Da Rold monta una serie di notizie note attorno alla testimonianza di Francescomaria Tuccillo, ex responsabile per l’Africa subsahariana di Leonardo-Finmeccanica. Tuccillo scopre che il mafioso latitante Vito Roberto Palazzolo si dà da fare per vendere soprattutto in Africa gli elicotteri della casa, gli AgustaWestland. Mette in allarme la casa madre. Ma subito dopo proprio il capo degli elicotteri, Giuseppe Orsi, per decisione della Lega Nord (è il 2011, governa Berlusconi), fa le scarpe a Pierfrancesco Guarguaglini e mette nel mirino non Palazzolo ma Tuccillo. Però, poco dopo, Palazzolo viene preso e riportato in Italia per scontare vecchie condanne, mentre Orsi viene arrestato per lo scandalo delle tangenti sugli elicotteri venduti all’India (poi assolto in appello). Il suo successore Alessandro Pansa riabilita Tuccillo. Ricostruzione avvincente a ritmo di spy story, ma sui rapporti tra mafia e Finmeccanica il libro non va oltre il titolo.
Per una difesa davvero liberale dei beni comuni
Questo è il secondo articolo che mira ad ampliare il dibattito sulle migliori forme di tutela dei beni comuni, cioè di quelli che si intende sottrarre al mercato: forse occorre proprio non sottrarli affatto, o vale almeno la pena di sperimentare approcci nuovi.
I servizi pubblici, spesso anche considerati “beni comuni”, si dividono in due gruppi fondamentali dal punto di vista della loro gestione: quelli che potrebbero esser messi in concorrenza (si pensi ai trasporti pubblici, in molti paesi sono in concorrenza, o alla concorrenza che si fanno scuole e ospedali pubblici e privati, o anche servizi sportivi), e quelli dove proprio non si può (i cosiddetti “monopoli naturali”, quali linee ferroviarie, reti idriche ecc. cioè le infrastrutture fisiche). Per questi ultimi si può solo pensare o a una gestione pubblica diretta, o a una messa in gara periodica (o forme simili di regolazione pubblica).
Per gli altri servizi, oltre alla gestione pubblica diretta e alla messa in gara periodica, c’è anche l’ipotesi di una vera liberalizzazione (nota come “competizione nel mercato”, mentre la messa in gara periodica si chiama “competizione per il mercato”). Quest’ultima, si ricorda, prevede un monopolio temporaneo (di solito da 5 a 10 anni), deciso nelle sue caratteristiche da soggetti pubblici, spesso enti locali, che spesso sussidiano i gestori per consentire basse tariffe a tutti gli utenti, raramente distinguendo tra ricchi e poveri (si pensi alle tariffe dei trasporti locali nelle città maggiori).
Una vera liberalizzazione invece significa molte minori ingerenze del pubblico, al di là di certificare la sicurezza del servizio e la trasparenza e correttezza delle informazioni su tariffe, modalità di erogazione ecc., come per qualsiasi servizio privato. Della socialità, viene garantito un solo aspetto: il sussidio alle categorie meno abbienti, alle quali la collettività può rimborsare in tutto o in parte i costi del servizio erogato dai privati (ma certo anche da imprese di proprietà pubblica, se in grado di concorrere nel mercato).
A fronte di questa unica pur importante dimensione sociale tutelata (i costi per gli utenti) ci sono anche molti vantaggi da considerare rispetto alle gare.
Non c’è un monopolio neppure temporaneo: se per esempio c’è della domanda non servita, o profitti eccessivi, o scarsa qualità del servizio, entreranno subito in gioco dei concorrenti. Inoltre, se apparisse all’orizzonte un operatore con un importante innovazione tecnologica che migliora il servizio, anche in questo caso entrerebbe in azione subito. Non solo, i suoi concorrenti dovranno adeguarsi, pena l’uscita da quel mercato. Magari, se la tecnologia è in proprietà esclusiva, abbassando i prezzi.
Si pensi ai trasporti pubblici, come esempio per chiarire: arriva un concorrente che dispone di un’app esclusiva che consente di “parlare” con gli utenti in tempo reale, riducendo tempi di attesa e di viaggio, riprogrammando di continuo fermate e corse (questa tecnologia tra l’altro è di imminente disponibilità). Questa impresa si metterebbe in azione subito, non aspettando la scadenza e le incertezze della gara.
Ma anche l’area geografica in cui si estende il servizio può estendersi liberamente in funzione della domanda, per esempio ancora nei trasporti, con linee dirette che rompono l’attuale assurda barriera, solo amministrativa, tra città e aree esterne.
Ma forse i vantaggi principali sarebbero legati alla scomparsa dei rapporti, oggi strettissimi, con amministrazioni pubbliche che troppo spesso non hanno affatto ai vertici dei loro obiettivi la soddisfazione dell’utenza, ma il controllo politico delle imprese che forniscono i servizi, e, nel migliore dei casi, i voti dei dipendenti diretti e di quelli dei fornitori (questo fenomeno si chiama “cattura” o più prosaicamente “voto di scambio”).
Per le forniture poi, che pesano moltissimo sui costi e la qualità di alcuni servizi, il quadro cambierebbe molto più radicalmente ancora. Infatti in una situazione di monopolio sussidiato, il sapere che comunque alla fine l’ente pubblico pagherà e l’impresa di cui si è responsabili degli acquisti non può fallire, induce ad avere atteggiamenti rilassati, fino a diventare “troppo amici” delle imprese fornitrici. Una impresa privata in concorrenza invece, sarebbe certo assai meno “amichevole”: esigerebbe prezzi bassi e forniture eccellenti, non perché ama gli utenti, ma per cercare di battere i concorrenti! Ma forse proprio perché davvero ama gli utenti, considerato che sono la sola fonte di ricavi e di (comunque incerti) profitti.
Quindi i fenomeni di corruzione avrebbero fortissimi “freni automatici”: per intenderci, se il capo acquisti danneggia l’impresa facendosi corrompere dai fornitori, ci penserebbe il padrone a licenziarlo.
Questo spiega bene anche il perché anche il rilevantissimo settore dei fornitori di aziende che erogano pubblici servizi sia contrarissimo ad una piena liberalizzazione. E gli utenti? Si smetterebbe di sussidiare anche i ricchi, e i sussidi sarebbero flessibili nel tempo, consentendo di soddisfare nuove categorie in difficoltà (anche la situazione dei bisogni sociali tende ad evolvere nel tempo).
Per concludere, forse occorre mettere sul tavolo, per una aperta discussione politica, senza preconcetti secolari, uno slogan davvero paradossale: “E se nemmeno le gare fossero la miglior difesa dei beni comuni?”.
Unicredit, l’ad Mustier boccia le alleanze internazionali
“Non scommettete sulle fusioni transfrontaliere tra banche in Europa nel prossimo futuro”: a dirlo è l’amministratore delegato di Unicredit Jean-Pierre Mustier, intervenendo a Bruxelles alla Financial Services Conference organizzata da Assonime e Bnp Paribas. La dimensione per le banche, continua Mustier, “può essere forse trovata con combinazioni transfrontaliere. Forse. Se ascoltate i rumours, oggi dovrebbero esserci forse due solo banche europee, perché abbiamo comprato la maggior parte delle altre: secondo i rumours stavamo comprando Lloyds, Deutsche Bank, Commerzbank, Bbva, e naturalmente SocGen”. Per l’ad, fusioni e combinazioni non hanno senso perché bisogna poter tagliare costi. “A Unicredit abbiamo tagliato il 25% degli sportelli in due anni. È brutale: se ti fondi, devi fare la stessa cosa. Hai fusioni paneuropee solo se puoi tagliare i costi. Quindi la probabilità di una fusione è bassa”, conclude Mustier.
Inail, più infortuni sul lavoro nel 2018: 1.133 gli incidenti mortali (+10%)
Il 2018 si chiude con un bilancio nero per le vittime sul lavoro. L’Inail certifica un nuovo aumento delle denunce di infortuni con i casi mortali saliti a 1.133, il 10,1% in più rispetto al 2017: 104 in più rispetto ai 1.029 casi denunciati l’anno prima. Un record negativo spinto da diverse tragedie accadute ad agosto: il crollo del ponte Morandi a Genova, con 15 denunce di casi mortali sul lavoro, e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, in cui hanno perso la vita 16 braccianti.
I sindacati tornano ad alzare la voce, chiedendo più prevenzione e più salute e sicurezza: “È inaccettabile, ripetono, morire sul lavoro. I dati dicono più di tre morti al giorno”. In aumento anche le patologie di origine professionale denunciate: sono state 59.585 (+2,5%). In testa quelle del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, del sistema nervoso e dell’orecchio, le patologie del sistema respiratorio e i tumori. Cinque malattie che rappresentano il 90% del totale dei casi denunciati.
Troppo piccole per farcela da sole. Ecco le banchette in difficoltà
Dopo un decennio difficile per l’impatto della crisi del 2008 e di quella del 2010- 2011, la salute delle banche italiane è in miglioramento. Lo testimonia l’ultima edizione del Focus sul sistema bancario pubblicata nei giorni scorsi dall’area studi di Mediobanca, che ha analizzato i bilanci a fine 2017 di 405 istituti. Nell’“ospedale del credito” i reparti si sono svuotati notevolmente, ma non tutti gli istituti hanno risolto i loro problemi.
A fine 2017 c’erano 16 banche che segnavano indici di bilancio critici su tre fronti: la qualità del credito, la sua incidenza sul patrimonio e la redditività. Mediobanca rileva che a fine 2017 erano 63 gli istituti italiani ad avere un indice “Texas ratio” (peso dei crediti deteriorati lordi sul patrimonio netto tangibile sommato ai fondi di rettifica) superiore al 100%, mentre a fine 2016 a superare questa soglia critica erano in 113. C’erano 111 istituti con un indice dei crediti deteriorati lordi sul totale dei crediti (Npl ratio) superiore al 20% (nel 2016 erano 173 le banche in questa condizione). Sempre a fine 2017, 80 banche avevano un rapporto tra crediti deteriorati netti e capitale primario (Core Tier1 capital) superiore al 100%, a fronte delle 118 del 2016. Quando alla redditività, misurata dal rapporto tra costi e ricavi al netto di quelli da trading (cost income ratio), a fine 2017 66 banche avevano un indice superiore al 90%, a fine 2016 erano 91. Se a fine 2016 le banche “in piena salute” erano 191, a fine 2017 erano invece 210. Ma ancora 16 istituti “sballavano” su tutti e quattro gli indici, a fronte dei 38 in condizioni simili un anno prima.
Nell’elenco delle “diagnosi difficili” c’erano Mps e Carige, la senese già nazionalizzata e la genovese in difficoltà tali, dopo lo stallo sull’aumento di capitale, da fare decidere la Bce a commissariarla lo scorso 2 gennaio. Nel reparto, insieme ai due istituti malati appaiono altre tre banche Spa: la filiale italiana di Hypo Alpe Adria Bank, che sin dal 2012 ha pagato la crisi della casa madre austriaca dismettendo le attività e riducendo a un’ottantina i 400 addetti della sede di Tavagnacco (Udine). Nei giorni scorsi Il ministero delle Finanze di Vienna, primo azionista della banca nazionalizzata a novembre 2014, ha deciso la cessione della filiale italiana. Ma c’è anche, con 530 anni di storia, Banca del Monte di Lucca, che fa parte del gruppo Carige ma non è stata toccata dal commissariamento. In difficoltà c’è anche la campana Banca regionale di sviluppo, che paga la crisi economica e i cui problemi hanno portato al commissariamento e a una nuova governance l’azionista Fondazione Banco Napoli.
Nell’elenco delle banche in difficoltà a fine 2017 c’era poi la Popolare di Puglia e Basilicata, dal quartier generale di Altamura (Bari), sta mettendo in sicurezza la qualità del credito grazie a maxi-operazioni di cessioni di crediti deteriorati: a novembre ne ha ceduti circa 140 milioni, insieme ad altri di un gruppo di altri 15 istituti analoghi per un valore complessivo di un miliardo, alla società veicolo Pop Npls 2018 con una maxi-cartolarizzazione in pool per cogliere l’opportunità fornita dal prolungamento delle garanzie pubbliche (Gacs).
Ma tra le banche in difficoltà la pattuglia più rappresentata è quella del mondo del credito cooperativo: a fine 2017 erano 10 gli istituti che secondo Mediobanca sforavano tutti e quattro i livelli critici. In questi casi, la terapia che si tenta sempre passa per le fusioni e le aggregazioni dettate dalla necessità di fare massa critica. La Bcc Centropadana di Lodi ad esempio ha sfruttato le Gacs per cartolarizzare crediti con Iccrea, gruppo al quale hanno aderito anche la Bcc Brianza e Laghi, nata da un anno circa dalla fusione tre le Bcc Alta Brianza e Lesmo (Monza), e la laziale Bcc dei Colli Albani. RovigoBanca invece ha aderito al gruppo trentino Cassa Centrale, così come la Bcc marchigiana di Recanati e Colmurano. Le fusioni hanno spopolato nelle Marche: a novembre Banca Suasa, negativa su tutti i parametri, si è fusa con la Bcc di Civitanova e Montecosaro, creando Banco Marchigiano, per poi aderire al gruppo Cassa Centrale. A fine ottobre erano invece “convolate a nozze” le Bcc di Ancona e di Falconara Marittima. Un destino al quali non è sfuggita l’ultima delle Bcc segnalate da Mediobanca: a dicembre un decreto regionale ha stabilito che la Bcc di Sambuca di Sicilia (Agrigento) sarà incorporata nella Banca del Nisseno di Sommatino e Serradifalco (Caltanissetta).
Ma le aggregazioni non sempre risolvono i problemi, a volte non intercettati nemmeno dagli elenchi di Mediobanca. Lo testimonia la vicenda della catanese Banca Base che a febbraio scorso finì in crisi di liquidità (dopo una corsa agli sportelli) tanto da dover bloccare i conti di duemila correntisti. Per salvarla intervenne la Popolare di Ragusa i cui soci sono ora in rivolta perché non riescono a rivendere le azioni non quotate. Anche la modenese Popolare Sanfelice, in fase di pulizia dei crediti, è in cerca di una aggregazione e anche qui i 5.300 soci con azioni non quotate si interrogano sul futuro.
Credito malato, i grandi affari dei signori delle “sofferenze”
Per le banche italiane sono un incubo ormai dall’inizio della crisi. Un incubo che sta scemando ma che continua a impensierire banchieri e politica. Per gli operatori specializzati, una decina di grandi e piccoli fondi, le cosiddette “sofferenze” (i prestiti non più esigibili), o meglio tutti crediti deteriorati in pancia agli istituti di credito, sono l’affare della vita. Tanto più ora che la Bce ha di nuovo stretto la morsa sullo smaltimento delle scorie dei crediti ammalorati. Il giro di vite (per certi aspetti inaspettato) è arrivato poche settimane fa. Sofferenze e incagli delle banche italiane vanno smaltiti al 100% nell’arco dei prossimi 7 anni. Da qui al 2026 gli istituti dovranno pulire del tutto i loro bilanci dalle scorie del credito malato. Basta con i tentennamenti quindi. Un diktat che farà male alle banche, dato che, anche se con gradualità, finirà per avere impatto sul capitale dato che i prezzi di cessione degli Npl sono ancora lontani dai tassi di accantonamento già spesati.
Eppure grande sforzo è già stato fatto. Negli ultimi due anni l’Italia, il grande osservato speciale in Europa per il peso enorme delle sofferenze, ha fatto passi da gigante. La mole dei crediti marci era infatti di ben 341 miliardi alla fine del 2015 – dopo due pesanti recessioni (nel 2008 e nel 2012) – oggi il livello è sceso poco sopra i 200 miliardi. Ma per i regolatori ancora non basta. L’Italia bancaria del resto ha tuttora in media un livello di Non performing loan (Npl) lordi sugli impieghi totali del 9,4%, secondo i dati Eba contro un 3,4% della media Ue. Se le banche continuano a penare, il mercato dei compratori di sofferenze e incagli gioisce. Tanto più le banche – sotto la pressione della vigilanza – dovranno sbarazzarsi dei crediti marci, tanto più gli “spazzini” del cattivo credito faranno affari d’oro. L’offerta si moltiplicherà negli anni futuri e questo avrà anche l’effetto di comprimere i prezzi d’acquisto rendendo ancora più remunerativo il loro business.
Non che finora non abbiano guadagnato. Il mercato, partito in sordina nel 2015, è andato accelerando: nel 2017 i volumi lordi di compravendite delle scorie bancarie sono stati di 71 miliardi e il 2018 chiuderà, secondo l’osservatorio sugli Npl di Banca Ifis, con altri 66 miliardi di transazioni. Il ritmo è destinato a farsi ancora più intenso. Le stime della società di consulenza PricewaterhouseCoopers parlano di un volume di almeno 50 miliardi di euro nel 2019. Ma sono stime fatte prima dell’ulteriore stretta dei regolatori di Francoforte. Quindi si profila una colossale occasione per i fondi specializzati. Per i prossimi 7 anni possono contare su un mercato garantito di cessioni. Dietro questi prestiti ci sono famiglie e imprese in difficoltà, ma i signori del credito malato puntano solo a massimizzare il profitto. Chi sono e quanto guadagnano?
I grandi attori sono di fatto quattro, cui segue un drappello di operatori più piccoli. In testa, nel mercato italiano, spicca Dobank. Il gruppo – un tempo costola di Unicredit, oggi quotato in Borsa e controllato dal gruppo Usa Fortress – nel 2016 ha acquisito il 100% di Italfondiario. Ha in gestione un portafoglio di 83,5 miliardi di valore lordo di crediti malati e segna incassi annui di 1,33 miliardi. Nell’ultima trimestrale segna un utile netto di 35 milioni su ricavi netti per 162 milioni. Il margine industriale è del 34% sul fatturato. Segue a ruota, nel ranking segnalato da Pwc, il gruppo Cerved. La sua divisione di credit management ha in gestione 51 miliardi di Npl. Ha visto i ricavi salire da 68 milioni a 99 milioni negli ultimi 12 mesi. Anche per questo operatore i margini di profitto vanno ben oltre il 30%. Poi ecco Intrum, il colosso svedese che in Italia ha appena sfornato una partnership azionaria con Intesa SanPaolo, acquisendo la piattaforma di gestione degli Npl della banca milanese e con essa oltre 10 miliardi di crediti malati dell’istituto guidato da Carlo Messina. Poi ancora il Credito Fondiario, che ha appena visto l’ingresso nel capitale al 40% del fondo Elliott e per il 60% è della Tages dell’ex banker italiano di stanza a Londra Panfilo Tarantelli. Nella lista c’è anche Prelios, e sul credito al consumo è attiva da anni Banca Ifis.
Il mercato si va affollando e pare il nuovo Eldorado, spesso gestito da ex banchieri che sono passati dall’altra parte della barricata. Comprano e poi grazie a stuoli di avvocati e specialisti del settore provano a recuperare parte del debito non onorato. La redditività dipende molto dal prezzo d’acquisto. Ovvio che più il prezzo è basso, più i possibili guadagni si fanno interessanti. C’è da pescare nel mare magnum di crediti marci di varia natura. Più ci sono garanzie immobiliari o personali dietro le sofferenze, più il valore sale e viceversa. In media i prezzi variano dal 20 a 30 per cento del valore lordo. Per le banche non è quasi mai un affare, dato che le percentuali di copertura in media sono del 50%. Ogni volta che una transazione avviene a un valore più basso la banca ci perde. Certo si sbarazza di una zavorra, ma segna perdite pesanti che riducono il capitale. Gli spazzini delle sofferenze, invece, guadagnano eccome. Avere margini industriali, come visto, del 30% e oltre per un business di questo tipo segnala che il piatto è ricco. Tanto che ora, un operatore del settore, ma pubblico, come la Sga del Tesoro, pare volersi buttare a capofitto sul nuovo Eldorado bancario. La Sga, che gestisce già 20 miliardi di Npl, è impegnata oggi nell’acquisto dei crediti malati di Carige e ha rilevato in passato quelli delle popolari venete. Una sorta di nuova bad bank sotto le insegne dello Stato. E anch’essa stima numeri mirabolanti. Nel piano industriale presentato da poco stima un margine lordo che punta al 35% nei prossimi anni. Sul macigno dei crediti malati delle banche, anche il Tesoro italiano vuole la sua bella fetta di torta.
Ceta, troppe paure senza fondamento
Un paio di anni fa, il primo ministro della Vallonia, Paul Magnette, si è guadagnato la simpatia di mezza Europa: la sua piccola regione belga, da sola, stava bloccando il trattato commerciale negoziato per anni tra Ue e Canada. A parte la discutibile idea di democrazia dietro tale entusiasmo (è legittimo che 3,5 milioni possano decidere per gli altri 500?), oggi arriva il primo segnale che quella campagna così popolare non aveva fondamento. Il 7 settembre 2017 il Belgio si è rivolto alla Corte di Giustizia europea per contestare il Ceta, l’accordo Ue-Canada. Ieri si è espresso l’avvocato generale della Corte, Yves Bot, di solito le argomentazioni dell’avvocato (che è membro della Corte e che ha la causa assegnata assieme a un giudice) vengono poi recepite dal verdetto finale. E l’avvocato generale ha respinto le contestazioni del Belgio sul punto cruciale: i rapporti tra investitori stranieri e Stati membri dell’Ue. Se un’impresa straniera, canadese in questo caso, investe diciamo in Italia sulla base del Ceta, vuole la garanzia che poi l’Italia non approvi leggi che vanno nella direzione opposta al Ceta. Per risolvere eventuali controversie, come in altri trattati commerciali, viene creata una Corte apposita (Ics) parallela a quelle nazionali (che essendo tali non sono considerate imparziali). Nella versione caricaturale offerta da alcune lobby e vari movimenti no-global, queste Corti sarebbero una sorta di Stato parallelo e non democratico, capace di svuotare Parlamenti e governi della capacità di opporsi ad aggressive multinazionali straniere pronte a usare il Canada come ponte per distruggere la concorrenza europea. Niente di tutto questo, dice l’Avvocatura della Corte di giustizia, le Corti Ics hanno un perimetro limitato e le imprese europee restano più tutelate di quelle straniere che investono in Europa. Il Ceta è compatibile con il Trattato Ue, dice l’Avvocatura. Ma intanto il governo italiano, come molti altri, ha insabbiato il Ceta e il suo omologo con gli Usa (Ttip) è ibernato e forse defunto.
Il Pir è nudo: è stato un regalo alle banche e non finanzia le Pmi
I Piani individuali di risparmio (Pir) sono stati nel 2017 e 2018 il blockbuster dell’industria del risparmio gestito con oltre 800.000 sottoscrittori e incassi per oltre 14 miliardi di euro. Un fiume di commissioni (circa 300 milioni di euro nel 2018) è andato ad alimentare i bilanci di banche, reti e assicurazioni che hanno cavalcato questo “regalo” fatto in zona Cesarini dal governo Gentiloni. Banche e venditori, tramite fondi e polizze, si sono così tuffati nella vendita dei Pir conoscendo bene i loro polli: esenzione fiscale in caso di guadagni (a patto di non disinvestire per almeno 5 anni) e un pizzico di retorica finto patriottica: “Sottoscrivendo i fondi Pir si possono sostenere l’industria tricolore e le Pmi”. Chissà, però, quanti nel vendere questi prodotti hanno omesso di spiegare che se c’è una Borsa al mondo ricca di opportunità, ma anche di insidie, è proprio quella italiana dove la volatilità è fra le più alte in Europa. Basti dire che oggi, rispetto ai massimi del 2007, Piazza Affari è ancora sotto del 40%: altro che orizzonte temporale di 5 anni, come prescrive la normativa sui Pir come periodo minimo di detenzione.
Così, dopo la partenza a razzo nel 2017 dei fondi Pir – che hanno contribuito anche al rialzo a 2 cifre di Piazza Affari – il 2018 ha segnato il quasi totale dietrofront e la scoperta per molti risparmiatori che non è oro tutto quello che luccica o viene venduto come tale. Il capital gain del 2017 (differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto) è stato, infatti, in larga parte rimangiato o totalmente annullato dall’andamento in forte discesa di azioni e obbligazioni targate Italia. Per i risparmiatori che hanno sottoscritto lo scorso anno questi prodotti la performance di Piazza Affari è stata una doccia fredda: -17,2% il rendimento medio annuo dei fondi Pir azionari e -8,2% il rendimento medio annuo dei fondi Pir bilanciati obbligazionari. I soldi raccolti sono andati soprattutto sul mercato secondario (vale a dire a gonfiare le quotazioni dei titoli già scambiati) e pochissimo è arrivato sul mercato primario (direttamente nelle casse delle società per aumenti di capitale o nuovi collocamenti). E, soprattutto, le Pmi si sono dovute accontentare di noccioline. Secondo i calcoli di Cfo Sim – calcolando anche i collocamenti di agosto 2018 su Aim Italia (il listino delle Pmi ad “alto potenziale di crescita”) – sono affluiti quasi 2,6 miliardi di euro, ma la gran parte del denaro è rimasto parcheggiato (anche dagli stessi fondi Pir) nelle Spac, i veicoli che raccolgono capitali finalizzati all’acquisizione di società da quotare in futuro. Al netto di questi, l’ammontare delle azioni emesse è stato pari a 333 milioni, non tutte ovviamente sottoscritte attraverso i Piani di risparmio. Se, quindi, si facessero bene i conti si arriverebbe a circa 150 milioni di euro sui 14 miliardi di raccolta. Poco più dell’1%.
Il governo giallo-verde ha deciso poi con la legge di Bilancio di intervenire sulla normativa Pir, causando quasi il blocco del segmento lato nuove sottoscrizioni. Molte società di gestione fra le più importanti – come Banca Mediolanum e Intesa San Paolo che hanno già raccolto oltre 7,5 miliardi di euro con i Pir – hanno infatti deciso di sospendere da inizio anno le nuove sottoscrizioni. Oltre ai vincoli stabiliti dalla precedente normativa, al fine di beneficiare del regime di esenzione, la nuova norma prevede che dal 1° gennaio i fondi Pir conformi (complaint) dovranno investire, per almeno due terzi dell’anno, almeno il 3,5% dell’attivo in strumenti finanziari emessi da Pmi e negoziati nei sistemi multilaterali di negoziazione (tipo Aim) e almeno il 3,5% dell’attivo in quote o azioni di fondi di venture capital residenti in Italia, negli Stati Ue o nei Paesi aderenti allo Spazio economico europeo (See) e che investono prevalentemente in Pmi non quotate.
Obiettivo anche lodevole quello di costringere i gestori a investire nell’economia reale non solo tramite brochure e pagine pubblicitarie, ma più concretamente in strumenti finanziari emessi da Pmi in fondi di venture capital. Ma non mancano i dubbi interpretativi e si attende da settimane l’emanazione di un apposito decreto attuativo del ministero dello Sviluppo economico, insieme a quello dell’Economia. E non mancano le critiche di molti addetti ai lavori. Assogestioni (l’associazione dei gestori di fondi d’investimento italiani) ha evidenziato fra i rischi anche quello di rendere in questo modo i “nuovi” Pir meno facilmente liquidabili perché investiti magari in strumenti non immediatamente rimborsabili. Un requisito invece assolutamente indispensabile per un organismo di investimento collettivo del risparmio.
Un pasticciaccio (l’ennesimo) questo del nuovo provvedimento sui Pir di cui il Fatto si era già occupato due anni fa, scrivendo che si trattava di un regalo del governo Gentiloni all’industria del risparmio gestito, snaturando una buona idea applicata con successo negli altri Paesi nel mondo. Ad esempio, nei Pea francesi (l’equivalente dei Pir) non esiste obbligo di concentrazione o addirittura di dover passare quasi obbligatoriamente da un prodotto bancario o assicurativo. E il rischio alimentato con i Pir è quello di spingere i risparmiatori (già poco finanziariamente diversificati) a investire soprattutto su titoli italiani, disattendendo la prima regola di ogni buon padre di famiglia, alla base dell’educazione finanziaria: non mettere tutte le uova nello stesso paniere.
Mail box
Il Papa apre alla sessualità: quando a precauzioni e Aids?
Viene detto, certamente a ragione, che Papa Francesco dichiarando che “il sesso è un dono non un mostro” sta sfatando un altro dei tabù che la Chiesa ha posto come argine indiscutibile di fronte a scomode verità umane ancor prima che religiose. Ma di fronte all’importanza dell’educazione sessuale nelle scuole ora da lui evocata, solo in pochi paiono accorgersi che una vera educazione alla sessualità non è tale se, sin dai più piccoli, non si cominci a presentare loro, con gli argomenti giusti ma in tutto il suo orrore il vero mostro: le malattie derivate da non precauzioni e da contagi di vario tipo come l’Aids. Mi chiedo quando il pontefice deciderà di parlarne con franchezza di questo tema che, se fosse esposto dall’alto della sua autorità, avrebbe una fortissima incidenza su ogni fede, e specie in quella cattolica affinchè migliaia di vite vengano salvate semplicemente da un profilattico. Un fondamentale accorgimento sanitario di cui, in particolare in molti paesi africani che sono da sempre di assoluta cristianità, non se ne conosce nemmeno l’esistenza. È meglio continuare a negarla, e proibirla come fosse il più importante dei tabù, e tacendone la libertà che ne deriverebbe?
Gianni Basi
Smartphone in classe sì o no? Il regolamento lo dice già: no
Il divieto degli smartphone è un argomento che riesce per qualche giorno a “rianimare” il dibattito intorno alla scuola. Il ministro Bussetti, purtroppo, sta esprimendo una linea contraddittoria. Qualche giorno fa sembrava più possibilista: “Eliminare i cellulari dalle classi va bene, ma non dimentichiamo che questi strumenti possono essere utili per la didattica”. L’altroieri invece ha chiuso ogni spiraglio dichiarando che lo smartphone “deve essere spento, punto”. Quest’ultima posizione non è nuova, si allinea a quella delle due proposte di legge (Gelmini, Latini), e conferma la direttiva Fioroni del 2007 che vietava l’uso dei cellulari (gli smartphone ancora non erano diffusi). Sinceramente non vedo una ragione per questo polverone (Proposte di legge, dichiarazioni…), come se le scuole non avessero riferimenti normativi. L’ultimo in ordine di tempo è la legge 71/17 per il contrasto al cyberbullismo che ha permesso agli istituti scolastici di dotarsi di un regolamento. Probabilmente però, i politici, assenti da molti anni dalle aule scolastiche, non si sono accorti che gli le scuole sono molto più avanti, rendendo inutili i loro interventi.
Gianfranco Scialpi
Lo “sceriffo” De Luca parla da vero uomo di destra
Nonostante sia stato sempre formalmente di sinistra Vincenzo De Luca è quasi sempre stato di destra. Per questo motivo da tempo ha fatto trapelare una certa sintonia con le politiche repressive di Matteo Salvini. Non suscita, quindi, alcuna sorpresa favorevole alla chiusura dei porti, pur criticando lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto. Ha motivato la sua affermazione sostenendo che la chiusura dei porti è un modo affinché gli altri Paesi europei si assumano le loro responsabilità nell’accoglienza dei migranti. Vorrei dire a De Luca che se si vuole smuovere l’Europa ci sono altre possibilità di azione (ad esempio la non partecipazione alle riunioni ufficiali, la non erogazione dei fondi destinati all’Unione Europea) oltre a mettere in pericolo la vita degli esseri umani.
Franco Pelella
Non si sfugge al canone Rai, la tv che ci “istupidisce” tutti
A sessant’anni riesco a digerire a malapena i talk televisivi, sperando di sentire qualcuno del Fatto che miracolosamente la Rai o La7 palesa per istanti. Ma cosa rappresenta tutto quell’altro bestiario di figurine morte? Cosa rappresentano i media quando istupidiscono esseri pensanti? Perché vengo costretto a pagare una tassa annuale di 8 euro per avvisare i gestori del canone come quella tassa io non debba pagarla avendo rifiutato il loro osceno servizio? La persona dalla quale mi approccio alla tv, non la possedeva, ha pure compilato il modulo del rimborso del primo anno e del non possesso per il secondo, ma è stato inutile così la tv l’ha presa: “Almeno non butto via i soldi…”. Dove viviamo? Avrebbe dovuto prendere un avvocato? Vorrei dare tre suggerimenti ai Cinquestelle, da me sempre votati e sostenuti: un canale radio e uno televisivo istituzionali e gratuiti, privi di pubblicità, ad azzannare tutti i conflitti d’interesse reperibili; un referendum propositivo per inserire l’inciso “non” nella frase “La legge è uguale per tutti”; raggruppare tutte le elezioni, comunali regionali politiche, in un solo giorno risparmiandoci la campagna elettorale permanente. La politica dovrebbe impegnarsi stabilmente a riparare i danni compiuti dall’uomo al nostro pianeta.
Adriano Barcanju
I NOSTRI ERRORI
Sul giornale di ieri è stata erroneamente pubblicata la lettera scritta dal signor Massimo Marnetto “Il razzismo dell’arbitro va sanzionato pesantemente” con la firma di un altro lettore, Angelo Taranto. Ce ne scusiamo.
FQ
La denuncia di Gallo. Perché solo ora? Conta la verità su ciò che dice di Salvini
Dunque il signor Pietro Gallo “sperava che le sue denunce… portassero a una regolamentazione del ruolo delle Ong nel Mediterraneo…” e non che un onest’uomo, equilibrato e timorato di Dio come Salvini ne facesse un uso politico… Non chiedeva e, soprattutto, non s’aspettava niente in cambio. Ho ancora un po’ di stima per la mia intelligenza: devo davvero credere che fra la tardiva resipiscenza del Gallo e il fatto di essere stato bellamente scaricato non ci sia alcun nesso? Il fatto che oggi si senta responsabile delle sorti di quei disgraziati è tutto sommato una buona notizia: vuol dire che ha ancora una coscienza.
Vincenzo Orsini
Non posso entrare nella coscienza di Pietro Gallo, non ho alcuna idea di cosa l’abbia realmente spinto adesso, a distanza di due anni, a rivelare i suoi rapporti con la Lega e le sue aspettative a quanto pare tradite. Certo, come gli ho fatto presente nell’intervista, la tempistica è sospetta. E lo è ancor di più perché lo stesso Gallo sottolinea di soffrire l’assenza di una “gratificazione” per le sue soffiate destinate, attraverso una collega, allo staff dell’attuale ministro dell’Interno. È difficile, se non impossibile, interpretare oggi il ruolo dell’anima bella. Però c’è un rovescio della medaglia: Gallo s’è presentato alla Squadra mobile di Trapani e ha denunciato. La sua denuncia è stata ritenuta attendibile – dopo essere stata vagliata addirittura intercettandolo – e quindi ha fatto il suo dovere di cittadino. Ma cosa ha denunciato? Che vi fossero rapporti tra trafficanti e Ong? No. Che le Ong lucrassero sui salvataggi per fini economici o diversi da quelli umanitari? Neanche. Nessuna inchiesta ha mai prodotto neanche una prova che ciò sia accaduto. Quel che ha denunciato è agli atti: la Procura di Trapani indaga perché gli equipaggi delle Ong, dopo i soccorsi, non affondavano i barconi e consentivano così ai trafficanti – che viaggiano armati, a differenza dei volontari – di recuperare motori e imbarcazioni. Gallo ha detto il vero, secondo la Procura, che infatti prosegue le indagini. È la gran parte dei politici, invece, che ha sostenuto il falso: nell’immaginario collettivo è stata iniettata la bufala che le Ong chiamassero i trafficanti per organizzarsi con loro. E che sui salvataggi lucrassero chissà quali cifre, finendo per criminalizzarle. Attraverso tecniche investigative da intelligence sono state captate conversazioni sospette che – è stato il Fatto a rivelarlo – non sono mai confluite in un fascicolo e mai provate: parliamo quindi del nulla. Gallo non può ergersi ad anima bella, ammettendo di aver fatto la “talpa” per conto della Lega, ma qualsiasi politico continui ancora oggi ad avallare questa falsa propaganda è senza dubbio peggio di lui.
Antonio Massari