Afghanistan, il ritiro resta un’incognita soprattutto per Kabul

Il giorno dopo l’annuncio di un “accordo di principio” tra Stati Uniti e Talebani con possibile ritiro dei primi dall’Afghanistan, e dell’analoga decisione che potrebbe prendere l’Italia, prevalgono le incognite. Quelle internazionali soprattutto, per gli effetti che si verrebbero a creare a Kabul e dintorni e, nel nostro piccolo, quelle italiane con uno scontro interno al governo che non cessa di continuare.

Ministro irritato. A raffigurarlo c’è la secca nota con cui il ministero degli Esteri torna sulla vicenda: “La Farnesina conferma di non essere mai stata messa al corrente delle intenzioni del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, prima delle sue dichiarazioni alla stampa relative alla decisione di ritirare il contingente militare italiano dall’Afghanistan”. Nella sua crudezza il comunicato fa trapelare tutta l’irritazione con cui il ministro Enzo Moavero Milanesi ha appreso di una scelta così impegnativa per l’Italia. Gli risponde in serata Alessandro Di Battista, ricordandogli che “conosceva la linea del M5S” mentre tutto il Movimento si dice “stupito” per il clamore che l’iniziativa ha creato.

A sparare contro la ministra, sia pure metaforicamente, è l’intera opposizione, da Maurizio Gasparri di Forza Italia, all’ex premier Matteo Renzi finanche al deputato di Sinistra italiana, Erasmo Palazzotto, che rimprovera al governo di non aver portato la questione in Parlamento (dove invece la sinistra ha sempre votato a favore della missione, ndr.)

Il punto più delicato, in ogni caso, resta quanto accadrà sul campo, in Afghanistan. E proprio ieri l’Intelligence statunitense ha reso noto un rapporto dal quale si ricava che “un affrettato ritiro americano, erodendo l’autorità e la legittimità del governo afghano, rischia di lasciare ai Talebani il controllo del Paese riportando l’Afghanistan a una lunga e sanguinosa guerra civile”.

Rischio terrorismo. Il rapporto dice anche che un ritiro completo delle truppe americane potrebbe portare a un attacco agli Stati Uniti entro due anni, per via della riorganizzazione dei gruppi terroristici, dall’Isis ad al Qaeda. Ma, come fa notare il quotidiano New York Times, le analisi dell’Intelligence potrebbero servire a convincere il presidente Usa, Donald Trump, a mantenere “una forza antiterrorismo residua nel Paese”. Ipotesi molto probabile perché una qualche presenza in una zona così strategica gli Stati Uniti dovranno pur mantenerla.

Il ritiro occidentale, infatti, gioverebbe immediatamente a tre attori, tutti, se non nemici giurati, almeno ostili agli Usa.

Tre Paesi in attesa. La Cina, che finora ha aggirato l’Afghanistan nella sua strategia della “Via della Seta” potrebbe valorizzare quell’attenzione che l’ha portata a costruire il Quadrilateral Coordination and Cooperation Mechanism(Qccm) che riunisce i capi di Stato maggiore di Cina, Afghanistan, Tajikistan e Pakistan e che l’ha spinta a creare la posizione di inviato speciale per gli affari afghani, con la nomina del diplomatico Sun Yuxi nel ruolo.

Il Pakistan, formalmente alleato degli Usa, ma mai veramente controllato, potrebbe giocare alla luce del sole il suo tradizionale asse con i Talebani, che non ha mai smesso di finanziare e “ospitare” nel suo territorio.

E poi c’è l’Iran, dai rapporti antichissimi con l’Afghanistan, specialmente nelle zone di confine, come Herat, che nel 2017 è diventato il primo partner commerciale con circa 2 miliardi di dollari di scambi e che intende prolungare la sua iniziativa strategica sul Paese con il quale il confine viene definito spesso come solo immaginario.

Chi è molto preoccupato è il governo di Kabul, che teme un accordo con i Talebani alle proprie spalle. Come scrive ancora il Nyt, gli uomini di Ashraf Ghani temono di “essere venduti dagli Usa” e che Washington stia facendo significative concessioni senza gli afghani al tavolo della trattativa.

“Così si imbroglia sul sussidio”, Di Maio manda i controlli

Blitz ieri mattina della Guardia di finanza di Palermo nel Caf Cgil di Palermo dove qualcuno avrebbe fornito consigli per aggirare la legge e ottenere il reddito di cittadinanza senza averne diritto. A far esplodere il caso è stato un video trasmesso domenica scorsa da “Non è l’arena” (La7) – e visto in diretta dal ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, che era ospite in studio – in cui un consulente propone a un giovane di mantenere una residenza diversa da quella della sua compagna per raddoppiare il sussidio. Appresa la notizia Di Maio ha annunciato un’ispezione cui ha fatto seguito, sempre ieri, un messaggio pubblicato sulla propria pagina Facebook in cui si spiega che l’addetto, Sandro Russo, è il capogruppo del Pd al Consiglio comunale di Monreale e di aver “ricevuto segnalazioni da altri Caf”. L’uomo ora si difende: “Sono stato raggirato dal giornalista di La7 che si è presentato come dirigente della Cgil”. Il neo segretario del sindacato, Maurizio Landini, assicura che il sindacato “non ha assolutamente nulla da nascondere e se una persona ha fatto degli errori dovrà rispondere degli errori che ha fatto”.

Quota 100, parte la corsa alla pensione con disoccupati, donne e dipendenti

In cima ci sono disoccupati e donne che vogliono lasciare il lavoro per accudire i famigliari anziani. Subito dopo: operai, impiegati e dipendenti pubblici che vogliono più tempo libero. Scattato il Quota 100 day, è partita la raffica di domande per il pensionamento anticipato. Ieri, poco dopo la pubblicazione del decretone e delle istruzioni operative da parte dell’Inps, a fine giornata si contavano già 800 richieste; mille per il vicepremier Matteo Salvini.

L’obiettivo è raggiungere un milione di pensionamenti nei tre anni di sperimentazione della misura. Con la riforma, hanno diritto ad andare a riposo quei lavoratori che hanno almeno 62 anni di età e 38 di contributi. Un’opportunità che, dal racconto di chi lavora nei patronati, sembra essere colta soprattutto da chi sta vivendo una situazione di difficoltà. “Già dalle prime ore del mattino – spiega Remo Guerrini dell’Inas Cisl Lombardia – abbiamo trasmesso le prime istanze partite da tutte le province della Regione. Buona parte dei richiedenti è composta da disoccupati che percepiscono il sussidio e che grazie a Quota 100 riusciranno ad andare in pensione prima che questo scada. Poi ci sono le donne che vogliono smettere di lavorare per prendersi cura dei genitori anziani. Noi abbiamo avuto due impiegate che finora hanno dovuto prendere ferie e permessi. Sembra che Quota 100 stia entrando in concorrenza con Opzione donna”. Si tratta dell’altro metodo di pensionamento anticipato che è stato prorogato dal decretone: è riservato alle lavoratrici che hanno almeno 35 anni di contributi e 58 di età se dipendenti (59 se autonome). In questo caso, però, c’è una penalizzazione: l’assegno viene interamente ricalcolato con il metodo contributivo. Quindi è sicuramente più conveniente, per chi può, scegliere Quota 100 che mantiene il retributivo fino al 1996. Ma chi esce con Quota 100 prende comunque meno rispetto a quanto avrebbe percepito rispettando i requisiti della legge Fornero. “Per ora – aggiunge Guerrini – nessuno ci ha chiesto quanto ci perdono andando in pensione prima. Chi vuole andarci non si sta ponendo il problema, anche perché spesso parliamo di situazioni di disagio”.

La prima finestra di uscita per i lavoratori privati che hanno maturato i requisiti alla fine del 2018 è il primo aprile, mentre i dipendenti pubblici dovranno aspettare il primo agosto (in tal caso dovranno fare domande di collocamento a riposo all’amministrazione di appartenenza entro il 31 gennaio). Per Salvini “è il primo mattone sulla legge Fornero”. Critico, invece, il neosegretario Cgil Maurizio Landini: “Per andare in pensione devi avere 62 anni e 38 di contributi. Se ne hai 60 e 40 non puoi andare. Bisogna affrontare il fatto che i lavori non sono tutti uguali”.

Reddito, insospettabili fan e sorprendenti avversari

Ora che il reddito di cittadinanza è legge, in attesa che parta la procedura per richiederlo, è tempo dei primi bilanci: i Cinque Stelle che così fortemente hanno voluto questa misura si trovano con sostenitori e avversari molto diversi da quelli che si aspettavano. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che a lungo i Cinque Stelle hanno contestato per la gestione delle crisi bancarie degli anni scorsi, due giorni fa ha dato quasi una benedizione: “Ritengo impossibile gestire il reddito di base, ovvero una cifra prestabilita per ciascuno, indipendente dalla fascia sociale di provenienza, mentre il reddito di cittadinanza può essere una variante del reddito di inclusione volta a garantire un periodo di povertà relativa tra un lavoro e l’altro. E questo ovviamente avverrà per molti”. Difficile dire se l’abbia fatto per quieto vivere – tra Carige e Monte Paschi il fronte bancario torna a diventare caldo – o perché anche in Via Nazionale hanno archiviato gli usuali richiami alla politica, come quello al taglio del cuneo fiscale, identificato come il modo più efficace di spendere soldi pubblici per creare lavoro.

In molti hanno notato anche le parole di Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, il 28 gennaio: “Il reddito di cittadinanza può essere fatto meglio. Ma ora destiniamo le risorse a chi ha bisogno e poi pensiamo se bisogna migliorarlo”. Certo, la prima banca italiana tende a essere un po’ filo-governativa per vocazione, ma da tempo Messina ha scelto di coltivare la sponda Cinque Stelle della maggioranza invece che la Lega, preferita invece dal mondo industriale del Nord. E i Cinque Stelle, che hanno poca presa sull’establishment, lo hanno apprezzato.

Perfino Vincenzo Boccia, il presidente di Confindustria che si è autoproclamato segretario del “partito del Pil” e partecipa a tutte le manifestazioni per il Tav Torino-Lione, sul reddito di cittadinanza si è ammansito: “È inutile continuare con le critiche già note in merito al reddito di cittadinanza, occorre guardare avanti”, diceva il 18 gennaio. Poi qualche altra osservazione qui e là, mai entusiastiche, ma nessuna dichiarazione di guerra. D’altra parte tra i grandi beneficiari del reddito ci saranno proprio le imprese che assumono i disoccupati titolari del sussidio. Almeno cinque mensilità andranno al datore di lavoro.

Mentre un pezzo di Partito democratico invoca addirittura un referendum contro il reddito di cittadinanza, l’ex premier ed ex pd Enrico Letta ha spiegato in tv: “Anche durante la mia breve parentesi stavamo pensando a un progetto del genere perché, è inutile negarlo, in Italia ci sono importanti sacche di povertà”. E infatti il Rei, prima misura universale contro la povertà, è stata ideata durante il governo Letta tra 2013 e 2014 e poi varata da quello Gentiloni nel 2017.

Proprio intorno al Rei però si sono aggregate alcune ostilità non previste dai Cinque Stelle rispetto al reddito di cittadinanza. Tutto il mondo cattolico, che aveva applaudito il Rei nel 2018, ora è freddo. Il presidente dei vescovi Cei, Gualtiero Bassetti, per esempio ha detto: “Vorrei capire meglio da dove si attingono i fondi e soprattutto che non accresca il debito pubblico e che sia un incentivo al lavoro”. Anche Avvenire resta cauto. Le associazioni, in gran parte cattoliche, raccolte nell’Alleanza contro la povertà hanno pubblicato pochi giorni fa un documento che apprezza lo sforzo finanziario a favore degli ultimi, ma osserva anche che “il reddito di cittadinanza si rivolge ai poveri ma gli interventi previsti si concentrano sulla ricerca del lavoro”. Si parla soltanto di centri per l’impiego, mai di servizi sociali dei Comuni. I poveri sono visti soprattutto come disoccupati bisognosi di riattivarsi, anziché persone fragili a cui serve assistenza.

Anche la Cgil ha sempre contestato la doppia natura del reddito – assistenza e politica attiva del lavoro – e il nuovo segretario generale, Maurizio Landini, pare aver adottato la linea ufficiale: “Il nuovo reddito rischia di non rispondere all’obiettivo e di creare solo casino”.

Ma tutto questo è soltanto il pre-partita, i giudizi sono soprattutto sulle intenzioni. Quando la macchina burocratica dell’erogazione partirà, a breve, verranno valutati anche i risultati.

 

Maurizio Landini

Il nuovo segretario generale della Cgil segue la linea critica del sindacato

 

Carlo Messina

L’amministratore delegato di Intesa è spesso allineato col governo

 

Enrico Letta

L’ex premier Pd riconosce l’importanza di un intervento anti-povertà

 

Ignazio Visco

Per il governatore di Bankitalia il reddito può servire tra un lavoro e l’altro

 

Vincenzo Boccia

Il presidente di Confindustria non ama il sussidio ma ha smesso di attaccarlo

 

Gualtiero Bassetti

Il presidente dei vescovi è freddo e teme i costi eccessivi della misura

Anpi Padova contro Anpi Rovigo: “Sulle foibe non si scherza”

“Sulle foibe e sull’esodo da Istria, Dalmazia e Quarnero non si scherza. Le foibe furono giustizia sommaria, spesso indiscriminata e ingiustificata”. È la posizione dell’Anpi di Padova sul post pubblicato sul profilo Facebook dall’Anpi di Rovigo, che definiva le foibe una “invenzione storica” dei fascisti e la foiba di Basovizza “una vergognosa fandonia”.

Floriana Rizzetto e Maurizio Angelini, presidente e vicepresidente di Anpi Padova, ricordano che l’esodo dalle terre di confine coinvolse anche “molti antifascisti coerenti e molti combattenti partigiani”. “Nessun negazionismo e riduzionismo, dunque – scrivono – L’Anpi di Padova ritiene che espressioni irrispettose, infelici, improvvide, storicamente infondate comparse sul sito dell’Anpi di Rovigo non rappresentino assolutamente il pensiero dell’associazione”.

Dopo aver ricordato che “i meno abilitati a esprimersi su una vicenda così drammatica sono i fascisti”, l’Anpi di Padova definisce il Giorno del Ricordo come “occasione di un ripensamento che ponga al suo centro il profondo rispetto per il dolore di tutti e l’impegno a costruire un’Europa unita e solidale”.

Ogni maledetta domenica doppia razione di razzismo

Ragazzini delle giovanili che si beccano dieci e passa giornate di squalifica, calciatori che non possono metter piede in campo senza essere bersagliati (o aggrediti) per le loro origini, curve di mezza Italia che continuano ad intonare cori discriminatori. Il calcio italiano è razzista: dall’inizio della stagione si sono verificati 45 episodi di ogni tipo; discriminazione razziale o territoriale, dal Nord al Sud, ad opera di tifosi o calciatori. Una media di oltre due casi a domenica. Anche per questo la Federcalcio ha deciso di intervenire e oggi varerà nuove norme sulla sospensione delle gare: non più tre ma due avvisi in caso di cori razzisti, squadre subito radunate a centrocampo e poi negli spogliatoi (l’ultima parola spetterà sempre al responsabile dell’ordine pubblico, designato dal Viminale).

Della questione si è parlato molto dopo Inter-Napoli, gli ululati a Kalidou Koulibaly e le polemiche che ne sono seguite, con l’intervento del ministro Salvini che ha ridimensionato il problema (“Non ci sono criteri oggettivi per interrompere una partita”, la sua direttiva). Su una cosa il leader leghista ha ragione: non c’è nulla di straordinario in quanto successo il 26 dicembre a San Siro. È una storia che lontano dalle luci dei riflettori si ripete ogni domenica, come dimostrano i referti dei giudici sportivi.

Scorrendo i comunicati (e grazie alla collaborazione della Lega Dilettanti, che ha effettuato un’indagine sulle serie minori di sua competenza), Il Fatto quotidiano è riuscito a censire tutti i casi di razzismo della stagione in corso: 76 giornate di squalifica a calciatori, oltre 125 mila euro di multe alle società, 20 turni disputati a porte parzialmente o interamente chiuse. La maggior parte nei campionati minori che ovviamente sono molti di più (30 episodi dai Dilettanti in giù), ma la Serie A (9 casi) in proporzione fa peggio; più bassi i dati in B e C (4 e 2). Non è emergenza solo perché le statistiche sono in linea con gli scorsi anni.

Discorso a sé merita la cosiddetta “discriminazione territoriale”, che in serie A vale il 75% dei casi totali ed è ormai è associata ai cori antinapoletani: quest’anno sono state punite 6 società su 20 (la peggiore è la Juventus: 3 volte, mai squalificata). In Italia il fenomeno è molto più variegato, l’insulto territoriale cambia a seconda della latitudine e delle rivalità, diffuso anche nel Sud: da Foggia a Pescara, sono tante le tifoserie meridionali punite.

Il grande classico, però, restano “negro di merda” (e le sue varianti sul tema) e gli ululati dalle tribune. Il record negativo quest’anno spetta a Marco Corò, giovane attaccante del Treviso che a fine ottobre si è beccato 12 giornate per bestemmie e insulti razzisti a un avversario. Ingiusto, però, additarlo come unico esempio negativo: sono 10 i calciatori fin qui puniti per comportamenti discriminatori, tra loro anche due ragazzini della juniores del Ligorna (Liguria) e Facca (Veneto). Per tutti squalifiche pesanti, le regole Figc sono severe in materia.

Non si può dire lo stesso per le curve: qui il discorso si complica, per la difficoltà di quantificare il fenomeno e le diverse correnti di pensiero sui provvedimenti da adottare. Così mentre in Sardegna l’Atletico Maddalena, piccola squadra di seconda categoria, si becca 8 giornate a porte chiuse (pena sospesa con la condizionale) per aver insultato un giocatore di colore, nei campionati professionistici le società se la cavano spesso con una semplice multa. E gli ululati continuano a risuonare negli stadi, da Padova a Vasto, da Sesto San Giovanni ad Acireale, dove una partita è stata anche interrotta a inizio dicembre su indicazione dell’arbitro (evidentemente si può fare, allora). Questi sono solo i casi finiti nei referti e catalogati sotto il codice dei “comportamenti discriminatori”. Capita spesso, però, che un episodio non venga riportato nei comunicati ufficiali (come ad esempio cori intonati da poche persone), o che un’offesa razzista venga archiviata come semplice ingiuria. Anche questo, in fondo, è razzismo.

“Ultrà neonazi del Varese e trafficante per le ’ndrine”

Uomo dei narcos e ultrà di calcio. Meglio: fiduciario della ’ndrangheta e fondatore del gruppo Blood & Honour, ultrà del Varese calcio con marcate coloriture neonaziste. Lo stesso di Dede Belardinelli, il tifoso morto durante gli scontri del 26 dicembre tra i tifosi dell’Inter e quelli del Napoli. Ecco le accuse a Vito Jordan Bosco, 43 anni, ufficialmente irreperibile. Venerdì scorso era a Morazzone per dare l’ultimo saluto a Dede Belardinelli, fondatore con lui del gruppo ultrà. Dopodiché è scomparso. E quando, due giorni fa, la Guardia di finanza di Catanzaro è arrivata per arrestarlo, lui era già fuggito. Accusa pesante: traffico internazionale di droga aggravato dal fatto di aver favorito la ‘ndrangheta e in particolare il potente clan Mancuso. Stando al decreto di fermo firmato due giorni fa, Bosco aveva un “ruolo di organizzatore del narcotraffico e di fornitore dello stupefacente del tipo hashish proveniente dal Marocco e destinato ai finanziatori calabresi”. Sempre secondo l’accusa Bosco giocava “un ruolo di mediatore tra l’organizzazione italiana e quella marocchina”.

Già nel 2011 Bosco fu coinvolto in un’indagine di droga con l’Olanda. Salvo poi uscire assolto. Allora gli inquirenti scrissero che la sua figura “rappresentava la saldatura tra tifo e criminalità comune”. Bosco poi avrebbe riscosso consensi nella cosca Mancuso, e, secondo i pm, era ritenuto affidabile e con buone entrature in Marocco. L’obiettivo del clan era quello di impostare un grosso traffico di hashish a Milano. Non a caso, un sequestro di droga sarà effettuato in via Anguissola, strada storica dalla quale partì la “Duomo connection”, la prima inchiesta sulla mafia a Milano (1990) che anticipò di due anni lo scandalo di Tangentopoli. Bosco, ultrà e trafficante. Amico di Dede che però da qualche tempo aveva abbandonato lo stadio. Secondo la procura di Catanzaro, poi, Bosco dimostra di aver un buon portafoglio economico. Il rischio di una probabile latitanza viene considerato dagli stessi investigatori. Certamente Bosco il 26 dicembre non era in via Novara a Milano.

C’era invece Alessandro Martinoli, anche lui dei Blood and Honour, arrestato giorni fa per rissa aggravata. E reo confesso di aver accoltellato un tifoso napoletano. Ieri Martinoli è stato interrogato per la seconda volta dal giudice Salvini. Obiettivo: fare luce sull’investimento di Belardinelli. “Ma lì – ha detto Martinoli – era come Kabul, tutti erano incappucciati, Dede quando è uscito da via Zoia è andato a destra e l’ho perso di vista”. A Martinoli sono stati mostrati diversi album fotografici, da un lato per fissare i protagonisti dell’investimento e dall’altro per capire chi ha partecipato alla guerriglia. Un dato in più c’è: accanto al corpo di Dede dopo l’investimento ce ne sono altri tre, forse anche loro colpiti. Quei tre però sono spariti.

Sequestrati 7 milioni all’imprenditore: affiliato di Cosa Nostra

Beni per un valore di 7 milioni di euro sono stati sequestrati dalla guardia di finanza ad Antonino Biancorosso di Castronovo di Sicilia (Palermo). L’appartenenza dell’imprenditore a Cosa Nostra, spiegano gli investigatori, è emersa a seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Marsala da Vicari (Palermo) il quale, all’epoca del suo pentimento, lo indicò come uomo d’onore della famiglia di Castronovo di Sicilia. Biancorosso era già finito in manette in quanto destinatario di mandato di cattura emesso dall’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, perché imputato di associazione per delinquere, semplice, di tipo mafioso e altro. Il 18 settembre 2018 è stato nuovamente tratto in arresto, nell’ambito di una indagine della Dda di Palermo su presunti illeciti nella gara d’appalto del Comune di Castronovo di Sicilia in ordine all’aggiudicazione del servizio di trasporto scolastico comunale nel 2016. Grazie alla complicità di alcuni dipendenti del Comune di Castronovo, sarebbe riuscito a far vincere la gara all’impresa di fatto da lui controllata e formalmente intestata alla figlia.

Casamonica, lo Stato abusivo di Roma Sud

 

Dal libro Casamonica, edito da Utet, in vendita da ieri

 

In Italia esiste un posto dove girare in auto richiede il pagamento di un pedaggio, ma non ci sono caselli, dove la droga viene venduta ogni giorno, a ogni ora, a ogni minuto, dove vieni preso a cinghiate mentre chiedi un caffè al bar o compri un pacchetto di sigarette (….). Un posto dove quando chiedi rispetto per tuo figlio bullizzato finisci in ospedale con 30 giorni di prognosi, pestato a sangue da un minorenne coetaneo di tuo figlio e per tornare a mangiare, come tutte le persone normali, devi farti operare. In Italia esiste un posto dove, anche se sei avvocato, quando sbagli una promessa vieni massacrato di botte nel piazzale del Tribunale di Roma. (…). Un posto dove compri soldi e poi diventi organico, prestanome, o vittima per sempre, dove il principe della risata avrebbe girato altre cinquanta pellicole di Totò truffa, ma di comico qui non c’è niente, solo vite “scassate”, attività imprenditoriali neutralizzate, controllo palmo a palmo del territorio.

Un posto dove i soldi li mischi in imprese lavatrici: bar, ristoranti, discoteche o li porti a Montecarlo, poi “scudati” li riporti in Italia smezzandoli tra i complici di reti infinite di teste di legno. Un posto dove puoi fare la dolce vita, dove puoi avvolgerti nella schiuma di bagni profumati, di vasche dorate, ma se manchi di rispetto alla “famiglia” ti sequestrano e il bagno te lo fanno nell’acido. In Italia esiste un posto dove se sbagli ragazza alla quale fare un complimento puoi morire per un cazzotto, uno, diretto allo sterno (…). Questo posto è a 15 minuti di auto da piazza Venezia, dall’Altare della Patria. Tutto il quartiere è di quelli costruiti a calce, martello e abuso che hanno moltiplicato la periferia all’inverosimile in una città che è cresciuta in orizzontale aumentando cubature e illegalità, smarrendo ogni modello urbanistico (…). Ogni villa è un tormento, uno sfregio alla sobrietà.

Leoni, veneri, ancelle, statue svettanti che decorano ingressi, porticati, cancelli. Colori pomposi per le pareti, una piscina per celebrare feste e ricorrenze, telecamere di sorveglianza, logo della casata perché l’appartenenza è un valore, un segno di comando. E poi gli interni dove tutto deve brillare, scintillare, albeggiare come in un viaggio trasognante verso il potere bramato come in un set hollywoodiano (…). A pochi passi da Cinecittà, orgoglio del cinema italico, è in scena da decenni una saga criminale senza fine. Da Romanina a Porta Furba, da Anagnina al Quadraro, da Tuscolana a Ciampino fino ai Castelli. Si allargano come in un domino.

Un comprensorio enorme quello che cede verso Napoli, dove hanno trovato alloggio comodo boss di camorra, compagni di ventura della famiglia egemone. “Lì ci abitano solo. Sono in tutta Roma, e nel Lazio hanno avamposti ovunque”, racconta chi li conosce bene. Un posto che è ogni luogo dove arriva il verbo, la presenza, l’egemonia della famiglia Casamonica, chiamati i “nullatenenti” o “zingaracci”.

L’appello sulla Trattativa al giudice dei delitti eccellenti

I decreti di citazione partono tra domani e dopodomani, sono previste almeno due udienze al mese per un corposo volume di duemila pagine di ricorsi da esaminare: torna in aula, in appello, il ricatto allo Stato, il processo della Trattativa Stato-mafia concluso nell’aprile dell’anno scorso con le condanne degli ufficiali dei carabinieri, politici e boss mafiosi per avere veicolato le minacce mafiose a tre governi in carica: Amato, Ciampi e Berlusconi.

Il conto alla rovescia è dunque scattato, anche se la data, prevista tra aprile e maggio, è ancora incerta: il Dap sta verificando che tutti gli imputati detenuti in carcere possano essere presenti alla prima udienza senza sovrapposizioni.

A presiedere la Corte di assise di appello sarà il giudice Angelo Pellino, il giudice a latere Vittorio Anania, pubblici ministeri gli ex pm della procura di Palermo Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, già impegnati entrambi a sostenere l’accusa nell’appello del processo ‘’trattativa-stralcio’’ all’ex ministro Calogero Mannino, assolto in primo grado.

Sessant’anni, magistrato schivo e riservato, Pellino è conosciuto come il giudice che ha sottratto il sequestro e la morte di Mauro De Mauro a una lettura mafiocentrica, mettendo in discussione la tesi della Procura che aveva chiesto la condanna per il boss Totò Riina, alla fine assolto con una decisione che proietta l’ombra degli apparati sulla “lupara bianca” del giornalista de L’Ora.

Aderente alla corrente di Unicost, una carriera professionale spesa interamente nella giudicante, negli ultimi vent’anni Pellino si è occupato di quasi tutti i processi sui più importanti delitti eccellenti: l’omicidio di padre Pino Puglisi, dell’imprenditore anti-racket Libero Grassi, dell’ex militante di Dp Peppino Impastato, del cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese, del sociologo Mauro Rostagno. La scelta del suo nome è stata determinata dal rituale criterio “automatico e ponderale” delle sezioni; l’alternativa era il collega Mario Fontana, presidente della prima Corte d’assise d’appello: soluzione tecnicamente non incompatibile, ma ritenuta poco opportuna, dal momento che Fontana ha presieduto il processo di primo grado a Mori e al suo collaboratore Mauro Obinu per la mancata cattura del boss Provenzano.

Alla sbarra gli imputati sono rimasti in sette: dopo la morte dei boss Totò Riina e Bernardo Provenzano, l’assoluzione di Nicola Mancino (era accusato di falsa testimonianza) che nessuno ha appellato, e la prescrizione del pentito Giovanni Brusca, saranno giudicati in secondo grado i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (condannati rispettivamente a 28 e 12 anni), l’ex senatore Marcello Dell’Utri (condannato a 12 anni, oggi ai domiciliari per motivi di salute), gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno (i primi due condannati a 12 anni e il terzo a 8 anni) e Massimo Ciancimino (condannato a 8 anni).

Né la Procura di Palermo, né la Procura generale hanno presentato appello, ritenendo pienamente accolte le loro richieste dal verdetto firmato dal presidente Alfredo Montalto.

Tra le parti civili, l’unica a presentare ricorso è stata la Presidenza del Consiglio, che si è costituita solo per contestare l’ammontare dei danni provocati dalla minaccia al corpo politico dello Stato, avendo già avuto liquidato in primo grado un risarcimento complessivo di 10 milioni di euro.

Gli imputati condannati hanno tutti presentato appello, compreso il defunto Riina per il quale a sorpresa l’avvocato Luca Cianferoni ha depositato un corposo ricorso post mortem che è stato giudicato “inammissibile”.