Il giorno dopo l’annuncio di un “accordo di principio” tra Stati Uniti e Talebani con possibile ritiro dei primi dall’Afghanistan, e dell’analoga decisione che potrebbe prendere l’Italia, prevalgono le incognite. Quelle internazionali soprattutto, per gli effetti che si verrebbero a creare a Kabul e dintorni e, nel nostro piccolo, quelle italiane con uno scontro interno al governo che non cessa di continuare.
Ministro irritato. A raffigurarlo c’è la secca nota con cui il ministero degli Esteri torna sulla vicenda: “La Farnesina conferma di non essere mai stata messa al corrente delle intenzioni del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, prima delle sue dichiarazioni alla stampa relative alla decisione di ritirare il contingente militare italiano dall’Afghanistan”. Nella sua crudezza il comunicato fa trapelare tutta l’irritazione con cui il ministro Enzo Moavero Milanesi ha appreso di una scelta così impegnativa per l’Italia. Gli risponde in serata Alessandro Di Battista, ricordandogli che “conosceva la linea del M5S” mentre tutto il Movimento si dice “stupito” per il clamore che l’iniziativa ha creato.
A sparare contro la ministra, sia pure metaforicamente, è l’intera opposizione, da Maurizio Gasparri di Forza Italia, all’ex premier Matteo Renzi finanche al deputato di Sinistra italiana, Erasmo Palazzotto, che rimprovera al governo di non aver portato la questione in Parlamento (dove invece la sinistra ha sempre votato a favore della missione, ndr.)
Il punto più delicato, in ogni caso, resta quanto accadrà sul campo, in Afghanistan. E proprio ieri l’Intelligence statunitense ha reso noto un rapporto dal quale si ricava che “un affrettato ritiro americano, erodendo l’autorità e la legittimità del governo afghano, rischia di lasciare ai Talebani il controllo del Paese riportando l’Afghanistan a una lunga e sanguinosa guerra civile”.
Rischio terrorismo. Il rapporto dice anche che un ritiro completo delle truppe americane potrebbe portare a un attacco agli Stati Uniti entro due anni, per via della riorganizzazione dei gruppi terroristici, dall’Isis ad al Qaeda. Ma, come fa notare il quotidiano New York Times, le analisi dell’Intelligence potrebbero servire a convincere il presidente Usa, Donald Trump, a mantenere “una forza antiterrorismo residua nel Paese”. Ipotesi molto probabile perché una qualche presenza in una zona così strategica gli Stati Uniti dovranno pur mantenerla.
Il ritiro occidentale, infatti, gioverebbe immediatamente a tre attori, tutti, se non nemici giurati, almeno ostili agli Usa.
Tre Paesi in attesa. La Cina, che finora ha aggirato l’Afghanistan nella sua strategia della “Via della Seta” potrebbe valorizzare quell’attenzione che l’ha portata a costruire il Quadrilateral Coordination and Cooperation Mechanism(Qccm) che riunisce i capi di Stato maggiore di Cina, Afghanistan, Tajikistan e Pakistan e che l’ha spinta a creare la posizione di inviato speciale per gli affari afghani, con la nomina del diplomatico Sun Yuxi nel ruolo.
Il Pakistan, formalmente alleato degli Usa, ma mai veramente controllato, potrebbe giocare alla luce del sole il suo tradizionale asse con i Talebani, che non ha mai smesso di finanziare e “ospitare” nel suo territorio.
E poi c’è l’Iran, dai rapporti antichissimi con l’Afghanistan, specialmente nelle zone di confine, come Herat, che nel 2017 è diventato il primo partner commerciale con circa 2 miliardi di dollari di scambi e che intende prolungare la sua iniziativa strategica sul Paese con il quale il confine viene definito spesso come solo immaginario.
Chi è molto preoccupato è il governo di Kabul, che teme un accordo con i Talebani alle proprie spalle. Come scrive ancora il Nyt, gli uomini di Ashraf Ghani temono di “essere venduti dagli Usa” e che Washington stia facendo significative concessioni senza gli afghani al tavolo della trattativa.