli là” pende dalle sue labbra. Il sonno della ragione genera voti.

Genny il cantore di Televisegrad

Gennaro Sangiuliano detto Genny fa scappare i parlamentari della Vigilanza Rai. Il direttore del Tg2, tra una citazione e l’altra, ieri ha rivendicato i risultati del suo telegiornale in commissione, ma parlamentari l’hanno messo sotto torchio accusandolo di squilibrio a favore della maggioranza. “Il Tg2, come ha rivendicato lo stesso Sangiuliano, è TeleVisegrad: è il Tg di Salvini!”, hanno tuonato gli esponenti del Pd. “Ma qualche TeleVisegrad! Ho una redazione pluralista e libera di esprimersi”, la risposta del direttore. Come no, certamente. Scintille. I dem poi hanno snocciolato dati secondo cui Salvini nel Tg è onnipresente. “Salvini è il ministro dell’Interno, è giusto dargli spazio”, ha risposto Sangiuliano, che ha ricordato come il suo Tg abbia intervistato Renzi, Martina, Zingaretti e pure Berlusconi. “Il Pd è il partito che ha più spazio, col 16,7%”, dice Sangiuliano, che annuncia l’apertura di una redazione a Milano. A un certo punto scoppia un parapiglia pure tra i parlamentari. E quelli del Pd, insoddisfatti delle risposte, abbandonano la seduta.
Il prode Sangiuliano, eroe indefesso (ccà nisciuno è indefesso, Genny) non solo fa scappare gli ascolti ma anche i parlamentari. Genny l’eroe solitario di TeleVisegrad, senza offesa.

Le Camere degli inarrestabili: 30 salvati dalle manette su 35

Da quando il 29 ottobre 1993, sull’onda di Mani Pulite, fu approvata la legge che ha abolito l’autorizzazione a procedere per indagini sui parlamentari, salvo per provvedimenti restrittivi o per l’utilizzo delle intercettazioni, il no – trasversale – è stato la norma, il sì all’autorizzazione l’eccezione. Eppure i parlamentari dovrebbero votare contro solo se ravvisano una persecuzione, mai perché ritengono infondate le accuse.

Il 3 settembre 1997 i pm di Milano chiedono alla Camera l’autorizzazione a far arrestare Cesare Previti di Forza Italia, accusato di corruzione per le vicende Imi-Sir/Lodo Mondadori. Il 20 gennaio 1998 l’Aula vota: 341 no all’arresto, 248 sì, 21 astenuti. Determinanti i voti contrari della Lega, dei diniani, dei mastelliani, dei socialisti. Il Ppi si spacca: 25 deputati per l’arresto, 29 contro.

Anche per il forzista Gaspare Giudice, indagato per mafia a Palermo, la Camera nega l’autorizzazione: 330 no, 210 sì e 13 astenuti. Nel marzo 1999 tocca a Marcello Dell’Utri: i magistrati di Palermo chiedono l’arresto per estorsione aggravata ai danni di un ex senatore e calunnia aggravata nei confronti di alcuni pentiti. Il 13 aprile Dell’Utri si salva con 22 voti di scarto: 301 no (FI, An, Ccd, Sdi, Udr e Rinnovamento italiano). A favore 279 (Ds, Pdci, Rifondazione, Lega, Verdi, tranne Boato, come per Previti, e 3 Ppi). Astenuti 9 (Ppi). Nel Parlamento a maggioranza ulivista negate anche le autorizzazioni all’arresto per Giancarlo Cito, Amedeo Matacena, Giuseppe Firrarello, accusati di mafia. Nel 2001 torna il centrodestra ma nulla cambia: no agli arresti di Angelo Sanza (FI), Remo Di Giandomenico (Udc), Gianfranco Blasi (FI), Giuseppe Nocco (Fi), Salvatore Marano (FI) e Antonio Luongo (Ds).

Nel maggio 2006, al debutto della maggioranza di centrosinistra, c’è un deputato per cui i pm di Sanremo chiedono l’arresto, è Vittorio Adolfo dell’Udc, accusato di turbativa d’asta, truffa aggravata e corruzione. Richiesta respinta all’unanimità. A giugno, è la volta di Raffaele Fitto, ex governatore pugliese di Fi, accusato di corruzione, falso e illecito finanziamento. Il 19 luglio, 457 deputati su 462 presenti votano no all’arresto, 4 si astengono e solo Borghesi dell’Italia dei valori vota a favore. Il 24 luglio 2006 il gip di Roma chiede l’arresto di Giorgio Simeoni, FI, ex vicepresidente della giunta Storace, coinvolto nello scandalo delle tangenti nelle Asl del Lazio. L’Aula vota no, a eccezione di Idv e Pdci.

Il 24 settembre 2008 nel frattempo è tornato Berlusconi al governo, il Senato vota no all’arresto per Nicola Di Girolamo, Pdl, eletto all’estero senza requisiti. È accusato, tra l’altro, di attentato ai diritti politici del cittadino: 204 no, Pdl, Lega, Pd, Udc e 43 Sì, Idv e alcuni del Pd non allineati (nel 2010 si dimetterà prima del sì all’arresto per un’altra indagine).

Nel dicembre 2008, il gip di Potenza chiede i domiciliari per il deputato del Pd Salvatore Margiotta, accusato di corruzione. Nulla da fare: Solo l’Idv vota Sì, tutti gli altri votano no all’arresto: finisce 430 a 21. Tre si astengono.

L’anno dopo, il 10 dicembre 2009, Montecitorio salva dal carcere Nicola Cosentino, Pdl, sottosegretario all’economia, accusato a Napoli di concorso esterno in associazione mafiosa: 360 No (Pdl, Lega, parte dell’Udc, i radicali del Pd, l’Mpa di Lombardo e l’Api, di di Rutelli) e 226 Sì (Pd, Idv, l’altra parte dell’Udc). Il 20 luglio 2010 il Senato nega l’arresto di Vincenzo Nespoli, Pdl, accusato a Napoli di voto di scambio e bancarotta: finisce 146 contro 99 (10 astenuti).

Il 2011 è segnato da una sfilza di richieste di autorizzazioni di arresti. A luglio i giudici di Napoli chiedono alla Camera il via libera per l’arresto di Alfonso Papa, Pdl, accusato di concussione e favoreggiamento e Marco Milanese, Pdl, per corruzione e rivelazione di segreti. C’è pure una richiesta di arresto del gip di Bari per il senatore del Pd Alberto Tedesco, accusato di corruzione. Il colpo di scena è del 20 luglio: la Camera, per la prima volta nella storia del dopoguerra, vota sì a un arresto, non per fatti di sangue: è quello di Papa, con 319 sì e 293 no. A favore Pd, Idv, Lega, Udc. Al Senato, però, lo stesso giorno, l’Aula, tra urla e insulti, vota no all’arresto di Tedesco, con i voti determinanti del centrodestra e di alcuni dissidenti del Pd: 151 no, 127 sì e 11 astenuti. Il 22 settembre si salva anche Milanese per soli 3 voti. Contro l’arresto anche la Lega.

Il 12 gennaio 2012 (governo Monti) la Camera, per la seconda volta, salva Cosentino, accusato a Napoli di riciclare soldi della camorra. Determinanti i voti dei radicali eletti nel Pd e della Lega. Il 6 giungo palazzo Madama vota contro i domiciliari per Sergio De Gregorio, Pdl, accusato a Napoli di truffa (in seguito sarà accusato con Berlusconi di compravendita dei senatori) . Lo salvano i franchi tiratori, immancabili con lo scrutinio segreto: 169 contro 109, il Pdl aveva 127 seggi.

Il 20 giugno del 2012 il Senato vota a favore dell’arresto dell’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi accusato dai pm romani di appropriazione indebita: 155 sì, 3 no e un astenuto. Il 15 maggio 2014 la Camera vota per l’arresto del deputato del Pd Francantonio Genovese, accusato a Messina di associazione a delinquere e riciclaggio: 371 sì e 39 no (FI, Ncd e sei dissidenti del Pd). Il 22 luglio la Camera vota per l’arresto di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto, di FI, accusato di corruzione: 395 sì, 138 no, due astenuti. A votare contro FI, Ncd, Maie e Psi.

Il 29 luglio 2015 il Senato ha salvato dai domiciliari Antonio Azzollini, di Ncd, accusato a Trani di bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Decisivi i voti di una parte del Pd. Il 9 settembre 2015 la Giunta per le immunità del Senato vota a favore dei domiciliari per Giovanni Bilardi, Ncd, coinvolto nell’inchiesta sulle spese pazze alla regione Calabria. Non è mai stata calendarizzata la seduta d’Aula e nel frattempo la misura cautelare è stata annullata dai giudici.

A marzo 2016 il Senato vota no all’arresto di Domenico De Siano ( Fi) accusato a Napoli di corruzione: 208 sì, 40 no e 3 astenuti.

Il 4 agosto 2016 la Camera dà il via libera all’arresto di Antonio Caridi, senatore di Gal accusato dai pm reggini di essere ai vertici della ’ndrangheta: 154 sì, 110 no e 12 astenuti .