Afghanistan, gli Usa pronti alla pace. Ma in Italia si litiga

“Il primo tangibile passo per finirla con venti anni di guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti e ha cambiato la politica estera degli Stati Uniti”. Il commento del New York Times alla propria notizia appena sfornata, ha il sapore della storia. Eppure, “l’accordo di principio” che avrebbero trovato Stati Uniti e Talebani, in Italia si trasforma in una rissa di governo che non tiene in alcuna considerazione la portata di quanto sta accadendo oltreoceano.

La notizia che la ministra Elisabetta Trenta “ha dato disposizioni al Coi (Comando operativo interforze, ndr) di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan entro 12 mesi” fa esplodere, infatti, l’ennesimo scontro non solo tra M5S e Lega, ma anche tra i primi e il ministro degli Esteri che si dichiara “all’oscuro” della decisione della collega. Eppure il passaggio è epocale.

Le avvisaglie che qualcosa si stesse muovendo erano giunte lo scorso 23 gennaio quando il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato: “Dopo che gli americani hanno accettato di porre fine all’occupazione dell’Afghanistan e di impedire l’uso del Paese per operazioni future contro altri Stati, i colloqui con i rappresentanti statunitensi si sono svolti oggi a Doha, la capitale del Qatar”. Prima del vertice si era tenuto un meeting alla fine di dicembre.

Secondo quanto dichiarato dal mediatore americano, Zalmay Khalilzad, i termini dell’accordo “di principio” prevedono che i Talebani garantiscano che l’Afghanistan non sia una piattaforma operativa per gruppi terroristici. Oltre a questo dovrebbero garantire anche “un cessate il fuoco” e la ripresa del dialogo con il governo di Kabul.

Impegni complessi e infatti l’accordo al momento costituisce una intelaiatura che dovrà essere esaminata attentamente dalle parti, soprattutto dai Talebani. Ma il solo fatto che sia stato annunciato costituisce una novità rilevante. I 17 anni di guerra hanno segnato la strategia militare e di politica estera imposta agli Usa da George W. Bush e dall’ala politica e intellettuale dei neocon. Da questa impostazione sembra che ora si voglia tornare indietro.

La mossa aiuta a comprendere anche la fretta con cui Donald Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria ribaltando quindi la strategia del “Grande Medioriente”, cioè della presenza stabile di truppe americane dal Mediterraneo fino ai confini della Cina. Gli Usa hanno ancora 14.500 uomini in Afghanistan e lo scorso mese Trump ha dichiarato di volerne ritirare 7.000. Se l’accordo andasse in porto si potrebbe immaginare un ritiro più completo e quindi una nuova fase geopolitica con un ruolo diverso per gli attori locali, Iran in testa.

La notizia diffusa dal New York Times nel primo pomeriggio, ora italiana, ha avuto l’effetto di far scattare l’iniziativa del Movimento 5 Stelle. Perché, a giudicare dalle dichiarazioni successive, l’idea di annunciare il ritiro delle truppe italiane entro 12 mesi non è una mossa isolata della ministra Trenta.

Che sia così lo si comprende dall’irritazione leghista ribadita insistentemente. Il sottosegretario agli Esteri, la carica più alta della Lega in materia di politica internazionale, Guglielmo Picchi, dice chiaramente di “non saperne niente”. Ma anche il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, in visita a Gerusalemme, dice lapidario: “Lo sto apprendendo ora”. E anche Matteo Salvini prova a frenare Trenta, tanto che fonti della Difesa in serata hanno dovuto spiegare che la richiesta di “valutare una pianificazione” del ritiro del contingente italiano è stata “una decisione governativa condivisa con la Presidenza del Consiglio” e comunque si tratta di una decisione che rappresenta “una questione di sicurezza per i nostri militari” alla luce del possibile ritiro statunitense.

Osservazione logica: se gli Usa se ne vanno, non saranno certo gli 870 militari italiani sul campo a poter surrogare la forza militare americana.

Quindi la ministra Trenta chiama in causa il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e spiega che al momento vige solo una “richiesta” di valutazione del ritiro e non certo la decisione di tornare a casa.

Dal Movimento 5 Stelle, però, parte la ola. Il più netto è Alessandro Di Battista che al Fatto dice: “Sono strafelice e faccio i complimenti alla ministra Trenta. Si tratta di una decisione che nessun governo, e in particolare un governo di centrosinistra, era riuscito a prendere”. Di Battista ricorda i soldi spesi per la missione, circa 7 miliardi in 17 anni, e non vede l’ora di vedere il rientro dei militari italiani. Ma poi ne approfitta per togliersi un sassolino dalla scarpa: “Chiedo a Gino Strada, di cui rispetto enormemente il lavoro svolto in Afghanistan, di dare a Cesare quel che è di Cesare e di valutare positivamente questo ritiro”.

Dal fronte delle opposizioni, invece, si mette il dito sulla piaga dello scontro tra M5S e Lega e si chiede che Trenta riferisca subito alle Camere. Anche la Nato interviene con una nota ufficiale dicendo che “è prematuro parlare di ritiro”. Ma il dibattito non sembra tenere conto per nulla del fatto centrale della giornata, la decisione americana.

Su Facebook l’Anpi sminuisce le foibe. Salvini: “Fate schifo”

Grande polemica in Veneto contro l’Anpi di Rovigo. Chi gestisce il profilo Facebook dell’associazione locale dei partigiani ha scritto – tra i commenti di un altro post – che “le foibe sono state inventate dai fascisti”. Una frase che ha scatenato la censura di praticamente tutti i partiti politici. Il primo a intervenire è stato il governatore del Veneto Luca Zaia: “È sconcertante e allarmante vedere come viene negata una tragedia immane come quella delle foibe da un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria”. Parole condivise e replicate da esponenti di Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma pure del Partito democratico. Come il deputato Emanuele Fiano: “Trovo molto grave che l’Anpi di Rovigo cancelli la vicenda delle foibe, i crimini contro l’umanità vanno ricordati tutti, e quello fu esattamente questo”. Ultimo, non per importanza, il commento di Matteo Salvini: “L’Associazione partigiani di Rovigo nega l’esistenza delle foibe, definendole ‘fandonie’. FATE SCHIFO. La sinistra che tanto ama e coccola i clandestini non si fa problemi a calpestare la memoria dei nostri connazionali massacrati per la sola colpa di essere ITALIANI”.

“C’è Grillo” e i diritti d’autore. Ecco come funziona la legge

A 26 anni dal suo ultimo show per la tv di Stato (era il 1993), Beppe Grillo torna a far discutere, e molto, in Rai. Le polemiche sulla messa in onda, ieri sera, della trasmissione C’è Grillo, dove è stata ripercorsa la carriera del comico genovese, si sono rincorse per tutta la giornata. A parte quelle squisitamente politiche, gli scontri tra maggioranza e opposizione hanno riguardato anche la questione economica. La Rai, infatti, per realizzare il programma ha sborsato 30 mila euro. È tanto? È poco? Facciamo chiarezza.

Per le immagini che fanno parte del patrimonio Rai, Viale Mazzini non tira fuori un euro. Techetecheté, per esempio, il programma con immagini prese dalle Teche Rai, alla tv di Stato non costa nulla. In questa categoria ricadono le immagini andate in onda ieri sera tratte da Fantastico, Festival di Sanremo, Te la do io l’America, Te lo do io il Brasile. Ovvero i programmi Rai con protagonista o ospite Beppe Grillo. Caso diverso sono invece le immagini che non fanno parte del patrimonio Rai (spettacoli teatrali, ecc.): in quel caso per trasmetterle Viale Mazzini paga i diritti d’autore. Su come si calcola il prezzo, però, torneremo più avanti.

C’è poi un terzo caso: immagini di programmi Rai su cui l’artista non concede il diritto di replica. La tv di Stato può trasmettere il programma una sola volta, per le repliche si pagano i diritti. L’esempio classico è Fiorello: l’ex dj non ha concesso i diritti di replica a Viale Mazzini che, se vuole trasmettere le sue vecchie performance, deve aprire il portafogli. “Per questo programma abbiamo acquistato solo pochi spezzoni degli spettacoli di Grillo dopo la sua cacciata dalla Rai. Non è molto materiale, per il programma su Benigni spenderemo di più”, ha spiegato ieri Carlo Freccero, il direttore di Rai2.

“Abbiamo utilizzato immagini fino al 2007, non c’è del Grillo politico”, aggiunge l’autore Marco Giusti.

Ma come si calcola il costo? “Il conto viene fatto secondo una tariffa per ogni minuto di messa in onda e cambia secondo due elementi: il fatturato dell’azienda e il genere della trasmissione. Un’emittente grande come la Rai paga di più, una piccola molto meno. Per genere s’intende in che tipo di trasmissione le immagini verranno trasmesse”, spiegano dalla Siae, che dalla cifra trattiene l’11,5%.

Tutto si rifà alla legge sul diritto d’autore (la n. 633 del 21/04/1941) e dall’accordo stipulato tra la tv e l’artista in questione. Nel caso di Grillo, la società di spettacolo di Aldo Marangoni, che cura l’immagine, tra gli altri, di Piero Chiambretti, Gene Gnocchi, Luca Laurenti, Franca Valeri e Renato Pozzetto. Dal Pd si è detto: Grillo rinunci a quei soldi. È possibile? Sì, un artista può rinunciare a incassare i diritti, ma non può rinunciare alla percentuale che spetta alla Siae, che va pagata.

E veniamo alla cifra. Trentamila euro sono tanti? Secondo gli addetti ai lavori, un programma di questo tipo costa in media 50 mila euro. Se paragonato ad altre tipologie di trasmissioni, poi, il costo è basso. Una fiction in prima serata si aggira sul milione di euro, un programma d’infotainment (informazione e intrattenimento) va dai 200 ai 450 mila (Fazio).

La politica però attacca. Se Maurizio Gasparri (FI) annuncia un’interrogazione in Vigilanza, Michele Anzaldi (Pd) ipotizza addirittura il reato di finanziamento illecito ai partiti: “Sono soldi elargiti a un esponente politico che ricopre la carica di garante del M5S”.

Draghi: “Italia cresce meno. Presto per dire se servirà correzione”

“Rispetto al passato l’Italia cresce meno e significativamente meno rispetto alle aspettative. È un rallentamento che vale anche per altri, ma è più marcato in Italia”. Tuttavia è ancora “prematuro ipotizzare la necessità di rettificare il bilancio, non abbiamo ancora i dati”. Parola di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea (Bce) sentito in audizione alla commissione per gli Affari economici e monetari dell’europarlamento. Il governatore dell’Eurotower ha però lanciato altri messaggi al governo italiano, puntando sui soliti temi. “Un paese perde sovranità quando il livello del debito è tale che qualunque decisione passa al vaglio del mercato, cioè di attori che non votano ma determinano i processi”, ha detto Draghi. Una situazione “dovuta a decisioni politiche adottate dai governi di questi Paesi. E a quel punto non sono le regole che limitano il Paese: sono i mercati che dettano a quel Paese quello che è credibile o non credibile, quello che è fattibile o non fattibile”. Poi sul fronte economico Draghi ha rassicurato: “I rischi alle prospettive economiche si sono mossi verso il ribasso, ma la Bce può usare di nuovo “altri strumenti nella cassetta degli attrezzi” se le cose andassero “molto male”.

Pure la flax tax affossa la fattura elettronica

C’è l’architetto che da novembre ha rinviato a quest’anno l’incasso delle fatture o gli avvocati dello studio associato che fatturano come singoli professionisti e scaricano i costi sul titolare. E c’è chi medita di “appoggiarsi” all’amico che è riuscito a stare sotto l’agognato tetto dei 65mila euro per fatturare senza limiti le proprie prestazioni a prezzi e tasse scontate. Il popolo delle partite Iva sgomita e s’ingegna per cercare di ripararsi dal fisco sotto il grande ombrello della flat tax aperto dalla legge di Bilancio. Ma a fare da termometro alle novità fiscali sul lavoro autonomo è l’altra nuova creatura uscita dalla mente dei governi di centrosinistra: la fattura elettronica. Dal primo gennaio il cervellone dell’Agenzia delle Entrate ha ricevuto una media di 2,65 milioni di documenti al giorno. Un dato ben lontano dalle 8,5 milioni di fatture che ci si aspettano a regime, come stimato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, che prevede la trasmissione di 3 miliardi di documenti nel 2019. Numeri che potrebbero cambiare ma non di molta in attesa che a fine mese arrivino agli italiani le fatture delle bollette di gas, luce e telefono. Gli operatori che hanno inviato in queste prime settimane almeno una fattura sono 700mila: ne mancano all’appello ancora 2,1 milioni: che fine hanno fatto?

Le associazioni imprenditoriali incolpano la complessità e i costi di gestione imposti dalla legge. Molti contribuenti starebbero approfittando della mancanza di sanzioni per chi ritarda nei primi mesi di applicazione della normativa per prendere tempo. “Qui veramente non fattura più nessuno”, ci dice sconsolata una commercialista con studio in un popoloso quartiere romano. In effetti l’elenco degli esonerati dall’emettere la fattura digitale è corto, ma corposo e riguarda tutti gli operatori sanitari, i produttori agricoli e chi ha optato per l’applicazione del regime forfettario allargato. Il meccanismo della flat tax estende, infatti, l’esenzione anche a tutti coloro che nel 2018 hanno dichiarato di incassare dalla loro attività lavorativa autonoma non più di 65mila euro. E in pratica chi lo ha dichiarato, nel 2019 potrebbe fatturare anche milioni di euro di corrispettivi , sui quali si applicherebbe la sola Irpef con un’aliquota del 15%.

Nel 2020 la finestra si chiude e chi ha “splafonato” dovrà stare fermo un giro. Tuttavia nel 2020 il tetto del 2019 dovrebbe essere addirittura portato a 100mila euro, che equivale già a esentare l’80% delle partite Iva. Insomma, la legge ha fatto la pentola e non il coperchio. Ma ne ha anche sollevato un altro in modo assai rischioso per le entrate dello Stato e per la lotta all’evasione. Uno dei meccanismi anti-evasione in questi anni è stato, infatti, il “contrasto degli interessi” che si crea quando la convenienza a evadere dell’uno trova un ostacolo nella convenienza a rendere nota la transazione al fisco da parte dell’altro. È il caso delle spese sanitarie e di quelle per le ristrutturazioni edilizie. Il concetto è sembrato a tutti l’uovo di Colombo, tanto che in molti invocano da tempo di estenderlo anche agli scontrini. Poi però è arrivata la flat tax: l’Iva non si paga e la convenienza a chiedere la fattura per “scaricarla” svanisce. Ma non è il solo difetto. Il regime forfettario a favore dei lavoratori autonomi è anche iniquo nei confronti dei dipendenti, perché prevede un minor carico fiscale (8 punti in meno dell’aliquota Irpef più bassa) a parità di imponibile. Inoltre sta distorcendo il meccanismo dei prezzi e della concorrenza: l’operatore “flat” non aggiunge l’Iva sul prezzo come tutti gli altri, risultando così, agli occhi del consumatore finale, più conveniente.

L’ex capo assunto e poco altro. Centinaio si scorda il Turismo

Sarà pure vero che il turismo è il petrolio d’Italia, come ripetono tutti, ma il governo giallo-verde continua a trattarlo come una Cenerentola. In campagna elettorale la Lega aveva promesso che una volta al governo avrebbe dedicato un’attenzione speciale al settore affrancandolo dalla condizione di semplice ancella del ministero dei Beni culturali in cui era stato confinato. Ora al governo la Lega c’è da oltre sei mesi e un suo esponente, Gian Marco Centinaio, avrebbe dovuto mettere in pratica le buone intenzioni una volta diventato ministro, ma delle promesse è stato mantenuto poco o niente.

Invece di diventare un ministero a se stante o almeno una costola nobile della presidenza del Consiglio, il turismo, settore vitale che assicura il 13 per cento della ricchezza nazionale e dà lavoro al 14 per cento di chi ha un’occupazione, è stato prima infilato dentro al ministero dell’Agricoltura di cui Centinaio è titolare e poi dimenticato in un limbo. Il turismo è insomma sparito dai radar a livello istituzionale e quando si è trattato di dare agli operatori del settore un segnale politico di discontinuità con la legge di Bilancio, la parola “turismo” non è stata inserita nel testo neanche una volta. Non può essere stata una dimenticanza e il peggio purtroppo è che non c’è alcun ripensamento, anzi, le prospettive appaiono peggiori. Per fortuna i turisti tutto questo neanche lo immaginano e in Italia continuano a venirci più che volentieri e in numero sempre maggiore.

L’unica mossa concreta e visibile è stata per l’Enit, l’Ente del turismo: Evelina Christillin, scelta 4 anni fa da Matteo Renzi, è stata messa da parte e al suo posto è stato nominato non senza polemiche Giorgio Palmucci, che era stato capo proprio del ministro Centinaio quando quest’ultimo era un semplice direttore vendite del Club Med. La struttura non è stata sfiorata e l’Enit resta quella macchina ingolfata di sempre, capace tutt’al più di promuovere fiere in giro per il mondo con ritorni economici più che dubbi. Al momento della nomina Palmucci era vicepresidente di Th Resort, società che gestisce alcuni villaggi Valtur partecipata al 46 per cento dalla Cassa Depositi e Prestiti a sua volta controllata dal Tesoro. E pure questa circostanza ha sollevato un mare di obiezioni sull’esistenza di possibili conflitti di interessi.

Forse rendendosi conto che stava superando il segno, a un certo punto Centinaio ha dato mandato agli uffici dell’Agricoltura di predisporre un testo per conferire al turismo almeno il rango di Dipartimento. Il provvedimento preparato prevedeva però che il turismo stesso dovesse convivere con le Foreste e la Caccia, temi anche importanti, ma da sempre laterali nell’azione di governo. Palazzo Chigi ha chiesto al Consiglio di Stato un parere e il Consiglio ha detto che quell’atto non andava bene. Nel frattempo al ministero dell’Agricoltura sono stati assegnati 46 milioni proprio per lo sviluppo del settore turistico mentre 21 dipendenti sono migrati dal ministero della Cultura. Ma è come se fossero stati sparpagliati sul tavolo i mattoncini della Lego: ci vorrebbe che qualcuno, magari il ministro, desse loro una forma, ma non avviene.

Per ora il turismo vero, quello della gente che va e viene e fa le vacanze in Italia, sembra non risentire di queste macroscopiche sottovalutazioni, ma prima o poi le conseguenze si faranno vedere. Dario Franceschini, il ministro precedente, almeno una l’aveva azzeccata avviando il tax credit, molto apprezzato dagli operatori turistici perché consentiva loro di ristrutturare alberghi e simili con uno sgravio fiscale. Ma è triennale, sta andando verso l’esaurimento e non è stato rinnovato. Sorte simile per il Fondo di garanzia, l’ufficio che finora aveva protetto i turisti rimborsandoli in caso di truffa delle agenzie di viaggi. Il Fondo c’è, ma manca chi abbia il potere di farlo funzionare all’occorrenza. Finito anch’esso in un limbo.

Protesta degli Ncc: scontri davanti a Palazzo Madama

Sono tornati a mobilitarsi i noleggiatori con conducente (Ncc) protestando davanti a Palazzo Madama, mentre ieri era in corso l’esame del decreto legge sulle Semplificazioni. Nonostante la stretta del Quirinale, gli emendamenti relativi agli Ncc non sono, infatti, saltati introducendo così una giro di vite per gli autisti ai quali viene per la prima volta viene limitata l’attività soltanto alla provincia di appartenenza, dove possono avere altre rimesse oltre a quella situata nel Comune che ha rilasciato l’autorizzazione. Ma questo, di fatto, gli impone il ritorno alla base alla fine del servizio, mentre di solito le auto a noleggio con conducente operano con licenze rilasciate da Comuni di altre Regioni. La protesta è poi degenerata con lanci di fumogeni e una parte dei manifestanti che ha cercato di avvicinarsi all’ingresso del Senato con 6 poliziotti rimasti contusi per lo scoppio di un grosso petardo. Poco prima gli Ncc avevano incontrato il vicepremier Salvini, spiegandogli che con la riforma sono a rischio 80mila imprese. Ma il ministro dell’Interno gli ha solo assicurato che ci sarà un confronto con il viceministro ai Trasporti Rixi.

Reddito, chi non spende tutto perde i risparmi

Il cantiere del reddito di cittadinanza è sempre aperto: dopo la pubblicazione del testo finale del decreto che lo istituisce, restano da fare alcuni provvedimenti attuativi, il più delicato dei quali riguarda il vincolo a spendere l’intero importo ricevuto.

Secondo l’articolo 3 del decreto legge, “il beneficio è ordinariamente fruito entro il mese successivo a quello di erogazione”. Altrimenti c’è una penalità: l’assegno successivo erogato sulla carta di Poste Italiane viene tagliato del 20 per cento. Ogni sei mesi, poi, c’è un’altra verifica e “viene comunque decurtato dalla disponibilità della carta l’ammontare complessivo non speso ovvero non prelevato nel semestre, fatta eccezione per una mensilità di beneficio riconosciuto”.

Nell’ipotesi di un disoccupato senza famiglia con reddito zero e un contratto di affitto superiore a 280 euro mensili, cioè l’unica categoria che riceverà esattamente i 780 euro promessi, dopo i primi sei mesi di sussidio il beneficiario dovrebbe assicurarsi di non avere sulla carta più di 780 euro. Oppure vedrà svanire l’eccedente.

Tutto questo è un po’ complesso da applicare nel concreto. Perché la carta del reddito di cittadinanza è distribuita e gestita da Poste Italiane, gli importi vengono erogati dall’Inps e le decisioni prese dal ministero del Lavoro. Poste, che pure ha il controllo in tempo reale delle disponibilità finanziarie dei beneficiari, non può prendersi la responsabilità di cancellare importi dalla carta in autonomia. E infatti il decreto legge precisa che sarà necessario un ulteriore decreto ministeriale – preparato di concerto tra Tesoro e ministero del Lavoro – per stabilire come funziona la penalizzazione per chi non spende tutto e, come prevedibile, “le possibili eccezioni” oltre che “le modalità attuative”.

Il governo ritiene che sia fondamentale assicurarsi che tutti i beneficiari di reddito di cittadinanza spendano l’intero importo per due ragioni. Primo: l’impatto sulla crescita dei 7 miliardi stanziati per il sussidio deriva dall’aumento previsto dei consumi, se invece ci fosse un tasso di risparmio si replicherebbe il problema del bonus degli 80 euro renziani (finiti in consumi per poco più della metà degli importi erogati). Secondo punto: il governo non può permettersi che i dati suggeriscano un eccesso di generosità. Se chi riceve i soldi – in media 500 euro a nucleo familiare – non li spende, gli avversari dei Cinque Stelle partirebbero all’attacco con le richieste di ridurre gli importi. Ma anche revocare soldi già erogati può avere un alto costo politico, come ha scoperto a sue spese il governo Renzi nel caso di chi, a posteriori, doveva restituire una annualità di bonus da 80 euro al mese perché risultava non più conforme ai requisiti.

Gli esperti di povertà che sono intervenuti nel dibattito intorno al decreto, invece, sono molto scettici sull’utilità di questo vincolo che costringe i poveri ad avere stili di consumo diversi da quelli di chi riceve altre prestazioni di welfare o ha redditi da lavoro. Anche chi vive con poche centinaia di euro al mese può avere la necessità di spendere meno un mese per affrontare una spesa maggiore il mese seguente: dall’acquisto di un cappotto per l’inverno al cambio dell’automobile o alla riparazione di un elettrodomestico.

Il vincolo a consumare tutto rende più difficile la programmazione anche se ci sono comunque i 100 euro che si possono prelevare in contanti ogni mese che, per sfuggire alla tagliola, possono diventare risparmio da accumulare, letteralmente, sotto il materasso invece che sulla card.

Altro che “Semplificazioni”. Mattarella ferma il decreto

Alla fine lo stop è arrivato dal Colle di Sergio Mattarella. Il decreto cosiddetto “Semplificazioni”, diventato un mostro parlamentare in cui è entrato di tutto, è tornato ieri alle sue dimensioni più o meno originali. Dopo i dubbi fatti trapelare dal Quirinale, la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ha cassato decine di emendamenti approvati nelle Commissioni in Senato.

Non è una novità. Le pessime pratiche – infilare la qualunque nei decreti d’urgenza e nelle leggi di conversione – sono dure a morire, ma le liti interne alla maggioranza gialloverde e una presa, per così dire, debole sui lavori parlamentari si traduce in consistenti assalti a suon di emendamenti. La Consulta si è già pronunciata nel 2012 contro questa pratica. E stavolta, peraltro, si è esagerato. Approvato il 15 dicembre scorso, il Semplificazioni si era già ridotto in Consiglio dei ministri da 21 a 12 articoli. Approdato in Senato (commissioni Affari costituzionali e Lavoro) si è poi trasformato in un omnibus di decine di pagine. La maggioranza ci ha infilato dentro di tutto: micro-norme che rispondono a questo o quel senatore, grandi temi estranei a quelli del testo (snellimento burocratico) e varie amenità.

Forte della sponda del Quirinale, ieri Casellati ha sfoderato la mannaia. Su 85 modifiche approvate, ne ha salvate solo 23, che saranno votate a partire da oggi in aula.

Tra quelle cassate, ci sono temi sensibili come la proroga dello stop ai tributi per i danneggiati dal crollo del ponte Morandi, le norme a favore dei Caf e quelle che permettevano l’accesso ai concorsi di Medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza anche ai medici senza specializzazione che avessero maturato 4 anni di servizio presso i Pronto soccorso. Non sono passati neanche gli stanziamenti per “il vestiario” della Polizia e il blocco ai trasferimenti da scuola a scuola per 5 anni di tutti i neodocenti. È saltato pure il favore ai concessionari autostradali, per i quali Lega e M5S avevano deciso di far slittare di un anno l’obbligo di mettere a gara il 60% dei lavori oltre i 150mila euro (e farseli in house, con l’opacità che ne deriva). Altra vittima illustre, sempre bipartisan, è la linea dura su Xylella, con l’obbligo di eradicare gli ulivi infestati e il carcere per chi non si adegua, bocciata da Beppe Grillo (“roba horror”).

Tra i sopravvissuti ci sono invece le trivelle. Dopo le liti Lega-M5S, si è deciso di sospendere per 18 mesi i permessi di ricerca e il rialzo dei canoni di concessione. Resta l’emendamento che consegna la regia dell’Agenda digitale a Palazzo Chigi. E quello sul noleggio con conducente (gli Ncc usati da Uber): viene allentata la stretta, consentendo agli autisti di non dover rientrare in rimessa per accettare la prenotazione ma le sigle restano in rivolta e ieri hanno protestato davanti a Palazzo Madama. Sopravvive anche il ripristino dell’Ires agevolata per gli enti non profit, cancellata in manovra dal governo che poi se l’è rimangiata per le proteste. Tra le norme micro settoriali, restano quasi solo i 10 milioni per le vittime di Rigopiano.

Il decreto sarà approvato in fretta e passerà alla Camera blindato. L’ok deve arrivare entro il 12 febbraio ed è assai probabile il ricorso alla fiducia. Ieri la maggioranza non si è lamentata della mannaia della Casellati, anzi. La consapevolezza di aver esagerato è filtrata nelle stesse chat dei parlamentari M5S. La decisione, in qualche modo, influenzerà anche l’iter del decreto Carige alla Camera. I 5Stelle avevano studiato molte modifiche, dallo stop alle “porte girevoli” per i funzionari di Banca d’Italia al ripristino delle norme penali ante ‘92 per i banchieri responsabili dei dissesti fino a una norma per scoraggiare pressioni ai dipendenti per vendere prodotti a rischio (studiata col sindacato Fabi). Avrebbero trasformato il testo (che riguarda solo la banca ligure) in una vera riforma del diritto bancario. Il Tesoro ha chiesto di evitare modifiche. Lega e M5S hanno accettato. Il governo boccerà quasi tutti gli emendamenti che saranno depositati entro oggi alle 15.

È scontro tra Regione e sindacati per le assunzioni anche se ci sono già 1.784 impiegati (è il record)

Sono solo il 30% i laureati (e il 15% tra i futuri dirigenti) tra i 1.784 impiegati dei centri per l’impiego siciliani chiamati a fronteggiare l’assedio degli utenti a caccia del reddito di cittadinanza e il dato, emerso nell’incontro di due giorni a Roma tra la rappresentanza siciliana – composta dagli assessori Mariella Ippolito e Roberto Lagalla, i funzionari del ministero e i presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato – preoccupa i tecnici del ministero dello Sviluppo economico: i timori arrivano dalla formazione ed è per questo che le parti si sono riaggiornate al 20 febbraio in attesa di nuovi dati prodotti da Lagalla. A Palermo, intanto, si cerca di rimediare alle vecchie disfunzioni: nel centro per l’impiego del capoluogo siciliano – che dieci giorni fa ha vissuto una giornata di ressa agli sportelli, con centinaia di utenti inferociti a protestare per un problema alla piattaforma informatica che ha paralizzato il servizio – dietro le scrivanie ci sono almeno dodici impiegati, in netto aumento rispetto ai quattro di qualche mese fa. Disfunzioni che sono proseguite fino a mercoledì scorso per il sovrapporsi delle prenotazioni online attivate da una sola settimana e quelle allo sportello. “C’è stata un po’ di confusione”, dicono Rosalia Benigno e Sara Ingrassia. Quello di via Praga è l’unico centro per l’impiego della città, mentre la Sicilia è la Regione che conta più sportellisti in assoluto (1.784) e per ora è in corso uno scontro tra Regione e sindacati: in vista del prevedibile assedio per il reddito di cittadinanza l’assessore al Lavoro Ippolito vuole assumere nuovi precari, i sindacati si oppongono sostenendo che non c’è alcun bisogno. E denunciano la violazione dei diritti del personale in servizio, bloccato nelle progressioni di carriera. Altro problema è quello dei controlli nelle aziende: in tutta la Sicilia ci sono 97 ispettori (e 65 carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro), di cui solo quattro a Palermo. Ma hanno sondato la disponibilità degli impiegati regionali a fare gli ispettori e il reclutamento è andato deserto: nessuno vuole controllare il lavoro altrui.