La voce al telefono è ferma e seria. Parla piano per non farsi sentire dalle guardie. “Ricarico il telefono solo di notte, non passano sempre i libici e ora posso parlare ma devo nascondere il telefono”. La chiameremo Sara ma non è il suo nome. È una delle donne rinchiuse nel centro di detenzione governativo di Misurata, a est di Tripoli. Il suo gommone è stato intercettato il 20 gennaio scorso dal cargo sierraleonese Lady Sham. Con altre 143 persone è stata riportata in Libia. L’unica Ong ancora presente nel Mediterraneo, la Sea Watch, non è arrivata in tempo. Siamo in contatto con Sara da giorni per ricostruire per la trasmissione Rai Cartabianca le condizioni dei migranti in mare e nei centri di detenzione. Nonostante il rischio, ci ha fatto arrivare le voci di tre donne, madri come lei, e sue sorelle di sventura.
“Quando eravamo sul cargo ci hanno detto che eravamo diretti in Germania, poi in Grecia e noi eravamo felici, siamo andati a dormire tranquilli ma quando abbiamo aperto gli occhi eravamo in Libia. Ci hanno obbligato con la forza a scendere dalla Lady Sham, ci hanno picchiato senza pietà, c’erano donne incinte, bambini. Due ragazze incinte hanno abortito per le percosse”. Sara ha un figlio, rimasto nel suo Paese. Il suo primo figlio l’ha invece perso Anna, anche questo un nome di fantasia. Ha la voce sottile e flebile. “Mi hanno talmente picchiata, ho perso molto sangue, ho avuto un aborto. I dottori sono passati ma non mi hanno fatto nulla.” Non riesce più a parlare, per lei continua un’altra donna, anche lei ha avuto un aborto. La sua voce è piena di rabbia: “Io ho perso mio figlio, ho perso tutto. Ero nella barca con mio marito ora lui è in un’altra cella, non è qui con me. Ho pagato quasi tremila euro per arrivare in Europa e ora vogliono rimandarmi indietro. Nel mio Paese c’è il jihad, lo Stato islamico”.
Questa è l’ultima novità. Ieri i migranti hanno dovuto scegliere se firmare per tornare nei loro Paesi o rimanere nel centro. “Ci vogliono deportare verso i nostri Paesi e non sappiamo dove ci lasceranno. Ma io non firmo, rimango qui” .“È questo il destino delle persone nei centri di detenzione libici”, dice Julien Raickman, capo operazioni di Medici senza frontiere in Libia. “Una volta dentro ci sono solo due modi per uscirne. Loro ti forzano a tornare nel tuo Paese e dopo 6-9 mesi in queste condizioni alcuni accettano. Altri chiedono lo status di rifugiato ma questo richiede molto tempo”. C’è un’ultima possibilità: la fuga. Tanti tentano. Pochi riescono, gli altri vanno incontro a ritorsioni. È accaduto anche ai migranti con i quali parliamo. “Alcuni ragazzi stanno malissimo – continua Sara – qualche giorno fa hanno cercato di scappare ma li hanno presi, li hanno picchiati. Feriti. Poi hanno punito tutti, hanno sparato all’impazzata”. Sara riesce a mandarci qualche foto nonostante la linea telefonica debole. “Siamo circa trenta donne, sei bambini e circa altri centocinquanta uomini. Tutti in una grande stanza, senza finestre, il bagno in comune. Dormiamo per terra e ci danno qualcosa che assomiglia al cibo quando vogliono loro. Fa molto freddo”.
L’ultima donna di cui Sara ci racconta è l’unica di cui non ha più notizie. “C’era una ragazza al nono mese, è stata picchiata così brutalmente appena arrivata che dopo stava malissimo e l’hanno portata via, non sappiamo dove. Speriamo sia in ospedale ma non abbiamo modo di contattarla”. Il country director di Msf, Julien Raickman, ci conforta sulla sorte della donna: “È l’unica notizia positiva in questo momento. Abbiamo incontrato questa ragazza ed è riuscita a partorire un bambino perfettamente sano. È in ospedale. Vorremmo cercare di non farla tornare con il suo piccolo nel campo di detenzione ma per le leggi libiche dovrà farlo.”
Le Ong possono entrare nei campi governativi ma questo non sembra essere garanzia di sicurezza per i migranti. Come dimostra la testimonianza raccolta a bordo della nave Sea Watch3 da Giuseppe Borello di
Cartabianca. . Un ragazzo fuggito da un altro centro di detenzione, quello di Zawaiya, ha raccontato le sevizie e le violenze subite. Secondo il migrante, il centro è gestito da un uomo che tutti devono chiamare ‘il Grande Padrone Usama’. Lui sottopone i migranti a umiliazioni di ogni tipo e gli estorce soldi per farli uscire. “Quando arrivano le organizzazioni umanitarie – ha raccontato il migrante – i carcerieri lo sanno prima e ci minacciano per non farci parlare poi ci danno le scarpe. I libici per indurci al silenzio ci minacciavano di morte, facendo segno di tagliarci la gola. Zawiya è il centro dove la Guardia costiera libica porta le persone recuperate in mare. In Libia – conclude il ragazzo – devi essere sano, perché se ti ammali è la fine. La cosa più importante sono i piedi perché ti servono per scappare ”.
*giornalista di Cartabianca (Rai)