Il banchiere, si sa, è uomo proiettato al futuro. Il banchiere centrale addirittura nel futuro ci vive, è teleologico per definizione e, infatti, ha scarsa confidenza e ancor meno considerazione del passato, se non come antefatto del futuro in cui abita. Per questo non stupisce la ricostruzione dei decenni passati – un po’ omissiva e per il resto scorretta – a cui lunedì si sono abbandonati, ognuno per conto suo, Ignazio Visco e Mario Draghi: roba di inflazioni a due cifre, disoccupazione, crisi industriali, svalutazioni, perdita di sovranità, disfunzioni erettili, pianto e stridore di denti. Non s’intende qui fare del fact checking, ma sottolineare come spesso la teleologia finisca dove inizia la logica. Sostiene Draghi, per dire, che “un Paese perde sovranità quando il debito è troppo alto” perché a quel punto “sono i mercati che dicono a un Paese cosa si può permettere e cosa no”: se ogni decisione “deve essere scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e che sono fuori dal processo democratico, è troppo tardi” ed è inutile protestare, perché “il debito viene prodotto da decisioni politiche”. Funziona così: uno sceglie un sistema in cui si sottopone “al suffragio permanente dei mercati” (Tietmeyer, 1998), che però “sono fuori dal processo democratico” (Draghi 2019) e quindi deve evitare che quel suffragio pesi. Come si fa? Ma facendo da solo quel che vogliono i mercati prima che te lo impongano! Così la democrazia è salva, la logica meno, ma non si può avere tutto: d’altronde il reale è razionale e il cubo di Rubik solo un fermacarte.
Retromarcia di Matteo, moderno John Wayne con la pistola spuntata
Sperando di fare cosa grata ai lettori che non possono star dietro a tutto e monitorare minuto per minuto le risse in corso, i testacoda e gli autogol, forniamo un provvisorio quadro della situazione. Insomma, se non avete tempo di andare al cinema, ecco i migliori film nelle sale. Tranquilli, se questa settimana saltate un talk show non ve ne accorgerete nemmeno.
Salvini, dramma psicologico – Indietro i soldi! Ma si fa così? Insomma, tu paghi per vedere un bel western con lo sceriffo molto macho, severo ma giusto, e ti ritrovi in pieno in una commedia degli equivoci. Avevamo lasciato il Salvini dentro il saloon che diceva “Mi processino pure!”, con l’aggiunta del solito luogocomunismo delle arance da portargli a San Vittore. E ora eccolo invece mediare dietro le tende, mandare i suoi col cappello in mano di qua e di là, riflettere se questo duello gli conviene, valutare se può raggranellare qualche voto in commissione, magari i 5Stelle o un voto segreto, e far tuonare i fedelissimi che se si processa lui si processano tutti. Insomma, già si comincia male col protagonista che si tira indietro e fa retromarcia “dopo aver riflettuto a lungo sulla vicenda ritengo che l’autorizzazione a procedere vada negata”. È come se John Wayne, al momento di uscire in strada con la Colt in pugno, pronto a diventare martire per motivi elettorali, cominciasse a consultare codici e codicilli… “Ehm, ma l’articolo 36 comma 7 e 8…”. Insomma, prima ha fatto il gradasso, poi ci ha riflettuto, film noiosetto.
Di Maio, legal thriller – Classico film di avvocati e tribunali. Si narra il conflitto di coscienza di un giudice. Deve far processare il suo amico Salvini? Ha detto di sì, poi ha detto che nella vicenda Diciotti era “graniticamente” d’accordo con lui. Interessante conflitto interiore: far processare il sequestratore dicendo però che eri d’accordo col sequestro. Un tormento interiore che fa del film l’analisi di una profonda introspezione: si vede che la regia ha lavorato sullo spessore psicologico del personaggio, e poi ha lasciato perdere. Alla fine tutto un po’ scontato, ma qualche scena si salva, ottimi i caratteristi.
Madamine, commedia arancione – Pellicola leggera di vago sapore dialettale (siamo a Torino), ricca di colpi di scena davvero sorprendenti. Alcune signore fondano un club, ma si accorgono che una di loro sta per candidarsi alle elezioni usando le gardenie del giardino e il colore arancione della loro pashmine. Un fulmine a ciel sereno che ha turbato le Olimpiadi subalpine di burraco in tutti i salotti della collina torinese. Apriti cielo! Tutte fingono di stupirsi, cioè: chi ha portato in piazza abbracciati nel nome del Tav Pd e Forza Italia, con la Lega a fare il tifo, ora finge di stupirsi. Dialoghi divertenti, sceneggiatura qui e là zoppicante, bella la scena finale con gli idranti di bagna cauda e la rissa a borsettate di Gucci.
Pd, horror a basso costo – Per gli amanti del genere, lo splatter a vocazione minoritaria, un thriller con venature grottesche. A una settimana dalla votazione nei circoli del Pd ancora non si sa il risultato definitivo e ufficiale, ogni giorno si consultano le previsioni per sapere se Zingaretti è sopra o sotto il 50 per cento, Martina sembra vivo, i renziani convergono su Giachetti, tipo gli zombie che barcollano verso la fattoria dove hanno sentito un rumore umano (si sono sbagliati, era la Ascani). Finale a sorpresa ma mica tanto, gli sceneggiatori promettono il sequel per il 3 marzo (primarie), poi un terzo episodio (congresso).
Trama noiosa, alla fine, scarsi anche gli effetti speciali e nelle scene di massa non ci sono mai più di quindici persone. In generale la serie necessita di un volto nuovo, nella speranza di spostarla dall’horror al comico, si tenterà di ingaggiare Calenda, che però sta già girando una fiction tutta sua.
“Siedi il bimbo” e l’analfabetismo di ritorno
“Diciamo che sedere, come altri verbi di moto, ammette in usi regionali e popolari sempre più estesi anche l’oggetto diretto e che in questa costruzione ha una sua efficacia e sinteticità espressiva che può indurre a sorvolare sui suoi limiti grammaticali”. Così ha scritto Vittorio Coletti, autorevole linguista e membro dell’Accademia della Crusca. Apriti cielo e siedi il bambino: sui social network un esercito di presunti guardiani dell’italiano si è immediatamente schierato a difesa della purezza dell’idioma patrio. Signora mia, dove andremo a finire di questo passo? Sarebbe divertente capire se gli indignati crociati sanno, tanto per fare un esempio, che il pronome “lui” non si dovrebbe usare con funzione di soggetto. Eppure lo diciamo e scriviamo tutti i giorni. Per non parlare dell’entusiasmo con cui abusiamo della “d” eufonica: scriviamo “ed ancora”, al posto di “e ancora” con inquietante frequenza, ma la “d” serve solo per evitare lo scontro con la vocale iniziale della parola seguente, “ed ecco”. Vogliamo parlare, poi, della generosità con cui raddoppiamo le consonanti? Prendiamo “accelerare” verbo che deriva dal latino celere e che si scrive con una sola l. A un certo punto abbiamo cominciato a pronunciare la “l” come se fosse lunga, finché è capitato che qualcuno abbia iniziato a scrivere accellerare: su Internet si trovano quasi 400 mila occorrenze di “accelleratore” a fronte del milione risicato di “acceleratore”.
Con Cesare Pavese ci sentiamo di affermare che “fra gli errori ci sono quelli che puzzano di fogna e quelli che odorano di bucato”: quasi tutto oggi sembra meno grave di “esci il cane”. Se, come sostiene Luca Serianni, “la salute della lingua dipende non da interventi esterni ma dai singoli parlanti (ossia da ciascuno di noi)”, dovremmo porci tutti il problema di come ci esprimiamo, senza delegare ai linguisti la tutela di una presunta ortodossia o di una reputazione linguistica suppostamente compromessa. L’italiano è vivo e lotta insieme a noi: la lingua non si preserva come un reperto archeologico (non per niente distinguiamo tra quelle vive e quelle morte). Mentre i parlanti più giovani hanno a disposizione un dizionario sempre più ristretto e il numero di analfabeti funzionali è oggi ai livelli della prima Italia unitaria, qualcuno sembra vivere di sola grammatica normativa. Ma non è ancora questo il punto (e virgola?). Il professor Coletti non ha affatto sdoganato gli usi transitivi di verbi come uscire o salire, come si evince dalla lettura del virgolettato in apertura di questo articolo. Che era preceduto dalle seguenti considerazioni: “È lecita allora la costruzione transitiva di sedere? Si può rispondere di sì, ormai è stata accolta nell’uso, anche se non ha paralleli in costrutti consolidati con l’oggetto interno come li hanno salire o scendere (le scale, un pendio). Non vedo il motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla. Ma certo è problematico definirla transitiva perché la prova di volgere il verbo al passivo (accertata invece ormai per salire, specie nel linguaggio alpinistico col valore di scalare: la cima è stata salita da…) non sembra per ora reggere (la mamma ha seduto il bambino sul seggiolino ma il bambino è stato seduto sul seggiolino dalla mamma) come del resto non regge per altri verbi in costruzione transitiva non passivabile (per es. si può dire ho dormito un lungo sonno ma non un lungo sonno è stato dormito da me)”. Nulla di grave (o acuto) né di così grammatico.
Afghanistan libero, 7 miliardi di motivi
Considero un successo personale la dichiarazione del ministro Trenta di aver dato disposizione al Coi di “valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan”. Sono stato l’unico giornalista, non solo italiano ma occidentale, ad aver contestato fin dal 2001, anno dell’invasione degli americani in Afghanistan, questa aggressione che darà poi la stura a una serie di altre, dall’Iraq alla Somalia alla Libia alla Siria. L’invasione fu pretestuosa.
I Talebani non c’entravano nulla con l’attacco alle Torri Gemelle. Non un solo afghano era presente sugli aerei che colpirono le Torri e il Pentagono, non un solo afghano fu in seguito trovato nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda. Bin Laden i Talebani se lo erano trovati in casa quando presero il potere nel 1996. Ce lo aveva portato, dal Sudan, Massud per combattere un altro “signore della guerra”, Heckmatyar. E quando nell’inverno del 1998 Clinton propose al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, Omar accettò la proposta perché nel frattempo gli americani, cercando di colpire Bin Laden, stavano facendo strage di civili afghani. Ma all’ultimo momento Clinton si ritirò (documenti del Dipartimento di Stato). Tra l’altro nei giorni seguenti all’attentato del 2001, mentre tutte le folle arabe scendevano in piazza esultanti, il governo talebano mandò un telegramma di condoglianze agli Stati Uniti e al popolo americano.
Per anni mi sono beccato accuse di favoreggiamento dei “terroristi”, che terroristi non erano ma indipendentisti che si battevano per la libertà del loro Paese contro l’invasione straniera. Della mia biografia sul Mullah Omar fu chiesto il sequestro. Nel 2015 il Corriere rifiutò un mio necrologio che rendeva onore al Mullah Omar, questo straordinario uomo e combattente, che si era battuto giovanissimo contro gli invasori sovietici, perdendo un occhio in battaglia, che aveva sconfitto i “signori della guerra” che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri e di violenze di ogni genere sulla popolazione, che aveva dato gli unici sei anni di pace alla sua terra, e che era stato il leader prestigioso della resistenza agli occupanti occidentali.
Gli italiani non hanno mai veramente combattuto in Afghanistan. Le nostre perdite si limitano a 53 uomini infinitamente inferiori non solo a quelle degli americani, ma a quelle degli inglesi, che quando fan le cose le fan sul serio, e persino degli olandesi. Noi fin da subito ci siamo accordati con i Talebani. Perché ci lasciassero in pace li pagavamo. Fedeli come cani, come sempre, sleali come sempre. Questo accordo fu denunciato nel 2004 dal colonnello dei Marines Tim Grattan che affermò: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”. Gli olandesi si sono ritirati nel 2010, i canadesi un anno dopo.
Che gli italiani si ritirassero dall’Afghanistan lo avevo chiesto alla Versiliana di due anni fa a Di Battista, che però allora era solo un parlamentare. Questa richiesta l’ho ripetuta quest’anno, sempre alla Versiliana, a Di Maio che era già vicepresidente del Consiglio. E Di Maio si era pubblicamente impegnato. L’affermazione di Elisabetta Trenta segue evidentemente questo impegno ed è stata anche avallata dal premier Conte. Questo ritiro era dovuto, non solo e non tanto per i 7 miliardi spesi in questa guerra vergognosa, ma per una ragione etica: non si aggredisce e non si occupa un Paese senza una ragione che non sia quella di servire gli americani.
Naturalmente il preannuncio di Trump di ritirare 7 mila soldati dall’Afghanistan e di conseguenza quello della Trenta non significano che in Afghanistan si arrivi a una vera pace, cioè che l’Afghanistan sia restituito agli afghani. Gli americani hanno posto alcune condizioni. 1. Che i Talebani combattano l’Isis. 2. Garantire il cessate il fuoco. 3. Colloqui diretti col governo di Kabul. La prima condizione è ridicola. I Talebani combattono l’Isis dal giorno in cui gli islamisti radicali, con la nostra compiacenza per non dire complicità, sono penetrati in Afghanistan. 2. Il fuoco lo devono innanzitutto cessare gli americani, inoltre devono ritirare dall’Afghanistan non solo i loro contingenti a terra ma le basi che hanno in territorio afghano, perché questa è la volontà dell’intera popolazione afghana, talebana, non talebana, antitalebana. 3. I Talebani non accetteranno mai questa condizione perché considerano Ashraf Ghani un fantoccio al servizio degli americani come in precedenza il più criminale Karzai.
Siamo quindi ancora lontani da una vera pace. Se finalmente ci sarà, sarà un trionfo postumo del Mullah Omar e io voglio concludere questo articolo come concludevo il mio necrologio: “Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”.
La “fenice” May salvata: si immolerà ancora contro la Ue
Il partito prima di tutto. Ieri, a poche ore dal voto parlamentare su una serie di emendamenti al suo accordo di divorzio, Theresa May si è impegnata a riaprire i negoziati conclusi a novembre con l’Ue. Ha ceduto a Brexiters e unionisti nord-irlandesi: cercherà “modifiche sostanziali e legalmente vincolanti” sulla backstop irlandese. Tutto per garantirsi l’appoggio dei falchi all’emendamento Brady votato ieri che impegna il parlamento a supportare il suo deal a patto che la backstop sia rimpiazzata da “accordi alternativi” tutti da definire. L’azzardo funziona: Brady passa con 317 voti contro 301. Il governo sopravvive un altro giorno.
Le prossime mosse? tornare a Bruxelles con un chiaro mandato parlamentare: il deal può passare alla House of Commons solo senza la backstop. Ottenute le modifiche, supporle di nuovo l’accordo alla House of Commons il 13 febbraio. In caso di bocciatura consentire ulteriori votazioni su eventuali emendamenti già dal giorno dopo. Una strategia di dubbia efficacia, che mette Londra in rotta di collisione con l’Ue. Già ieri sera Bruxelles ha ribadito il suo no a qualsiasi riapertura del trattato di recesso.
Ma la May ottiene un risultato importante: il Parlamento boccia l’emendamento bipartisan Cooper-Boles che obbligava il governo a richiedere una estensione dell’art 50, quindi a ritardare Brexit, se non si trova una intesa entro il 26 febbraio. Malgrado il supporto della leadership laburista, almeno 14 laburisti si ribellano. Cooper perde 321 a 298: sfuma l’occasione per il Parlamento di prendere il controllo di Brexit. La sterlina precipita: i mercati puntavano sull’estensione. Passa invece per 8 voti la proposta Spelman che rigetta una uscita senza deal, ma è puramente consultiva. Non si esce dallo stallo.
Huawei, ecco i capi d’accusa: Iran, frode e pure riciclaggio
Dopo mesi di attesa dell’arresto in Canada di lady Huawei, a inizio dicembre, ieri gli Stati Uniti hanno formalizzato gli atti d’accusa, indicandone ben 13 e confermando tutti i rumor già circolati nelle scorse settimane. Nei giorni scorsi l’Fbi ha infatti depositato in una corte di Brooklyn le accuse contro il colosso cinese che crea smartphone, hardware e che sta crescendo a dismisura nelle nuove tecnologie mentre il Dipartimento di giustizia ha spedito al Canada la richiesta di estradizione di Meng Wenzhou, la cfo e figlia del fondatore fermata a inizio dicembre con l’accusa di aver violato le sanzioni all’Iran.
Le accuse sono molte: furto di segreti commerciali, frode bancaria per la violazione delle sanzioni contro l’Iran, cospirazione e ostacolo alla giustizia. Huawei e la sua cfo, in particolare, sono accusati di aver mentito alle autorità bancarie per evitare problemi su transazioni da milioni di dollari con l’Iran. In un altro tribunale, a Seattle, la società telefonica T-Mobile accusa invece Huawei di furto di segreti industriali per un braccio robotico. Notizie che arrivano alla vigilia del secondo round di negoziati sulla tregua commerciale tra i due paesi, in programma oggi e domani a Washington dove ieri è arrivata la delegazione cinese. Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin ha detto di aspettarsi “significativi progressi” e non ha escluso la possibilità che Donald Trump rimuova i dazi imposti sui prodotti cinesi se Pechino offrirà concessioni sufficienti.
A Brooklyn, si legge nelle accuse, gli imputati sono quattro: Huawei, la Usa Huawei e Skycom (due affiliate) e la stessa Wanzhou Meng e non si esclude che possano essere rivelati nuovi indagati nelle prossime ore.
Secondo le accuse, Huawei avrebbe utilizzato la Skycom, registrata a Hong Kong, come sussidiaria iraniana cercando di nascondere il controllo diretto attraverso una serie di trasferimenti di azioni che coinvolgono altre due sussidiarie e permettendo quindi all’azienda di sostenere che Skycom fosse solo un partner commerciale che operava in Iran. Un raggiro che ha coinvolto anche una banca (non indicata nei documenti d’accusa) che avrebbe gestito transazioni per oltre 100 milioni di dollari per Skycom.
“Huawei e il suo Chief Financial Officer hanno infranto la legge degli Stati Uniti e si sono impegnati in un programma finanziario fraudolento che è dannoso per la sicurezza degli Stati Uniti”, ha detto il segretario per la sicurezza interna Kirstjen Nielsen. “Hanno realizzato intenzionalmente milioni di dollari in transazioni che erano in diretta violazione dei regolamenti sulle transazioni e le sanzioni iraniane”.
Le accuse parlano di coinvolgimento diretto e personale dei dirigenti “impegnati in un comportamento fraudolento grave” (ci sarebbe almeno un dipendente che avrebbe prestato servizi all’Iran) tra cui quindi cospirazione, frode bancaria e anche frode telematica.
“Huawei è delusa nell’apprendere le accuse – ha commentato ieri l’azienda – l’azienda ha cercato l’opportunità di discutere con il Dipartimento di Giustizia ma la richiesta è stata respinta senza spiegazione”. Ha poi replicato anche all’accusa della violazione dei segreti industriali sul braccio robotico. “Le asserzioni sono già state oggetto di una causa civile, risolta dalle parti dopo che una giuria di Seattle non ha riscontrato alcun danno né condotta volontaria e maliziosa riguardo all’accusa di appropriazione di segreti commerciali”. La Società nega, insomma “e ritiene che i tribunali statunitensi alla fine giungeranno alla stessa conclusione”. Manca, invece, il riferimento all’allarme parallelo di questi mesi. Nessuna traccia di spionaggio. Per ora la tensione è puramente commerciale, in un mercato tecnologico e digitale – come quello cinese – di fatto chiuso ai giganti della Silicon Valley (che proprio dalla Cina hanno avuto i loro peggiori recenti risultati) e che sta vivendo uno scatto in avanti sul 5g e le sue applicazioni.
“López Obrador non è credibile come mediatore a Caracas”
Milos Alcalay è stato ambasciatore del Venezuela in Romania, Israele, Brasile e alle Nazioni Unite. Si è dimesso nel 2004 per protesta contro Chavez. Ora vive a Caracas.
L’opposizione come vede il giuramento di Guaidó?
Guaidó si è trasformato nel rappresentante dell’opposizione. Il fiume umano che in tutto il Paese ha accompagnato l’atto è stata una specie di Primavera venezuelana.
La risposta di Maduro non si è fatta attendere…
Maduro ha reagito con violenza afferrandosi al potere contro la Costituzioni e i trattati internazionali, basandosi sulla autoproclamazione di Guaidó per sviare l’attenzione sull’illegittimità delle scorse elezioni.
Come interpreta l’appoggio di Russia e Cina a Maduro, la posizione di Messico e Uruguay e quella di parte della sinistra europea?
Cina e Russia difendono gli spazi conquistati in America Latina, cercano di assicurarsi il pagamento dell’enorme debito che il regime di Maduro ha contratto con le loro imprese e utilizzano la pressione su di lui nelle difficili relazioni con gli Usa. Messico e Uruguay sono più vicini a Maduro che i Paesi del Gruppo di Lima, ma sono posizioni discrete e non militanti come Cuba, Bolivia e Nicaragua. La sinistra europea in alcuni casi più estremi è attratta dal linguaggio anti-nordamericano di Maduro.
Come vede la proposta di dialogo con l’opposizione lanciata da Messico e Uruguay in qualità di mediatori?
Maduro si afferra a questa idea, ma è come se lui proponesse Cuba, Nicaragua e Bolivia come intermediari. Un aiuto internazionale sarebbe quello dei Paesi del continente firmatari degli accordi di Esquipulas, Contadora o Rio insieme con Oea e Ue.
Come vede il futuro?
Siamo in un momento difficile, ma vedo con ottimismo il ritorno del mio paese allo Stato di diritto.
Messico & fumo: tutti i guai di Amlo il “pacificatore”
Manuel Andrés Lopez Obadror, il neopresidente messicano, leader della sinistra sovranista, si è proposto come mediatore nella sanguinosa crisi venezuelana. Ma Amlo, l’acronimo con cui il presidente viene chiamato, ha anche molti problemi, vecchi e nuovi, da risolvere in casa. Uno molto costoso in termini sociali è costituito dalle sparizioni avvenute nella estesissima metropolitana di Città del Messico: 153 persone sono state “inghiottite” nei tunnel sotterranei negli ultimi 4 anni. Quarantatré tra il 2018 e questo inizia d’anno.
L’altro riguarda l’annoso fenomeno del furto di petrolio dagli oleodotti che scorrono in molti Stati della Federazione. L’ultimo episodio si è verificato undici giorni fa nel tratto dell’oleodotto Tuxpan-Tula, nei pressi di Tlahuelilpan, nello Stato messicano di Hidalgo a circa 100 chilometri a nord di Città del Messico. Il devastante incendio scaturito dopo la perforazione delle tubature ha letteralmente carbonizzato 92 persone e ustionato gravemente una cinquantina.
La maggior parte di coloro che si trovavano nella zona erano degli huachicoleros, il nome con cui vengono chiamati i ladri di carburante. Da tempo anche questa attività illegale è diretta dalla criminalità organizzata, ossia i cartelli del narcotraffico. Il 28 dicembre scorso, Amlo aveva annunciato nuove misure per combattere questa piaga che fa perdere alla PemMex, la società petrolifera statale, circa 3 miliardi di dollari all’anno. Questa cifra enorme diventa circa il doppio se si somma al furto delle tubature stesse. Obrador ha denunciato che “il furto di combustibile e di 600 tubature ogni giorno non può avvenire senza la connivenza delle autorità. Si tratta di un vero e proprio piano criminale”. Di fronte a questo problema, il governo intende ottenere il controllo delle procedure all’interno di Pemex e aumentare la vigilanza sui funzionari. La compagnia petrolifera nazionale dall’entrata in carica di Amlo il 1º dicembre dell’anno scorso gode del supporto di 138 membri della Marina e 757 dell’Esercito, che monitorano un terminal marittimo, le sei raffinerie di Pemex e i 30 terminali di stoccaggio e distribuzione. Ma l’esercito era già stato utilizzato in passato per questo scopo senza risultati. La precedente amministrazione aveva giustificato il mancato miglioramento della situazione accusando la norme vigenti di impedire il raggiungimento di condanne penali per le persone che hanno commesso questo reato. Il nuovo esecutivo ha reso noto di lavorare affinché questa tipologia di furto venga inserita tra i “crimini gravi” per tentare di circoscriverla.
L’organizzazione anticorruzione nazionale (Onea) due anni fa aveva avvertito che gli huachicoleros sono sempre più organizzati e pertanto il danno per tutto il Paese è in aumento. Nel maggio del 2017, l’allora ministro delle Finanze, José Antonio Meade, spiegava che ogni anno il ministero del Tesoro perde tra i 15.000 e i 20.000 milioni di pesos (circa 1 miliardo di dollari) per il furto di benzina e gasolio.
Nel 2010, ventisette persone erano rimaste uccise e dozzine avevano riportato ustioni invalidanti in un’esplosione a San Martín Texmelucan de Labastida, nello Stato di Puebla. Allora le organizzazioni criminali avevano appena iniziato a diversificare il proprio business cooptando con tangenti o mezzi violenti numerosi funzionari del governo e cercando il sostegno delle popolazioni locali offrendo lavoro nella filiera come sentinelle o trasportatori di carburante.
Con la diminuzione della fornitura di benzina in alcune aree del Paese e l’aumento drastico dei prezzi è inoltre cresciuto il numero dei singoli messicani che acquista benzina trafugata dato che costa la metà. I venditori abusivi approfittano peraltro delle vacanze e degli eventi speciali per regalare parte del combustibile rubato ai più poveri nel tentativo di sembrare dei buoni samaritani e conquistare il consenso della gente. Come già visto a proposito dei più noti capi dei cartelli trasformati in oggetti di culto, le comunità locali intanto l’hanno buttata in religione creando “El Santo Niño Huachicolero”, al quale i residenti portano tazze e anche barili di carburante come offerta per ottenerne la protezione.
Nella catena di conseguenze c’è anche l’anello degli investimenti stranieri nel settore dell’energia messicana. A causa di questi furti seriali molte società straniere hanno lasciato il Messico.
“Nelle aree di conflitto in 56 milioni rischiano la sopravvivenza”
Il numero crescente di conflitti e guerre prolungate nel mondo genera livelli di fame senza precedenti. Ne è un esempio l’Afghanistan dove gli abitanti delle zone rurali sono ormai alla fame estrema. Senza urgenti aiuti alimentari entro marzo potrebbero essere 10,6 milioni gli afghani a rischio sopravvivenza. Lo sostiene il rapporto redatto dalle agenzie Onu Fao e Pam: la situazione nelle 8 zone del mondo dove più numerose sono le persone che vivono nell’insicurezza alimentare per lo stretto legame tra guerra e fame. Secondo il rapporto sono 56 milioni le persone ridotte alla fame estrema e bisognose di aiuto alimentare urgente per sopravvivere nelle zone di guerra come Afghanistan, Centroafrica, Congo, SudSudan e Yemen, Somalia, Siria e Ciad.
I 3 anni di guerra in Yemen hanno creato la più grave crisi umanitaria in corso, mentre l’intensificarsi di conflitti armati in Congo ha trascinato nell’insicurezza alimentare oltre 13 milioni di persone. Nel SudSudan, tra gennaio e marzo, diverranno oltre 5 milioni le persone bisognose di aiuti, mentre un deterioramento importante della sicurezza alimentare si rileva tra Ciad, Nigeria e Niger.
Moavero non trova due Stati ma due governi in crisi
Un Israele in piena campagna elettorale, con il premier Benjamin Netanyahu che viene dato alla sua ultima corsa, e una Palestina ancor più nel disordine con le dimissioni del governo hanno fatto da cornice alla visita – la prima – del ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi.
L’Italia si sente davvero impegnata per la soluzione dei “due Stati” che da venti anni è il mantra che si ripete nel Medioriente? Difficile capirlo. Il ministro Moavero ha ascoltato l’allarme di Netanyahu sull’Iran sulla proliferazione nucleare. “L’Italia considera che, vista la vicinanza geografica, ci siano sensibilità diverse sulle posizioni iraniane”, spiega con garbo Moavero. Gli allarmi di Netanyahu non sembrano per il momento aver contagiato né l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, né i 5 Paesi garanti dell’accordo del 2015.
Gli interlocutori israeliani dopo il voto del prossimo 9 aprile potrebbero essere completamente diversi. I sondaggi danno ancora il premier uscente Netanyahu in testa – nonostante i quattro casi di frode e corruzione che pendono sulla sua testa come una spada di Damocle – ma nuovi protagonisti sono comparsi sulla scena.
I liberali, i centristi , ma anche i laburisti delusi da un partito in disfacimento, guardano con intessere a Benny Gantz e al suo nuovo partito politico Resilienza che in accordo con il movimento dell’ex ministro della Difesa Moshe Yaalon sta raccogliendo vasti consensi.
A Ramallah ieri mattina il ministro Moavero è arrivato alla Muqata per incontrare il presidente Abu Mazen proprio mentre veniva data ufficialità alle dimissioni del primo ministro palestinese Rami Al-Hamdallah. La decisione era nell’aria da oltre una settimana. Questo governo era nato nel 2014 dall’unione d’intenti tra Fatah (il partito di Abu Mazen) e Hamas, al potere a Gaza, ed è fallita quasi subito sul campo nonostante le dichiarazioni che millantavano una ritrovata unità.
Gli sforzi per formare un nuovo governo sono anche un passo verso un successore di Abu Mazen, 83 anni, visti i suoi problemi di salute. Tra i favoriti ci sono Mohammed Shtayyeh, membro del comitato centrale veterano di Fatah, il ministro degli affari civili Hussein al-Sheikh e il segretario del Comitato esecutivo dell’Olp Saeb Erekat. Un’altro candidato forte è Mohammed Mustafa, presidente del Fondo per gli Investimenti della Palestina. Tutti della vecchia guardia e fedelissimi del presidente.
A Ramallah si è parlato anche della decisione del premier Benyamin Netanyahu di non estendere la missione degli osservatori internazionali del Tiph a Hebron, in Cisgiordania, di cui fanno parte i carabinieri. “Una decisione appresa con rammarico che non ferma il nostro impegno” ha commentato il ministro Moavero, “l’Italia ne parlerà anche con gli altri Stati coinvolti”.