Salvataggio e “sequestro”: i fatti minuto per minuto

La Giunta del Senato deve decidere se Matteo Salvini ha violato la legge in nome di un interesse più alto come quello dello Stato. Il dibattito è dunque tutto politico, ma nessuno contesta i fatti oggetto dell’inchiesta della Procura di Palermo. Ecco quindi come il Tribunale di Catania, collegio per i reati ministeriali, ricostruisce la vicenda della nave Diciotti che nell’agosto scorso è stata tenuta in mare nel porto di Catania per cinque giorni dalle (mancate) decisioni del ministro dell’Interno. È sulla base di questa sequenza di eventi che la Procura di Palermo ha indagato Salvini per sequestro di persona.

14.8.2018 La Centrale operativa del Comando generale delle capitanerie di porto – Guardia Costiera (Imrcc) viene informata dell’avvistamento di un barcone con molte persone a bordo che, dopo un tentativo di intervento della Guardia costiera libica, arriva nella zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) di competenza di Malta.

15.8.2018 Alle ore 00.28, l’Imrcc, quando ancora il barcone si trova in acque Sar maltesi, allerta l’Ufficio marittimo di Lampedusa del possibile arrivo dell’imbarcazione nella sua area di competenza. Alle 8.00 chiede a Malta che intenzioni ha sul salvataggio. Il Centro di coordinamento soccorsi di Malta (Rcc) risponde che sta monitorando la situazione ma non la qualifica come “evento Sar” perché non c’è pericolo di affondamento. Quindi non interviene. Nel frattempo l’Imrcc italiano viene contattato dai migranti con un telefono satellitare: faticano a proseguire nella navigazione. Alle 20.24 l’Imrcc, preso atto dell’attendismo di Malta, informa il Dipartimento per l’Immigrazione del ministero dell’Interno che si sta preparando a intervenire qualora il barcone entri in acque Sar italiane e avanza una richiesta preliminare di Pos (Place of Safety, il porto sicuro) dove sbarcare i migranti eventualmente soccorsi.

16.8.2018 Nelle prime ore del mattino la situazione precipita. I migranti chiedono soccorsi immediati all’Imrcc: a causa del mare agitato, hanno iniziato a imbarcare acqua. L’Imrcc, preso atto dell’atteggiamento di Malta che nega l’emergenza, riceve un altro Sos dei migranti alle 3.07 e dispone l’intervento delle motovedette Cp 324 e Cp 305, pronte nelle acque Sar italiane. L’Imrcc ordina quindi il soccorso dei migranti in acque Sar maltesi, visto il pericolo di affondamento imminente del barcone. Dopo il salvataggio, verso le 4.00, le condizioni atmosferiche peggiorano e le due motovedette riparano a mezzo miglio da Lampedusa dove alle 7.43 avviene il trasbordo dei 190 naufraghi (143 uomini, 10 donne e 37 minori) sulla motonave Diciotti, nel frattempo nominata “coordinatrice Sar” dalla Centrale operativa di Roma. Alle 10 il comandante della Diciotti, Massimo Kothmeir, attiva il protocollo sanitario “Medevac” e autorizza lo sbarco a Lampedusa di 13 migranti in condizioni di salute precarie. Mentre prosegue la controversia tra autorità italiane e maltesi su chi deve indicare il porto dove sbarcare i migranti, la Diciotti staziona nei pressi di Lampedusa.

17.8.2018 La controversia tra Italia e Malta prosegue per tutto il giorno, fino a quando l’Imrcc, alle 22.15, invia al Dipartimento per l’Immigrazione al ministero dell’Interno una seconda richiesta di Pos (il porto sicuro per lo sbarco). Alle 22.44 l’Imrcc manda via mail un’analoga richiesta di Pos al Rcc di Malta.

19.8.2018 Visto che non arriva alcuna comunicazione ufficiale, la Diciotti rimane nelle acque di Lampedusa per quasi due giorni, fino a quando, nella serata, il Comando generale delle capitanerie di Porto ordina al comandante Kothmeir di dirigersi a Pozzallo, dove la Diciotti arriva alle 7.23 del mattino.

20.8.2018 Alle 8.53, l’Imrcc di Roma ordina alla nave con a bordo i migranti di portarsi a 20 miglia a est di Catania. Alle 16.43 ordina poi alla Diciotti di dirigersi verso il porto di Catania, dove attracca alle 23.49 con a bordo i 177 migranti rimasti. Il comandante Kothmeir riceve però l’ordine di “non calare la passerella e lo scalandrone”.

22.8.2018 Lo stallo continua e il Pos, il porto sicuro, non viene concesso. Dopo una esplicita richiesta del Procuratore del Tribunale per i minori di Caumia, in serata viene autorizzato da parte del ministero dell’Interno lo sbarco dei minori non accompagnati a bordo della Diciotti.

24.8.2018 Dopo altri due giorni di attesa, l’Imrcc di Roma, per il tramite del Centro Nazionale di Coordinamento (Ncc), invia una terza richiesta di Pos al Dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno.

25.8.2018 Nel pomeriggio, in seguito all’attivazione della procedura sanitaria “Medevac” da parte del comandante della Diciotti, sbarcano altri sei migranti che hanno bisogno di accertamenti clinici urgenti. Solo nella tarda serata il ministro dell’Interno Salvini autorizza lo sbarco dei migranti ancora a bordo. Le operazioni iniziano otto minuti dopo la mezzanotte e si concludono alcune ore dopo con il trasferimento dei migranti all’hotspot di Messina, dove vengono completate le procedure di riconoscimento e identificazione.

Le regole Dopo aver ricostruito la cronologia, il Tribunale dei ministri osserva che “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le nonne e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. E aggiunge che “le convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legis1ativa dello Stato e, in base agli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (pacta sunt servanda), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna”. L’articolo 117 della Costituzione prevede infatti che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Per questo la condotta di Salvini è considerata illegittima. Ora manca il giudizio politico su questa violazione, poi – se verrà concessa l’autorizzazione a procedere – ci sarà un processo e una sentenza.

Profezia su Matteo e il suo bluff finale

Matteo Salvinisul caso Diciotti sta giocando una partita di poker sulla pelle dei migranti. La posta sono i voti alle Europee e l’egemonia nel governo. In questo quadro vanno lette le mosse apparentemente contraddittorie del ministro. Se Salvini, alla fine di questo balletto, chiedesse di essere processato, quali sarebbero le conseguenze sulle elezioni europee di maggio?

Salvini si presenterebbe alle elezioni come il combattente che, dopo tanti dubbi, si lancia nella battaglia contro i magistrati rischiando, da solo, nell’interesse di tutti, compresi Di Maio e Conte.

Proviamo a riguardare le mosse di Salvini con la logica del giocatore d’azzardo che ha di fronte un gruppo di pivelli incapaci di scoprire il suo bluff. Ad agosto il ministro aveva sfidato i pm: “Se bloccare 2, 3, 4, 5 navi mi costa accuse e processi, io ci sono. Non sono ignoto”. Ottenuta l’iscrizione poi rilanciava : “Interrogatemi domani, vengo a piedi, mi costituisco”. Il Collegio dei reati ministeriali chiedeva l’autorizzazione a procedere? A Salvini prudevano le mani: “Avrei voglia di andare fino in fondo, il Senato è libero (…) io non ho bisogno di farmi proteggere da nessuno (…) non ho bisogno di aiutini”.

Poi l’improvvisa giravolta, all’insaputa del M5S: “Ritengo che l’autorizzazione debba essere negata”. Molti dicono che i legali hanno consigliato a Salvini un passo indietro. La giravolta però potrebbe essere letta nella logica del gambler come un trucco per far salire la posta e poi portare via il piatto (con un po’ di voti dei Cinque Stelle dentro) come un furbo mazziere.

Proviamo a immaginare uno scenario oggi improbabile ma non assurdo: Salvini per 15 giorni si gode lo spettacolo del M5S che si contorce in tv e sui giornali tra i mal di pancia del suo elettorato e la paura della crisi di governo. Quando nei talk show avranno finito di sfilare i parlamentari grillini costretti a difendere l’indifendibile (a Cartabianca Manlio Di Stefano è arrivato a difendere – non le ragioni del sì o del no – ma le ragioni del “Nì”) Salvini potrebbe calare l’asso. Magari alla vigilia del verdetto della Giunta, potrebbe ringraziare gli alleati ex-giustizialisti per il loro garantismo, e risfoderare il coraggio smarrito: “Grazie Luigi, grazie Giuseppe, grazie Danilo”, potrebbe dire a Di Maio Conte e Toninelli, “ma io non ho bisogno del vostro scudo. Ci ho ripensato: io vado a processo”.

Una campagna elettorale così, con Salvini a processo da solo, e con il M5S senza “titoli morali” per puntare il dito contro chicchessia, sarebbe un gran colpo. Per il gambler, non per l’Italia.

B. rassicura il “Capitano”, sognando il ritorno a casa

“Nel momento del bisogno riuniamoci a Cologno, diamo una speranza…”, cantava Teo Teocoli, vent’anni fa, in versione Adriano Galliani, che all’epoca era capo e volto ultrà del Milan e osannava Silvio Berlusconi. Nel momento del bisogno, col pericolo di un processo per le vicende della nave Diciotti, Matteo Salvini riceve il sostegno incondizionato, a tratti sentimentale, del gruppo di Forza Italia su ordine supremo di Berlusconi. E poi Silvio, per esperienza, è sensibile al tema giustizia.

Adesso Galliani è senatore all’esordio, di rado parla ancora di calcio. Non siede nella Giunta per le elezioni e le immunità, dove si discute se fermare o autorizzare il procedimento giudiziario su Salvini, ma è risoluto nel confermare la vicinanza al ministro dell’Interno. Quella vicinanza che non si nega agli amici, ai compagni di strada, agli alleati seppur a giorni alterni e soltanto in ambito locale (tra un po’, ci sono le Regionali in Abruzzo e Sardegna): “Io dovrò aspettare – dice Galliani – il secondo turno, il voto in aula dopo quello in Giunta. Non occorre pensarci su, però: dico no al processo. Perché Salvini ha agito per interesse pubblico, per ragioni di Stato, nell’esercizio delle sue funzioni. Di più: Salvini è stato coerente con le promesse in campagna elettorale e col programma di governo”.

Galliani non commenta i tormenti politici dei Cinque Stelle, non infierisce sulle dinamiche di coppia dei gialloverdi, ma il cerchio magico di Berlusconi – Licia Ronzulli, Niccolò Ghedini soprattutto – allarga quel sorriso magnetico, tipico del Silvio dei tempi col sole in tasca, per rammentare a Salvini: “Eccoci Matteo, chi ti vuole bene sta di qua”.

Ieri è tornato in auge Maurizio Gasparri, smussati gli accenti da focoso berlusconiano in perenne servizio nei salotti televisivi. Gasparri s’è presentato davanti a taccuini e telecamere in forma austera, con la qualifica ancora più austera – imparziale e prudente – di presidente della Giunta nonché di relatore del documento su Salvini. Gasparri ha scritto una lettera al ministro dai toni perentori: “Per invitarlo a presentarsi in Giunta, gli abbiamo dato sette giorni. Altre persone non sono previste. Noi ci rivolgiamo agli interessati secondo una procedura prevista da una legge costituzionale e dal regolamento del Senato”. Gasparri, che succede? Qualcuno tra i forzisti s’è spaventato. Rispondono dal cerchio magico di Silvio: “Per una volta è costretto a incarnare uno spirito più istituzionale. Questo non significa che in Forza Italia ci siano riflessioni in corso. Berlusconi ha deciso, tutti sono d’accordo, non smentiamo la nostra storia: Salvini non va processato”. E il ministro, che di tattiche è maestro, ha accolto di buon grado la missiva: “Gasparri ha assolutamente ragione: sono io l’interlocutore della Giunta. Non ho ancora letto tutte le carte: ora lo farò e mi confronterò”. I contatti tra Berlusconi e Salvini sono frequenti, si riducono gli incontri a Milano, aumentano le telefonate per non irritare i Cinque Stelle. Il supporto per la Diciotti era scontato e rientra nei rapporti di coalizione per le Regionali.

Il desiderio di Berlusconi è più ambizioso: rompere la coppia gialloverde e convincere Salvini che solo col centrodestra può prendere il posto del premier Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. I numeri parlamentari non sono sufficienti, certo. I responsabili pronti a mollare i gialloverdi sono ancora pochi, ovvio. Berlusconi non ha fretta, però. Aspetta le Europee di maggio, confida di rianimare Forza Italia con la sua candidatura e di formare un governo di quattro anni – fino al termine della legislatura – col soccorso dei renziani. Fantasie, illazioni, progetti: chissà. Dipende da Salvini. Per il resto, Silvio c’è. A Cologno e dappertutto.

Il voto entro marzo e “l’impresentabile” memoria di governo

La prima riunione è durata una mezzora. Giusto il tempo che il presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato, Maurizio Gasparri, illustrasse per sommi capi il contenuto delle 52 pagine con cui il Tribunale dei ministri chiede di processare Matteo Salvini, e che si precisassero un paio di questioni sul calendario dei lavori.

La più importante riguarda la scadenza. Trenta giorni, dice la norma: “Li rispetteremo”, assicura Gasparri, che prevede di licenziare in quattro sedute la più grossa grana del governo gialloverde. La prima, ieri, ha dato il via all’iter. La prossima, entro una settimana, in cui Salvini potrà presentare la sua memoria difensiva (scritta o orale); una terza in cui il relatore illustrerà la sua proposta (il sì o il no all’autorizzazione) e darà inizio al dibattito; infine, l’ultima, quella del voto. Tutto dovrà chiudersi entro il 22 febbraio. In qualunque caso – esclusa l’improbabile ipotesi che la giunta decida all’unanimità – il voto verrà sottoposto all’aula del Senato, che dovrà confermarlo o smentirlo, a maggioranza assoluta, entro il 25 marzo.

A differenza del voto sulle immunità dei parlamentari, nel caso dei ministri i tempi sono certi: il Regolamento del Senato (art. 135 bis) non prevede proroghe o dilazioni: se la giunta non decide in tempo, il voto passerà direttamente all’Aula. Vietato anche il ricorso al voto segreto: per Salvini non è stato richiesto l’arresto, quindi non vale l’anonimato concesso quando si vota sulle restrizioni delle libertà personali.

Nel mirino, come noto, ci sono i cinque giorni (i dettagli a pagina 4, ndr) durante i quali la nave Diciotti è rimasta attraccata al porto di Catania. Il ministro dell’Interno, che non ha consentito lo sbarco, è indagato per sequestro di persona. La giunta ha tre strade: rimandare gli atti al tribunale, sostenendo che non si tratti di un reato ministeriale; concedere l’autorizzazione al processo oppure negarla. I 23 membri della Giunta (in cui, va detto, i gialloverdi non hanno nemmeno la maggioranza, dopo l’espulsione di Gregorio De Falco da M5S) non sono chiamati a votare sul merito del reato. Il Tribunale, ai senatori, chiede di valutare se “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato”. Che, secondo il Tribunale, nel caso di Salvini era quello di invocare una gestione europea dell’accoglienza. Un atto politico che, sempre secondo i magistrati, sarebbe rimasto tale (e quindi archiviabile da un punto di vista penale) se per tradursi in pratica non avesse leso “la sfera soggettiva individuale” dei migranti a bordo della Diciotti. Ieri, il senatore M5S Mario Giarrusso ha annunciato l’arrivo in Giunta di una “memoria” del governo, che dovrebbe servire ad attenuare il carico di Salvini: il “sequestro” sarebbe stato condiviso con il resto dell’esecutivo. Ma quel documento potrà essere presentato solo da Salvini medesimo, unico interlocutore riconosciuto dal Senato. Altrimenti è carta straccia.

Di Maio ora vacilla: Conte vuole il no. Il muro dei gruppi

L’uomo sul filo prende tempo, per non cadere. Riflette, sopra il burrone della crisi. Perché tira aria gelida per Luigi Di Maio, sballottato da mille direzioni diverse, e vai a capire chi ascoltare e di chi fidarti. Complicato valutare se abbia ragione il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, convintosi in punta di diritto che sarebbe meglio accontentare l’alleato che si è rimangiato la parola, Matteo Salvini: e quindi dire no in Senato al processo per sequestro di persona per il ministro dell’Interno. O se sia meglio dare retta a tanti eletti del M5S, parlamentari e membri di governo, che predicano il sì “perché questi sono i nostri valori e se deroghiamo siamo morti”. Anche perché “altrimenti sarebbe come consegnarsi a Salvini”.

Eccolo, il labirinto di Di Maio, il capo politico. Nel suo lungo mercoledì, tentato dal no a giudici. Anche perché il primo, grande nodo è dentro la giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama, dove almeno 5 grillini su sette sono per respingere la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania. E allora dare il via libera al processo appare più difficile. Però ci sono tanti di aspetti da considerare, compreso il fatto che il vicepremier aveva già annunciato il sì, e non è proprio un dettaglio. E allora Di Maio vuole e deve aspettare. Almeno fino a dopo l’apparizione davanti alla giunta di Salvini, contro cui ha urlato di tutto nel vertice di martedì notte a casa di Conte. Perché ora il capo dei 5Stelle non si fida più dell’altro vicepremier che fugge dal suo processo. Però il ministro dell’Interno insiste.

Si attende “da tutti i senatori” il no al processo, come ha scandito ieri pomeriggio da Montecitorio, in giubbotto da agente di Polizia. Però parlano anche i grillini che non accettano la giravolta. Come il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, che lo dice a Circo Massimo: “Va fatta una riflessione tecnica nella Giunta, ma se il caso andrà in aula noi voteremo assolutamente sì. Il M5S non ha mai negato il processo a un politico”. E i vertici non gradiscono. Però poi lo scrive nero su bianco sull’Huffington Post anche la capogruppo in Regione Lazio, Roberta Lombardi, una veterana: “Il M5S uscirà perdente se voterà no, perché così abdicherebbe ai suoi valori identitari”. E lo rilancia la senatrice Paola Nugnes, vicina al presidente della Camera, Roberto Fico: “Se votiamo no non escludo di lasciare il Movimento”. E c’è proprio lui, Fico, che per ora “segue la vicenda a distanza” dicono. Ma che preferisca il sì è evidente. E il primo a saperlo è Di Maio, che passa la giornata ascoltando lamentele e suggerimenti. Però dentro è pieno di rabbia.

Il rapporto con Salvini aveva retto a mille guai. Ma il dietrofront ha cambiato tutto. “Mi avevi promesso che eri disposto a farti processare, ne avevamo parlato, avevi dato la tua parola” scandisce in faccia al ministro dell’Interno martedì notte, nel vertice a tre. Il leghista ascolta, senza obiettare quasi nulla. Mentre il premier prova a ritessere la tela dell’unità: “Scriveremo una memoria per la giunta firmata da me, da Luigi e da Danilo Toninelli in cui rivendicheremo di aver condiviso con Matteo ogni scelta sulla Diciotti”. E di certo Conte non vuole che in Senato il governo rischi. “Va trovata una soluzione” dice ai suoi. E ventila il no: perché anche lui nutre molti dubbi giuridici sulla richiesta del tribunale. “E poi se votassimo a favore l’esecutivo ne uscirebbe debolissimo” teme.

Nell’attesa ieri da Milano il premier giura: “Nessuna preoccupazione sulla tenuta del governo”. E lo assicura anche Salvini: “Il governo non è rischio”. Però fuori microfono i leghisti sono chiari: “Non possiamo rischiare di vedere condannato Salvini, non abbiamo leader alternativi”. Quindi, “i 5Stelle devono convincersi a votare no, e penso che lo stiano facendo” sogghigna un deputato di peso. Altrimenti? Sorrisone: “Ognuno ne trarrà le conseguenze”.

Forse è solo un bluff, però pesa. Mentre ai piani alti del Movimento ripassano le varie opzioni. C’è chi ripropone il voto degli iscritti sul blog, ma il rischio che votino per salvare Salvini è altissimo. E per il leghista sarebbe un trofeo. La libertà di coscienza invece pare uscire di scena. “Non è nel nostro dna” spiegano. Così bisognerà scegliere tra due danni, il sì e il no. E capire quale sia quello minore. Intanto il capogruppo in Senato Stefano Patanuelli dà una rotta su Radio1: “Il M5S non può aver deciso come votare perché non ha tutti gli elementi per decidere. Ci sarà una posizione collegiale che dovrà essere decisa dai membri della giunta, insieme al capo politico”. Tradotto, nessuno potrà fuggire in avanti. Mentre fuori microfono provano a costruire un percorso anche mediatico verso il no. Partendo dal fatto che in questo caso non si voterà l’immunità per un reato da casta, ma sul limite di azione di un governo. “Ma lo dovevamo spiegare molto prima” ammettono un paio di parlamentari.

E comunque la partita è aperta e i nervi tirati. Il deputato Riccardo Ricciardi, un altro della covata di Fico, ironizza sul Salvini “capitano coraggioso come i vecchi politici”. E il presidente dell’Antimafia Nicola Morra su Twitter cita il filosofo tedesco Hans Jonas e l’etica delle intenzioni, che impone di comportarsi in un determinato modo al di là delle conseguenze. E proprio Jonas era stato menzionato da Conte nel discorso di insediamento. Ergo, la citazione non è casuale. Anzi.

La legge è uguale per gli altri

Da mesi il Pd ripete che il reddito di cittadinanza è una pacchia per fancazzisti e finti poveri ansiosi di poltrire sul divano a spese dello Stato. Ora si scopre che un dipendente del Caf-Cgil di Palermo insegna a fancazzisti e finti poveri i trucchi per incassare il reddito senz’averne diritto. Indovinate chi è? Un consigliere comunale del Pd a Monreale (Palermo). La classica profezia che si autoavvera grazie a chi l’ha fatta. La notizia, anzi la parabola, fa il paio con le truppe da sbarco del Pd che fanno la staffetta sulla nave Sea Watch, aggravando vieppiù le condizioni dei migranti, scampati al naufragio ma non a Martina e Orfini. Una staffetta che sarebbe più completa se, a bordo della nave dell’Ong tedesca battente bandiera olandese ma specializzata in porti italiani, fossero saliti anche Minniti e Gentiloni: avrebbero potuto spiegare un bel po’ di cosette sulla Libia, la Tunisia, le Ong, gli scafisti e l’Ue al comandante, ai passeggeri e soprattutto agli smemorati staffettisti. Invece mancano all’appello i due responsabili della stretta sull’immigrazione che ora tutti attribuiscono a Salvini, invece era già stata avviata dal governo precedente. Persino sulla chiusura dei porti, auspicata da Minniti e bloccata da Delrio (come rivelò quest’ultimo): eppure all’epoca furono in pochi, a sinistra, a scoprire di non essere pesci.

Ora la Giunta delle autorizzazioni a procedere del Senato deve rispondere alla richiesta del Tribunale dei ministri di processare Salvini per sequestro di persona sul caso Diciotti. E già si sa che Lega e FI voteranno no, mentre Pd e sinistra diranno sì. Invece i 5Stelle, dopo aver annunciato il sì, si tormentano su un punto non secondario: il quesito non è, come nei casi di immunità parlamentare, se Salvini sia perseguitato dai giudici; ma se il ministro dell’Interno (con tutto il governo) abbia tenuto per 5 giorni la nave Diciotti nel porto di Catania per “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per un preminente interesse pubblico”. Se la questione fosse solo giuridica, dovrebbero rispondere che sì, lo scopo non era sequestrare quei disperati, ma inchiodare gli altri Paesi all’impegno assunto un mese prima in Consiglio europeo di ripartirsi su base volontaria i migranti in arrivo (tant’è che appena Vaticano, Irlanda e Albania si dissero disponibili, la nave sbarcò). E negare l’autorizzazione a procedere. Ma la questione è soprattutto politica e il M5S si suiciderebbe se votassero con FI e Lega per salvare il ministro: meglio autodenunciarsi e assumersi la responsabilità della scelta; ma autorizzare il processo.

Così saranno i giudici terzi, non la maggioranza parlamentare, a stabilire se quella decisione politica fu un delitto o no. Tantopiù che la lealtà e la solidarietà ora invocate da Salvini sono state tradite da lui stesso, che prima s’è fatto campagna elettorale giurando di farsi processare come un cittadino qualunque, e ora se ne fa un’altra con la tesi opposta, che per giunta gli “alleati” hanno scoperto non dalla sua voce in un vertice di maggioranza, ma leggendo la sua improvvisa lettera al Corriere. Ora i 5Stelle se la vedranno con la loro coscienza e la loro eventuale coerenza. Ciò che fa sorridere sono le lezioni di legalità del Pd, schierato fin da subito, prim’ancora di leggere le carte del Tribunale, per il sì al processo. Posizione lodevole, se non fosse del tutto inedita. Sia perché il Pd, a ogni richiesta di insindacabilità per parlamentari imputati o di autorizzazione all’arresto o all’utilizzo delle intercettazioni (dove l’immunità c’entrava eccome), ripete sempre la litania del “bisogna leggere le carte”. Sia perché, dopo averle lette, ha quasi sempre salvato i parlamentari dai processi, dagli arresti e dalle indagini basate su intercettazioni. Dal 1994 a oggi, tenendo fuori Tangentopoli per mancanza di spazio, i giudici hanno chiesto l’autorizzazione ad arrestare 35 fra deputati e senatori, per reati di mafia o di vil denaro: le risposte sono state 5 sì e 30 no. I 5 arrestati sono Papa (FI), Lusi (Pd), Galan (FI), Genovese (Pd), Caridi (Gal). I 30 salvati sono: Previti (FI), Dell’Utri (FI), Cito (centrodestra, 2 volte), Matacena (FI), Firrarello (FI), Giudice (FI), Sanza (FI), Luongo (Ds), Di Giandomenico (Udc), Blasi (FI), Adolfo (Udc), Fitto (FI), Simeoni (FI), Di Girolamo (FI, due volte), Cosentino (FI, due volte), Marano (FI, due volte), Nocco (FI), Tarantino (FI), Nespoli (An), Tedesco (Pd), e De Gregorio (FI), Margiotta (Pd), Milanese (FI), Azzollini (Ncd), Bilardi (Ncd), De Siano (FI).

Nella stragrande maggioranza dei casi, il Pd (o i precedenti partiti del centrosinistra, eccezion fatta per l’Idv) ha votato contro i giudici e pro indagati, come dimostrano i salvataggi nelle tre legislature in cui il centrosinistra aveva la maggioranza. Nel 1996-2001 scamparono alle manette Previti (indagato per corruzione giudiziaria), Dell’Utri (calunnia ai pentiti che lo accusavano di mafia), Cito (concorso in Sacra corona unita), Matacena (concorso in ’ndrangheta) e Firrarello (concorso in mafia). Nel 2006-08 Adolfo (corruzione e truffa), Fitto (corruzione e illecito finanziamento) e Simeoni (associazione a delinquere e corruzione). Nel 2013-18 Cesaro (concorso in camorra), Azzollini (associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, induzione illecita), Bilardi (peculato e falso) e De Siano (associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta). Ora il Pd che ha miracolato tutta questa bella gente e ancora il mese scorso ha regalato l’insindacabilità-impunità alla leghista Cinzia Bonfrisco imputata di associazione per delinquere e corruzione, voterà a occhi chiusi per processare Salvini. Secondo voi, si sono convertiti improvvisamente alla giustizia uguale per tutti, o c’è dell’altro?

Un cuore resta sempre un cuore, malgrado la psicopatia (e le ferite)

Ho il piacere di salutare l’esordio nella narrativa di un mio concittadino, Piero Sorrentino. Ha quarant’anni, è un ragazzo bello e simpatico che non ha proprio l’aspetto dell’“intellettuale”. Il romanzo si chiama Un cuore tuo malgrado (Mondadori, 2019, euro 17). È di quel formato che più correttamente andrebbe chiamato “novella lunga”; oggi da noi il più adottato. Non posso dire abbia il fiato corto come quasi tutti quelli dei colleghi di Sorrentino; è piuttosto motivo di lode che egli non abbia voluto gonfiarlo con anabolizzanti.

Si svolge a Napoli ma non è un romanzo su Napoli. In parte ripristina la forma settecentesca (uno dei capolavori sono Les liaisons dangereuses) del romanzo epistolare. La storia corre ai confini della psicopatia: è quella di una giovane conducente di autobus regionali che, mentre guida sulla Napoli-Salerno, indossa le “cuffie” per ascoltare musica. Tra le più terribilmente comuni. Solo che così non s’avvede di un’auto contenente una famiglia di tre persone. Uccide la moglie e un bimbo piccolo, ferisce gravemente l’uomo. Quando guarisce anch’ella, vorrebbe sviluppare un patologico rapporto col sopravvissuto. Incomincia a scrivergli; le lettere di risposta che riceve sono redatte dalla sorella dell’assassina, preoccupata ch’ella non precipiti vieppiù nella pazzia. Non racconto il seguito per non guastare gli sviluppi ai lettori ai quali auguro la lettura di questo così felice e meditato esordio.

Intanto, è una lieta sorpresa l’italiano correttissimo e persino elegante dell’autore, pur nella velocità narrativa. Di questi tempi! Il suo dominio classico della lingua denuncia esperienze di lettore vaste e scaturite da buone scelte.

Il ritmo prosastico è buono e non casuale: exemplum e contrariis: Francesco Piccolo… Ancor più, la capacità di Sorrentino d’inventare trame è per me oggetto di profonda invidia: se l’avessi, sarei anch’io un narratore, ché posseggo la lingua e non la fantasia. Rispetto a un narratore, sono il corniciaio rispetto al pittore. Quella di Sorrentino è originale e insolita, si fa seguire con qualcosa di più del semplice interesse, contiene colpi di scena abilmente immaginati e costruiti. Se il titolo l’avessi scelto io, sarebbe stato (alla Wilson) Memorie dalla contea di psicopatia; ma questo è ottimo. Il mio titolo scaturisce dall’idea che la protagonista sia folle, prima – altrimenti non sarebbe avvenuto l’incidente – e poi per tutto il corso dell’opera. E tale psicopatia è benissimo descritta. Si potrebbe obbiettare che l’abbandono che ella fa delle benzodiazepine ex abrupto senza conseguenze gravi urta contro il verisimile. Lo dicono tutte le esperienze cliniche. Ma siccome la psiche è quanto di più misterioso esista, l’obbiezione sarebbe infondata.

Mi sono interrogato sul tema se il finale regga. Prima facie, pare conclusione consolatoria, che abbassa la temperatura del libro. Se l’avessi scritto io, avrei immaginato Bianca sprofondare sempre più nella depressione, nella malattia, nell’isolamento. Ma, ripeto, non sono un narratore. E ne ho dato un’altra interpretazione.

Non so se sia quella dell’autore, ma siccome ormai l’opera si è da lui distaccata, la mia è altrettanto lecita. E vedo questo finale come se, di fronte all’infinita vanità del tutto, peccato e innocenza, punizione e perdono, si equivalessero, del pari privi di senso. Io leggo attraverso il mio Borges, e la chiave è la novella I teologi; per esempio.

L’identità partenopea serve solo a cercare nuove lobby

Ermanno Rea è morto nel settembre del 2016 e una delle sue antiche speranze era questa: “Il sogno di una Napoli fiorita, con tante bouganville e altri rampicanti ai balconi e nelle aiuole pubbliche, maniacalmente pulita e odorosa, gentile nei modi, obbediente alle leggi, irreprensibile nel traffico”. Per raggiungere l’obiettivo, concludeva il grande scrittore (citiamo Mistero napoletano per tutte le sue opere), ci vorrebbe “un’intransigenza giacobina”.

Certo, Rea era consapevole della sua condizione di “disertore” andato via, abitava a Roma, ma il suo onirismo è la provocazione ideale per affrontare di petto l’aggiornamento della questione napoletana o meridionale sollevata ieri sul Fatto da Angelo Petrella – uno degli autori di talento del “nuovo picco di energie creative” partorito da Napoli in questi anni – in occasione della nuova edizione di Giùnapoli di Silvio Perrella. Per quanto eccezionale, se rapportata con gli anni bui della monnezza, giusto per fare un esempio, l’immagine di una città pulita e irreprensibile indica infatti un concetto di normalità. Ed è questo il primo peccato antropologico ancor prima che culturale commesso da Petrella, concentrato invece sulla perenne ricerca di una terza via tra “il versante pulcinellesco” e “l’agiografia camorristica” (Gomorra, per intenderci) con cui rappresentare Napoli. Insomma una via per ridefinire la napoletanità. L’errore è appunto questo. Ché il problema è semmai fuoriuscire dalla napoletanità, quale essa sia, e al contrario impegnarsi per “normalizzare” Napoli.

Ecco, la normalità sarebbe la cosa migliore per rilanciare l’identità della città. È un tema presente nell’ultimo libro, decisivo come al solito, di Raffaele La Capria, Il fallimento della consapevolezza. E dove si chiede di farla finita una volte per tutte con l’etichetta etnico-culturale di “scrittore napoletano”. Uno scrittore è uno scrittore. Punto.

Come l’osannata e misteriosa Elena Ferrante, che Petrella designa a “capofila” della letteratura meridionale contemporanea. Un altro errore provocato dall’ossessione dell’identità, tra la crisi di oggi e “le ferite storiche”. La sontuosa quadrilogia ferrantiana dell’Amica geniale semmai riconduce all’universalità della letteratura e questo spiega anche il suo successo internazionale. I suoi non sono romanzi napoletani né meridionali, almeno nell’accezione che sottintende alla questione rilanciata da Petrella. Il motivo è semplice: trama e personaggi non si fanno sovrastare da Napoli e dalla napoletanità. Sono un’altra cosa rispetto al tema dell’identità. Deo gratias, viene da dire.

Ovviamente non si tratta di rinnegare la plurisecolare bibliografia sulla specificità della città, ma l’aureola di eccezionalità con cui gli intellettuali autoctoni di ieri e di oggi hanno incoronato Napoli ha dilatato in questo terzo millennio il vizio dell’autoreferenzialità spesso dolente. Napoli è una città che ama parlarsi addosso in nome dell’identità. Come testimonia il surreale dibattito su Napoli velata, il film di Ferzan Ozpetek che racconta anche il boom turistico del centro storico (ben prima che gli italiani se ne accorgessero con l’attentato dinamitardo alla pizzeria di Sorbillo). Tralasciando l’immensa pubblicistica su Gomorra, per giorni, due anni fa, editorialisti, saggisti, politici s’interrogarono su una clamorosa scoperta, abbagliante come una visione mariana: fare un film a Napoli senza camorra. Storditi da questa novità, i pensatori non si chiesero perché a Roma o a New York non si fanno dibattiti del genere. Eppure anche loro hanno avuto Romanzo criminale o I Guerrieri della notte. L’eccezionalità partenopea, appunto.

La sensazione finale, quindi, è che il vuoto lamentato da Petrella (mancanza di un polo aggregativo, crisi dei quotidiani cittadini, debolezza delle istituzioni culturali a fronte di 50 scrittori residenti) porti alla tentazione di formare una nuova lobby che continui a lucrare intellettualmente sull’identità. Una richiesta d’unità che fa pensare agli spasmi contriti di certi napoletani quando un giocatore emigrante segna un gol con un’altra maglia. Come se tutti i calciatori nati a Napoli dovessero giocare insieme nella loro città. A proposito di calcio. Rafa Benitez quando allenò il Napoli disse poco dopo il suo arrivo: “Napoli vincerà quando la smetterà di pensarsi una città diversa dalle altre”. La normalità, ancora.

Monty Python: il sesso, l’alcol e gli striscioni delle suore

Il ritorno al futuro ha il sapore della critica: “Il Flying Circus di certo cambiò la comicità, ma in modo piuttosto negativo. Invece di prendere il nostro materiale e portarlo a un livello successivo, le nuove generazioni di comici lo hanno evitato. È deludente, ma è così”. Eppure, non ogni risata è persa: “A parte questo, penso che abbia reso felici le persone. Per prima cosa, le fece ridere, che è l’esperienza più bella al mondo”. Il 1969 sta alla comicità come il 1492 all’America: il 5 ottobre di cinquant’anni fa va in onda sulla Bbc il primo episodio del Monty Python’s Flying Circus. Un successo dalla carburazione lenta, ma dal lascito incommensurabile: nato quale starring vehicle per il solo John Cleese, finì per consacrare l’intero gruppo, Graham Chapman, Michael Palin, Terry Jones, Eric Idle e l’americano Terry Gilliam.

Ricorda ancora Cleese, “qualcuno mi disse che non riusciva a guardare il telegiornale dopo il Flying Circus, perché sembrava tutto talmente ridicolo, e credo sia una cosa meravigliosamente salutare”. La riproducibilità tecnica si concretizzò, al netto dell’aura: “In America, il Saturday Night Live fu influenzato dal Flying Circus in modo molto positivo. Anzi, i ragazzini che guardavano SNL e scoprivano dopo il Circus pensavano che fossimo noi ad aver copiato da loro”. Se Lorne Michaels vi prese a piene mani per creare SNL, nondimeno lo specifico di Cleese & Co. rimase inafferrabile: uno splendido isolamento e un’eccezione culturale di cui il gruppo comico inglese ci ha messo a parte licenziando Monty Python, l’autobiografia dei Monty Python, un memoir collettivo con i crismi del cult ora riproposto in una nuova edizione da Sagoma.

Flusso di irriverenza e reflusso di coscienza, polifonia demenziale e comicità liquida, il Flying Circus fu il precipitato primordiale dei Monty Python, quella sporca mezza dozzina di talento in disaccordo su tutto, dunque anche sull’essere in disaccordo, e in direzione ostinata e contraria.

Nell’autobiografia ne hanno per chiunque, in primis per se stessi, e non c’è tema sensibile che venga risparmiato. Né il sesso: “Durante l’ora di religione – rammenta Idle – il preside ci informò con noncuranza che lui e la moglie non facevano sesso da quattro anni e che erano davvero felici. Tra noi bisbigliavamo sempre: ‘Ma l’hai vista sua moglie!’” né il coming out: “Decisi di invitare i miei più cari amici a una festa per presentare loro David e spiegare a tutti che ero un ‘invertito’. L’agonia di mantenere il silenzio – confessava lo scomparso Chapman – era diventata insopportabile”. Nemmeno l’alcolismo è sottaciuto: “Il re Artù di Graham – riporta Palin sul proprio diario – ha avuto un attacco di vertigini e non è riuscito ad attraversare il ponte, così ha continuato la giornata infreddolito e tremante”; “Graham era un alcolizzato! Non riusciva a ricordare le battute. Iniziava una frase e poi si bloccava a metà”, rincara Gilliam; “Ricordo che era il primo giorno di riprese del Sacro Graal, alle sette del mattino eravamo su una collina in Scozia, e non aveva niente da bere. D’un tratto è iniziato il delirium tremens”. Già, anche con una struttura alla Rashomon, anche se si tratta dei Monty Python, le testimonianze collimano. Con il film successivo, Brian di Nazareth, forse l’epitome del politicamente scorretto, si fecero odiare ecumenicamente: “Mentre scrivevamo la sceneggiatura dissi agli altri: ‘Lo sapete che qualche fanatico religioso potrebbe cercare di spararci?’ Oggi, dopo l’esperienza di Salman Rushdie, probabilmente ci penseremmo due volte” (Gilliam); “Dicevano cose come ‘I Monty Python sono gli emissari del Demonio”, che mi sembrava uno slogan meraviglioso” (Cleese); “La prima manifestazione fu quella dell’Associazione dei Rabbini, che si lamentò per l’uso del talèd nella scena della lapidazione. Non sapevamo si trattasse di uno scialle da usare solo per le preghiere” (Jones); “Poi fu la volta dei cristiani, che si resero conto che ci stavamo prendendo gioco di loro, e giustamente” (Idle); “C’erano delle suore con gli striscioni!” (Palin).

Che ne è oggi di quella vis comica? Dov’è volato quel Circus smodato e impareggiabile? Poco ma sicuro, ridevamo meglio quando stavamo coi Monty Python: “Eric se ne uscì con il titolo Gesù Cristo – Alla Ricerca della Gloria (poi Brian di Nazareth, ndr) e noi scoppiammo tutti a ridere, ma probabilmente avevamo fatto il pieno di gin e brandy, e anche di vino rosso ed erba”.

Si continua a morire per la crisi: dal 2012 mille suicidi “economici”

È un po’ che non si sente parlare dei “suicidi economici”. Cioè di quelle persone che decidono di togliersi la vita poiché sommersi dai debiti o ridotti in povertà dopo aver perso il lavoro. Questo fenomeno, però, non è calato. Anzi, dopo l’escalation registrata durante la crisi, il fenomeno è rimasto costante anche dopo l’inizio della lenta ripresa. E se inizialmente riguardava soprattutto gli imprenditori del Nord-Est, gli ultimi dati mostrano un maggiore coinvolgimento di disoccupati e lavoratori meridionali.

Insomma, ciò che è scomparso dalle statistiche purtroppo non è sparito dalla realtà e ha cambiato forma. L’Istat ha smesso di conteggiare questo tipo di suicidi per vari motivi. Innanzitutto c’è il timore di catalogare come “economico” un gesto che in realtà potrebbe avere anche altre ragioni; inoltre si vuole evitare un effetto emulazione. La Link Campus University di Roma anche per questo ha deciso di aprire un osservatorio sui suicidi per ragioni economiche. Ieri è stato presentato l’ultimo rapporto, che dal 2012 al 2018 segnala 988 casi di persone che si sono uccise e altre 717 che hanno provato a farlo senza riuscirci. “Abbiamo notato un aumento significativo dal 2012 al 2015, quando c’è stato il picco massimo – spiega Nicola Ferrigni, professore di Sociologia generale e politica –. Poi è diventato un fenomeno costante e si è mantenuto allarmante senza flessioni né impennate”.

Nel 2012, la popolazione dei suicidi era composta per il 55% da imprenditori e per il 31,5% da disoccupati. A compiere il gesto estremo, quindi, erano soprattutto quei datori di lavoro che non erano più in grado di pagare tasse, dipendenti e fornitori. “La maggior parte dei casi si concentrava infatti nelle zone con più imprese – aggiunge Ferrigni – quindi nel Nord-Est”. Con il passare del tempo le cose sono cambiate e tornando a rivolgere lo sguardo agli ultimi sette anni le percentuali si riallineano. Gli imprenditori sono diventati il 41,8%, mentre i disoccupati sono arrivati al 40,1%. C’è anche una quota del 12% formata da lavoratori. Oggi la Regione più interessata resta il Veneto con il 15,8% dei casi. Al secondo posto c’è la Campania con il 13,5%. A Napoli e dintorni si è passati dal 12,4% del 2012 al 21,8% del 2018).

Ferrigni ha precisato il metodo di indagine: “Analizziamo le notizie di stampa e verifichiamo caso per caso con le autorità locali. Escludiamo dalle nostre tabelle tutti i casi dubbi o ibridi. Consideriamo soprattutto gli episodi che vedono la presenza di un biglietto lasciato dal suicida dal quale emerge la chiara volontà di farla finita per il disagio economico”.