Anche Facebook si attrezza per la campagna elettorale europea

“Nuovi strumenti” per vigilare su interferenze esterne durante le elezioni europee. Facebook annuncia il lancio, a marzo, di nuove regole e strumenti. La responsabile del gruppo per le elezioni in Europa, Anika Geisel ha spiegato: “Saranno rese accessibili molte più informazioni alle persone sulle inserzioni politiche”. Chi vorrà pubblicare le inserzioni politiche dovrà prima essere autorizzato dall’azienda. Gli inserzionisti dovranno confermare l’identità e indicare chi sia il committente. Saranno vagliati anche i “temi di interesse pubblico” che menzionano candidati o partiti. Sarà infine aperto un ufficio a Dublino per vagliare possibili fake news.

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IGallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum werg werg werg werincolunt, quibuscum continenter bellum gerunt.

Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae fini

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae,

70 km di recinto al confine tedesco contro i cinghiali (e la febbre suina)

Sono cominciati i lavori di costruzione di un recinto anti-cinghiale lungo 70 chilometri al confine tra Danimarca e Germania. Il recinto, alto un metro e mezzo e profondo 50 centimetri è contro il rischio di diffusione della febbre suina africana che in Europa è arrivata dall’Est fino in Belgio. Innocua per l’uomo, la malattia è letale per i maiali, e i principali vettori di diffusione sono i cinghiali.

In Danimarca, a fronte di una popolazione di circa 6 milioni di persone, ci sono oltre 3 mila allevamenti suini per un totale di quasi 13 milioni di capi, con esportazioni in 127 Paesi con un valore stimato di 4 miliardi di euro.

SGallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt.

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La Cuccagna: ecco il ristorante che attovaglia Stato, 007 e boss

Nei mesi successivi ai “botti” di Capaci e via D’Amelio le alte gerarchie del Viminale frequentavano abitualmente un ristorante di Palermo che negli anni Ottanta faceva da “postino” tra il boss Mariano Agate e un potente capo massone, ex ufficiale repubblichino, in passato coinvolto nelle indagini sul Sid deviato, e indicato come un “agente esterno” che avrebbe avuto un ruolo nella strategia stragista. Il ristorante è “La Cuccagna”, il suo titolare è Francesco Paolo Sammarco, a sua volta massone in sonno, che nei depliant turistici si vanta di aver ospitato vip come re Juan Carlos di Borbone e Tom Cruise. E il massone è Luigi Savona, il Gran Maestro della Ciclopi Club, loggia di Torino, ritenuto anello di congiunzione tra mafia e massoneria. Nei locali di via Principe di Granatelli, pranzava nelle sue trasferte palermitane l’ex capo dell’Ucigos Luigi De Sena, grande amico dell’ex questore Arnaldo La Barbera, e qualche anno prima si recava assiduamente Savona, che il confidente Luigi Ilardo indicò al colonnello del Ros Michele Riccio “come uno dei mandanti degli attentati siciliani”. Da una parte, dunque, l’uomo che comandava l’ufficio centrale della Polizia di Stato per le investigazioni speciali che dovevano individuare gli assassini di Falcone e Borsellino; dall’altra il coordinatore delle logge segrete di Piazza del Gesù.

I due nel frattempo sono entrambi deceduti, ma la clamorosa coincidenza è stata svelata solo adesso, nell’aula giudiziaria di Caltanissetta dove si celebra il processo ai poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati per il depistaggio di via D’Amelio. È stato per primo l’esperto informatico Gioacchino Genchi, il 15 gennaio scorso, a raccontare che “La Cuccagna” era tradizionalmente “il ristorante preferito dei questori di Palermo” e “delle gerarchie”. Non solo negli anni Novanta. “Quando (nel febbraio 2017, ndr) l’ultimo questore Guido Longo è stato trasferito, la cena di saluto l’ha fatta alla Cuccagna”. Ma perché proprio a “La Cuccagna”? Un’incomprensibile consuetudine, secondo Genchi, condivisa dagli uomini del Viminale: “Tutti continuavano a frequentare questo posto, anche se aveva una cucina pessima, ricordo involtini che sembravano presi all’obitorio…”. L’informatico ricorda di aver cenato lì con De Sena in epoca immediatamente successiva alle stragi: “Almeno fino al Natale del ’92. Lui era un vecchio viveur, alloggiava alle Palme, là vicino c’era la sede del Sisde e ‘La Cuccagna’ era il ristorante dove andavano i questori passati da Palermo”.

Gli aficionados del Viminale, compreso il titolare dell’Ucigos, ufficio di supporto operativo a Sismi e Sisde, potevano non sapere che il titolare della trattoria apprezzata dalle “gerarchie” era un massone, seppure in sonno? Lo sapeva sicuramente Savona che Sammarco con deferenza chiamava “il professore”. Sentito nel ’92 dal poliziotto Rino Germanà, che a Trapani indagava sui rapporti tra mafia e massoneria, il titolare della “Cuccagna” ammise le visite frequenti dell’ex ufficiale repubblichino nella sua trattoria. Ed è stato proprio Germanà a ricordare il 17 gennaio scorso che negli anni Ottanta “La Cuccagna” era il canale della famiglia mafiosa di Mazara per contattare Savona: “Al locale c’era Lo Nigro, un mafioso di Palermo, che faceva il cameriere. Era in auge il contrabbando di sigarette, avevano sequestrato un carico in Calabria: ricordo che il mafioso calabrese chiamava ‘La Cuccagna’, si faceva passare Lo Nigro e comunicava in codice che ‘sono tutti ammalati’, cioè che il carico era bloccato. Il ristorante tornò anche in un’altra indagine perché alcuni mafiosi mazaresi ordinarono un pranzo da mandare all’Ucciardone”.

Ma chi è Savona? E perché è incredibile che l’intelligence antimafia pranzasse nel suo locale preferito? Secondo il colonnello Michele Riccio, che lo apprese da Ilardo, il “professore” era amico di Gianni Chisena, un pugliese con trascorsi nel contrabbando di sigarette, ma soprattutto “un agente esterno dei Servizi” che poi finì ucciso. Palermitano, Savona aveva prestato servizio con il grado di tenente nelle SS italiane a Venezia. “Inoltre – è sempre la ricostruzione di Riccio – il personaggio fu oggetto d’indagini a Torino, per la vicenda del ‘golpe bianco’ e delle deviazioni del Sid”. Riccio riferisce ancora che Savona “fu indagato anche da Falcone che evidenziò i suoi rapporti con un altro massone siciliano: Giuseppe Mandalari”. Da alcune indagini emerse infine che a Torino, Savona era in rapporti con Giovanni Bastone, uomo d’onore di Mazara del Vallo e amico del boss Mariano Agate, considerato vicinissimo alla massoneria. E chi era Bastone? Legato anch’egli alla massoneria, il suo ruolo incuriosì il pm fiorentino Gabriele Chelazzi che lo citò nel suo interrogatorio a Claudio Martelli: secondo il pentito Antonino Gullotta, Bastone sarebbe stato l’uomo che consegnò a Santo Mazzei il proiettile trovato nel giardino di Boboli a Firenze, che segnò l’inizio della stagione stragista del ’93. E in quel fine anno del ’92, ha accertato la Dia, Bastone trascorreva buona parte del suo tempo a Roma alloggiando nell’hotel Raphael.

Mail Box

 

Gli alunni con disturbi non sono zavorra in classe

Desidero replicare alla lettera della professoressa Adriana Rossi, pubblicata il 25 gennaio. Sono d’accordo sul parere riguardo le condizioni generali della scuola. Mi spiace invece che vengano citati come “zavorra di vagabondi” gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) in cui rientrano coloro che soffrono di dislessia, disgrafia, discalculia e disprassia. Come genitore di una ragazza di 11 anni, a cui è stata diagnosticata una forma non grave di disprassia, mi sento offesa. La diagnosi è affidata a esperti e certificata per legge da neuropsichiatri, logopedisti, psicologi. Non è affatto facile per un ragazzo con Dsa seguire le lezioni, comprendere, comunicare. Molto si sta facendo nel fornire strumenti compensativi che aiutino nei processi di apprendimento.

Patrizia Passerini

 

Il razzismo dell’arbitro va sanzionato pesantemente

L’arbitro Francesco Pagliarulo avrebbe espulso il giocatore di colore Gueye Ass Dia, accompagnando il cartellino rosso con l’insulto razzista: “Vai fuori, negro”. Se il fatto fosse confermato, sarebbe scandaloso e richiederebbe che il giudice di gara venisse sanzionato pesantemente. Non sono un tifoso, ma riconosco al calcio un forte potere di orientamento culturale. Se un gesto così grave di razzismo venisse banalizzato dall’Associazione italiana arbitri sarebbe immediatamente “sdoganato”, con un’involuzione razzista negli stadi, ben superiore agli già osceni “buuu” rivolti a giocatori di origini africane.

Angelo Taranto

 

Diritto di replica

Spiace dover fare delle precisazioni a proposito di alcune affermazioni contenute nella lettera inviata al Fatto da Vittorio Emiliani. La notizia diffusa dal Maestro Pupi Avati e ripresa da Vittorio Emiliani secondo la quale l’Assemblea della Commissione nazionale italiana per l’Unesco non si riunisce mai non corrisponde al vero, mentre va sottolineato che Pupi Avati, pure essendo regolarmente invitato, forse per i suoi impegni professionali, non ha mai partecipato.

L’Assemblea della commissione nazionale, come tutte le Assemblee di istituzioni analoghe, si riunisce una volta l’anno e svolge il suo mandato di fissare le strategia d’azione della Commissione in relazione ai programmi e finalità dell’Unesco. L’Assemblea nominata nel 2014 si è riunita regolarmente a partire dalla data di nomina. Essendo scaduto da novembre scorso il suo mandato quadriennale, l’Assemblea del 2018 verrà convocata appena ne saranno nominati i nuovi rappresentati.

Sul tema del degrado del centro storico di Roma, iscritto nella lista del Patrimonio mondiale, la Commissione ha incontrato i vertici di Italia nostra in più di una occasione e, pur non avendo competenza nella tutela, ha esercitato il suo ruolo consultivo stimolando la Sovrintendenza per il centro storico a iniziative concrete. Ha dato inoltre la sua disponibilità a collaborare con la stessa Sovrintendenza, il ministero dei Beni e delle Attività culturali e le amministrazioni di Roma Capitale e della Regione Lazio per l’adozione di un piano paesaggistico che ancora manca e rappresenta una condizione indispensabile per potenziare le attività di tutela del patrimonio culturale, artistico e monumentale della città. Anche la questione del parcheggio di Bergamo, a ridosso delle mura che fanno del Sito “Le opere di difesa veneziane tra il XVI e VXII secolo: Stato da Terra – Stato da Mar Occidentale” recentemente iscritto nella lista del Patrimonio mondiale, è stata oggetto dell’attenzione della Commissione nazionale che ha avuto un confronto sul progetto sia con il Centro del Patrimonio mondiale dell’Unesco sia con l’amministrazione responsabile per la scelta del progetto e della sua realizzazione e che ci risulta abbia coinvolto i competenti organi tecnici dell’Unesco per una loro valutazione.

Franco Bernabè, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco

 

I nostri errori

Per la mancata convocazione del Comitato risponderà il regista Pupi Avati. Per la mancata risposta sul degrado pazzesco del centro storico romano, devo purtroppo confermare che nessuna risposta, convocazione o telefonata abbiamo ricevuto dal presidente Franco Bernabè alla lettera-appello del 13 aprile 2017 firmata, oltre che da me, dall’urbanista Vezio De Lucia e da Desideria Pasolini dall’Onda fondatrice di Italia Nostra. Bernabè scrive di passi effettuati presso la Sovrintendenza al Centro storico, ma, per la cronaca, sarebbe bene precisare a quale organismo si è rivolto chiamandosi Sovrintendenza (con la V) quella Capitolina che pochi poteri ha in materia e Soprintendenza (con la P) quella statale che invece di poteri ne ha, o ne avrebbe. Anche se nell’involgarimento e nella deturpazione di Roma antica il ruolo centrale l’hanno avuto alcune Giunte lassiste, compresa l’attuale. Nel 2007, come ho scritto, la sede centrale dell’Unesco intervenne incisivamente, con l’architetto Francesco Bandarin, per la lottizzazione di Monticchiello di Pienza e l’allora ministro Francesco Rutelli fece propria l’iniziativa bloccandola. Altri tempi?

Vittorio Emiliani

 

Per un errore redazionale, il titolo della recensione di Furio Colombo era scorretto: come si evince dall’articolo, quello corretto doveva essere “Tempo di pace, ma non per tutti: gli ebrei perseguitati in Libia” (e non in Libano). Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ

Maturità. La vera rivoluzione sarebbe aumentare la motivazione del personale

 

Sono docente di liceo e ho apprezzato le innovazioni introdotte dal Miur nella Maturità 2019. In primo luogo, perché viene attribuito maggiore valore, nel punteggio finale, agli esiti del percorso scolastico dell’ultimo triennio. Secondo, perché sono state programmate a febbraio e a marzo prossimi due simulazioni nazionali delle prove scritte e stabiliti criteri nazionali per la correzione e valutazione delle stesse. Anche altre novità sulla composizione delle commissioni ritengo che siano positive, ma non è questo il punto. Da qualche tempo percepisco nella scuola un clima ostile rispetto al cambiamento, che invece mira a innovare la scuola, migliorandone l’efficacia sul versante della preparazione degli studenti.

Laura La Fauci

 

Gentile Laura, lei lo sa sicuramente meglio di me: le istanze, i dibattiti, le richieste, le ingiustizie e le innovazioni nella scuola sono sempre soggette a diverse correnti di interessi. Ci sono quelli dei docenti da un lato, quelli degli studenti dall’altro, poi quelli dei dirigenti e del personale e ancora i genitori. Ed è sempre estremamente complicato riuscire a soddisfare le richieste di tutti. Accontentare o fare il meglio per una categoria quasi sempre ne scontenta un’altra, senza contare i diversi ambiti di interesse in cui è frammentata ogni categoria (basti pensare alle maestre diplomate, ai vincitori di Tfa che a loro volta competono con i concorrenti delle graduatorie a esaurimento). Tutti insieme, e dal mio punto di vista giustamente, rivendicano stipendi e prestigio non adeguati all’importante ruolo che ricoprono. Cosa accade allora? Si alzano barricate. L’insoddisfazione fa perdere di vista la vocazione. Ci si dimentica di essere al servizio del futuro, che gli studenti saranno menti e coscienze del Paese e che quindi ogni decisione debba andare in questa direzione. Ora: non è certo il cambiamento dell’esame di maturità a influire sull’arricchimento o la preparazione degli studenti, a me sembrano soprattutto cambiamenti per omologare le statistiche e migliorare gli iter di valutazione (ben venga però preparare gli alunni e i docenti al tipo di prova che si troveranno di fronte). Più in generale sarebbe importante aumentare i livelli di soddisfazione di motivazione del personale. È forse lì il nucleo del clima ostile che percepisce. Solo così si potrà innestare quel circolo virtuoso di cui lei sembra saggiamente già far parte ma da cui sono lontani molti docenti che, ormai, si sono dimenticati quanto sia importante il loro lavoro.

Virginia Della Sala

Taradash riesce a sbagliare persino sparando a salve

L’ultima volta che Marco Taradash ha detto una cosa sensata, non era ancora nato. In ogni cosa che fa e dice è facile riscontrare un commovente concentrato di nulla. Taradash ricorda quei colleghi che, quando non sono in ufficio, sembrano più presenti di quando ci sono. Fisicamente ricorda un Christopher Walken senza carisma, che invece de Il cacciatore è stato scritturato per il remake de La grattugia di Vitiano. È nato a Livorno nel 1950 e fa politica da decenni, senza che la politica se ne sia mai accorta. Vale lo stesso per il giornalismo, che pratica – o così crede – perlopiù a Radio Radicale. Ballerino goffo di quarta fila, marginale tanto da radicale quanto da berlusconiano. Madre livornese e padre newyorchese, cognome di origine ebraica ucraina. Gioventù liberale, Partito Liberale, Partito Radicale. Eletto nel 1989 nel Parlamento europeo con la Lista Antiproibizionista, deputato nel Parlamento Italiano prima con i Radicali e poi con i Riformatori Pannelliani (e più che altro berlusconiani). Ennesimo esempio di radicale che già da giovane non sembrava granché ma poi è pure peggiorato parecchio, l’aver baciato la sacra pantofola di Arcore gli valse la presidenza della Commissione Vigilanza Rai. Ogni tanto lavorava in tivù, ovviamente nel consueto regime di semi-clandestinità, per esempio a La zona rossa di Rete4 o nella mitologica Tv della Libertà (fondata da Michela Vittoria Brambilla, tanto per aggiungere un surplus ulteriore di mestizia). Nel 2009 si candidò a sindaco di Livorno, città che ben conosce e che più ancora conosce lui: infatti ha perso.

Dal 2001 ha ripreso a condurre l’irrinunciabile “Stampa e regime” su Radio Radicale, in cui veste i panni lisi del Mannoni minore che lancia strali su Lega e 5Stelle. Dotato di un acume politico paragonabile a quello di una sogliola limanda, nel 2013 è riuscito pure ad appoggiare Angelino Alfano e il suo Ncd: se c’è da sbagliare qualcosa, lui la sbaglia. Copia sbiadita di Danny Capezzone prima e Maurizio Lupi poi, e già solo questo lo rende un mesto martire di se stesso, da anni compare come ospite marginale in talk-show antelucani. Il suo calvario è indicibile. Ogni tanto fonda partiti che durano come un’erezione di una medusa, tipo Riformatori Liberali (nel 2005) e CentroMotore (un anno fa). Ed è proprio con questa famosissima milizia che Taradash intende spezzare le reni a sovranismo e populismo. Già transennati i seggi. Amico di Benedetto Della Vedova, ne ha plaudito garrulo la sua elezione a segretario di +Europa. La sua idea è quella di far fronte comune contro il Salvimaio. Una strategia così banale da essere balenata anche nella testolina di Calenda e così impalpabile da essere piaciuta a Nardella. Il governo attuale lo ha definitivamente condannato all’insignificanza, facendolo sembrare un residuato bellico della battaglia delle Isole Egadi, vinta – come noto – dal ficcante console romano Gaio Lutazio Catulo. E così Taradash, desideroso chissà perché di combattere quell’evanescenza intellettuale che da sempre lo veste come un caftano di seconda mano, si è fatto ancor più livido. Più che altro su Twitter, dove persino un’acciuga morta potrebbe fingersi coraggiosa. “Il grande schifo del frecceromarxismo”. “Se usa il cervello Grillo fa il demente. Se parla col cuore ci ritrovi il solito nazistello alla guida dei suoi”. Ogni tanto ritwitta pure Marattin, che è quasi come darsi del bischero da solo. Quel che resta di Taradash è così: spara a salve grandinate di burro moscio su quelli più svegli e importanti di lui. Cioè tutti. Gli sia lieve l’insipienza.

Cacciari il saggio che insegna l’integrazione

Caro Massimo Cacciari, chi siamo noi per giudicare il sommo filosofo “donato” alla politica? Non semplice “amante del sapere”, bensì indiscusso sapiente, che può rivendicare perentorio “Io so!” all’intimorito ministro Bonafede, facendo di lui Piazzapulita con il suo classico imperativo categorico dell’indignazione furente: “Ma cosa dice? Ma cosa parla? Ma cosa? Ma come?”. Infatti non la giudichiamo, anzi la ringraziamo per l’ennesima lezione di “umanità” e “decenza” che ci ha regalato via etere, redarguendo il governo con motivazioni puntuali e calzanti: “La vostra politica fa schifo!”.

Si parlava di migranti e dello sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto e – prima di ammettere “so benissimo che era una struttura completamente fuorilegge ed era giusto sgomberarla, ma non in quel modo” – ci ha conquistati col suo grido scandalizzato: “Qual è la politica di integrazione che intende fare il governo?? Avete studiato una strategia?” e, ingiuntivo, “Mi dica qual è il vostro modello di integrazione!!” (interpunzione mia per dar l’idea della forza inequivocabile delle sue parole). Spalle al muro. Scacco matto a questa politica improvvisata, che dovrebbe seguire un suo corso intensivo e non solo sporadiche lezioni tv, nutrendosi delle sacre scritture delle sue ordinanze da sindaco di Venezia, tipo la norma anti-vu cumpra’ che vietava di portare mercanzia in borsoni nel centro storico (poi bocciata dal Tar), o quella anti-accattoni, che proibiva di chiedere l’elemosina pena una multa di 500 euro e la confisca degli oboli (anch’essa cancellata). Questi sì modelli d’integrazione e umanità! Tant’è che ci fu il plauso dell’allora ministro leghista Maroni (i beceri/incompetenti/fascisti grillini erano di là da venire). Chi purtroppo non colse tali accoglienti politiche per gli ultimi furono i vescovi, che sull’Avvenire le bollarono come “L’ultima velleità degli utopici da passeggio. La presunzione di vincere la povertà togliendo i poveri d’attorno”, con tanto di battuta: “Pare che l’extracomunitario pizzicato a mendicare vicino al ponte dell’Accademia sia stato visto al Lido mentre chiedeva l’elemosina per pagare la multa a Cacciari…”. Ci voleva il suo “Ma cosa dice? Ma cosa? Ma come?”. Caro Massimo Cacciari, spiace ridurLa alla Massima Caciara delle beghe mondane, ma come non notare che quello con Bonafede è solo l’ultimo di una lunga serie di suoi “Tele-scazzi” (perdoni l’aulicismo)? Se la si cerca su Google, “Cacciari furioso” (che magari si alza e se ne va) è ormai voce suggerita come “Belen farfallina”. Roba da far invidia a Sgarbi e Feltri. Oggi la sua sapiente indignazione è puntata contro il governo “vergogna” (coi gialloverdi è quasi un anagramma, no?), anche se ci ha abituato soprattutto al fuoco amico, al “Pd nato morto” e alle esecuzioni dei dirigenti dem. Con evoluzioni funamboliche come quella su Renzi: “L’unico che può avere un grosso appeal elettorale, ma il suo problema è il Pd” nel 2013, oggi è lui “il problema del Pd, si faccia da parte”, “capetto, ducetto, le ha sbagliate tutte”. Ma lei è così: sempre perentorio e sdegnato contro chi non capisce le sue verità rivelate, siano esse profezie fassiniane (tipo Comunali di Milano: “L’unica cosa certa è che Pisapia non può vincere”) o perle logiche come l’ineguagliato: “La riforma costituzionale è una puttanata, mi fa schifo, ma voterò Sì”. Ma cosa dice? Ma cosa? Ma come?

Un cordiale saluto.

Il Pd e le fazioni poco democratiche

Prendendo le mosse da una domanda apparentemente semplice: “A quale dei possibili, diversi aggettivi della democrazia si è concretamente ispirata la struttura e la dinamica organizzativa del Pd?”, Antonio Floridia ha scritto un libro eccellente. Quell’“amalgama mal riuscito” (D’Alema), quel partito “leggero” (Veltroni), dalla leadership contendibile (Statuto del Pd), quella organizzazione nata da una fusione a freddo fra Ds e Dl (Margherita), privo di una cultura politica condivisibile, viene analizzato da Floridia a partire dallo Statuto.

Floridia riesce a collegare Statuto e organizzazione del Pd con la scarsa democraticità e la mediocre funzionalità del Partito giungendo a motivare in maniera molto convincente il titolo del suo libro: Un partito sbagliato. Fosse soltanto questo il problema, potremmo tutti rispondere “affari dei più o meno sedicenti dem”. Invece, no. Con un ragionamento stringente che si nutre della migliore letteratura in materia, ma anche degli esempi concreti nella politica italiana, Floridia sostiene che la cattiva organizzazione del Pd e le sue velleitarie norme statutarie hanno già prodotto conseguenze molto gravi che sembrano irreversibili, per il funzionamento del sistema politico italiano e per la qualità della democrazia. Un partito il cui esercizio dominante non è quello di dare rappresentanza a una parte della società, ma di legittimare la leadership attraverso procedure dubbie (votazioni e primarie aperte indiscriminatamente e non con l’obiettivo di creare aderenti, l’Albo dei votanti alle primarie è una specie di oggetto misterioso) che non costruiscono nessuna cultura politica, ma ratificano l’esistenza di cordate, è destinato a isterilirsi quando le vittorie elettorali non arrivano e non consentono di premiare coloro che svolgono un reale lavoro “politico”.

Già, perché Floridia ritiene che i partiti non solo abbiano ancora compiti che nessuna altra organizzazione può svolgere, ma che, a determinate condizioni, siano in grado, oggi, di svolgerli meglio che nel passato. Ovviamente, la condizione decisiva è che i partiti facciano ricorso a tutti gli strumenti di comunicazione, di “conversazione”, di azione disponibili. Autore di un precedente ottimo libro sulla democrazia deliberativa, Floridia ritiene che un partito che desideri essere effettivamente “democratico” a quegli strumenti dovrebbe guardare in tutte le fase della sua attività politica: reclutamento di coloro che sono interessati alla politica, loro formazione, selezione, promozione, ma soprattutto discussione delle alternative politiche e preparazione dell’azione di governo e di opposizione. Alcuni utili, precisi, mirati riferimenti ai partiti del passato (Dc e Pci) e a quelli delle democrazie occidentali offrono indicazioni su quanto è ancora possibile fare in una società slabbrata alla quale dare coesione. Con noncuranza e protervia, Floridia documenta tutto con un pizzico di acrimonia, Matteo Renzi ha contribuito in maniera decisiva alla distruzione del Pd (e aggiungo io, non è finita). Con molta buona volontà Fabrizio Barca, le cui proposte Floridia analizza con grande, forse esagerata, empatia, ha cercato di delineare un partito migliore. Nessuno dei candidati alla segreteria – Zingaretti, Martina e, davvero dovrei menzionarlo?, Giachetti –, ha ripreso le proposte di Barca né criticato i devastanti comportamenti dei renziani né detto che partito vogliono.

Azzardo che non lo sappiano proprio. Suggerirei loro caldamente la lettura di questo libro, che dallo ieri ci conduce in un domani possibile. Però, il dibattito culturale non è proprio il forte dei dirigenti del Pd dal 2007 a oggi. La maggior parte di loro ha solo il tempo di cercare e mantenere cariche. Un partito allo sbando non darà rappresentanza agli elettori e la qualità della democrazia italiana rimarrà miseranda.