Una strana inchiesta con troppe incognite

Torna all’onore delle cronache il caso della nave Diciotti, e della connessa accusa di sequestro di persona nei confronti del ministro Salvini. Inspiegabilmente non risultano dalla ispezione effettuata dal procuratore Patronaggio unitamente agli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria che lo accompagnarono, dati rilevanti per la valutazione giuridica dei fatti.

Se davvero fu commesso in quelle circostanze dal ministro il delitto di cui all’art. 605 codice penale non si comprende perché, unitamente al ministro, non si segnali a chi di dovere il procuratore che omise di ordinare l’immediata liberazione di tutti i sequestrati, e neppure dispose l’arresto in flagranza dei colpevoli del delitto di “effettuazione di trasporto di persone ai fini dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato” di cui all’art. 12 commi 1 e 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286”, obbligatorio ai sensi dall’art. 380 lettera m-ter del codice di procedura penale.

Quanto sopra merita di essere segnalato, per l’ovvia considerazione che non è nei poteri di alcun giudice scegliere, tra i vari concorrenti nel reato, contro chi si debba procedere e contro chi si possa sorvolare; bene dunque avrebbe dovuto il Tribunale segnalare alle autorità competenti la posizione degli altri soggetti, che, secondo il suo giudizio, avrebbero mancato a doveri assistiti da sanzione penale.

Poiché è ampiamente prevedibile che la situazione che ha dato origine a questo procedimento si riprodurrà prossimamente in numerosi altri episodi analoghi, non pare inutile prospettare aspetti tecnico giuridici che finora non sono venuti alla luce.

Il presupposto per ravvisare un dovere di intervento e di salvataggio è che effettivamente all’origine dell’operazione di raccolta in mare l’imbarcazione sia stata in concreto pericolo di naufragio, che è appunto ciò che quel sopralluogo avrebbe dovuto accertare e che invece ignorò.

*ex procuratore capo a Firenze

“Rischio terroristi a bordo”: Viminale contro i magistrati

Lo scontro tra Matteo Salvini e il Tribunale dei ministri ora si sposta sul contenuto dell’inchiesta. Il Viminale fa filtrare sulle agenzie di stampa che i suoi funzionari, parlando coi magistrati del caso Diciotti, spiegarono che, nelle ore del presunto sequestro operato da Salvini, si valutava la possibilità che a bordo vi fossero infiltrazioni terroristiche e criminali. Ma “la ricostruzione del Tribunale dei ministri”, sostengono fonti del Viminale, “non ne ha tenuto conto”.

Il passaggio è rilevante perché, tra le argomentazioni che portano il Tribunale dei ministri ad accusare il ministro dell’Interno di sequestro di persona aggravato, c’è il fatto che lo stallo di quei giorni non fu motivato da ragioni di ordine pubblico ma esclusivamente da finalità politiche. Il rischio di infiltrazioni – fa presente sempre il Viminale – era emerso più volte, anche in occasione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si era svolto pochi giorni prima in Calabria.

Concetto ribadito anche dal sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, che intervistato da Radio1 ha detto: “È un rischio che si paventava in quell’occasione e che si paventa ogni volta. Informazioni, evidenze, riscontri che un governo serio deve tenere in considerazione per la sicurezza del Paese. Anche nel Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico che si tenne in Calabria queste risultanze emersero – ricorda Molteni –. Ora le notizie delle possibilità che a bordo della Diciotti vi potessero essere dei terroristi emergono evidentemente laddove le carte processuali, che sono state consegnate al Senato da parte del Tribunale dei ministri di Catania, cominciano a essere oggetto di analisi in vista della Giunta per le autorizzazioni”. In sostanza, secondo il Viminale, il Tribunale avrebbe omesso di valutare le testimonianze dei suoi funzionari. “Nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale – scrivono invece i giudici nella relazione inviata al Senato – ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di ‘persone pericolose’ per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale”.

Ed è proprio per questo che i giudici ritengono che lo sbarco dei 177 migranti a bordo “non potesse costituire un problema cogente di ordine pubblico”. In realtà, il testo del Tribunale dei ministri, sul punto appare chiaro: parla di “informazioni” sulla possibile presenza di persone pericolose a bordo. E non di “valutazioni” in corso d’opera.

Resta da capire, peraltro, se le “possibilità” che fossero presenti sulla Diciotti persone pericolose, di cui parla Molteni, una volta valutate, produssero qualche risultato oppure no. Se qualcuno le mise nero su bianco. Se furono prodotti atti ufficiali. O se invece restarono confinate al rango di mere “valutazioni” verbali nel corso delle riunioni e non di “informazioni”. Il Tribunale parla infatti di assenza di “informazioni”.

Processo Salvini, panico M5S e l’ipotesi dell’autodenuncia

Salvini fa la mossa, ed è panico a Cinque Stelle. Perché il coinquilino si rimangia la parola e pretende che non lo mandino a processo, nero su bianco. E il M5S s’impantana: sospeso tra l’obbligo di rispettare i propri codici, quindi di dire sì al rinvio a giudizio, e la paura che crolli tutto, cioè il governo. E in un martedì da calvario oscilla tra varie scelte: convincere i suoi ministri ad autodenunciarsi votando comunque sì, oppure lasciare libertà di coscienza ai senatori, o votare no. Tanto ha potuto la lettera di ieri del ministro dell’Interno al Corriere della Sera , che fino a domenica giurava di non voler fare muro al processo per sequestro di persona, chiesto per lui dal tribunale dei ministri di Catania per il caso della nave Diciotti.

Però già lunedì aveva fatto uscire i due capigruppo alle Camere contro il rinvio a giudizio, e fatto trapelare dubbi sulle sue intenzioni. E ieri ha sterzato. “Ritengo che l’autorizzazione a procedere vada negata” scrive il vicepremier. E la ragione la spiega così: “Ai sensi della legge costituzionale n.1 del 1989, il Senato nega l’autorizzazione ove reputi che l’inquisito abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Tradotto, ho agito da ministro nell’interesse dello Stato, quindi vado tutelato. E suona come un ultimatum a cui è legato il futuro del governo. Di certo è una coltellata per Di Maio, a cui Salvini aveva dato rassicurazioni (“Non vi chiedo nulla Luigi, il governo non rischia”).

Ma qualcosa è cambiato. “Matteo ha parlato con gli avvocati e si è spaventato, teme una condanna” sostengono dal Movimento. Però la sua giravolta può spaccare il M5S. E non può dispiacergli, a quattro mesi dalle Europee. Per questo Di Maio è furioso, e di prima mattina ordina ai suoi di tenere la linea, quella del sì al processo. La ripetono il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano e la presidente della commissione Giustizia Giulia Sarti. E già Di Stefano indica un punto di caduta: “Conte e Di Maio hanno detto che sono disposti a farsi processare insieme, perché sono scelte di tutto governo”. Ovvero, si ostenta di voler condividere il destino dell’alleato. Però ad Agorà il deputato Emilio Carelli è sincero: “Non so se voteremo sì o no, le cose sono cambiate”. E con il passare delle ore nel M5S la temperatura sale, parecchio. Perché in molti lo predicano: “Autodenunciamoci, non lasciamo alibi alla Lega”.

Ma i vertici sono perplessi. Mentre l’ala movimentista pressa: “Se votiamo no siamo morti”. E il sì è sicuramente la scelta preferita dal presidente Camera Roberto Fico, che però si tiene lontano dalla vicenda. Ma parla dritto il deputato Luigi Gallo, a lui vicino: “Salvini va processato, la legge è uguale per tutti”. Intanto Di Maio cerca l’altro vicepremier, con l’obiettivo di farlo ricredere: senza esito. Mentre si valuta un voto sul blog per chiedere la linea agli iscritti. “Ma potrebbe tramutarsi in un referendum pro Salvini” riconoscono. E poi “sui social anche molti dei nostri chiedono di salvarlo”. Così si pensa anche all’ultimo rifugio, ossia alla libertà di coscienza per i senatori: anche perché i sette grillini in giunta per le autorizzazioni sono in gran parte contro il rinvio a giudizio. “Però con il no dritto ci spaccheremmo in Aula”, è l’obiezione. Di Maio invece fa sapere che incontrerà i sette della giunta per cercare una soluzione. Mentre in Senato il sottosegretario all’Economia leghista Massimo Garavaglia morde: “Autodenunciarsi è una cretinata, non serve a niente”. Eppure è quello che ripete a Di Martedì il ministro ai Trasporti Danilo Toninelli, parte in causa nella vicenda Diciotti: “Voto perché tutto il governo venga sottoposto a processo”.

Intanto Di Maio sente più volte il premier Giuseppe Conte, in visita a Cipro. E a Porta a Porta appare Alessandro Di Battista. “Di Maio avrebbe rinunciato all’immunità. Salvini ha cambiato versione” attacca. Ma poi smussa: “Non è giusto processare solo il leghista, Conte dovrebbe scrivere al tribunale dei ministri e alla giunta, attestando che la decisione è stata un atto di governo condiviso”. E in giunta? “Credo proprio che voteremo sì”.

Pare la svolta: e invece no. “Alessandro parla da battitore libero” dicono. Ergo, la via d’uscita va trovata altrove. Ma Conte sembra in linea: “Mi assumo la piena responsabilità politica per la vicenda Diciotti”. Sulla via del ritorno, il premier convoca un vertice notturno con i due vice. Ma prima Salvini incontra i suoi senatori. “Mi presenterò in Giunta, è mio dovere” rende noto. “Comunque vada vincerà comunque lui” osserva un sottosegretario del M5S. Sconsolato.

Meglio i giudici

Dopo aver voltato gabbana sul Tav, le trivelle, le accise e i rimpatri dei clandestini, il nostro ministro dell’Interno tutto d’un pezzo Matteo Salvini innesta la retromarcia anche sul processo Diciotti. Il 27 agosto, appena indagato per il presunto sequestro dei 177 migranti tenuti a bordo per cinque giorni nel porto di Catania, dichiarò a Libero, pancia in dentro e petto in fuori: “Se il Tribunale dei ministri dirà che devo essere processato andrò davanti ai magistrati a spiegare che non sono un sequestratore. Voglio proprio vedere come va a finire” (“Vado al massimo”, Vasco Rossi). Poi scambiò la richiesta di archiviazione della Procura di Catania per un provvedimento di archiviazione. Invece il Tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a processarlo. Ma lui, ancora l’altro giorno, quando Luigi Di Maio gli ha comunicato l’intenzione dei 5Stelle di accontentarlo votando l’autorizzazione a procedere, marciava dritto e filato verso il Tribunale: “Non mi servono aiutini”. Poi qualcosa o qualcuno gli ha fatto cambiare idea: ora pretende che il Senato cancelli il suo processo perché “non vi è nulla di personale” e lui agì in qualità di ministro dell’Interno. E questo lo sanno anche i giudici, altrimenti non avrebbero chiesto l’autorizzazione a Palazzo Madama. Ma non basta a stabilire la liceità della sua condotta, altrimenti un ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, sarebbe sempre legibus solutus, e invece non lo è neppure il presidente della Repubblica (che può rispondere di alto tradimento e attentato alla Costituzione).

Su un altro punto Salvini ha ragione: l’immunità parlamentare e il fumus persecutionis non c’entrano nulla, nemmeno quel poco che ne è rimasto dopo la riforma del 1993 che li ha aboliti per le indagini e li ha mantenuti per gli arresti, le intercettazioni e le perquisizioni. Qui, appunto, non si tratta di decidere se Salvini sia perseguitato dai giudici, ma se l’eventuale reato ministeriale sia “scriminato” da “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o “un preminente interesse pubblico”. E questo Salvini pretende che lo affermi il Senato, negando l’autorizzazione a procedere a maggioranza, per far vedere a tutti che comanda lui. Con i voti non solo della Lega (e di FI che vota sempre, per Dna, per gli imputati contro i giudici), ma anche dei 5Stelle (il Pd dirà sì). Ora il M5S ha tre opzioni: 1) confermare il sì all’autorizzazione a procedere; 2) cambiare idea pure loro e dire no; 3) astenersi. La 2 sarebbe un suicidio politico, per l’abbraccio mortale con leghisti e forzisti a protezione di un ministro che non vuol farsi processare.

La 3 sarebbe una furbata da Ponzio Pilato. La 1 salverebbe la loro coerenza, già messa a dura prova dalle retromarce sul Tap e il Terzo Valico, ma farebbe infuriare i leghisti e metterebbe a repentaglio il governo e la maggioranza, anche se – come ha preannunciato Di Maio – i ministri 5Stelle chiedessero di testimoniare al processo di aver condiviso la scelta di trattenere a bordo i 177 migranti non per privarli della libertà, ma per attendere la risposta degli altri Paesi Ue sull’accoglienza. A meno che Di Maio e gli altri ministri pentastellati (Toninelli in primis, responsabile dei porti) facciano un passo in più, dopo aver autorizzato i giudici: si autodenuncino al Tribunale di Catania e chiedano di essere processati con Salvini per un atto che hanno condiviso e rivendicano come collegiale di tutto il governo. Il che taciterebbe Salvini. E metterebbe in imbarazzo il collegio giudicante, in un processo già abbastanza traballante di suo, a prescindere dall’applicabilità del sequestro di persona a una decisione assunta con tutt’altro movente: sia perché, a sostenere l’accusa, dovrebbe essere la Procura di Catania che ha già negato reati perseguibili nel caso Diciotti; sia perché, ad avviare l’inchiesta, fu il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, che salì a bordo durante il presunto sequestro e poi se ne andò come se non stesse accadendo nulla d’illecito, sennò avrebbe dovuto ordinare lo sbarco dei migranti e arrestare in flagrante Salvini, e ora rischia pure lui il processo per non aver fermato un reato in fieri (art. 40 Codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”).

Se quello della Diciotti fosse un caso isolato, si potrebbe anche chiuderlo con un voto parlamentare. Ma, siccome gli sbarchi (perlopiù sulle coste italiane) si sono ripetuti più volte dopo quello della Diciotti, e si ripeteranno chissà quante altre in futuro, una sentenza della magistratura sarebbe molto più autorevole e auspicabile di una decisione del Senato. Perché detterebbe legge per l’avvenire. Il nodo da sciogliere una volta per tutte è questo: fermo restando il dovere di salvare chi rischia di affogare e di garantirgli poi l’assistenza e le cure su una nave sicura, è un reato o no vietargli lo sbarco in Italia per imporre alla Ue di farsene carico pro quota? Se a rispondere fosse il Parlamento, a maggioranza più o meno allargata, darebbe un verdetto politico, partigiano e perciò contestabile e suscettibile di altre indagini giudiziarie. Se invece fosse un Tribunale, seguito da una Corte d’appello e dalla Cassazione, la risposta avrebbe tutt’altro valore. E costituirebbe un precedente per tutti i casi futuri: se la magistratura indipendente dicesse che quella linea di condotta è un crimine, il governo dovrebbe starne alla larga e adottare altri strumenti per inchiodare l’Europa alle proprie responsabilità; se invece stabilisse che è lecito, tutti – scafisti, Libia, ong, procure, governo, parlamento, opposizioni e Ue – saprebbero che il dovere di soccorrere non va confuso col diritto di sbarcare in un solo Paese. E ciascuno dovrebbe regolarsi di conseguenza.

Il madamino

Da mesi ci domandiamo come faccia Salvini a fare tutto quel che fa: a comiziare da un capo all’altro d’Italia, a consumare 7-8 pasti al giorno da postare sui social, a infilare 12-13 dirette Facebook giornaliere senza trascurare gli altri social, a cenare con i pm e Briatore e Malagò e Boschi e Chirico, a cambiarsi continuamente abiti e felpe e t-shirt e uniformi (polizia, carabinieri, pompieri, protezione civile, manca solo la Guardia di Finanza per ovvie ragioni) manco fosse Arturo Brachetti o Renato Zero, a dormire con o senza Isoardi ma sempre col fotografo da copertina sotto il letto, a sgomberare campi rom e Cara e villini Casamonica, a inaugurare case sequestrate e tuffarsi nelle relative piscine, a leggere e commentare live tutti gli atti giudiziari in arrivo dalla Sicilia, a farsi baciare la mano in piazza e a mandare bacioni a questo e quello, a rispondere a chiunque lo chiami o non lo chiami in causa da Baglioni alla Venier a Malgioglio. Fortuna che non deve pure governare, ma si contenta di fingere, sennò scoppierebbe. Ora però s’è svelato l’arcano: esistono due Salvini. Uno è il fascista-razzista-nazista che tiene segregati i migranti scampati al naufragio sulla Sea Watch e che le truppe da sbarco di Forza Pd denunciano penalmente dal gommone per sequestro di persona (un altro) e per la nuova Shoah. L’altro è il sincero democratico che Gentiloni, Chiamparino, Martina &C. implorano di votare in Parlamento la loro mozione pro Tav per una bella alleanza sulle grandi opere inutili.

È chiaro che fra il Salvini-1 e il Salvini-2 non esiste altro rapporto se non l’omonimia, essendo impossibile che chi lo dipinge come la reincarnazione di Hitler arda dal desiderio di averlo accanto nella nuova Union Sacrée del Partito del Pil. Per coerenza, chi pensa che al Viminale sieda un feroce kapò, un disumano torturatore e un sadico aguzzino di migranti non può neppure rivolgergli la parola né stringergli la mano: figurarsi costruirci un’alleanza per un buco nelle Alpi. Dunque sarà bene che i Dem, quando lo adescano per il Tav, chiariscano che stanno parlando del Salvini-2, nulla a che vedere col Salvini-1 che vogliono alla sbarra per crimini contro l’umanità. Altrimenti la gente si confonde, come l’altroieri, quando i lettori di Repubblica, scorrendo le pagine su Sea Watch, fremevano di sdegno contro Salvini e poi, passando a quella sul Tav, si sono scoperti a spasimare per lui contro il M5S, grazie alla prosa flautata del cronista che esaltava “la controanalisi di Salvini” (noto ingegnere esperto di infrastrutture) sulla Torino-Lione. E “l’indagine parallela” a quella degli esperti di Toninelli.

E “l’accertamento ulteriore”. E “la misura prudenziale commissionata dai leghisti a un gruppo di esperti”. E “l’analisi parallela” che “sembra aver dato i suoi frutti”. E “l’offensiva leghista che promette di proseguire”. È l’ultima, disperata mossa della Banda del Buco, che sta collezionando più fiaschi di una cantina sociale: ora s’è ridotta a tifare Salvini perché le è venuto a mancare l’ultimo travestimento, quello delle madamine torinesi. Con gran dispendio di energie, denari e titoloni, lorsignori si erano inventati l’“Onda Arancione” al seguito di sette incolpevoli suffragette del comitato “Sì Torino va avanti”, mandate allo sbaraglio a recitare la parte della “società civile”, della “nuova borghesia”, del “partito del Pil”, della “rivolta del Nord”, della “riscossa delle donne”, dell’“Italia che dice Sì” e financo degli “eredi di Cavour” (tanto è morto), per nascondere la retrostante ammucchiata Pd-FI-Lega. La carnevalata, ovviamente “apolitica e apartitica”, ha prodotto due défilé in piazza con 25 mila persone (spacciate ancor prima di vederle per altrettante “marce dei 40 mila”) e alcune imbarazzanti comparsate tv, in cui le madamine tentavano invano di spiegare il Tav (che infatti chiamano “la Tav”, cioè la treno, confondendo merci e passeggeri).
La più sveglia, Patrizia Ghiazza, di professione “cacciatrice di teste” nella speranza di trovarne una, disse testualmente a Otto e mezzo: “Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera”. Non male, per la leader di un movimento apolitico, apartitico e rigorosamente tecnico. Altre vaneggiavano di “completare la Tav”, ignorando che in 15 anni di cantieri esplorativi e tunnel geognostici non è stato costruito un solo millimetro di ferrovia. E sognavano di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno, forse travestite da merci, per vedere finalmente l’agognata Lione, già peraltro comodamente raggiungibile da decenni grazie al Tgv. Provvidero poi i No Tav a ridimensionare l’ondina arancione, portando in piazza 70-80 mila persone senza un solo partito o giornalone alle spalle. Ora, all’improvviso, la maschera è caduta. Madamin Ghiazza ha depositato il marchio arancione per una lista dell’Onda, che alle Regionali porterà due voti a Chiamparino, mentre il vero regista delle madamine, il berlusconiano Mino Giachino, ne regalerà altrettanti a FI. Spiace per la vicepresidente di Sì Torino va avanti, madamin Giovanna Giordano, che non seguirà madamin Patrizia in Regione, ma ormai ha comprato “un sacco di camicie e giacche arancioni” e intende fermamente “continuare a indossarle”: a Carnevale sarà perfetta. Sic transit il movimento civico trasversale, apartitico, apolitico e femminile. Sic transeunt i plotoni di sociologi, politologi, entomologi dei giornaloni che tromboneggiavano da tre mesi sull’alba radiosa di una nuova classe sociale. Era solo l’ultima maschera dell’eterno Partito degli Affari, quello sì trasversalissimo, che ora molla le madamine arancioni usa e getta e si tuffa a pesce su Salvini. Il madamino verde.

Congresso Pd, guerra di numeri: Martina più vicino a Zingaretti

Sorpresa nel congresso Pd: i primi numeri fatti filtrare dal Nazareno sono molto diversi da quelli diffusi dai circoli. Il vantaggio di Nicola Zingaretti, a quanto si apprende, sarebbe meno ampio del previsto e la partita dunque ancora aperta. A votare sono stati 181.611 iscritti del Partito democratico. Il governatore del Lazio si ferma al 47% (86.229 preferenze), non vicinissimo a quel 50 che gli consentirebbe di gestire il partito senza dover cercare un accordo con le altre correnti. Maurizio Martina ha rosicchiato parte del suo vantaggio e arriva al 37% (66.488). Ora dovrà cercare di colmare i 10 punti di distacco alle primarie del 3 marzo. Più lontano il candidato renziano Roberto Giachetti, che ottiene 21.212 voti tra gli iscritti e si ferma all’11.68%. Francesco Boccia non va oltre il 2,52% (4.577 consensi), poi ci sono Dario Corallo (0,95%, 1.725) e Maria Saladino (0,76%, 1.380).

Come scritto, però, le cifre diffuse dai circoli locali sono decisamente diverse: Zingaretti sarebbe ad un passo dal 50 percento e Martina staccato di 15 punti. Sarà la commissione di garanzia del Congresso a sciogliere il nodo.

Deroga allo Statuto: può candidarsi anche chi corse contro il M5S

Arriva una nuova deroga allo Statuto dei Cinque Stelle. La norma derogata è quella che vieta le candidature alle elezioni di chi in precedenza ha partecipato ad elezioni con partiti concorrenti al Movimento. La deroga – si specifica – varrà “esclusivamente per i portavoce uscenti ed eletti con il Movimento 5 Stelle, in virtù del ruolo di portavoce che rivestono o hanno rivestito”. A deciderlo è il Comitato di Garanzia del M5s. La decisione, ha spiegato il siciliano Giancarlo Cancelleri – uno dei garanti – è stata presa per sanare i casi di alcuni esponenti del Movimento (come alcuni consiglieri uscenti) che erano stati eletti quando ancora non era stata introdotta la regola del divieto di candidatura per chi si era già presentato nelle liste di altri partiti.

Anche l’ex parlamentare (oggi consigliere regionale nel Lazio) Roberta Lombardi ha spiegato meglio la norma: “Questa decisione è stata presa perché alcuni consiglieri comunali 5 stelle erano stati candidati precedentemente con delle liste civiche contro il M5S, nei primi anni in cui questo si presentava alle elezioni. Si trattava di liste civiche vere, che non avevano apparentamenti con partiti”.

I grillini in Giunta: “Il ministro ha fatto l’interesse di tutti”

“Stiamo ancora valutando”. La posizione dei Cinque Stelle sull’affaire Salvini oscilla. In teoria dovrebbe contare solo la parola di Luigi Di Maio, che ha annunciato il voto unanime del Movimento contro il suo alleato. Ovvero il “sì” all’autorizzazione a procedere richiesta del tribunale dei ministri per il presunto sequestro di persone sulla nave Diciotti. Il problema è che i 7 senatori grillini che siedono in Giunta – coloro che materialmente si dovranno esprimere sulla vicenda – hanno convinzioni tutt’altro che granitiche.

Basta ascoltare Mario Michele Giarrusso (il più esperto della truppa, l’unico al secondo mandato): “Stiamo valutando – ripete come un nastro – non abbiamo ancora deciso niente”. Ma il senatore siciliano non nasconde le sue perplessità sull’autorizzazione a procedere: “Questo caso non c’entra niente con l’immunità parlamentare: il magistrato ha solo chiesto al Parlamento di valutare se il ministro ha agito o meno nell’interesse dello Stato”. E secondo Giarrusso, Salvini l’ha fatto: “Non lo dico io, lo dice Di Maio che le decisioni sulla Diciotti sono state condivise da tutto il governo – il vicepremier l’ha ribadito anche ieri sera a Quarta Repubblica, ndr – e allora non dovrebbe andare a processo solo Salvini, ma tutti quelli che hanno scelto insieme a lui. Anche Danilo Toninelli che ha chiuso i porti…”.

Un altro dei 7 grillini in Giunta, Mattia Crucioli, risponde nervosamente: “Non mi chieda come voterò, lo sa che non posso parlare. Se fossi un giudice in attesa di emettere una sentenza, mi farebbe la stessa domanda?”. Il senatore sembra ignorare che il giudizio dei Cinque Stelle in Giunta – e quindi anche il suo – è stato già anticipato pubblicamente dal capo del Movimento. Taglia corto: “Da me su questo argomento non avrà alcuna risposta”.

La confusione è grande, insomma. E la partita apertissima. Il lavoro della Giunta sul caso Salvini inizia domani mattina alle 11 e si chiude – almeno sulla carta – entro 30 giorni dal giorno in cui è stata inviata la domanda di autorizzazione a procedere: il documento è arrivato a Palazzo Madama il 23 gennaio, il voto dovrebbe tenersi quindi entro il 23 febbraio. Ma il termine non è vincolante: i senatori potrebbero anche sforare.

Il presidente della commissione è Maurizio Gasparri di Forza Italia: “Qualche giornale – spiega – ha scritto che Salvini avrebbe già inviato la sua relazione difensiva, ma è una grande sciocchezza. Anche perché non gliel’abbiamo chiesta: dobbiamo ancora iniziare. Dopo la mia relazione (oggi, ndr) daremo il tempo a Salvini di decidere se inviare una memoria scritta oppure se presentarsi di persona. Poi sarà il momento degli interventi, infine andremo il voto. Non credo proprio che ci vorrà meno di un mese”. L’ultima parola spetterà in ogni caso all’aula del Senato.

In Giunta, se i Cinque Stelle seguissero effettivamente la linea Di Maio, il destino del Capitano sarebbe segnato. A favore del leghista – e quindi contro la richiesta del tribunale – sono in 9: i 4 senatori del Carroccio, i 4 di Forza Italia e Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Dall’altra parte invece i voti sicuri sarebbero 11: i 7 dei grillini e i 4 del Pd (Giuseppe Cucca, Francesco Bonifazi, Nadia Ginetti e Anna Rossomando). Non hanno dichiarato il loro orientamento Pietro Grasso (che però dovrebbe essere favorevole all’autorizzazione), l’ex Cinque Stelle Gregorio De Falco e il sudtirolese Meinhard Durnwalder. Ma se i grillini andassero compatti sul “sì”, con il contributo del Pd, sarebbero sicuramente in maggioranza. Ieri sul tema si è espresso anche Matteo Renzi, via social network: “Dopo aver letto le carte con attenzione e senza alcun pregiudizio ideologico, voterò a favore della richiesta di autorizzazione a procedere”.

Le parole dell’ex premier sono l’ultimo tassello di un mosaico impazzito: i Cinque Stelle che votano contro il proprio alleato, Forza Italia e Meloni che vanno in soccorso del ministro del governo a cui fanno opposizione, il Pd che abbandona la tradizionale linea garantista e si schiera dal lato dei “manettari” grillini. E poi ci sono Giarrusso e gli altri colleghi, che in Giunta potrebbero sparigliare definitivamente le carte…

Luigi aggrappato a Matteo: uniti per sopravvivere

Se le danno e se le daranno. Sul Tav, innanzitutto, su cui vogliono scrivere una mozione di maggioranza che sia una scatola vuota, utile solo per rosicchiare altro tempo fino alla diffusione ufficiale dell’analisi costi-benefici. Ma Matteo Salvini e Luigi Di Maio si stimano, nonostante tutto. E sanno di aver bisogno l’uno dell’altro, per tenere a galla il governo e per difendersi dai loro peggiori avversari, quelli interni.

Così i due vicepremier cercano un punto di caduta comune, al di là delle frasi da grancassa. E vale anche per il Salvini che strepita tutti i giorni per il Sì alla Torino-Lione per far piacere alle imprese e ai salotti buoni del Nord, con l’obiettivo anche di disboscare definitivamente Forza Italia. Ma ripetere che “è assurdo fermare l’alta velocità ferroviaria”, come ha fatto ieri dalle frequenze di Rtl, è anche un modo per difendersi dai governatori, gli unici che dentro il Carroccio possono soffiargli sul collo. Ossia il lombardo Attilio Fontana e soprattutto il veneto Luca Zaia, che Salvini ha ventilato come possibile commissario europeo, nel nome del brocardo “promuovere per rimuovere”.

Un’idea che Zaia ha bollato come una battuta che non fa ridere. Invece sull’altro lato del fiume c’è Di Maio, che a una mediazione sul Tav nelle scorse settimane ha pensato, eccome. Tanto da affidare a un paio di membri di governo il compito di tenere i contatti con le varie parti in causa. Ma trattare sulla Torino-Lione non è più possibile. Perché Alessandro Di Battista ha posto il no all’opera tra le condizioni per tornare in campo. E perché il presidente della Camera Roberto Fico non accetterebbe cedimenti.

“Il no al Tav è l’identità del Movimento” ha ricordato sul Fatto. Così i due leader gialloverdi devono venirsi incontro per sopravvivere: almeno fino al voto di maggio, nonostante in diversi ripetano a Salvini di far saltare il banco (“e il primo è sempre Giancarlo Giorgetti” accusano dai 5Stelle). Per questo Di Maio ha anticipato a viva voce al leghista che la linea del M5S sarà votare sì al rinvio a giudizio in Senato, “perché altrimenti il gruppo non reggerebbe, non possiamo derogare a un nostro princì pio”. E il ministro dell’Interno, dicono, ha mostrato di aver compreso. “Però ora sono cresciuti i timori per un eventuale processo” sussurrano. E c’è la galassia della Lega che si agita. Un nodo evidente anche in casa 5Stelle, dove ieri alcuni deputati sono tornati a chiedere “chiarimenti” sul disegno di legge sulla legittima difesa, intoccabile per la Lega.Intanto serve una quadra sulla mozione sul Tav.

E la cercano da ieri mattina deputati e tecnici di Carroccio e 5Stelle, trattando nella Montecitorio semi-deserta dove ieri è iniziata la discussione generale sulle mozioni degli altri, quelle di Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia tutte pro Tav. Con FdIche ha presentato il testo più lussureggiante, in cui chiede che il governo faccia tenere un referendum consultivo sulla realizzazione dell’opera “nelle regioni interessate (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia)”. M5S e Carroccio invece lavorano a un testo che rimanderà ogni decisione alla diffusione dell’analisi costi-benefici, che dirà di no, e lo sanno già tutti. E la difficoltà, raccontano, è la descrizione della fase successiva all’analisi. Perché i 5Stelle vogliono restare sul vago, mentre la Lega vorrebbe un impegno preciso sul’opera.

E comunque il governo spera che la votazione delle mozioni slitti, di parecchio. Perché questa settimana terrà banco il disegno di legge costituzionale sul referendum, e la prossima si discuterà dei decreti, partendo dal Semplificazioni. “Il tema Tav potrebbe scivolare a metà febbraio” dicono. Nell’attesa il M5S fa muro, anche con il sottosegretario Mattia Fantinati: “Se il territorio non vuole il Tav e le analisi sui costi sono negative a chi conviene farla, ai vecchi ‘prenditori’ di soldi pubblici?”.

La Lega: “Tutto il governo a processo con Salvini ”

Matteo Salvini continua a chiarire in privato che se anche il Movimento 5 Stelle dovesse votare sì alla sua autorizzazione a procedere, il governo non cadrebbe. Però, la conseguenza che sta facendo veicolare ai suoi è che l’intero governo dovrebbe seguire la sua sorte ed essere processato, visto che le scelte sono state condivise, altrimenti perderebbe la sua ragion d’essere.

Perché la campagna elettorale per le Europee ha il suo peso, la valutazione della convenienza politica è fondamentale, ma quello che sta diventando sempre più chiaro a Matteo Salvini – dopo la richiesta di processarlo avanzata dal Tribunale dei ministri di Catania per sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale – è che il rischio per lui è altissimo, in caso di condanna. Dal carcere fino agli effetti tutti da valutare sulla sua carriera politica. Se fosse condannato in via definitiva a una pena superiore ai 2 anni sarebbe incandidabile ai sensi della Severino. E il Senato dovrebbe votare la sua decadenza. Scenari lontanissimi nel tempo, ma comunque minacciosi. Perché oggi il leader della Lega può far evocare l’emergenza democratica e giocare il ruolo della vittima di una giustizia politica, ma i tempi cambiano rapidamente. “Va bene che la politica è una partita a scacchi, ma in questo caso ci sono dei risvolti personali da considerare”, sono i commenti che si fanno ai piani alti del Carroccio.

Salvini riflette. In un primo momento aveva addirittura dichiarato di essere pronto a rinunciare all’immunità. Ma già ieri mattina la posizione era evidentemente cambiata: “I Cinque Stelle decidano con coscienza. Non ho bisogno di aiutini nascosti. Io pongo il dubbio, chiedo se è normale che un ministro dell’Interno che, con l’appoggio dell’intero governo, ha fatto quello che ha promesso debba essere processato”, ha detto ai microfoni di Rtl. La riflessione è in corso da giorni: nel weekend, a Milano, il ministro ha incontrato alcuni fedelissimi. Come procedere, non l’ha ancora deciso. Domani, la Giunta per le autorizzazioni incardina la richiesta che lo riguarda, poi ha una settimana per presentare la memoria difensiva. Non è ancora pronta. Salvini non ha ancora detto ufficialmente se chiederà un sì o un no alla richiesta. Pensa di poter giocare da martire anche se il Senato dirà no all’autorizzazione a procedere, ancor di più se dirà sì.

La campagna elettorale per le Europee è praticamente regalata, e allora sta aspettando di capire come si muovono gli altri, per capitalizzare il più possibile. È anche una guerra di nervi con Luigi Di Maio. Infatti, i Cinque Stelle temono che alla fine possa chiedere un no, che loro non reggerebbero, per spaccare il gruppo. Sempre a fini elettorali. Però, il rischio personale resta alto. E allora, è già partita la caccia ai no: Salvini non vuol chiederli chiaramente, ma il reclutamento è in corso. Tutta la Lega ieri ha fatto quadrato per dire che se viene processato Salvini, deve essere processato tutto il governo.

Parte Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia, forse il più vicino al titolare del Viminale in tutto l’esecutivo, con un’intervista alla Stampa: “Rimetterò nelle mani e nella volontà di Salvini il mio mandato per far capire che questa situazione non riguarda solo lui ma tutti i ministri. Indagate anche me. Anzi, dovrebbe essere indagato tutto il governo visto che in Consiglio dei ministri non ho mai sentito dei distinguo rispetto alla sua azione”. Rincarano i capigruppo di Camera e Senato, Roberto Molinari e Massimiliano Romeo: “Processare chi, nell’esercizio delle sue funzioni di ministro dell’Interno, ha contemporaneamente agito nel pieno rispetto delle leggi e della Costituzione e ottemperato al mandato ricevuto dagli elettori, significa inequivocabilmente tentare di processare il governo”.

Dal Viminale fanno filtrare che il governo non cadrà se i Cinque Stelle votano sì. Ma quello che sta succedendo è che la Lega sta mettendo in dubbio la legittimità di tutti gli altri ministri, sta invitando i vari Danilo Toninelli e Luigi Di Maio a farsi processare, come Salvini. Anche perché cresce da più parti l’insofferenza nei confronti dell’alleato di governo. E la posizione del leader viene considerata da molti con una certa perplessità. Ieri nei corridoi di Palazzo Madama i senatori del Carroccio si sono nascosti tutti dietro “un no comment” e un “aspettiamo le indicazioni di Matteo”, ma in realtà non parlavano d’altro.