Le promesse tradite nella Silicon Valley taliana del Canavese

“Lo vede il parcheggio? Una volta non si trovava posto. Adesso guardi”. Il parcheggio è vuoto. Sono le 17. Gli operai e le operaie scivolano fuori dai cancelli, per raggiungere le poche auto sparse nel piazzale. Sopra di loro sventola la bandiera americana. Luciana guarda e scuote la testa. “Gli americani…” Che fanno? “Ci spremono e scappano”. Luciana sussurra: “Io sono qui fin dall’inizio, questa azienda è un pezzo della nostra storia. Adesso che cosa resta?”.

Bollengo, detto Bolengh, è un paesino di 2000 abitanti, alle porte di Ivrea. Poco lontano passa la via Francigena. Tra le attività turistiche segnalate dal Comune ci sono l’antico campanile Ciucarun, l’immancabile castello, il lago blu, il gruppo Alpini e il comitato della Pro Loco. Bollengo un tempo era famoso per i carradori, costruttori di carri agricoli. E oggi le vie sono, nonostante tutto, ancora piene di attività commerciali, capannoni, botteghe, con le solite insegne curiose che si trovano in ogni paese di provincia, dal ristorante Peynett al concessionario Motoinferno.

Siamo nel Canavese, in ciò che è rimasto del distretto Olivetti, in quella che doveva e poteva essere la Silicon Valley italiana. Davanti a noi, sotto la bandiera americana, c’è una piccola azienda storica della zona. In realtà, tre piccole aziende storiche. Le aveva fondate negli anni Ottanta un ex operaio Olivetti di Bollengo. Nome: Franco Ugo. Oggetto: fornitura di materiali elettrici. Qualità: elevatissima. In effetti qui sono sempre stati bravi. Specializzati. Superspecializzati. A un certo punto in questo stabilimento lavoravano oltre 200 persone, che in un paesino di 2000 abitanti è un’enormità. E per le tre aziende avevano anche scelto nomi ad alta tecnologia, che trasudavano fiducia nei bytes e nel futuro: Mavimec, Prosecure e Sumotec.

Adesso però di quei nomi, qui nel piazzale deserto, non c’è più traccia. Fuori dallo stabilimento si legge soltanto il marchio della società statunitense, la Arca Technologies, che ha comprato tutto. Prima ha comprato l’azienda madre di Ivrea, quella cui Mavimec, Prosecure e Sumotec vendevano i loro pezzi pregiati. Poi anche le tre fornitrici, le storiche aziende di Bollengo. È successo tutto fra il 2014 e il 2016. Molti, allora, si entusiasmarono: arrivano gli americani, dissero, evviva, ecco i condottieri dell’Arca perduta, i conquistatori del North Carolina, eccoli pieni di soldi e di energie, ecco che vengono a salvarci come nei western quando irrompe la cavalleria. Peccato che a guidare la cavalleria yankee, in questo caso, non ci fosse John Wayne, ma Mort O’Sullivan, con quel nome di battesimo che già sarebbe dovuto suonare come un programma funebre. Ovviamente, appena arrivato, lui si mostrò, al contrario, assai vitale. Fece un sacco di promesse. Promuovere. Sviluppare. Crescere. Globalizzare. Risultato? Nel marzo 2018 ha annunciato 103 licenziamenti. Da Bollengo ai balenghi il passo è breve.

“Mordi e fuggi, questi fanno il mordi e fuggi” ripetono gli operai sul piazzale. La prima mossa degli americani è stata chiudere il reparto ricerca e sviluppo. “A loro interessava solo prendere il nostro prodotto di punta, la macchina contasoldi Cm18, e uccidere tutto il resto”. Ci sono stati giorni di proteste, scioperi, manifestazioni. Gli esuberi sono stati leggermente ridotti (da 103 a 74). E sono spuntate le solite parole d’ordine: contratti di solidarietà, uscite incentivate, riqualificazione, percorsi di formazione, tavolo tecnico, ricollocazione. Luciana scuote la testa. “Io ho conosciuto il fondatore: se c’era lui non finiva così” dice. Poi fa due passi. Si ferma di nuovo. E torna indietro un’altra volta. “Ormai se ne vanno tutti. Chi può scappa. Ma io non ho altro” dice. E il futuro? Lei mi indica un gruppo di giovani operai che stanno uscendo dai cancelli: “Li vede quelli?” chiede. “Ogni venerdì non sanno se il lunedì successivo tornano in fabbrica. E lei mi parla di futuro?”.

Guardo quei giovani operai. Guardo Luciana che non riesce ad andarsene. I suoi occhi lucidi. Le facce che sfilano silenziose, l’allegria del fine turno che maschera mesi di delusione. Guardo il parcheggio vuoto e la bandiera a stelle e strisce che lo domina. E mi appare chiaro che il “sogno americano” qui, a due passi dalla via Francigena, è caduto più rapidamente della verginità di Paris Hilton. Sono bastati quattro anni per passare dai fuochi pirotecnici ai tavoli tecnici, dalle promesse globali agli esuberi locali. E così, davanti ai cancelli di questa fabbrica non si può fare a meno di accorgersi di quanto sia lontano il North Carolina. E di quanto stoni quella bandiera Usa sospesa fra il Ciucarun e la Pro Loco. Tanto da finire, inevitabilmente, a chiedersi: ma non era meglio se fossimo restati tutti un po’ più Bolengh?

La democrazia si è corrotta

Alcune recenti tornate elettorali hanno visto contrapporsi i difensori di una lotta senza quartiere contro la corruzione a quanti pretendevano di continuare a “fare politica come prima”.

La prima lezione che si può trarre è che bisogna prendere la corruzione sul serio e non cadere nella trappola di confonderla con una somma di comportamenti individuali da combattere caso per caso. Essa deve essere capita nel suo senso più profondo, quello di Aristotele, per il quale la corruzione designa tanto un degrado dovuto al tempo quanto una degenerazione morale. “La corruzione dei governi”, dice Montesquieu, “comincia, praticamente sempre, da quella dei principi”, ovvero nel sentimento comune inscritto nei costumi, il quale orienta l’azione degli uomini di un dato regime.

Le due forme di corruzione, individuale e fraudolenta da una parte, e politica e collettiva dall’altra, sono connesse senza confondersi. Dobbiamo vedere in quest’ultima forma un concetto politico spesso trascurato, che invece era stato al centro dell’attenzione di autori prestigiosi quali Polibio, Cicerone, Machiavelli o Montesquieu. La corruzione è imputabile innanzitutto all’effetto del tempo, che approfondisce la distanza dalla fondazione e dalle virtù pionieristiche della conquista.

La prosaicità della vita delle nostre democrazie ha respinto nell’oblio la poetica delle fondazioni. Come potrebbe l’uomo democratico conservare uno spirito combattivo quando non esistono più nemici dichiarati? Dopo la caduta del muro di Berlino gli è stato presentato il liberismo come meta finale di ogni regime. Non deve più sceglierlo, ma unicamente perfezionarlo (in particolare moltiplicando i diritti).

Il tempo è il grande responsabile di questa degradazione dei principi, ma non l’unico: la prosperità – o, ancor più, la prospettiva dell’arricchimento – “corrompe i costumi puri” (Montesquieu, Lo spirito delle leggi) e fiacca gli ardori politici. I nostri contemporanei oscillano tra una sorta di stanchezza, da un lato, che Montesquieu chiamava “mollezza dei costumi” o “libertinaggio” – dovuta al fatto che l’abitudine induce a dare per acquisito ciò che ha invece richiesto un’energia considerevole – e, dall’altro, un’intransigenza che rifiuta ogni mediazione: quella che il pensatore chiamava “democrazia estrema”, corrispondente a una dissoluzione dell’autorità. Tale “democrazia estrema” è favorita dal digitale, sotteso da un’ideologia libertaria che non si darà requie finché non avrà deposto ogni autorità.

Il sapere istituito, la scienza, le professioni – soprattutto quelle regolamentate –, il potere e i suoi segreti, tutto ciò che si fondi su una qualsiasi distinzione viene subito visto come una barriera che suscita la voglia di distruggerla, in nome di una democrazia radicale che finalmente trova nella tecnologia gli strumenti idonei. Passando dall’uguaglianza regolata a questa “uguaglianza estrema”, la democrazia degenera e finisce per vedere in ogni autorità una minaccia alla libertà e all’uguaglianza.

Quando gli effetti del trascorrere del tempo intaccano non più la sola materia, ma i principi, la corruzione prende la forma di uno snaturamento, per non dire di una perversione. Ciò consente di distinguere la stanchezza democratica, ossia l’insipidirsi dei principi, dei quali i costumi ormai si disinteressano, da un altro fenomeno, quello di una interpretazione dei principi che rivolta come un calzino l’originale nel suo contrario.

La collera che caratterizza la nostra epoca può fornire un’apprezzabile energia, a patto che venga affinata politicamente, cioè strutturata in termini di conflitti politici. Di qui, l’attenzione da prestare a un vero trattamento civile dei conflitti, per farne uno dei volani del dinamismo delle nostre democrazie contemporanee, dai rapporti sociali nell’impresa fino ai conflitti più quotidiani (pensiamo alla famiglia). Ciò presuppone il superamento di una forma di paternalismo di Stato e la valorizzazione dell’impegno individuale e collettivo in un senso nuovo (ben lontano dalla concezione neoliberista della responsabilità).

Nessun conflitto è politicizzabile senza il soccorso dei sindacati o delle associazioni. La finzione di un patto iniziale, cui si fa spesso riferimento in maniera astratta, sembra avere raggiunto i suoi limiti.

La deterritorializzazione generata dalla globalizzazione ha profondamente modificato l’economia simbolica del patto civile, che va inteso sotto un duplice aspetto, positivo e negativo: come mutua promessa, e come sacrificio accettato. Questo patto perde oggi il suo significato quando il sacrificio richiesto non è di alcun beneficio per la comunità e va a perdersi nell’economia globalizzata, quando l’occupazione viene distrutta dalle delocalizzazioni in Paesi dove i salari sono più bassi. Ma, si potrà replicare, la globalizzazione ricrea altri impieghi, in numero talvolta superiore, fatto salvo che non riguardano le stesse categorie sociali.

Nell’era globale, la famosa “distruzione creatrice” di Joseph Schumpeter diventa violenza sociale. Se la circolazione delle ricchezze è facilitata al punto che si può investire altrove e che l’evasione fiscale risulta favorita, il sacrificio diviene una pura e semplice mutilazione. L’economia senza politica diventa necessariamente antiumanista, dal momento che il sacrificio degli uni non trova più una ricompensa a un livello superiore, come testimoniano le vite divenute superflue, la soppressione o la riduzione delle pensioni o delle prestazioni sanitarie, o altri colpi, imposti senza alcuna contropartita, che vengono inferti ai diritti sociali acquisiti.

Tali squilibri invitano a ridimensionare la protezione dello Stato nazionale a differenti livelli. Il suo ruolo protettore è più che mai centrale ma, con ogni evidenza, nell’era della globalizzazione non è più il luogo pertinente per garantire, da solo, il patto civile. Per questo l’Europa deve giocare un ruolo di collegamento nella protezione – di garante dei patti nazionali – e cessare di essere il motore neoliberista che è diventata negli ultimi anni. Patto civile nazionale e Costituzione europea si combinano e si completano, anche se non hanno la stessa intensità né la medesima ampiezza.

Le due forme di corruzione che abbiamo sopra distinto sono dunque tra loro legate; c’è sicuramente una rispondenza tra i costumi e il comportamento dei dirigenti politici. La corruzione è un male politico originario, che rifà la sua comparsa in un momento in cui la politica, non più guidata da una filosofia della storia, deve concentrarsi maggiormente su di sé, sulla propria sostenibilità. In un momento, anche, in cui la globalizzazione le lancia sfide inedite, che sconvolgono questa modalità del nostro rapporto al mondo e ci ingiungono di reinventare le vie della rigenerazione democratica.

Traduzione di Pier Maria Mazzola

L’allarme del Csm: “La giustizia a Vibo V. in condizioni gravi”

La giustizia a Vibo Valentia è in “condizioni criticissime”. E “il Csm farà quanto è nelle proprie competenze” per dare “il massimo supporto” a tutti i magistrati e in particolare ai più giovani impegnati quotidianamente per far funzionare il sistema. Lo scrive in un tweet il vicepresidente del Csm David Ermini, che ieri con una delegazione di consiglieri si è recato nel Tribunale di Vibo, nell’ambito di un giro di ascolto degli uffici giudiziari che presentano maggiori criticità. Oggi è prevista la visita alla Corte di appello di Bari. La Procura di Catanzaro è da tempo nella bufera con ben 15 magistrati del distretto indagati dalla Procura di Salerno competente per quel territorio. E come se non bastasse, ieri, 27 consiglieri comunali proprio del Comune di Vibo Valentia si sono dimessi determinando di fatto la fine dell’esperienza amministrativa della Giunta guidata dall’ex magistrato Elio Costa, eletto nelle consultazioni del 2015, e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il sindaco Costa, 79 anni, è stato alla guida dell’amministrazione cittadina tra il 2002 e il 2005. A pesare sulla scelta dei consiglieri la gestione del servizio di raccolta rifiuti.

“Truffe all’Asl e alle assicurazioni”. Avvocati e medici tra i 130 indagati

Gli inquirenti l’hanno chiamata “Il Botto”: centrotrenta indagati, diciassette arresti e truffe quantificate in circa tre milioni di euro. Ieri mattina la Procura di Massa ha coordinato una maxi-operazione contro due gruppi criminali che avrebbero messo in piedi un sistema per raggirare diversi enti pubblici locali (tra cui l’Ospedale di Massa) e compagnie assicurative, ottendendo denaro non dovuto attraverso la fabbricazione di finti incidenti stradali. Tra i capi d’accusa contestati – ben 159 – ci sono anche l’associazione per delinquere finalizzata al fraudolento danneggiamento dei beni assicurati, la corruzione, l’estorsione e l’abuso d’ufficio.

Dei diciassette arrestati, quattro sono finiti in carcere e tredici si trovano agli arresti domiciliari. Nel mirino della Procura ci sono soprattutto avvocati e medici, ma anche un agente della polizia municipale, titolari di stabilimenti balneari e un investigatore privato specializzato nel ramo dell’infortunistica stradale.

Secondo gli inquirenti, quello dei finti incidenti era un meccanismo oliato, tanto che queste organizzazioni avrebbero reclutato anche delle comparse per simulare al meglio i sinistri in strada. Tramite legami nelle assicurazioni, negli ospedali e negli uffici pubblici, quesi gruppi riuscivano a ottenere documentazione sanitaria falsa che attestava lesioni inesistenti, oltre a dettagliati report fotografici che servivano a dimostrare gli incidenti.

Le indagini erano partite nel 2015 a seguito di alcune segnalazioni giunte in Procura. Pur avendo metodi simili e “comunicando tra loro” – come ha confermato ieri la pm Alessandra Conforti – le due presunte organizzazioni criminali erano autonome e avrebbero agito non soltanto a Massa, ma anche nelle vicine province di Lucca, La Spezia e Pistoia.

La Procura generale: “Corona andò nel boschetto della droga. Deve tornare in carcere”

In affidamentoterapeutico, che gli è stato concesso per curarsi dalla dipendenza dalla cocaina, Fabrizio Corona è andato nel boschetto della droga di Rogoredo, alla periferia sud di Milano, a fare “l’agente provocatore”, a fingere di acquistare stupefacenti, malgrado tra le prescrizioni del suo programma ci sia il divieto di frequentare tossicodipendenti. Ed è per questo episodio, che risale al 10 dicembre, ma anche per una serie di altre violazioni, che la Procura generale rappresentata dall’Avvocato generale Nunzia Gatto, ieri ha chiesto ancora una volta ai giudici della Sorveglianza che l’ex “re dei paparazzi” torni in carcere a scontare la pena per le condanne definitive. Già un paio di mesi fa il magistrato aveva chiesto che gli venisse revocata la misura alternativa alla detenzione, facendo riferimento anche alle sue “ospitate rissose” in tv, tra cui uno scontro verbale al Grande Fratello vip con la conduttrice Ilary Blasi. I giudici, però, il 30 novembre decisero di confermare per Corona l’affidamento terapeutico, come chiesto dal legale Antonella Calcaterra, parlando di esito “positivo” del suo percorso. Nel frattempo, la Procura generale ha fatto ricorso in Cassazione (udienza da fissare) contro questa decisione e ha anche chiesto, in attesa della pronuncia della Suprema Corte, che l’ordinanza venga sospesa e l’affidamento torni ad essere “provvisorio”. Su questa istanza si è discusso ieri in udienza e i giudici si sono riservati di decidere. Allo stesso tempo, tuttavia, nei giorni scorsi sulla base di una serie di “reati” e “violazioni”, per “fatti successivi” alla decisione favorevole a Corona, è stata presentata una nuova richiesta di revoca dell’affidamento. Tra questi, appunto, il caso del boschetto della droga di dicembre, quando Corona lamentò anche di essere stato aggredito mentre stava realizzando un servizio per il programma Non è l’arena di Massimo Giletti. Secondo la Procura generale, però, l’ex ‘fotografo dei vip’ non poteva stare là a simulare acquisti di droga.

Multe cancellate, sanzioni non pagate per 16 milioni di euro. Coinvolti Lotito e decine di vip

A Roma, tra il 2009 e il 2015, sono state illegittimamente cancellate 132.679 multe. Si tratta di 16 milioni e 500 mila euro: la stessa cifra stanziata per la manutenzione annuale del verde orizzontale. E invece è andata dispersa grazie a quattro dipendenti del dipartimento Risorse economiche del Comune, che avrebbero approvato la richiesta di annullamento delle multe di 400 persone, di cui 193 indagate perché accusate di falso e truffa. Per questo il gip Anna Maria Fattori ha autorizzato il sequestro preventivo di un milione di euro, l’unica cifra legata a reati non ancora prescritti. Tra gli indagati c’è anche il presidente della Lazio Claudio Lotito, a cui sono stati sequestrati 26 mila euro: risultava che “le infrazioni erano state commesse da autovetture impegnate nel dispositivo di tutela dello stesso” mentre, “si trattava di veicoli utilizzati per finalità aziendali, intestati alle società”, e che procuravano a queste “un ingiusto profitto” per un totale di oltre 53.000 euro. “Si tratta di un equivoco – ha spiegato Lotito – Le cifre contestate si riferiscono a multe di circa 15 mila che riguardano macchine intestate ad aziende di cui sono socio. Pago al fisco milioni di euro. Avrei fatto lo stesso anche per 15 mila euro di multe”. Anche un ex carabiniere e un poliziotto avrebbero “prodotto falsa documentazione giustificativa”. Richieste di annullamento sarebbero arrivate anche da “Ministeri ed enti istituzionali quali la presidenza del Consiglio dei Ministri, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Regioni, Province e Comuni, Prefetture e Autorità giudiziarie”. Ma gli intestatari delle cartelle esattoriali erano privati cittadini. Come Riccardo Brugia, il braccio destro di Massimo Carminati si sarebbe fatto cancellare una sanzione da 140 euro utilizzando carta intestata ai carabinieri. Tra i nomi dei furbetti c’è anche quello di Paolo Arcivieri, storico ultras laziale. Una cosa è certa: nelle casse di una città che prevede di incassare circa 75 milioni di euro annue dalle sanzioni, non solo stradali, l’assenza di 16 milioni e mezzo di euro pesa parecchio.

Protestano le mamme dei bimbi dell’asilo: “Via le maestre accusate di maltrattamenti”

Rabbia, stupore, disgusto. E la paura di lasciare ogni mattina il proprio figlio nelle mani di una maestra che rischia il rinvio a giudizio per casi di maltrattamento che risalgono a pochi anni fa.

In questi giorni a Carrara alcune mamme stanno denunciando quanto sta accadendo nella scuola materna dei loro figli: nonostante siano in attesa della decisione del giudice, le maestre coinvolte in uno scandalo di violenze sui bambini sono tornate a lavorare, dopo una breve sospensione da parte del ministero dell’Istruzione.

“Sono ancora lì – si sfoga una delle mamme al centro della denuncia – con un procedimento penale in corso. Mio figlio ora è in un’altra scuola, ma sapere che loro siano a contatto con altri bambini e possano eventualmente nuocergli mi fa rabbia”.

I fatti risalgono al 2014. Quattro maestre dell’istituto, secondo l’accusa, avrebbero trascinato per i capelli i bambini, costringendoli a mangiare controvoglia fino al vomito e coprendoli di insulti. Da allora è stata avviata un’indagine, con la Onlus La Via dei Colori e l’avvocato Giulio Canobbio a dare supporto legale e psicologico ai genitori e con la pm Alessandra Conforti che lo scorso aprile ha chiesto il rinvio a giudizio per le maestre, difese da Massimiliano Martinelli e Luca Pietrini (che, contattato, ha preferito non commentare la vicenda). La decisione del giudice potrebbe arrivare il 12 febbraio, giorno in cui è fissata l’udienza preliminare.

Nel frattempo, però, in questi mesi il gip non ha emesso alcuna misura cautelare nei confronti delle insegnanti, che dopo un primo stop deciso dal Miur si sono rivolte al giudice del lavoro e hanno ottenuto il permesso di tornare a scuola. Per la rabbia dei genitori coinvolti.

Nonostante le presunte violenze risalgano infatti a cinque anni fa e i bambini abbiano tutti finito la materna, ci sono famiglie che hanno un secondo figlio iscritto a quello stesso asilo. “Sono molto stupita di questo ritorno – protesta una madre – la mia prima bambina ha assistito agli episodi di violenza e ora è alle elementari, ma la mia seconda figlia frequenta ancora quella scuola e per qualche giorno è anche finita con una delle maestre indagate”.

Alla paura di questa mamma si unisce lo stupore per la mancata sospensione: “Non capisco perché con un procedimento in corso queste persone possano continuare a lavorare a contatto coi bambini”.

Parole simili a quelle di un’altra signora, parte civile nel processo: “Provo un gran senso di disgusto, mio figlio è traumatizzato anche dall’andare in bagno”. Nel racconto della madre il ricordo delle presunte violenze è ancora nitido e si ripercuote nella vita del bambino: “Ha paura dell’abbandono: quando lo accompagniamo a una festa si assicura sempre che torneremo. A volte ci sente parlare di qualche maestra e subito domanda: ‘Non quelle dell’asilo, vero?’”. A dar forza alle accuse dei genitori e della Via dei Colori ci sarebbero anche ore di riprese ottenute con la telecamera nascosta all’interno dell’asilo. Non abbastanza, finora, per allontanare le maestre dalla scuola.

È meglio imparare a convivere con gli smartphone

È un dibattito che appassiona e quindi torna con regolarità, almeno una volta all’anno, perché sembra offrire una soluzione semplice a un problema complesso: il divieto di usare il cellulare in classe risolverà i guai della scuola, dalla perdita di autorità degli insegnanti al (presunto) scarso rendimento degli studenti?

Intanto bisogna intendersi: nessuno sano di mente potrà mai sostenere che il rendimento di uno studente migliora se passa l’orario di lezione a mandare messaggi WhatsApp o a mettere cuoricini su Instagram (vale anche per le riunioni di lavoro) . Ma di modi per distrarsi in classe ce ne sono sempre stati, dai bigliettini sentimentali alle cerbottane con le penne bic, ai romanzi letti di nascosto sotto il banco durante le lezioni noiose. E vietare la disattenzione è ancora più arduo che vietare i cellulari (anche se il tanto citato studio secondo cui il tempo di attenzione si è ridotto da 10 secondi del 2000 a 8 del 2015 era una bufala da web).

Già i dettagli organizzativi dovrebbero scoraggiare eccessive velleità di controllo: “Non è che possiamo perquisire gli alunni, né del resto avremmo lo spazio per tenere in luogo protetto, che so, mille apparecchi”, ha detto Antonello Giannelli, presidente nazionale dell’Anp, l’associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola. Già si immaginano le scene: bidelli che si rifiutano di custodire per ore migliaia e migliaia di euro di smartphone, i più furbi che consegnano il loro vecchio modello ormai dismesso mentre custodiscono gelosamente il telefono vero, qualche professore estremista che pretende la perquisizione degli studenti e così via. E i costi? Ogni scuola dovrebbe forse dotarsi di appositi armadietti con chiave? E magari delle conseguenti telecamere di sorveglianza per vigilare sia sui telefoni che sui bidelli custodi (possono cadere in tentazione anche loro)? E pensiamo ai genitori: quanti sarebbero disposti ad accettare un completo black-out di connessione per l’intera mattinata scolastica? C’è l’intervallo, ma è pensabile l’assalto al deposito degli smartphone per quindici minuti di libertà telefonica? Sono problemi.

All’altro estremo ci sono i tecno-progressisti, quelli che pensano che gli smartphone possano rivoluzionare la didattica, che vadano integrati nelle spiegazioni in classe, magari in sostituzione di quei pesanti libri di testo che zavorrano gli zaini. Idee che somigliano a quelle di moda qualche anno fa: la scuola deve insegnare ai ragazzi a usare Internet, il computer, ecc. Cioè tutte cose che gli studenti sanno fare molto meglio degli insegnanti. È assai poco plausibile che l’inevitabile presenza dei cellulari in classe possa migliorare la qualità della didattica, ma di certo costringe i professori ad alcuni cambiamenti soprattutto nel modo di valutare l’apprendimento. È chiaro che compiti in classe o prove d’esame puramente nozionistiche diventano un formidabile incentivo a un veloce passaggio su Google. E per quanto il professore possa essere occhiuto, lo studente sarà sempre un passo avanti a lui (o lei) in quanto a tecniche di copiatura. E allora l’unica battaglia che ha senso combattere è forse quella per rendere inutile il ricorso al cellulare come scorciatoia per lo studio, in classe come a casa. Gli insegnanti devono inventare sistemi di valutazione che partono dal presupposto di un completo accesso a tutta la conoscenza disponibile e che quindi non misurano più la capacità di assorbire le informazioni ricevute, quanto quella di rielaborarle. Non significa fare esami e compiti in classe più facili, ma adattarsi a un diverso contesto in cui si muovono gli studenti. Un contesto in cui il cellulare è una protesi emotiva (come la chiama Gianluca Nicoletti su Radio24) ma anche cognitiva. Meglio accettarla che provare inutilmente ad amputarla.

Nelle aule servono più computer e meno telefonini

Avete mai guardato i ragazzi italiani, anche di scuola media, o alle elementari, davanti ai cancelli di scuola alle otto del mattino? Lo sguardo chino sullo smartphone, alla ricerca del video di moda, del messaggio dell’ultimo minuto, intenti a non far niente. La figura dominante del nostro tempo è quella con la testa reclinata verso il basso, qualunque cosa si stia facendo, con il solo scopo di guardare il tempo fluire sullo schermo del cellulare.

È quasi una malattia, più che una moda. Un bisogno ossessivo di rappresentarsi il mondo sulla base del “sé”, del selfie, e non di capire il mondo come realmente è. Non c’è educazione e cultura dentro quel dispositivo, non c’è curiosità, nonostante sembri il contrario. Social network e motori di ricerca, del resto, sono tarati su questo, fanno trovare quel che si cerca ma in realtà quel che cerchi è ciò che ti fanno trovare. Nessuno, quando accede a Google, va oltre i primi cinque o dieci risultati che, come è noto, sono stati selezionati sulla base delle nostre ricerche, del nostro navigare su Facebook o delle nostre conversazioni via email. E così la conoscenza si avvita su se stessa e diventa scoperta del già visto, del già conosciuto, autocelebrazione.

I ragazzi che vogliono portarselo in classe se lo porterebbero a letto, in bagno, in palestra, anche in piscina se possibile. E in molti casi già lo fanno. Si tratta di un tic più che di un bisogno, di una socialità imposta più che di una necessità. Il cellulare utilizzato in quel modo semplicemente permette di non pensare. “Mi rilassa” ripetono ai genitori che, con la testa, anch’essi, sprofondata nel loro piccolo smartphone, chiedono insistentemente ai propri figli di mettere via il fastidioso aggeggio.

Anche per questo i cellulari devono rimanere fuori dalle classi. Perché, semplicemente, distraggono, frantumano l’attenzione, polverizzano la possibilità di un discorso comune. E non vale l’argomento che, in ogni caso, sarebbe vietato utilizzarli a proprio piacimento. Chi conosce le scuole italiane e i loro studenti, sa benissimo che i cellulari sono lo strumento segreto per passarsi i compiti, per inviarsi messaggi durante le lezioni, per ascoltare musica seduti in fondo alla classe durante l’ora di supplenza. Come le gocce di pioggia per un arcobaleno, costringono la conoscenza a tramutarsi in uno spettro di colori diversi e non amalgamati che intasano la curiosità.

Sono anche un moltiplicatore di volgarità e maleducazione. Squilli voluminosi durante la lezione, suonerie che si amplificano, trilli continui da messaggini ricevuti a ripetizione. Insegnanti che cedono alla tentazione di rispondere al telefono quando la lezione è ancora a metà, incuranti di ciò che accade davanti ai loro occhi.

Nemmeno vale, infine, il pretesto del “materiale didattico” come aveva ipotizzato la ministra Pd, Valeria Fedeli e sembra voler insinuare il ministro Marco Bussetti: “Penso che i telefonini non debbano esserci a scuola – ha dichiarato – ma se venissero utilizzati in una didattica innovativa, ben venga. Devono essere regolamentati anche con l’autonomia delle singole scuole e poi ho fiducia nei nostri studenti: di fronte a una proposta di questo tipo, sapranno accettarla”. Certo che sapranno accettarla, perché costituirebbe il varco tramite il quale lo smartphone entra comunque in classe e non viene lasciato, ad esempio, in segreteria o in appositi armadietti (sarebbe l’occasione per dotarne le scuole).

Solo che con la scusa della “didattica innovativa”, si finirebbe per ricominciare da capo e tra una navigazione sulla Treccani e un’altra, magari, su Nature, i ragazzi avrebbero l’occasione per scaricare i messaggi non letti. Se davvero si vuole investire sul “materiale didattico” non sarebbe meglio mettere dei veri Personal computer nelle aule italiane?

Pro & Contro – Si deve vietare il cellulare in classe?

Due proposte di legge sull’opportunità di vietare l’uso dei cellulari a scuola. La prima è di Forza Italia, a firma dell’ex ministro Mariastella Gelmini, l’altra è della deputata della Lega, Giorgia Latini. Il veicolo è il ripristino dell’educazione civica obbligatoria in discussione in Commissione Cultura alla Camera. Di fatto si vuole l’uso di smartphone e dispositivi mobili sia nelle scuole primarie che nelle secondarie di primo e di secondo grado. L’idea è di lasciare i cellulari in presidenza, ricorrere alla segreteria per le chiamate di emergenza. Di altro avviso il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti: “L’utilizzo dei device per la didattica è fondamentale e quindi sono a favore del loro uso ma soprattutto ho fiducia nei nostri studenti. Credo molto nel loro senso di responsabilità sull’uso consapevole ai fini di un migliore apprendimento. Condanno invece in maniera decisa l’uso per altri fini”.