Delitto Vannini, ridotta la pena: “Fu omicidio colposo”

Marco Vannini, il 21enne morto a Ladispoli (Roma) il 18 maggio del 2015 per un colpo di pistola partito in circostanze mai chiarite mentre era in casa della famiglia della sua fidanzata, non fu vittima di un omicidio volontario, bensì di un omicidio colposo.

Lo ha deciso la corte d’Assise di Appello di Roma che, riqualificando il reato, ha condannato a 5 anni di reclusione (rispetto ai 14 anni decisi in Assise) il militare di carriera Antonio Ciontoli, che avrebbe materialmente sparato, e confermato i 3 anni, inflitti in primo grado sempre per ipotesi colposa, a carico della moglie Maria Pezzillo e dei figli Martina, fidanzata di Marco Vannini, e Federico. Confermata l’assoluzione dall’accusa di omissione di soccorso, per Viola Giorgini, fidanzata di Federico. Alla lettura della sentenza è scoppiato il caos in aula con le grida di protesta dei familiari e degli amici di Vannini. “Vergogna, è uno schifo!”, ha detto Marina, la mamma di Marco. I parenti, prima di essere allontanati dall’aula, hanno inveito contro i giudici: “Venduti, non c’è Stato per Marco!”.

Corona, i giudici: “Nessuna sospensione, resta in affidamento”

Nessuna sospensione dell’ affidamento terapeutico “definitivo” per Fabrizio Corona. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano respingendo la richiesta della Procura generale che chiedeva che l’affidamento tornasse a essere “provvisorio”, in attesa della decisione della Cassazione a cui ha fatto ricorso l’Avvocato generale Nunzia Gatto per chiederne la revoca e, dunque, che l’ex agente fotografico torni in carcere. Tra i vari punti, messi in rilievo, il pg aveva elencato numerose violazioni dell’affidamento e delle misure di prevenzione.

Ad esempio per i 35 mila euro incassati per un’ospitata e non dichiarati. I giudici, invece, hanno dato ragione alla difesa spiegando che mancano “i presupposti di legge” per sospendere l’affidamento “definitivo” e non c’è alcun periculum in mora, ossia nessun “danno” nel percorso di Corona può verificarsi in attesa che la Cassazione fissi l’udienza per discutere sull’istanza di revoca dell’affidamento della Procura generale e poi decidere. Due mesi fa, i giudici avevano deciso di confermare per Corona l’affidamento terapeutico, come chiesto dal legale Calcaterra, parlando anche di esito “positivo” del suo percorso.

Nel frattempo, però, la Procura generale ha anche chiesto per la seconda volta in pochi mesi il ritorno in carcere dell’ex agente fotografico perché, tra le altre cose, lo scorso 10 dicembre è andato nel “boschetto della droga” di Rogoredo, alla periferia sud di Milano, a fare “l’agente provocatore”, a fingere di acquistare stupefacenti, malgrado tra le prescrizioni del suo programma ci sia il divieto di frequentare tossicodipendenti. Per discutere su quest’ultima richiesta si attende la fissazione di un’udienza.

Mistero alla “Gran Madre”: 2,4 milioni di offerte in Svizzera. Ma il parroco li restituisce

Per più di 30 anni ha guidato la parrocchia della Gran Madre di Dio, monumentale chiesa di un quartiere “bene” di Torino, ai piedi della collina, a due passi dal Po e di fronte a piazza Vittorio Veneto. Le offerte dei fedeli erano generose, potevano essere utilizzate per la cura dei locali e l’aiuto ai bisognosi. Tuttavia don Sandro Menzio, ex parroco di 77 anni, è sempre stato un umile risparmiatore. Nel corso degli anni aveva accumulato circa 2,4 milioni di euro su un conto in Svizzera senza mai spendere un euro. Poi, al momento di cedere l’incarico, ha rimpatriato il denaro ed è finito indagato. Nei giorni scorsi il sostituto procuratore Giuseppe Riccaboni ha chiesto al tribunale di fissare l’udienza per processare don Menzio e suo fratello per appropriazione indebita.

Tutto comincia nel 2016, quando don Menzio, prossimo alla pensione, si appresta a lasciare la conduzione della parrocchia al suo successore, don Paolo Fini. Gli comunica che le offerte dei fedeli sono in Svizzera e vuole passarli sul conto della parrocchia. Insieme a suo fratello avvia le pratiche per la voluntary disclosure e al momento di indicare la provenienza del denaro scrive: “Offerte dei fedeli”. L’origine dei fondi sembra sospetta e parte una segnalazione alla Guardia di finanza che avvia un’inchiesta, sequestra la somma e poi li rende alla chiesa. La riforma del reato di appropriazione indebita prevede però che si possa proseguire soltanto dopo la querela della persona offesa e così la parrocchia della Gran Madre di Dio ha dovuto denunciare, nonostante la stima nei suoi confronti, l’uomo che l’ha animata per decenni. Chiusa l’indagine, tutto sembrava essersi risolto, ma di fronte il reato il pm ha ritenuto fosse il caso di chiedere il giudizio immediato. Gli avvocati di don Menzio sottolineano come il deposito fosse lecito e lui non abbia mai speso quel denaro.

“Sgomberate CasaPound”. Il Campidoglio si schiera, Salvini anche: “Altre priorità”

Il Campidoglio si schiera per lo sgombero di CasaPound. Con il voto favorevole a una mozione Pd sostenuta anche dal M5S, l’Assemblea Capitolina ha chiesto a Virginia Raggi di attivarsi per “lo sgombero immediato dell’edificio di via Napoleone III”, occupato dal dicembre 2003 dal movimento di estrema destra. Una scelta che riapre la contesa a distanza tra la sindaca e Matteo Salvini sulla gestione dell’ordine pubblico e degli edifici occupati in città. Già a ottobre, dopo una mancata ispezione della Finanza nello stabile per un’ipotesi di danno erariale, la Raggi aveva detto di “aspettarsi un segnale forte” dal Viminale e di esser pronta a “mettere a disposizione, quando arriverà il momento, i vigili e il sistema dell’accoglienza”. Il titolare del Viminale ha nicchiato, ricordando che si procederà “con lo sgombero di tutte le occupazioni illegali, nessuna esclusa” partendo però “dalle situazioni più pericolose per l’instabilità delle strutture e da quelle dove ci sono richieste di sequestro in corso”. Ovvero: prima dell’edificio occupato dai “fascisti del terzo millennio”, dove abitano 18 nuclei familiari che sono per lo più quelli dei leader romani e nazionali della formazione, vanno affrontati altri casi. A Roma l’emergenza casa resta un dramma a cui le istituzioni non riescono a fornire risposte esaustive, con circa 100 occupazioni a scopo abitativo dove risiedono 10 mila persone. A queste vanno aggiunte altre 12 mila in attesa per una casa popolare. La Prefettura ha stilato una lista di una ventina di immobili occupati da sgomberare perché mancano le condizioni di sicurezza o i proprietari sollecitano l’intervento. Finora, nelle riunioni in Prefettura sugli sgomberi, il dossier su CasaPound non è mai stato una priorità. L’edificio, in epoca fascista sede dell’ente per l’istruzione media e superiore, dal 1963 ha ospitato uffici del ministero dell’Istruzione e dopo l’occupazione il Miur ha comunicato al Demanio le cessate esigenze di utilizzo. Nel rimpallo di competenze tra enti statali sono trascorsi 15 anni.

Rosso Pomodoro, appelli al boicottaggio: “Licenziate il pizzaiolo”. Ma lui: “Scherzavo”

Stazione centrale di Milano, ristorante Rossopomodoro, la pizza napoletana nel mondo. Oggi nella bufera con pesanti accuse di razzismo dopo il video in cui un pizzaiolo con accento napoletano spruzza deodorante a tre colleghi stranieri. Dice ridendo: “Alza le ascelle? Ma perché non lo usate questo?”. Il video dura oltre un minuto. A riprendere un altro italiano. La scena è esplicita. Tanto da aver scatenato pesanti critiche sui vari social. Ieri Roberto Colombo, amministratore delegato del gruppo Sebeto ha spiegato che “Rossopomodoro prende nettamente le distanze dall’episodio ripreso nel video e annuncia di aver avviato una inchiesta interna”. Al momento però ancora non è dato sapere quali saranno i provvedimenti e se il piazzaiolo sarà licenziato. Caso chiuso? Manco per niente. Sul profilo Facebook di Rossopomodoro ieri sono stati oltre 500 i commenti alla vicenda. Una buona parte di questi invitava a boicottare il ristorante. Scrive Luca Delgado: “Il dipendente va allontanato perché è una latrina. Fino a quando non lo farete vi invito a boicottare la pizzeria”. Riccardo Biondi, invece, nota che “nel comunicato stampa manca la parola scusa”. Ancor più netto Biagio Puglisi. “Licenziate in tronco questo razzista napoletano convertito al razzismo salviniano”. Altri poi mettono nel mirino la mancanza di igiene. Appare, infatti, singolare l’uso di un deodorante accanto al cibo. Ieri sera ai tavoli del ristorante il flusso è apparso normale. “Il pizzaiolo? Non sappiamo”, ci viene detto. “Preferiamo non parlare della vicenda”, sbuffa via qualche cameriere. Gli stranieri sorridono ironici e alla domanda su cosa ne pensano allargano le braccia. “Meglio non parlare – confida uno – , il lavoro mi serve”. Del pizzaiolo che non si trova, si recuperano tracce da un take dell’Ansa di metà pomeriggio. Lui è Antonio Faccetti, moglie, figlio e un profilo Facebook con tante pizze. Lui, dice, di quei ragazzi è amico. Poi spiega il video: “Con Abdul stavo scherzando, così come si scherza tra colleghi”. Aggiunge: “Sono vittima di un attacco mediatico”. La parola dopo è “strumentalizzazione”. E ancora: “Il video non rappresenta la realtà dei fatti, hanno fatto apparire una scena goliardica con i miei allievi come un atto di discriminazione e razzismo che non fa parte della mia cultura”. Certo a rivedere il video qualche dubbio viene. Soprattutto a sentire chi riprende Faccetti e usa chiaramente la parola “disinfestazione”. Il video è stato messo su Facebook da una ragazza che spiega di lavorare proprio a Rossopomodoro. Sotto al video il commento: “Guardate come trattano gli stranieri dove lavoro io”. La donna spiega che il video è stato girato sabato mattina. Aggiunge che in quel ristorante gli stranieri vengono trattati male perché di colore. Una versione respinta dalla società che nel comunicato diffuso ieri scrive: “Rossopomodoro assume e ha sempre assunto il personale indipendentemente dalle proprie origini tant’è che nella forza lavoro già attiva in Italia i dipendenti provenienti da fuori Italia rappresentano il 35% della forza lavoro complessiva”. Nel frattempo l’inchiesta interna è avviata. La cosa sui social interessa poco. Scrive Gerda: “Fatemi sapere quando avrete licenziato quel dipendente così potrò tornare a cenare da voi”.

Effetto Battisti: ora si riapre anche il caso Calabresi

Guido Salvini è un magistrato che le vicende del terrorismo italiano le conosce bene, per averle a lungo indagate come giudice istruttore. Conosce da vicino anche la storia dei Pac, i Proletari armati per il comunismo di Cesare Battisti, perché fu suo padre a presiedere, all’inizio degli anni Ottanta, la Corte d’assise che pronunciò una delle sentenze per l’omicidio dell’orefice Pier Luigi Torregiani, ucciso dai Pac. In più, Guido Salvini è noto per le sue posizioni tutt’altro che “giustizialiste”, tanto che collabora anche al Foglio. Ecco perché i suoi interventi su Cesare Battisti, pubblicati proprio sul Foglio nei giorni scorsi, sono una bomba. Lasciata scoppiare nel più fragoroso silenzio.

Il 16 gennaio, Salvini scrive un ritratto agghiacciante di Battisti. “Non è certo un martire né un perseguitato politico. Da delinquente comune si era ‘politicizzato’ in carcere sino a diventare uno dei capi dei Proletari armati per il comunismo, un’accozzaglia di persone che per la loro insensata ferocia erano tenute a distanza persino dalle Brigate rosse e dai gruppi affini”. “I Pac si erano infatti specializzati più che nell’individuare obiettivi politici – come le Brigate rosse – nel porre a segno le loro vendette personali: sparavano a commercianti che avevano reagito durante rapine, alle guardie delle carceri dove qualcuno dei loro militanti era stato detenuto. Li chiamavano i terroristi ‘giustizialisti’. Roba da brividi”.

Negli anni seguenti poi – continua Salvini – “Battisti e gli altri sono stati giudicati con tutte le garanzie difensive anche se latitanti e con ben tre gradi di giudizio”. Inaccettabile, dunque, la difesa ricevuta dalla “intellighenzia radical chic che lo ha aiutato e coccolato in Francia”. Del resto, “migliaia di terroristi di ex terroristi rossi e neri condannati in quell’epoca, grazie anche ai benefici della dissociazione e a quelli previsti dall’ordinamento penitenziario, non sono stati sepolti in uno Spielberg ma sono tutti ormai tornati in libertà”. Anche Battisti, argomenta Salvini, se non fosse evaso e fuggito, oggi “sarebbe libero. Inizia invece a espiare un ergastolo a più di sessant’anni ”: ma “è stata una scelta sua”.

A questo punto, il giudice Salvini, archiviato il passato, avvia un ragionamento sul presente. “Purtroppo la cattura di Battisti poco avrà da dirci sulle pagine rimaste ancora oscure degli anni di piombo”. Ci sono invece altri latitanti “che potrebbero chiarire le storie tragiche di cui sono stati protagonisti”: Giorgio Pietrostefani, per esempio, il dirigente di Lotta continua condannato per l’uccisione del commissario Luigi Calabresi.

“Di quell’omicidio”, continua Salvini, “nonostante le condanne, non si sa tutto, non si conosce se non in parte come fu deciso e organizzato e nemmeno tutta la fase esecutiva. Pietrostefani è a conoscenza di quei segreti e se tornasse in Italia potrebbe rivelarli. Non dimentichiamo che quello del commissario non fu un crimine qualsiasi, è stato il primo omicidio politico, legato a piazza Fontana e ideato prima ancora che iniziasse il terrorismo con i suoi crimini seriali”.

Due giorni dopo, sulle pagine dello stesso Foglio, gli risponde Adriano Sofri, il fondatore di Lotta continua, anch’egli condannato per l’omicidio Calabresi. Ricorda come non ci sia “niente di clandestino” nell’esistenza di Pietrostefani, che vive a Parigi dove è stato operato di cancro. E che ha scelto di fuggire all’estero, “a malincuore, per una sola ragione: a differenza di Ovidio Bompressi e me, che avevamo figli grandi, aveva una figlia bambina e scelse di starle vicino. Gli costò. Io ne fui contento”.

È a questo punto che Salvini replica, con un breve intervento pubblicato sul Foglio il 22 gennaio, mimetizzato nella rubrica delle lettere: “È bastato, parlando di estradizioni concesse o negate, un cenno alla latitanza di Pietrostefani, per suscitare il fastidio di Adriano Sofri. Dopo le confessioni di Leonardo Marino e le sentenze delle Corti di Milano, nessuna persona di buon senso può credere che Lotta continua non abbia fatto la sua parte in quell’omicidio. È una storia che comunque non conosciamo per intero”. E qui parte la bomba: “Per esempio chi era l’informatore del Sid (servizio segreto militare, ndr) ‘Como’ di cui ho trovato negli anni Novanta le relazioni e che faceva parte dell’esecutivo di Lotta continua nel periodo dell’omicidio Calabresi? I dirigenti di Lotta continua dell’epoca sarebbero in grado di identificarlo; non si può escludere nessuno, lo dico come mera ipotesi, nemmeno che fosse Pietrostefani o una persona a lui vicina. Posto che militanti di Lotta continua hanno certamente eseguito l’omicidio, a quale livello militare o politico è stata presa quella decisione? Ci furono dissensi interni? Hanno magari agito, ottenebrati dall’ideologia, inconsapevolmente nell’interesse di altri? Anche senza parlare di tutti i coinvolti, certamente molti di più di quelli che conosciamo, insomma, come è andata?”.

Conclude Salvini: “Per ora non ci sono le risposte che sarebbe giusto avere prima che quella generazione scompaia. Senza dare queste risposte non si ha diritto di chiedere la verità su altro, quello che è avvenuto nel 1969, ad esempio, e negli anni successivi. Giorgio Pietrostefani è uno di quelli che di certo queste risposte le può dare. È il personaggio rimasto più in ombra in questa storia. Se è gravemente malato, come ricorda Sofri, non deve andare in carcere. Ma ha il dovere civile di rinunciare alla protezione francese e di tornare in Italia. Aspettiamo. Di Adriano Sofri come collaboratore del Foglio apprezzo tutto, i suoi interventi sul popolo curdo in particolare. Ma la storia dell’omicidio Calabresi proprio non ce la vogliono raccontare. Forse per pudore. Forse per tutelare le loro famiglie. Chissà?”. Guido Salvini ha posto le domande. Chi era l’infiltrato dei servizi segreti dentro il vertice di Lotta continua? Ora aspettiamo tutti le risposte.

Concorsi sotto accusa a Medicina: nessuna sospensione

“Nessuna decisione di comune accordo è mai stata presa riguardo alla sospensione della programmazione per il reclutamento del personale docente, restano perciò confermate le scadenze già previste per la programmazione triennale, che sarà discussa dagli organi di governo dell’ateneo nelle sedute di febbraio”. È questo l’esito, secondo quanto fa sapere l’università di Firenze, della riunione del collegio dei direttori di dipartimento dell’area biomedica dell’ateneo fiorentino con il rettore Luigi Dei (nella foto), il prorettore vicario Vittoria Perrone Compagni e il prorettore all’area medico-sanitaria Fabio Marra. Il vertice si è svolto ieri a proposito dell’inchiesta della procura di Firenze sui concorsi a Medicina che vede indagati quindici professori della facoltà e dell’ospedale Careggi. Per dodici di loro la Procura ha richiesto misure interdittive sulle quali il giudice deve ancora pronunciarsi dopo aver sentito gli interessati come prevede la legge. Il rettore Dei ha fatto sapere di aver incontrato, su sua richiesta, il procuratore Giuseppe Creazzo, al quale ha assicurato la piena collaborazione dell’Ateneo.

Perizia sul Morandi, quasi due mesi per una traduzione

La promessa: ricostruire un ponte di un chilometro in un anno. Ma in 50 giorni non si è riusciti a tradurre dal tedesco le 172 pagine dello studio chiave su cui si baserà la perizia tecnica decisiva per l’inchiesta.

A Genova c’è chi comincia a dubitare che le scadenze saranno rispettate. Basta guardare l’odissea dello studio preparato dagli specialisti dell’Empa di Dubendorf (Zurigo). Un’équipe coordinata dal professor Gabor Piskotyi di cui fanno parte Roman Loser, esperto di cemento, e Ulrik Hans, studioso di corrosione dei metalli. Il file, giunto ai legali degli indagati, ha la data del 13 dicembre scorso. Quasi due mesi fa. C’è un dettaglio: è in tedesco. E non è roba da poco: perché la traduzione è difficile, zeppa di termini tecnici. Ma soprattutto per poterci lavorare davvero le parti hanno bisogno di un testo comune, insomma di una traduzione asseverata dal Tribunale. Che non arriva. Era stata annunciata prima di Natale, poi all’inizio di gennaio. Adesso si spera che compaia alla prossima riunione dei periti, prevista per domani. E gli avvocati si arrangiano con Google Translator.

Ma l’episodio conferma un timore ormai diffuso: le perizie – che si basano anche sullo studio svizzero – richiederanno mesi. All’inizio si era parlato di dicembre, ma oggi i periti del gip non danno più date. E non per cattiva volontà. Intanto circolano voci sul contenuto del fantomatico papiro elvetico. Nei giorni scorsi si era diffusa la notizia che gli esperti di Zurigo avessero assolto i famosi stralli, cioè i cavi d’acciaio che sostenevano il Morandi. In pratica, si diceva, a cedere per primo potrebbe essere stato l’impalcato – cioè la base su cui poggia l’asfalto – che si sarebbe tirato dietro gli stralli.

Il Fatto ha più volte esaminato lo studio: l’elemento che ha innegabilmente attratto maggiormente l’attenzione degli esperti sono proprio gli stralli. Decine e decine di fotografie, dettagli di ogni genere. Filo per filo. “L’aspetto – sostiene un tecnico che ha esaminato personalmente gli stralli – è evidentemente ammalorato. Secondo noi la causa del disastro non possono che essere quei cavi”.

Ma a dirlo, oltre alle immagini che possono ingannare, sembrano anche i tecnici svizzeri in alcuni passi della relazione già riportati dal nostro giornale: “Il 50 per cento dei trefoli della sommità del pilone 9 riporta livelli di corrosione o riduzioni di sezione tra il 30 e il 70 per cento. Solo il 4 per cento risulta intatto”, scrivono gli esperti che hanno esaminato 17 reperti provenienti dal vertice del pilone 9 che crollando ha ucciso 43 persone. Uno studio – la versione completa arriverà tra circa un mese – che costituirà probabilmente il cardine del processo. Gli studiosi hanno esaminato oltre mille trefoli, cioè quelle componenti – a loro volta composte da centinaia di fili – che si attorcigliano tra loro formando i cavi che tenevano su il ponte. Il livello di ammaloramento del materiale viene classificato in cinque categorie: zero, cavi intatti. Uno, cavi intatti con rotture ininfluenti. Due, cavi corrosi o con riduzione della sezione fino al 30 per cento. Tre, corrosione o riduzione dal 30 al 50 per cento. Quattro, corrosione e riduzione di sezione dal 50 al 70 per cento. E cinque, danneggiamento dal 70 al 100 per cento.

L’analisi dei trefoli in cima al pilone 9 ha dato risultati che paiono indicare con molta probabilità la causa del crollo: il 28 per cento dei cavi va iscritto nella categoria 4. Il 22 per cento viene classificato in categoria 3. Il 30 per cento in 2, il 16 per cento in 1. Appena il 4 per cento appaiono “intatti”.

Certo, non basta per stabilire con certezza la dinamica del crollo. E infatti nel dossier appaiono le fotografie delle sezioni di ogni singolo trefolo. La modalità dello strappo rivelerà con certezza se il cedimento sia avvenuto come causa prima del crollo oppure se, come qualcuno ha sostenuto, il cavo sia stato tirato perché ha ceduto l’impalcato. Ipotesi, però, ritenuta estremamente “improbabile”.

Quindi la causa, finora, pare essere il deterioramento degli stralli. Accompagnata e aggravata da altre circostanze: nei giorni scorsi i rilievi sul moncone ovest del ponte – in fase di demolizione – hanno rilevato uno spessore dell’asfalto eccessivo, forse frutto dei lavori che si sono succeduti negli anni. Si parla di una quindicina di centimetri, che avrebbero fatto gravare sul ponte decine di tonnellate di peso supplementare. Ma ci sono anche i new jersey, i blocchi di cemento che limitavano le carreggiate. Altro peso supplementare per 2mila tonnellate. E c’è, a detta di un investigatore, soprattutto un altro elemento: il traffico, fino a 100mila mezzi al giorno. Una sollecitazione che avrebbe fatto oscillare milioni di volte il ponte. Fino a far cedere gli stralli già deteriorati.

Castelnuovo (Roma), ancora 222 persone da trasferire altrove

Ancora 24 ore, poi il Cara di Castelnuovo di Porto chiuderà. Dopo i 305 migranti trasferiti la scorsa settimana, arriva il turno dei restanti 222 ospiti che lì hanno trovato accoglienza lasciare il centro, restando comunque nel Lazio come disposto dalla Prefettura. I richiedenti asilo sono destinati in altri centri e Sprar della regione. Poco meno della metà graviterà tra i centri di Roma e quelli dei comuni della sua provincia, 61 dei quali sarà accolto nel Centro Mondo migliore di Rocca di Papa, che già diede soccorso ad alcuni immigranti sbarcati da nave Diciotti. Intanto è scoppiato un piccolo “caso” a Ferrara. Il sindaco Tiziano Tagliani scrive in una nota che sabato scorso sono arrivati in città due migranti provenienti da Castelnuovo “inviati da Salvini senza avvisare”. Il primo cittadino estense precisa che “la nostra comunità si dimostrerà disponibile”, poi critica il governo che “demolisce esperienze positive d’integrazione” e “tace sulle problematiche legate alla rimodulazione degli Sprar”. Tagliani aggiunge che il decreto Sicurezza, privando i richiedenti asilo della possibilità di ottenere la residenza, prepara “la panchina per centinaia d’immigrati”.

Oxfam e Openpolis: “Il governo italiano ha ridotto i fondi per la cooperazione”

Meno soldi alla cooperazione e allo sviluppo dal governo Lega-M5S. La denuncia arriva da Oxfam e da Openpolis che hanno preso in esame gli aiuti pubblici allo sviluppo (aps), cioè l’ammontare complessivo dei fondi impegnati da tutte le amministrazioni, in primo luogo i ministeri: Economia, Interni ed Esteri. Una tendenza confermata anche dai dati forniti – dopo reiterate richieste senza risposta – dal ministero degli Esteri: “Nella legge di Bilancio del 2019 i fondi per la cooperazione e lo sviluppo – una porzione dell’aiuto allo sviluppo – sono stati 486,4 milioni”. E l’anno precedente? “Nel 2018 erano stati 488,6”, spiega la Farnesina.

Insomma, un calo di milioni, ma soprattutto una riduzione in percentuale sul pil.

E qui entrano in ballo dichiarazioni e promesse che avevano accompagnato la campagna elettorale, soprattutto dei Cinque Stelle: limitare gli ingressi di immigrati, ma incrementare il sostegno nei paesi d’origine.

È scritto nel dossier ‘Cooperazione Italia, ritorno al passato’, realizzato appunto da Openpolis e Oxfam: “Sono state completamente disattese dalla legge di Bilancio le stime relative alle risorse che il governo intendeva destinare all’aiuto pubblico allo sviluppo”. Aggiunge Oxfam: “Nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, che indica gli obiettivi della legge di bilancio, era previsto che il rapporto dell’aiuto pubblico con la ricchezza nazionale si sarebbe assestato allo 0,33% nel 2019, allo 0,36% nel 2020 e allo 0,40% nel 2021, mostrando la volontà di superare l’impegno intermedio dello 0,30%” che, spiega il rapporto, era stato sottoscritto in sede Nazioni Unite e raggiunto nel 2017 con 3 anni di anticipo.

Secondo lo studio, le tabelle del Ministero delle Finanze fanno prevedere un ammontare complessivo di 5,077 miliardi di aiuto pubblico nel 2019, mentre nel 2020 scenderebbero a 4.654 milioni e a 4.702 milioni nel 2021.

Francesco Petrelli di Oxfam Italia avverte: “Con queste cifre nel 2020 il rapporto con il pil potrebbe calare allo 0,26 tornando a livelli inferiori al 2016. Per la prima volta dal 2012, calano le risorse destinate all’aiuto pubblico, segno tangibile che per il governo il tema della cooperazione non è tra quelli prioritari. Secondo le nostre proiezioni potrebbero essere quasi 730 milioni in meno nel 2019, 1,7 miliardi nel 2020 e 2,4 miliardi nel 2021”, ha sottolineato Petrelli.

Lia Quartapelle (Pd, membro della Commissione Esteri): “L’Italia ha già tagliato 32 milioni l’anno ai fondi destinati all’Onu. Oltre ad aver ridotto le risorse destinate agli immigrati. E adesso ecco che calano i fondi per lo sviluppo. Oltre a essere un errore è un’altra promessa che i Cinque Stelle avevano fatto e che non mantengono”.