Riforma avviata due anni fa: più risorse e servizi. “I navigator non servono, c’è il job account”

Non si chiamano navigator, ma Job account. E ogni giorno con il loro tablet vanno a visitare le aziende sul territorio illustrando incentivi e opportunità legati all’assunzione di nuove figure professionali. In Sardegna la riforma dei centri per l’impiego è già una realtà e sta funzionando con risultati concreti certificati anche dalle ultime rilevazioni Istat sul fronte del lavoro.

La disoccupazione è, infatti, passata dal 19 per cento del 2008 all’11 del 2018, vale a dire il miglior risultato storico dagli ultimi decenni. Mentre gli occupati dal 2014 sono cresciuti di oltre 70 mila unità (da 550 mila a 627 mila). Un’accelerazione dovuta anche alla stabilizzazione di oltre 300 dipendenti dell’Aspal, l’Agenzia regionale per il Lavoro che sono andati a integrare un organico già esistente portandolo a 800 figure professionali dedicate. “I navigator non ci servono. In soli due anni dalla nascita dell’agenzia abbiamo potenziato risorse, servizi e formazione: il 73% del personale è laureato, a fronte del 26% dei centri per l’impiego nel resto d’Italia”, spiega Massimo Temussi, direttore Aspal. Il riscontro è un sorprendente, + 464% di performance di accesso ai servizi dei centri per l’impiego. “Nel 2018 in Sardegna abbiamo siglato 128.321 patti di servizio (ossia prese in carico integrali del disoccupato) fino all’accettazione dell’eventuale offerta di lavoro. Nel Sud Sardegna sono trentamila, a Cagliari 7.712 e a Quartu 11.200. La percentuale degli assunti effettivi è del 7%, ovvero 500 lavoratori in più in un anno, a fronte di una media italiana del 3%. Le persone che hanno comunque ricevuto un orientamento specifico rappresentano oltre il 30% di chi ha firmato il patto di servizio. La Sardegna è vista ormai come un modello”, dice Temussi. “Ora la grande sfida è la formazione verso le professioni digitali”.

I Centri per l’impiego

 

Napoli – In Campania si teme afflusso record

Pochi dipendenti per una platea di migliaia di beneficiari: “Vanno raddoppiati gli addetti”

Indossa un giacconemimetico da guerra, dice di chiamarsi Gennaro e di avere 47 anni: “Da 25 anni mi iscrivo al collocamento e non ho mai ricevuto un’offerta di lavoro”. E allora che viene a fare qui, spera nel reddito di cittadinanza? “Non credo di averne diritto, mia madre ha una pensione… Mancavo da tempo… Ma qui non è cambiato niente…”. Centro per l’impiego di via Diocleziano a Fuorigrotta, il più grande di Napoli. Alle 11 un piccolo esercito di giovani e di persone di mezz’età è in fila da ore, occhi sul pavimento. Non alzano nemmeno più lo sguardo verso la bacheca delle offerte di lavoro. Ce ne sono una quarantina: un carpentiere, addetti di call center, animatori turistici, due parrucchieri per signora, cose così. C’è richiesta anche di un ingegnere energetico. Il deflusso è lento e regolare. La guardia giurata ripete a ogni nuovo arrivato: “Se non la chiamiamo entro l’una meno un quarto deve tornare un altro giorno”. Ci sono 5 impiegati e riescono a ricevere sino a 100 persone al giorno. Si respira un’atmosfera di stanchezza e di inutilità. “Si viene qui solo per rinnovare i certificati di disoccupazione”, sostiene una ragazza. Torneranno utili con l’avvio del Rdc. “La misura potrebbe riguardare circa 390 mila nuclei familiari in Campania, 230 mila nella sola Napoli e provincia – spiega al Fatto l’assessore regionale al Lavoro, Sonia Palmeri – e per affrontarla abbiamo bisogno di raddoppiare almeno i 561 dipendenti in organico nei Cpi, insufficienti già ora per gestire il Rei, la Naspi, le misure regionali e quelle nazionali tipo Garanzia Giovani”. Negli ingressi dei Cpi campani campeggia una circolare che vieta ai dipendenti di interloquire con la stampa. Qui viene interpretata dando disposizione di cacciare via il cronista che sta parlando con la gente in fila. “Devo impedirle di esercitare il suo lavoro – le parole della guardia giurata – chi mi ha dato l’ordine? Non glielo posso dire”. E quindi a chi lo contesti il paradosso di un centro per il lavoro dove si vuole impedire a uno di lavorare?

Vincenzo Iurillo

 

Cagliari – La Sardegna è all’avanguardia

Riforma avviata due anni fa: più risorse e servizi. “I navigator non servono, c’è il job account”

Non si chiamano navigator, ma Job account. E ogni giorno con il loro tablet vanno a visitare le aziende sul territorio illustrando incentivi e opportunità legati all’assunzione di nuove figure professionali. In Sardegna la riforma dei centri per l’impiego è già una realtà e sta funzionando con risultati concreti certificati anche dalle ultime rilevazioni Istat sul fronte del lavoro.

La disoccupazione è, infatti, passata dal 19 per cento del 2008 all’11 del 2018, vale a dire il miglior risultato storico dagli ultimi decenni. Mentre gli occupati dal 2014 sono cresciuti di oltre 70 mila unità (da 550 mila a 627 mila). Un’accelerazione dovuta anche alla stabilizzazione di oltre 300 dipendenti dell’Aspal, l’Agenzia regionale per il Lavoro che sono andati a integrare un organico già esistente portandolo a 800 figure professionali dedicate. “I navigator non ci servono. In soli due anni dalla nascita dell’agenzia abbiamo potenziato risorse, servizi e formazione: il 73% del personale è laureato, a fronte del 26% dei centri per l’impiego nel resto d’Italia”, spiega Massimo Temussi, direttore Aspal. Il riscontro è un sorprendente, + 464% di performance di accesso ai servizi dei centri per l’impiego. “Nel 2018 in Sardegna abbiamo siglato 128.321 patti di servizio (ossia prese in carico integrali del disoccupato) fino all’accettazione dell’eventuale offerta di lavoro. Nel Sud Sardegna sono trentamila, a Cagliari 7.712 e a Quartu 11.200. La percentuale degli assunti effettivi è del 7%, ovvero 500 lavoratori in più in un anno, a fronte di una media italiana del 3%. Le persone che hanno comunque ricevuto un orientamento specifico rappresentano oltre il 30% di chi ha firmato il patto di servizio. La Sardegna è vista ormai come un modello”, dice Temussi. “Ora la grande sfida è la formazione verso le professioni digitali”.

Paola Pintus

 

Palermo – Troppe le vecchie disfunzioni

È scontro tra Regione e sindacati per le assunzioni anche se ci sono già 1.784 impiegati (è il record)

Sono solo il 30% i laureati (e il 15% tra i futuri dirigenti) tra i 1.784 impiegati dei centri per l’impiego siciliani chiamati a fronteggiare l’assedio degli utenti a caccia del reddito di cittadinanza e il dato, emerso nell’incontro di due giorni a Roma tra la rappresentanza siciliana – composta dagli assessori Mariella Ippolito e Roberto Lagalla, i funzionari del ministero e i presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato – preoccupa i tecnici del ministero dello Sviluppo economico: i timori arrivano dalla formazione ed è per questo che le parti si sono riaggiornate al 20 febbraio in attesa di nuovi dati prodotti da Lagalla. A Palermo, intanto, si cerca di rimediare alle vecchie disfunzioni: nel centro per l’impiego del capoluogo siciliano – che dieci giorni fa ha vissuto una giornata di ressa agli sportelli, con centinaia di utenti inferociti a protestare per un problema alla piattaforma informatica che ha paralizzato il servizio – dietro le scrivanie ci sono almeno dodici impiegati, in netto aumento rispetto ai quattro di qualche mese fa. Disfunzioni che sono proseguite fino a mercoledì scorso per il sovrapporsi delle prenotazioni online attivate da una sola settimana e quelle allo sportello. “C’è stata un po’ di confusione”, dicono Rosalia Benigno e Sara Ingrassia. Quello di via Praga è l’unico centro per l’impiego della città, mentre la Sicilia è la Regione che conta più sportellisti in assoluto (1.784) e per ora è in corso uno scontro tra Regione e sindacati: in vista del prevedibile assedio per il reddito di cittadinanza l’assessore al Lavoro Ippolito vuole assumere nuovi precari, i sindacati si oppongono sostenendo che non c’è alcun bisogno. E denunciano la violazione dei diritti del personale in servizio, bloccato nelle progressioni di carriera. Altro problema è quello dei controlli nelle aziende: in tutta la Sicilia ci sono 97 ispettori (e 65 carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro), di cui solo quattro a Palermo. Ma hanno sondato la disponibilità degli impiegati regionali a fare gli ispettori e il reclutamento è andato deserto: nessuno vuole controllare il lavoro altrui.

Giuseppe Lo Bianco

Il Vaticano, “la più grande comunità gay del mondo”

“Questo libro rivela il volto nascosto della Chiesa: un sistema costruito, dai seminari più piccoli alla curia romana, sulla doppia vita omosessuale e sull’omofobia più radicale”. Dal 21 febbraio, tradotto in otto lingue e diffuso in venti paesi, dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Polonia alla Spagna, dall’Australia al Regno Unito, Sodoma di Frédéric Martel sarà in libreria e promette di scatenare un putiferio in Vaticano. Sodoma, come la città biblica distrutta da dio per la sua empietà. Il francese Martel è giornalista, scrittore, sociologo dichiaratamente gay, non attivista Lgbt, autore di una dozzina di volumi, tra cui Mainstream e Global Gay, insegna all’Università di Zurigo, conduce un programma su Radio France, da ragazzo fu consigliere del primo ministro Michel Rocard. Martel ha lavorato quattro anni a Sodoma con un gruppo di oltre 80 ricercatori, ha visitato 30 Paesi e intervistato 41 cardinali, 52 vescovi, 45 nunzi apostolici, 11 guardie svizzere, ha frequentato il Vaticano per settimane. Un testo di 550 pagine e una tesi da sviluppare con i fatti: l’omosessualità repressa è il vero male della Chiesa cattolica. Sodoma non fa gossip, è un’inchiesta con tante voci di alti prelati. Martel sostiene che il Vaticano sia la più “grande comunità gay del mondo” e che Sodoma, molto dura nel ripercorrere le vicende del pontificato di Giovanni Paolo II e molto in sintonia con papa Francesco, possa spiegare gli scandali degli abusi sessuali nel mondo, a cominciare dal Cile e dal Messico.

Meno migranti, più integrati. Così fa (ora) la Germania

Era soddisfatto il ministro tedesco degli Interni Horst Seehofer nel presentare la settimana scorsa il Rapporto 2018 sulla migrazione e le richieste d’asilo in Germania. Rispetto all’anno precedente le domande sono diminuite del 16,5%. “Finalmente il governo di Berlino ha trovato un giusto equilibrio tra controllo e principio umanitario”, ha dichiarato il ministro.

Peccato che il controllo sul tema migranti, in questo momento, sfugga a lui in prima persona in una questione tanto delicata quanto importante: la sospensione dell’operazione navale Eunavfor Med Sophia. Con candore Seehofer ha ammesso di “non essere stato coinvolto” nella decisione del mancato avvicendamento delle navi tedesche nel Mediterraneo e che anche a lui “sarebbe interessato capire” da chi è venuta la decisione. Le due partite però – migranti e Sophia – hanno pubblico e attori diversi. Una si gioca sul piano del consenso interno, l’altra sul piano degli equilibri europei.

Sul piano degli affari domestici, il governo tedesco vuole mostrare al suo elettorato di avere voltato pagina sul tema. E ha buon gioco per farlo. Nel 2018 ci sono state 185.853 domande di asilo, di cui 161.931 prime richieste, in massima parte da siriani, iracheni e afghani. Un calo del 16,5% rispetto al 2017, un 40% in meno rispetto al 2016 quando erano state 280.000, e l’80% in meno rispetto al picco del 2015 con 890.000 richieste, secondo i dati del ministero degli Interni. Ma se le domande d’asilo diminuiscono, ad aumentare sono i soldi destinati all’integrazione.

Nel bilancio varato a ottobre sono stati previsti nel capitolo “prestazioni relative ai migranti” per gli anni 2019-2022 circa 21,4 miliardi, di cui circa 15 destinati ai Länder e ai Comuni che di fatto si occupano dell’integrazione dei migranti nella società tedesca, dall’alloggio ai “corsi di lingua e di integrazione”. Il sistema per stabilire il costo dell’integrazione sarà diverso rispetto al passato, ma si stima che nel prossimo futuro i Länder potranno contare su 5 miliardi in più e i Comuni su un miliardo in più rispetto a oggi, secondo quanto riporta la Süddeutsche Zeitung.

La lezione di questi anni per il governo tedesco è che investire bene nell’integrazione è l’unica strada per gestire il fenomeno, anche di fronte all’opinione pubblica. E meraviglia che a sostenerlo oggi sia proprio il cristiano-sociale Seehofer, alfiere del respingimento “senza se e senza ma”.

Che sia riuscita o meno a bilanciare l’equilibrio tra “principio umanitario” e “controllo”, la Germania dal 2015 ha lentamente cambiato rotta sui migranti. Le mosse sono state diverse, di lungo respiro e giocate su tanti piani: la chiusura della rotta balcanica e l’accordo Ue-Turchia nel 2016, la ripresa dell’applicazione del Trattato di Dublino e i relativi rimpatri dal 2017, lo stop dei ricongiungimenti familiari per due anni e mezzo e la stretta legislativa sui requisiti per l’accoglienza delle domande d’asilo. Infine gli accordi bilaterali con Grecia e Spagna sulla migrazione secondaria. Fino al 2017, la Germania aveva di fatto sospeso l’applicazione di Dublino nei casi di migranti provenienti da Paesi come Bulgaria, Grecia e Italia, che non avevano ancora attrezzato centri di accoglienza adeguati. Dalla metà del 2017 la tendenza è cambiata e l’anno scorso sono stati 9.209 i casi di migranti rimandati nei Paesi di primo approdo. Di questi, uno su tre è tornato in Italia, secondo quanto la Süddeutsche Zeitung. Da parte sua la Repubblica tedesca ha accolto 7.580 persone da altri Stati europei. Nonostante l’inversione di tendenza, la politica migratoria non è avviata verso un blocco tout-court ma punta sul controllo e sulla selezione degli accessi, conservando una quota di “umanitario”.

Quest’anno sono state accolte 3400 persone nell’ambito dei programmi di ricollocamento umanitario e ci sono stati 38.500 ricongiungimenti familiari. Ma soprattutto in discussione da ottobre c’è una bozza di legge che regola la migrazione della forza-lavoro dai Paesi terzi, non di provenienza Ue, di cui l’economia tedesca ha un disperato bisogno per ovviare all’assillo della carenza di manodopera specializzata. Lentamente il Paese si sta avviando verso una politica di migrazione legale selezionata.

Brexit, oggi è un altro voto. E cambia il deal

Giornata cruciale sul fronte Brexit e nello scontro ormai aperto fra governo e Parlamento britannici. Stasera alle 7 locali Theresa May affronta una serie di emendamenti che, se ammessi al voto dallo speaker della Camera John Bercow, accusato in passato di seguire una agenda anti-governativa, potrebbero cambiare radicalmente la direzione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Gli occhi sono puntati in particolare su due emendamenti all’accordo raggiunto fra Londra e Bruxelles, già bocciato dalla House of Commons il 15 gennaio con un umiliante scarto di 230 voti. Il primo, frutto di una alleanza bipartisan guidata dalla laburista Yvette Cooper e dal conservatore Nick Boles, punta ad evitare che il Regno Unito esca dall’unione europea il 29 marzo prossimo senza un accordo. Se approvato, consentirebbe ai parlamentari di votare già la prossima settimana una legge per obbligare il governo a rimandare Brexit di 9 mesi se un nuovo accordo non verrà raggiunto entro il 26 febbraio. Sempre che l’Ue sia d’accordo nel concedere più tempo.

La proposta Cooper-Boles dovrebbe avere il sostegno di parecchi deputati conservatori, mentre non è ufficiale il sostengo della leadership laburista. Il risultato finale è comunque incerto perché una trentina di deputati laburisti pro Leave potrebbero ribellarsi alle indicazioni della segreteria.

La sua approvazione avvierebbe una crisi costituzionale senza precedenti: il parlamento sottrarrebbe al governo il controllo sui prossimi passi, orientandoli verso una soft Brexit. Tanto che ieri erano insistenti le voci di un colpo di scena, con la May che reagirebbe invocando elezioni anticipate entro la settimana. La seconda proposta, del conservatore Graham Brady, ha l’appoggio del governo e del grosso dei Tories ma non dei Brexiters: supporta l’intesa già raggiunta con l’Ue ma a condizione che la back-stop nord-irlandese (la clausola di salvaguardia che, per evitare il ripristino del confine fisico fra le due Irlande, terrebbe Belfast allineata all’Ue se non si trova un’altra soluzione dopo il periodo di transizione) venga sostituita da “accordi alternativi” non precisati.

L’elefante nella cristalleria, insomma, resta la back-stop.

Per questo, e malgrado la chiara e reiterata indisponibilità di Bruxelles a riaprire il testo concordato, la May starebbe tentando l’ennesima, testarda mossa per rimuovere la clausola della discordia. Secondo uno scoop di Politico, il governo sta lavorando per resuscitare una sezione dell’accordo di recesso inclusa nella bozza del dicembre 2017 e poi cestinata nel prosieguo dei negoziati. Un paragrafo che garantiva che non ci sarebbero potute essere nuove barriere regolatorie fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna senza l’approvazione dell’assemblea parlamentare dell’Ulster. Secondo il think tank Policy Exchange, infatti, introdurre un nuovo regime senza il consenso dei nordirlandesi sarebbe una violazione di quegli accordi di pace che la back-stop vuole salvaguardare.

I soldati-fantasma di Putin a Caracas

I mercenari di Mosca sono arrivati a Caracas per proteggere Maduro. Russi in Venezuela: più fonti confermano che sono in Sudamerica 400 membri della compagnia paramilitare Wagner. Sono i soldati-fantasma già dispiegati in Crimea e Sudafrica, nelle guerre d’Ucraina e Siria, in ogni terreno di conflitto dove è necessario tutelare gli interessi russi, ma in silenzio e nell’ombra. Ora è battaglia a Occidente: è la prima volta che i soldati privati e segreti del Cremlino vengono spediti nell’emisfero a sud-ovest. Nella Capitale dei due presidenti, Guaidó e Maduro, saranno la guardia armata personale del caudillo socialista, alleato del Cremlino e dichiarato nemico di tutta la comunità internazionale occidentale. Il portavoce del presidente russo Putin, Dimitry Peskov, si è affrettato a smentire più volte la notizia sulla presenza dei mercenari di Mosca a Caracas: “Questo tipo di informazioni sono prodotte dal dipartimento della cospirazione”. Secondo la Reuters, invece, i soldati della compagnia di Evgeny Prigozhin, – quello che chiamano lo chef di Putin –, sono già attivi su suolo sudamericano. Una delle tre fonti della Reuters è Evgeny Shabaev, veterano che si batte per i diritti pensionistici dei mercenari. Shabaev viene aggiornato dai parenti dei militari ogni volta che vengono dispiegati su un nuovo teatro di guerra. Due mesi fa la Russia, che ha già fornito al Venezuela milioni di dollari in prestiti preventivi per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, ha spedito “come simbolo di sostegno” due caccia bombardieri Tu-160. Dai Tupolev agli Ilyushin: con questi aerei dell’amministrazione sarebbero stati effettuati voli giornalieri Mosca-Havana negli ultimi giorni, riferiscono giornalisti moscoviti. I 400 Wagner sarebbero poi stati trasferiti con voli commerciali da Cuba al Venezuela.

Oro, petrolio e affari mondiali: la corsa al Venezuela che conta

Lo stillicidio delle defezioni indebolisce giorno dopo giorno il potere di Nicolás Maduro. Ma non è – ancora? – l’esodo che forse l’autoproclamato presidente Juan Guaidó sperava. Scarlet Salazar, console del Venezuela a Miami, disconosce Maduro e riconosce Guaidó come legittimo presidente, chiedendo ai suoi colleghi negli Stati Uniti e in altri paesi di fare altrettanto.

Analogo passo aveva fatto nel weekend l’addetto militare del Venezuela a Washington, colonnello José Luis Silva Silva. Via tweet, Guaidó dà il benvenuto “a tutti coloro che vogliono essere coerenti con la Costituzione e con la volontà del popolo venezuelano”; estende la promessa d’amnistia anche ai prigionieri politici; chiede ai militari di non reprimere le proteste, “non sparate su chi manifesta pacificamente”.

I vertici militari, però, mantengono il sostegno a Maduro, dopo che il presidente, domenica, aveva personalmente partecipato all’avvio di esercitazioni delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb) nello Stato di Carabobo, nel centro del Paese: è sicuro della lealtà dei soldati “di fronte al tentativo di colpo di Stato”. La Casa Bianca promette di reagire se Guaidó sarà minacciato. Russia e Iran spronano al dialogo. E di dialogo, e di rispetto dei diritti umani, parla anche Papa Francesco, meno schierato pro Guaidó della chiesa locale, sta “con tutto il popolo venezuelano” ed è preoccupato di uno “spargimento di sangue”.

Il bilancio delle violenze che hanno segnato il Paese, nei sei giorni successivi all’autoproclamazione di Guaidó, è salito a 35 vittime. Secondo un’organizzazione che tutela il rispetto dei diritti umani, 850 cittadini venezuelani, fra cui 77 minorenni under 14, sono stati “arrestati arbitrariamente e messi sotto custodia delle forze di sicurezza”. Ma la situazione complessiva resta relativamente calma. Ed emergono segnali che, dietro la mossa di Guaidó, incoraggiata, se non suggerita, dal presidente degli Usa Donald Trump, il primo a riconoscerlo, ci siano interessi economici ed energetici, più che l’attenzione e la sensibilità alle difficili condizioni del popolo venezuelano. Washington, intanto, accetta come rappresentante legittimo del Venezuela negli Stati Uniti un noto oppositore del “chavismo”, Carlos Alfredo Vecchio, indicato da Guaidó. In una conferenza stampa, al rientro a Caracas da New York, dopo avere partecipato alla riunione ad hoc del Consiglio di Sicurezza, il ministro degli Esteri Jorge Arreaza ha detto che “le sanzioni degli Usa sono costate al Venezuela dal 2017 almeno 23 miliardi di dollari”: “denaro che doveva essere utilizzato per comprare medicine, generi alimentari, materie prime, per realizzare infrastrutture e per rispettare gli impegni finanziari internazionali”. Si è pure appreso che è stato Guaidó in una lettera alla premier May a bloccare il rientro a Caracas di 31 tonnellate di oro depositate dal governo Maduro nelle casse della Banca d’Inghilterra. E Washington avrebbe ceduto a Guaidó il controllo dei beni venezuelani in territorio Usa, secondo il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio.

Per Guaidó, le transazioni disposte dal presidente della Banca Centrale venezuelana Calixto Ortega non sono legali, perché Ortega non è stato nominato dal Parlamento, come da Costituzione. Sul fronte diplomatico, si muove poco: la lista dei Paesi che riconoscono Guaidó s’allunga con l’Australia e Israele – non c’è da sorprendersene –, mentre l’Arabia saudita opera contro Caracas sul mercato del petrolio. Le ore dell’ultimatum Ue stanno scorrendo: otto giorni per proclamare nuove elezioni, pena il riconoscimento di Guaidó. Maduro respinge la richiesta, giudica l’Ue “arrogante”; ma svaluta una volta di più la moneta, equiparando il corso ufficiale a quello del mercato nero.

“Francesco ormai è di sinistra come noi teologi ribelli”

Frei Betto è uno dei massimi esponenti della “teologia della liberazione”, che a partire dagli anni 70 ha cercato di coniugare la religione cattolica con l’impegno politico a favore dei deboli e degli oppressi, e di invertire le storiche alleanze della Chiesa con i regimi militari, dittatoriali e reazionari del Sudamerica. Abbiamo colto l’occasione della sua ultima visita in Italia per farci raccontare la sua avventurosa vita.

Quando è nata la combinazione dei suoi impegni religioso e politico?

Da quando, negli anni 50 della mia adolescenza, mi sono iscritto all’Azione Cattolica. Al contrario di ciò che succedeva in Italia con Luigi Gedda, che l’aveva indirizzata verso il centrodestra, in Brasile l’Azione Cattolica era vicina al Partito comunista. Fui poi influenzato dal pensiero e dall’esempio del guerrigliero Carlos Marighella, uno dei principali oppositori della dittatura militare negli anni 60.

Lei fu poi imprigionato dal regime.

Sì, per due volte: nel 1964, per quindici giorni, e tra il 1969 e il 1973, per quattro anni. La prima volta fui torturato, e la seconda cercarono di farmi fuori mettendomi per due anni tra i detenuti comuni. Avevo paura, ma poi mi accorsi che io e i miei tre confratelli eravamo rispettati e temuti dai carcerati: ci credevano dei terroristi, e qualcuno venne addirittura a dirci che voleva ‘arruolarsi nel nostro commando’, una volta uscito.

Ha scritto qualcosa, sulla sua esperienza in carcere?

Certo, due libri che hanno iniziato la mia carriera di giornalista e scrittore, con i proventi della quale ho sempre potuto mantenermi. Il primo è la raccolta di lettere dal carcere Dai sotterranei della storia (1971), che fu un successo. E il secondo è Battesimo di sangue (1983), la cui edizione italiana ha una prefazione di monsignor Luigi Bettazzi, e dal quale è stato tratto nel 2006 un omonimo film.

A parte monsignor Bettazzi, che era noto per le sue aperture a sinistra, quale fu la reazione del resto della Chiesa?

Nel 1970 il cardinale di San Paolo, il conservatore Agnelo Rossi, venne a trovarci in carcere, e noi gli mostrammo i segni delle percosse: lui uscì e disse alla stampa che stavamo bene, anche se qualcuno di noi si era ferito cadendo dalle scale. Paolo VI lo convocò a Roma, e al suo ritorno lui scoprì di essere stato ‘promosso e rimosso’: divenne prefetto di Propaganda Fide, e fu sostituito dal cardinale progressista Paulo Evaristo Arns.

Paolo VI non era dunque così male.

Era un uomo travagliato e indeciso, ma abbastanza aperto. Aveva letto il mio libro Dai sotterranei della storia e mi mandò in carcere un biglietto di incoraggiamento, accompagnato da un rosario realizzato con grani di ulivo della Terra Santa. La sua enciclica Populorum progressio (1967) mostra che non era contrario alla teologia della liberazione.

Al contrario di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Insieme, loro, hanno combattuto la teologia della liberazione per 36 anni. Basta ricordare l’episodio di Managua nel 1983, quando Wojtyla svillaneggiò in pubblico all’aeroporto Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura, che fu poi sospeso a divinis insieme agli altri preti del governo sandinista. Da confrontare con la sua stretta di mano al dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1987. Per non parlare della sua alleanza con il presidente Ronald Reagan e dei suoi incontri con il capo della Cia William Casey, testimoniati da Carl Bernstein e Marco Politi nel loro boicottato libro Sua santità (1996).

E Ratzinger?

Di lui basta ricordare il processo al teologo Leonardo Boff, che pure era stato un suo allievo all’Università di Monaco. Un nuovo caso Galileo, che nel 1984 mise a tacere per anni la voce di uno dei maggiori teologi della liberazione. Nel 1992, dopo ulteriori minacce di reprimende, Boff decise di abbandonare il saio francescano: amica Ecclesia, sed magis amica Veritas.

Immagino le piacerà papa Francesco, nonostante l’ormai diffusa percezione che sia “molto fumo e poco arrosto”?

Il cardinal Bergoglio non era progressista, ma da papa Francesco è diventato un fautore della teologia della liberazione. Nella sua enciclica socioambientale Laudato si’ (2015) indaga le cause della devastazione della Natura. E le sue posizioni sulla comunione ai divorziati e sul battesimo ai figli di coppie omosessuali sono grandi passi avanti, anche se deve barcamenarsi tra tutti gli ostacoli che gli vengono messi di fronte.

Castro regalò a Francesco a Cuba “Fidel e la religione” (1985), la famosa intervista rilasciata a lei.

Spero che sia stata l’edizione in spagnolo, e non quella in italiano, che fu manipolata. So che Giovanni Paolo II lesse quel libro, in preparazione per il loro incontro del 1998. Io ho seguito dal vivo a Cuba tutte le visite dei tre pontefici, in qualità non solo di confidente di Castro, ma anche di suo consulente teologico. E so che il papa e il Comandante diventarono amici, e si incontrarono più volte in privato in nunziatura, durante la settimana di visita del 1998.

Quando conobbe Fidel?

Nel 1980 a Managua, alla festa per il primo anniversario del nuovo governo sandinista. Fui invitato insieme a Lula, che all’epoca era il capo dei sindacati brasiliani. Una sera il ministro degli Esteri, il sacerdote Miguel d’Escoto, fautore della teologia della liberazione, ci invitò a un incontro tra Castro e gli industriali. Quando questi se ne andarono noi rimanemmo a parlare fino all’alba: discussi con lui del modo in cui il regime trattava i religiosi, e di come l’atteggiamento ateo non fosse meno fondamentalista di quello religioso. Da quel momento egli mi considerò informalmente il suo consigliere per gli affari religiosi.

Quante volte l’ha incontrato?

Decine, ogni volta che andavo a Cuba: le ultime due nell’anno in cui morì. Mi invitava ad andarlo a trovare tardi a casa sua e parlavamo per ore di tutto. Anche di scienza, soprattutto dopo che gli diedi il mio libro con Marcelo Gleiser Conversazione su fede e scienza (2011). Una volta gli ho chiesto se era ateo, visto che molti se lo domandavano, ma lui rispose che preferiva essere definito agnostico.

Di Lula che mi dice?

Lo conosco da sempre, e so che non è personalmente corrotto: il processo che gli hanno fatto è una farsa politica, senza prove fattuali. Il suo governo è stato il migliore che il Brasile abbia mai avuto, ma purtroppo ha fatto molti errori, e molti esponenti del suo partito erano effettivamente corrotti.

E di Bolsonaro?

Le cose indecenti che dice sugli indigeni, sulle donne e sugli omosessuali lo qualificano come un fascista. E la sua ascesa democratica al potere mi ricorda quella di Hitler nel 1933. Spero di sbagliarmi, ma temo di no.

L’Unità vince causa col suo cronista: “Non fu demansionato”

La società editrice dell’Unità ha vinto in primo grado contro il suo giornalista Massimo Franchi che era ricorso in giudizio contestando un provvedimento disciplinare e una successiva azione discriminatoria da parte del quotidiano riportato all’epoca in edicola dal segretario pd Matteo Renzi. Il primo, alcuni lettori del Fatto lo ricorderanno, era seguente a due tweet: “Comunque propugnare che Berlinguer sbagliasse su Eurocomunismo e questione morale e che invece dovesse allearsi con Craxi è molto renziano”, il primo. “Abbassando sempre più la soglia gramsciana dell’intransigenza si ritrovarono in compagnia di revisionisti, faccendieri, piduisti. ‘Ma siamo di sinistra’, rispondono”, il secondo. Ne seguì il provvedimento disciplinare e, appunto, un supposto demansionamento. La scorsa settimana il giudice Angela Damiani ha condannato Franchi anche al pagamento delle spese legali. I due tweet, scrive, hanno “gettato discredito sull’azienda editoriale” “ledendone l’immagine presso i suoi lettori”. In quanto al demansionamento, non viene eccepito, in quanto “lo stesso era in ogni caso adibito allo svolgimento di mansioni di giornalista”. Già avviate le pratiche del ricorso.

Caso Pernigotti, una legge per legare il marchio al territorio e ai lavoratori

Tra le sue molte implicazioni critiche, la globalizzazione per il nostro Paese ha anche quella di veder mettere le mani su aziende storiche italiane, per trasferire in poco tempo all’estero la produzione, continuando però a utilizzare il marchio. Un comportamento da “prenditori” e non da imprenditori a cui occorre frapporre un’azione legislativa di contrasto per disincentivare economicamente questa autentica attività predatoria.

Nei giorni scorsi insieme a Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, abbiamo presentato una proposta di legge per la salvaguardia dei marchi storici italiani in cui si prevede, con estrema semplicità, che qualora un imprenditore decida di chiudere l’attività produttiva nel comune in cui era stato registrato il marchio almeno cinquant’anni prima, egli perde il diritto a usare il marchio stesso.

L’obiettivo della legge, quindi, non è quello di demonizzare l’arrivo di capitali stranieri interessati a investire nelle imprese italiane, ma quello di legare indissolubilmente il territorio all’azienda e al suo marchio, e quindi alle lavoratrici e ai lavoratori che si sono tramandati di generazione in generazione il saper fare di quel determinato prodotto.

Per un marchio storico, perciò, brand, lavoratori e territorio diverrebbero un unicum non più spacchettabile: una difesa funzionale anche alla tutela del diritto del consumatore a sapere se dietro un marchio italiano in realtà ci siano non tanto capitali stranieri, ma piuttosto attività produttive svolte all’estero.

Una normativa simile, ad esempio, avrebbe ostacolato la strategia della proprietà turca di chiudere lo stabilimento di Novi Ligure dell’industria dolciaria Pernigotti dopo aver gestito come peggio non si poteva l’azienda dopo la sua acquisizione dal gruppo Averna, mantenendo però il marchio a scopi unicamente commerciali. Si sarebbe, allo stesso modo, potuto meglio difendere l’italianità della produzione e non solo del brand Splendid, il cui caffè verrà prossimamente prodotto esclusivamente in Bulgaria.

Se si vuole realmente tutelare una parte del nostro patrimonio industriale da intenti predatori esteri, è assolutamente indispensabile passare in fretta dalla retorica propagandistica in chiave neo nazionalista a leggi coerenti ed efficaci a tutela del made in Italy, nel rispetto delle normative dell’Unione europea sul mercato unico.