“Lo vede il parcheggio? Una volta non si trovava posto. Adesso guardi”. Il parcheggio è vuoto. Sono le 17. Gli operai e le operaie scivolano fuori dai cancelli, per raggiungere le poche auto sparse nel piazzale. Sopra di loro sventola la bandiera americana. Luciana guarda e scuote la testa. “Gli americani…” Che fanno? “Ci spremono e scappano”. Luciana sussurra: “Io sono qui fin dall’inizio, questa azienda è un pezzo della nostra storia. Adesso che cosa resta?”.
Bollengo, detto Bolengh, è un paesino di 2000 abitanti, alle porte di Ivrea. Poco lontano passa la via Francigena. Tra le attività turistiche segnalate dal Comune ci sono l’antico campanile Ciucarun, l’immancabile castello, il lago blu, il gruppo Alpini e il comitato della Pro Loco. Bollengo un tempo era famoso per i carradori, costruttori di carri agricoli. E oggi le vie sono, nonostante tutto, ancora piene di attività commerciali, capannoni, botteghe, con le solite insegne curiose che si trovano in ogni paese di provincia, dal ristorante Peynett al concessionario Motoinferno.
Siamo nel Canavese, in ciò che è rimasto del distretto Olivetti, in quella che doveva e poteva essere la Silicon Valley italiana. Davanti a noi, sotto la bandiera americana, c’è una piccola azienda storica della zona. In realtà, tre piccole aziende storiche. Le aveva fondate negli anni Ottanta un ex operaio Olivetti di Bollengo. Nome: Franco Ugo. Oggetto: fornitura di materiali elettrici. Qualità: elevatissima. In effetti qui sono sempre stati bravi. Specializzati. Superspecializzati. A un certo punto in questo stabilimento lavoravano oltre 200 persone, che in un paesino di 2000 abitanti è un’enormità. E per le tre aziende avevano anche scelto nomi ad alta tecnologia, che trasudavano fiducia nei bytes e nel futuro: Mavimec, Prosecure e Sumotec.
Adesso però di quei nomi, qui nel piazzale deserto, non c’è più traccia. Fuori dallo stabilimento si legge soltanto il marchio della società statunitense, la Arca Technologies, che ha comprato tutto. Prima ha comprato l’azienda madre di Ivrea, quella cui Mavimec, Prosecure e Sumotec vendevano i loro pezzi pregiati. Poi anche le tre fornitrici, le storiche aziende di Bollengo. È successo tutto fra il 2014 e il 2016. Molti, allora, si entusiasmarono: arrivano gli americani, dissero, evviva, ecco i condottieri dell’Arca perduta, i conquistatori del North Carolina, eccoli pieni di soldi e di energie, ecco che vengono a salvarci come nei western quando irrompe la cavalleria. Peccato che a guidare la cavalleria yankee, in questo caso, non ci fosse John Wayne, ma Mort O’Sullivan, con quel nome di battesimo che già sarebbe dovuto suonare come un programma funebre. Ovviamente, appena arrivato, lui si mostrò, al contrario, assai vitale. Fece un sacco di promesse. Promuovere. Sviluppare. Crescere. Globalizzare. Risultato? Nel marzo 2018 ha annunciato 103 licenziamenti. Da Bollengo ai balenghi il passo è breve.
“Mordi e fuggi, questi fanno il mordi e fuggi” ripetono gli operai sul piazzale. La prima mossa degli americani è stata chiudere il reparto ricerca e sviluppo. “A loro interessava solo prendere il nostro prodotto di punta, la macchina contasoldi Cm18, e uccidere tutto il resto”. Ci sono stati giorni di proteste, scioperi, manifestazioni. Gli esuberi sono stati leggermente ridotti (da 103 a 74). E sono spuntate le solite parole d’ordine: contratti di solidarietà, uscite incentivate, riqualificazione, percorsi di formazione, tavolo tecnico, ricollocazione. Luciana scuote la testa. “Io ho conosciuto il fondatore: se c’era lui non finiva così” dice. Poi fa due passi. Si ferma di nuovo. E torna indietro un’altra volta. “Ormai se ne vanno tutti. Chi può scappa. Ma io non ho altro” dice. E il futuro? Lei mi indica un gruppo di giovani operai che stanno uscendo dai cancelli: “Li vede quelli?” chiede. “Ogni venerdì non sanno se il lunedì successivo tornano in fabbrica. E lei mi parla di futuro?”.
Guardo quei giovani operai. Guardo Luciana che non riesce ad andarsene. I suoi occhi lucidi. Le facce che sfilano silenziose, l’allegria del fine turno che maschera mesi di delusione. Guardo il parcheggio vuoto e la bandiera a stelle e strisce che lo domina. E mi appare chiaro che il “sogno americano” qui, a due passi dalla via Francigena, è caduto più rapidamente della verginità di Paris Hilton. Sono bastati quattro anni per passare dai fuochi pirotecnici ai tavoli tecnici, dalle promesse globali agli esuberi locali. E così, davanti ai cancelli di questa fabbrica non si può fare a meno di accorgersi di quanto sia lontano il North Carolina. E di quanto stoni quella bandiera Usa sospesa fra il Ciucarun e la Pro Loco. Tanto da finire, inevitabilmente, a chiedersi: ma non era meglio se fossimo restati tutti un po’ più Bolengh?