“Mi hanno riportata in Libia e qui ci riempiono di botte”

La voce al telefono è ferma e seria. Parla piano per non farsi sentire dalle guardie. “Ricarico il telefono solo di notte, non passano sempre i libici e ora posso parlare ma devo nascondere il telefono”. La chiameremo Sara ma non è il suo nome. È una delle donne rinchiuse nel centro di detenzione governativo di Misurata, a est di Tripoli. Il suo gommone è stato intercettato il 20 gennaio scorso dal cargo sierraleonese Lady Sham. Con altre 143 persone è stata riportata in Libia. L’unica Ong ancora presente nel Mediterraneo, la Sea Watch, non è arrivata in tempo. Siamo in contatto con Sara da giorni per ricostruire per la trasmissione Rai Cartabianca le condizioni dei migranti in mare e nei centri di detenzione. Nonostante il rischio, ci ha fatto arrivare le voci di tre donne, madri come lei, e sue sorelle di sventura.

“Quando eravamo sul cargo ci hanno detto che eravamo diretti in Germania, poi in Grecia e noi eravamo felici, siamo andati a dormire tranquilli ma quando abbiamo aperto gli occhi eravamo in Libia. Ci hanno obbligato con la forza a scendere dalla Lady Sham, ci hanno picchiato senza pietà, c’erano donne incinte, bambini. Due ragazze incinte hanno abortito per le percosse”. Sara ha un figlio, rimasto nel suo Paese. Il suo primo figlio l’ha invece perso Anna, anche questo un nome di fantasia. Ha la voce sottile e flebile. “Mi hanno talmente picchiata, ho perso molto sangue, ho avuto un aborto. I dottori sono passati ma non mi hanno fatto nulla.” Non riesce più a parlare, per lei continua un’altra donna, anche lei ha avuto un aborto. La sua voce è piena di rabbia: “Io ho perso mio figlio, ho perso tutto. Ero nella barca con mio marito ora lui è in un’altra cella, non è qui con me. Ho pagato quasi tremila euro per arrivare in Europa e ora vogliono rimandarmi indietro. Nel mio Paese c’è il jihad, lo Stato islamico”.

Questa è l’ultima novità. Ieri i migranti hanno dovuto scegliere se firmare per tornare nei loro Paesi o rimanere nel centro. “Ci vogliono deportare verso i nostri Paesi e non sappiamo dove ci lasceranno. Ma io non firmo, rimango qui” .“È questo il destino delle persone nei centri di detenzione libici”, dice Julien Raickman, capo operazioni di Medici senza frontiere in Libia. “Una volta dentro ci sono solo due modi per uscirne. Loro ti forzano a tornare nel tuo Paese e dopo 6-9 mesi in queste condizioni alcuni accettano. Altri chiedono lo status di rifugiato ma questo richiede molto tempo”. C’è un’ultima possibilità: la fuga. Tanti tentano. Pochi riescono, gli altri vanno incontro a ritorsioni. È accaduto anche ai migranti con i quali parliamo. “Alcuni ragazzi stanno malissimo – continua Sara – qualche giorno fa hanno cercato di scappare ma li hanno presi, li hanno picchiati. Feriti. Poi hanno punito tutti, hanno sparato all’impazzata”. Sara riesce a mandarci qualche foto nonostante la linea telefonica debole. “Siamo circa trenta donne, sei bambini e circa altri centocinquanta uomini. Tutti in una grande stanza, senza finestre, il bagno in comune. Dormiamo per terra e ci danno qualcosa che assomiglia al cibo quando vogliono loro. Fa molto freddo”.

L’ultima donna di cui Sara ci racconta è l’unica di cui non ha più notizie. “C’era una ragazza al nono mese, è stata picchiata così brutalmente appena arrivata che dopo stava malissimo e l’hanno portata via, non sappiamo dove. Speriamo sia in ospedale ma non abbiamo modo di contattarla”. Il country director di Msf, Julien Raickman, ci conforta sulla sorte della donna: “È l’unica notizia positiva in questo momento. Abbiamo incontrato questa ragazza ed è riuscita a partorire un bambino perfettamente sano. È in ospedale. Vorremmo cercare di non farla tornare con il suo piccolo nel campo di detenzione ma per le leggi libiche dovrà farlo.”

Le Ong possono entrare nei campi governativi ma questo non sembra essere garanzia di sicurezza per i migranti. Come dimostra la testimonianza raccolta a bordo della nave Sea Watch3 da Giuseppe Borello di

Cartabianca. . Un ragazzo fuggito da un altro centro di detenzione, quello di Zawaiya, ha raccontato le sevizie e le violenze subite. Secondo il migrante, il centro è gestito da un uomo che tutti devono chiamare ‘il Grande Padrone Usama’. Lui sottopone i migranti a umiliazioni di ogni tipo e gli estorce soldi per farli uscire. “Quando arrivano le organizzazioni umanitarie – ha raccontato il migrante – i carcerieri lo sanno prima e ci minacciano per non farci parlare poi ci danno le scarpe. I libici per indurci al silenzio ci minacciavano di morte, facendo segno di tagliarci la gola. Zawiya è il centro dove la Guardia costiera libica porta le persone recuperate in mare. In Libia – conclude il ragazzo – devi essere sano, perché se ti ammali è la fine. La cosa più importante sono i piedi perché ti servono per scappare ”.

*giornalista di Cartabianca (Rai)

Staffetta dem sulla nave, esposto di Orfini in Procura

“#SeaWatch continua la staffetta democratica, a Siracusa i parlamentari Pd Gennaro Migliore, Giuditta Pini, Lia Quartapelle, Luca Rizzo Nervo. I 47 migranti devono scendere subito!”. È il tweet di Davide Faraone, senatore dem e segretario regionale del Pd Sicilia che lunedì era a sulla nave al largo di Siracusa con il segretario dem Maurizio Martina, Carmelo Miceli, Matteo Orfini, Fausto Raciti, Valeria Sudano e Francesco Verducci per dare il via alla staffetta dem. È il secondo giorno in mare dei parlamentari. Sono saliti a bordo per verificare le condizioni sanitarie di tutte le persone. Chiedono lo sbarco immediato dei 47 migranti, a partire dai minori. Un esposto alla Procura di Siracusa è stato presentato dai deputati Matteo Orfini e Fausto Raciti, a nome del Partito democratico, contro il governo Conte sulla situazione sulla nave Sea watch. Lo conferma lo stesso Raciti, che è andato in Procura accompagnato da un legale dello studio dell’avvocato Michele Gentiloni Silveri. “Ci sono palesi violazioni dei diritti umani – spiega Raciti – e il responsabile è il governo”.

Lo strano risveglio della città che ingoia tutto

La Sea Watch a Siracusa ha ingenerato uno splendore classico senza precedenti, per cui a un certo punto, a seguire la proda della nave, ferma a qualche centinaio di metri dalla costa, si è più o meno tutti finiti a convenire in una elegia collettiva. Siracusa si riscopre affetta dalla medesima tristezza civica di Stepàn Trofìmovic (I Demoni, Dostoevskij, ricordate?).

Abbiamo visto cose che voi umani, sapete. Ad esempio il gommone con la Prestigiacomo, Fratoianni e Magi è stato un colpo di teatro (concedeteci senza malafede l’estensione) che avrebbe lasciato di stucco i più cinici tra noi. E infatti, assolutamente. Un assalto alla Diabolik, in una costa bluette, dentro una domenica innocua e siciliana. Eppure attenzione: siamo alla fine del mondo e delle cose.

La costa dove tutto avviene sopporta alle sue spalle il vento mortifero di una fabbrica di eternit franata ma che giustamente continua a produrre morte. Le onde solcate dai guerrieri-parlamentari appartengono a un mare di mercurio, non avrà requie per ere, non per anni, ere. In quel mare zampillano gioiosamente pesci con due lische o tre gobbe, strani come dromedari acquatici. Ma la Sea Watch moltiplica negli altri il desiderio di esserci, partecipare, quasi autisticamente. Le fabbriche continuano a fumare, di fronte la Sea Watch. Quando piove per inciso siamo nel bel mezzo di un the day after, una città da tombino, da walking dead, dobbiamo chiuderci dentro.

La nostra tristezza civica alla Sea Watch nel qual caso non sortisce effetto, al massimo cortei di venti persone, con laconici striscioni che non contagiano nessuno. Dovremmo pedissequamente organizzarci in sit-in prolissi e dagli argomenti articolati, tipo: politiche sociali uguale rubrica metafisica; inquinamento spregiudicato e nubi calamitose da castigo epocale; città delle non nascite o di arzilli sopravvissuti; del non fare mai niente (secondo anatema salviniano) o dei ricettacoli di vendo e compro oro. Eccetera. Trovate uno che nasce qui e vincerete un premio. Tuttavia, ora è la Sea Watch sulla scena con i suoi piccoli show: cori polifonici improvvisati, per dire il coro dell’istituto nazionale del Dramma Antico, che sperimenta in virtù della Sea Watch, un Ederlezi da strappare il cuore dal petto. Un convito di attori recita in siciliano.

Il video circola sui social, abbiamo le lacrime agli occhi, in mano il dizionario del Pitré. Ripariamo sotto la luce della Sea Watch. Le sigle, sventolate, retrodatate. In che anno siamo? La sinistra sembra un simposio di bicentenari, che si racconta balle nostalgiche, credendoci. Sventolano bandiere rosse e nell’aria si perdono a profusione parole arcaiche come: welfare e impiego pubblico. L’Arci. Immancabilmente. Un africano agita la sua di bandiera. Tutto molto simbolico e imprimente. Come faceva notare Stefano Zecchi durante una puntata del programma della Palombelli: dunque i buoni starebbero tutti al tempio di Apollo. Vi spieghiamo: è la manifestazione di protesta pacifica organizzata nel centro storico di Siracusa. Quartiere poverissimo, multietnico.

La gente del rione non crede ai propri occhi. Ma chi li ha visti mai tutti insieme ’sti indignati? È una tristezza civica ringalluzzita, che nutre se stessa, non fatica troppo. Non c’è altro da fare in fondo che sedersi, o tirarsi su, come in un concerto a Woodstock. Siracusa è un po’ Gulliver che torna dal villaggio dei lilliput e dice a tutti di scansarsi. Un tripudio di giustezza. Giustizia: bé quella vedremo. Come direbbe Rovazzi: è tutto molto interessante.

Sea Watch, vertice al Viminale: verso lo sbarco dei minori

La richiesta della Procura dei minori inviata ieri in Prefettura ha immediatamente innescato un vertice tra Viminale e ministero delle Infrastrutture: è necessario consentire ai magistrati minorili di Catania di identificare gli infradiciottenni non accompagnati per applicare la legge Zampa che impedisce il loro respingimento. La mossa della Procura dei minori ha “messo in mora” Matteo Salvini e Danilo Toninelli che devono scegliere se rinviare l’adempimento della norma o mettere in moto un meccanismo per adempierla. Il rischio, come rivelato ieri dal Fatto, è che in assenza di risposte la pratica passi alla Procura di Siracusa che potrebbe aprire un fascicolo simile a quello del caso Diciotti. In serata il vertice tra i funzionari di Viminale e Infrastrutture s’è incentrato anche sulla modalità per consentire alla Procura di identificare lo sbarco dei minori non accompagnati, che potrebbe verificarsi nelle prossime ore. La strategia più accreditata è quella di trasbordarli con una motovedetta, evitando così al Viminale di dare il consenso allo sbarco, che in quel caso dovrebbe valere per tutti i passeggeri. Nel pomeriggio di ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’Italia non è tenuta a far sbarcare i 47 migranti a bordo della Sea Watch ma è obbligata a continuare ad assisterli.

Le richieste di chi da 11 giorni si trova sulla nave, ora al largo di Siracusa, sono arrivate alla Corte tra il 25 gennaio (dal capitano della nave ed altri) e ieri (dai 15 minori non accompagnati). In poche ore è stata emessa un’ordinanza provvisoria: “Questa misura provvisoria è in vigore fino a nuovo avviso”, scrivono i giudici della Cedu. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto al governo italiano di “adottare tutte le misure necessarie, il prima possibile, per fornire” ai migranti a bordo “adeguate cure mediche, cibo, acqua e generi di prima necessità”, ma “non” accoglie “la richiesta dei ricorrenti di essere sbarcati”. La nave, afferma la Corte in un comunicato, “non è stata autorizzata ad entrare nel porto e i ricorrenti lamentano di essere detenuti a bordo senza base giuridica, di soffrire di trattamenti inumani e degradanti, con il rischio di essere rimandati in Libia senza che sia stata valutata individualmente la loro situazione”.

Anche sui minori non accompagnati (otto mentre altri cinque sono con i genitori), “si richiede al governo di fornire adeguata assistenza legale”, come può essere quindi la nomina di un tutore. “La Corte – commenta l’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione che si occupata dei ricorsi – ha riconosciuto che la Sea Watch è sottoposta alla giurisdizione italiana e il Governo italiano è soggetto ad obblighi giuridici internazionali di tutela dei diritti fondamentali delle persone a bordo. (…) Qualora il Governo insistesse pervicacemente nello strumentale braccio di ferro posto in essere con altri Stati, Asgi confida in un più incisivo intervento della Corte”.

Questa situazione potrebbe essere superata dal vertice sui minori in corso al Viminale. Le opzioni sul tavolo sono tre: autorizzare la Procura minorile a verificare la presenza dei minori non accompagnati a bordo, prendere tempo per rispondere, negare l’autorizzazione. Dalle ultime due ipotesi, però, può scaturire la possibilità, per il procuratore capo di Siracusa, Fabio Scavone, di aprire un fascicolo per violazione della legge. In caso di diniego, invece, la probabilità che la procura apra un fascicolo è quasi scontata. A prevalere, però, è l’ipotesi di garantire l’applicazione della legge Zampa ed evitare l’apertura di nuovi fascicoli d’inchiesta sul’operato del governo. E il governo, intanto, s’è mosso su binario parallelo: quello della redistribuzione dei migranti. Il premier Giuseppe Conte ha annunciato che sulla redistribuzione dei migranti a bordo della Sea Watch “abbiamo la disponibilità di cinque Paesi: Germania, Francia, Portogallo, Romania e Malta”.

Tav e i numeri che fan girare la testa

Noi, di fronte al bisogno ormai quasi psicologico della grande stampa di traforare il Moncenisio, eravamo rimasti alle parole di Paolo Foietta. L’architetto, che da commissario governativo del Tav fa il lobbista della grande opera, per mesi ha detto urbi et orbi che uno stop sarebbe costato 2-3 miliardi, pur ammettendo che non esistono “penali” da pagare. Nei giornali, però, la figura di Foietta è ormai trasfigurata nel mitico Ingegner Cane, alias Neri Marcorè, il professionista di Mai dire domenica dedito alla realizzazione inconcludente di grandi progetti sparando cifre a raffica a suon di “numeri che fan girare la testa!”. Ieri, per dire, Stampa e Messaggero hanno svelato quelli del fantomatico “contro dossier di Salvini sul Tav”. Che poi sono i numeri di Foietta rivisitati da un gruppo di professori della Bocconi già consulenti di Telt, che è il costruttore del Tav. Risultato? “Fermarlo costerebbe 24 miliardi”!. Sul serio: tre volte il costo del tunnel di base. Come ci si arriva? I costi diretti calcolati da Foietta sono lievitati a 4,2 miliardi (“nella stima più alta”), il resto, cioè 20 miliardi, sono “perdite di ricavi e benefici socio economici”. Quali? Secondo i bocconiani nel 2030 si trasporteranno tra Italia e Ovest europeo “tra i 65 e i 75 milioni di tonnellate l’anno di merci”. Oggi sono solo 4 via treno, ma tant’è. I numeri fan girare la testa.

Lega e Forza Italia, lite tra il Senato e Bari

In un colpo solo Matteo Salvini rischia di conquistare il sindaco di Bari e di ottenere un senatore in più a Palazzo Madama. È un’intricata vicenda quella che lega la diatriba per un seggio senatoriale tra due esponenti di Forza Italia e quella delle elezioni nel capoluogo barese, il 26 maggio prossimo.

Tutto nasce dal risultato delle Politiche del 4 marzo. Quando, secondo il complicato sistema dei resti del Rosatellum, a Forza Italia spetta un seggio nel collegio Puglia 1 e due nel collegio Puglia 2. L’eletto dovrebbe essere il senatore uscente Michele Boccardi, ma così non è perché, in seguito a un errore di trascrizione, la Corte d’Appello di Bari ribalta il risultato (due seggi in Puglia 1 e uno in Puglia 2) sancendo l’elezione di Anna Carmela Minuto, responsabile aziendale di Molfetta.

Boccardi contesta il risultato e la questione ora è nelle mani della giunta per le elezioni e l’immunità di Palazzo Madama che, dopo numerosi rinvii, questa mattina si riunisce per decidere, anche se il voto potrebbe slittare di nuovo perché prima c’è da discutere il caso Salvini-Diciotti.

Nel frattempo, a dicembre, è stato presentato il documento del relatore, il leghista Simone Pillon, cui ha fatto seguito una memoria della Minuto. Che, da par suo, rivendica l’elezione. “Il meccanismo dei resti è complicato, ma la decisione degli uffici elettorali e della Corte d’Appello è ineccepibile. La mia elezione è avvenuta in modo regolare”, ha scritto Minuto.

Quella che finora sembrava essere una questione meramente legale e tutt’al più uno scontro tra forzisti pugliesi, ora però si è complicata, assumendo un sapore assai più politico. L’avvocato della Minuto – che è anche il suo attuale compagno – è tale Davide Bellomo che nel barese non è esattamente un Signor Nessuno. Ex consigliere regionale legato a Francesco Schittulli, negli ultimi anni è diventato uomo di punta di Raffaele Fitto. Tanto che fino alla settimana scorsa era il candidato di Noi con l’Italia alle primarie del centrodestra per le comunali a Bari, primarie che si terranno il prossimo 24 febbraio.

In corsa ci sono Pasquale Di Rella (lista civica legata a Fi), Filippo Melchiorre (Fdi), Fabio Romito (Lega) e, fino a qualche giorno fa, Bellomo per Noi con l’Italia di Fitto. Venerdì sera il colpo di scena: con una conferenza stampa convocata alle 19.30, Bellomo annuncia il suo passaggio alla Lega e il suo appoggio al candidato salviniano Romito. Lasciando di stucco Fitto che, già nel recente passato, ha visto alcuni suoi passare armi e bagagli col Carroccio. Come, ad esempio, prima delle Politiche, il suo ex fedelissimo Nuccio Altieri. E, secondo fonti interne a Fi, sarebbe proprio Altieri il regista dell’operazione che ha portato Bellomo tra le braccia di Salvini.

Da Bari, però, questa storia arriva a Roma, direttamente nell’Aula di Palazzo Madama. Perché tra alcuni senatori del partito berlusconiano c’è il sospetto che ora i leghisti, in commissione prima e in Aula poi, possano dare una mano alla Minuto votando in suo favore. Qualcuno, poi, più malizioso di altri butta lì: “Non sorprenderebbe troppo se poi, una volta blindato il suo seggio, anche Minuto prendesse il volo verso la Lega…”. Come ha fatto il suo fidanzato-avvocato, autore anche della memoria presentata in giunta dalla senatrice, scritta insieme all’ex giudice della Consulta Romano Vaccarella. “A me queste voci non interessano. Dico solo che la mia mancata elezione è frutto di un errore materiale. Quel seggio mi spetta e spero che il Senato lo riconosca nel più breve tempo possibile”, afferma Boccardi. Già, perché, in caso di sostituzione, Minuto non dovrebbe restituire gli stipendi incassati e a Boccardi andrebbero riconosciuti gli arretrati. Uno scherzetto che alle casse dello Stato costerebbe, finora, quasi 300 mila euro.

In Campania Zingaretti-flop. De Luca fa vincere Martina

Sorpresa a Napoli e in Campania. Nella corsa ancora lunga alla segreteria del Pd, qui Maurizio Martina vince le convention dei circoli, batte Nicola Zingaretti grazie all’appoggio di Vincenzo De Luca, e sarebbe la prima volta in 11 anni di storia dem che il governatore campano si schiera con il cosiddetto ‘candidato perdente’. Per rinfrescare la memoria degli anni più recenti: nel 2012, da sindaco, De Luca implotonò il ‘sistema Salerno’ su Bersani, che in queste zone stritolò Renzi, l’anno dopo De Luca vestì la maglietta del leader di Rignano e fu Renzi a stravincere. E allora la domanda nasce spontanea: Martina è davvero destinato alla sconfitta contro Zingaretti – attestato al momento in una forbice tra il 47% e il 49%, contro il 36% circa del suo principale avversario – quando il 3 marzo si farà sul serio? Oppure in Campania De Luca e il suo potentato odorano qualcosa di ancora ignoto nel resto del popolo democratico? Qualcosa in grado di ribaltare il pronostico quando il segretario verrà scelto dal voto allargato ai non iscritti in fila ai gazebo?

Domande. Ipotesi. Nel frattempo i fatti dicono che a Napoli Martina ha vinto, e a Salerno e Benevento ha stravinto, sfiorando rispettivamente il 55%, il 65% e il 70% (oltre l’84% nella sola Salerno città). Forte del traino dei gruppi dei consiglieri regionali e parlamentari campani quasi tutti dalla sua parte. E senza un endorsement chiaro di De Luca in suo favore. Ma non ce n’è stato bisogno. Si è schierato il suo mondo, a cominciare dal consigliere regionale Antonio Marciano, portavoce campano della mozione Martina, proseguendo per il vicepresidente della giunta Fulvio Bonavitacola. Martina ha goduto anche del sostegno di uno che deluchiano non è, l’ex sottosegretario alle Infrastrutture di Letta, Renzi e Gentiloni, Umberto Del Basso De Caro, che a Benevento ha fatto incetta per sé nella corsa alla segreteria regionale, conquistando l’82%. Per la segreteria campana però i giochi sembrano già chiusi: viaggia verso la vittoria il sindaco di Poggiomarino Leo Annunziata, che sfonda il muro del 55%, voluto da De Luca e da una parte della mozione Zingaretti.

Il segretario del Pd di Napoli Massimo Costa plaude entusiasta ai dati provenienti dal suo territorio: “Hanno votato quasi 9mila iscritti, ritengo che sia un risultato straordinario, abbiamo dimostrato che a Napoli le primarie si possono svolgere con ordine e organizzazione”. Per la verità fino a pochi anni fa a questi appuntamenti votavano in più di 20mila, e fino a lunedì sera risultavano smarriti i verbali di 36 circoli su 126. “Colpa di una casella mail piena” spiega una fonte della segreteria napoletana. Li hanno ritrovati e contabilizzati nel comunicato finale che attesta Martina a 4.623 voti tra Napoli e provincia contro i 2.958 di Zingaretti e i 716 di Roberto Giachetti. Al momento qui non si segnalano ricorsi, mentre a Salerno ce n’è uno che riguarda il circolo dove è andata a votare Anna Apicella, moglie dell’ex europarlamentare Alfonso Andria. Quando la signora ha chiesto la scheda ha trovato lo spazio nel registro corrispondente al suo nome già siglato. Qualcuno aveva votato al suo posto. Poi sono risultate scrutinate 269 schede rispetto a 216 votanti. Il circolo in questione si chiama ‘Angelo Vassallo’, il sindaco di Pollica che praticava la legalità e la tutela dei beni comuni, ucciso nel 2010 da una mano ancora ignota. Circostanza che ha fatto indignare Dario Vassallo, presidente della Fondazione intitolata al fratello: “Cari candidati alla segreteria, vedo quello che accade a Salerno proprio nel circolo che porta il nome del sindaco pescatore, e voi continuate a tacere. Non state facendo una bella figura”.

Oggi il question time di Liberi e Uguali sulla “talpa” nelle Ong

Sarà in diretta tv oggi, tra le 15 e le 16, il question time alla Camera dei Deputati. E a rispondere ai deputati Erasmo Palazzotto e Federico Fornaro ci sarà il ministro dell’Interno Matteo Salvini. La domanda parte dall’intervista pubblicata dal Fatto sabato scorso a Pietro Gallo, agente della sicurezza a bordo della Vos Hestia, nave utilizzata da Save The Children per i soccorsi in mare. Gallo ha raccontato “di aver inviato all’eurodeputato informazioni tese a dimostrare l’esistenza di contatti diretti tra gli scafisti e le Ong”, non ché di aver ricevuto “rassicurazioni in caso di perdita del lavoro viste le attività di spionaggio che avrebbero dovuto svolgere”. In sostanza Leu chiede al ministro “a quale titolo abbia svolto attività di indagine non autorizzata e raccolto informazioni sulle ONG attraverso infiltrati tese a infangare il lavoro di soccorso in mare e se stia continuando con le stesse modalità”.

Il consigliere leghista non commemora l’Olocausto in aula

Seduto per i fatti suoi, mentre i colleghi commemoravano le vittime della Shoah. Ieri Manuel Laurora, consigliere leghista a Pisa, si è rifiutato di prendere parte al minuto di raccoglimento proposto dal presidente del consiglio comunale Alessandro Gennai in ricordo dell’Olocausto: quando gli altri eletti si sono alzati in piedi, lui è rimasto sulla poltroncina, provocando le ire dei colleghi e la sospensione della seduta. Al rientro, Laurora ha provato a difendersi: “Volevo sinceramente scusarmi. Anche per me la Shoah è una pagina terribile della storia che non deve ripetersi mai più. Mai avrei voluto che il mio atteggiamento suscitasse interpretazioni diverse”. Scuse poco convincenti che non hanno impedito al sindaco di centrodestra Michele Conti di espellere dall’aula Laurora, mentre anche la Lega definiva “grave” il suo comportamento. Qualche mese fa il consigliere era già stato al centro di contestazioni: dopo aver visto due uomini baciarsi in piazza, si era lamentato sui social che i due si fossero scambiati effusioni all’aperto, “davanti a bambini e turisti”.

Capitano non più coraggioso: in cinque mesi da “non voglio aiuti” a “il Senato voti contro”

Il cambiamento è abbastanza impressionante. Specie per uno come Matteo Salvini, che vuole accreditare l’immagine di uomo tutto di un pezzo, schietto e coerente. Era il 27 agosto, il ministro dell’Interno aveva appena appreso dell’indagine su di lui della procura di Agrigento per la gestione del caso Diciotti (l’accusa: sequestro aggravato di persona). E rilasciava un’intrepida intervista agli amici del giornale Libero.

Domanda: “Se il Tribunale dei ministri decidesse di accusarla, sarà il Senato a dover votare la sua processabilità. Cercherà voti ‘amici’ per sfangarla?”. Risposta, quasi sdegnata: “Assolutamente no! Se il Tribunale dirà che devo essere processato andrò davanti ai magistrati a spiegare che non sono un sequestratore. Voglio proprio vedere come va a finire…”.

Qualche mese più tardi – per essere precisi: 155 giorni dopo – la curiosità di Salvini è scomparsa. Il ministro si affida a un altro giornale, Il Corriere della Sera, e scrive una lettera dai toni gravi per sostenere esattamente il contrario di quanto aveva affermato prima: “Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata”. Il linguaggio è molto distante dall’epica popolare delle dirette Facebook: Salvini cita leggi e codici con prosa da azzeccagarbugli (persino “l’articolo 79 paragrafo primo del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”). Rivendica di aver agito “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. E invita il Senato tutto – e quindi l’alleato di governo – a votare contro la richiesta dei magistrati.

Cos’è cambiato in questi cinque mesi? Com’è avvenuta la trasformazione tra il Capitano coraggioso che sfida i tribunali e quello più savio che cita il diritto comunitario? Dal suo staff rispondono con una spiegazione piuttosto fragile (eufemismo): “La linea di Salvini non è mai cambiata, siete voi giornalisti che fate riferimento a una dichiarazione di quest’estate, molto prima che arrivasse la richiesta di autorizzazione. Dopo la decisione del tribunale dei ministri, il vicepremier non ha mai detto che non si sarebbe fatto processare”.

In pratica: l’intervista a Libero non conta. Al di là dell’argomentazione curiosa, anche negli ultimi giorni l’atteggiamento di Salvini è oscillato non poco. Venerdì scorso (il 25 gennaio) di fronte ai microfoni il ministro aveva ancora un atteggiamento di sfida, sebbene più temperato: “Non ho bisogno di protezione – le sue parole – Altri chiedevano l’immunità perché rubavano, io invece ho applicato la legge da ministro. Se dovrò essere processato per questo lo deciderà liberamente il Senato. Chi sono io per non farmi processare?”. E ancora due giorni dopo, in un comizio in piazza ad Avezzano, in Abruzzo: “Vedremo come voterà il Senato. Io non ho bisogno di farmi proteggere da nessuno. Ho la coscienza pulita, sono pronto… sono pronto”.

Appena 24 ore dopo arriva la svolta finale sul Corriere: il processo non s’ha più da fare; il Senato non deve più “decidere liberamente”, ma “negare l’autorizzazione”.

Secondo i suoi apologeti, dentro e fuori il Parlamento, quella di Salvini non sarebbe una giravolta ma solo un’ennesima, raffinata strategia politica: in questo modo il Capitano rimanda la palla nel campo dei Cinque Stelle (che nel frattempo si sono “autoaccusati”, affermando che ogni scelta sulla nave Diciotti è stata condivisa). Tattica chiara: il Movimento se vota “sì” all’autorizzazione tradisce l’alleato e mette a rischio la tenuta del governo. Se vota “no” perde l’anima. Salvini rischia meno: smentendo se stesso ha perso solo credibilità.