Questione napoletana: la letteratura ci salverà

La nuova edizione del volume Giùnapoli di Silvio Perrella, riapparso dopo oltre un decennio per le edizioni Beat, offre l’occasione per fare il punto della situazione sulla cultura e sull’identità partenopea. Anzi, sulla cultura dell’identità partenopea: a partire dal nuovo secolo, Napoli è diventata infatti un vero e proprio genere letterario, con all’attivo centinaia di pubblicazioni in ambito saggistico e narrativo. A tutt’oggi si contano oltre 50 scrittori residenti in città, alcuni dei quali di caratura internazionale. Eppure, non c’è neanche una sola casa editrice di rilievo nazionale, che funga da polo aggregativo come accade a Bari per Laterza o a Palermo per Sellerio.

Per non parlare della crisi del maggiore quotidiano cittadino, della debolezza di istituzioni culturali longeve, del più generale declino degli investimenti e dell’occupazione. Il picco delle energie creative, in definitiva, coincide con il momento di maggior crisi dell’apparato produttivo. Come spiegare il fenomeno?

Ripercorrendo le tracce del passato letterario, forte dell’insegnamento di Raffaele La Capria, Perrella identifica nell’immediato dopoguerra il momento di “blocco storico” del Meridione, costretto a svendere se stesso pur di sopravvivere: l’immagine di una Napoli misera e violenta, paurosamente seducente per la propria crudeltà e costretta a fare scalpore per diventare protagonista (da Curzio Malaparte a Gomorra), non è che l’altra faccia della cartolina suadente e tradizionalista di un popolo felice, tra canti e lazzi.

La cessione della sovranità, dell’indipendenza, della forza-lavoro e finanche della propria stessa immagine è stata il prezzo da pagare per consentire alla cultura napoletana di sopravvivere allo straniero di turno.

In realtà, le cose non stanno esattamente così. Tra il versante pulcinellesco e quello dell’agiografia camorristica emerge una corrente contraria, una pattuglia nemmeno tanto sparuta di intellettuali che tenta di problematizzare i nodi irrisolti e di lasciare aperte le ferite storiche. Non è un caso si tratti soprattutto di scrittrici, sensibili per vocazione alle differenze e alle istanze delle minoranze.

Se la capofila è Elena Ferrante – che, lungi dall’amarcord, tenta di scrivere il primo romanzo di formazione compiuto della meridionalità contemporanea – di sicuro vanno annoverate anche Antonella Ossorio e Viola Ardone.

La prima, con il suo La mammana, si muove tra il sacro e il profano durante i moti del 1848, ripercorrendone i tumulti attraverso la storia intima di due donne e sottolineando l’importanza dell’indagine psicologica individuale ed emotiva per la comprensione della vicenda collettiva.

La seconda, con Una rivoluzione sentimentale e soprattutto con l’imminente Il treno dei bambini, scava nelle storture sociali delle scuole di periferia d’oggi o delle famiglie indigenti del dopoguerra costrette a spedire al nord i propri figli, rinnovando l’annosa questione della “costruzione” dell’asservimento del sud. Agnese Palumbo invece utilizza lo strumento della non-fiction per intessere un articolato mosaico di storie, rimandi e rettifiche di luoghi comuni della cultura napoletana: uno per tutti, nel recente I love Napoli, si rilegge la figura di Maria Carolina d’Austria – dalla storiografia ufficiale sempre descritta come novella Messalina – sotto la lente della sua grande visione politica (il Codice Leuciano del 1789, ad esempio, sancisce la parità lavorativa tra uomini e donne). Massimo Cacciapuoti, fin dall’esordio di Pater Familias, riflette sul passato prossimo inquadrando nel familismo il male tragico della contemporaneità, mentre Iaia Caputo con il recente Era mia madre individua nel passaggio di consegne tra genitori e figli l’unica forma di “progresso” ormai possibile, nel momento storico in cui il patto sociale sembra saltato. Le scrittrici summenzionate sfruttano sapientemente il tema identitario per fuoriuscire dall’impasse storica, sottoponendo al vaglio della critica il modello sociale con cui è stata strutturata l’immagine del Meridione fin dal 1860. L’identità napoletana ha sempre dovuto ciclicamente riformularsi, trovando nuovi e ingegnosi modi per metabolizzare gli influssi stranieri senza farsene fagocitare: siano essi angioini, aragonesi, borbonici o più recentemente savoiardi.

A ogni momento di crisi ha sempre fatto seguito un’esplosione creativa senza precedenti, utile a compensare le carenze strutturali con le innovazioni culturali. Resta da capire, ora, se queste energie siano forti abbastanza da reclamare un aggiornamento del dibattito sulla questione meridionale, quantomeno in chiave letteraria.

Counting Crows, il cold case è risolto

La pubblicazione avvenuta pochi giorni fa del brano August and Everything After dei Counting Crows risolve un piccolo cold case nella storia della band. Già perché quello che oggi è un singolo inedito del gruppo californiano – lanciato a 0,99$ in esclusiva sulla piattaforma musicale di Amazon – nel 1993 era soltanto il titolo dell’album che si rivelò poi essere un capolavoro. August and Everything After, composto da 11 brani tra cui spiccano Round Here, Sullivan St., Omaha e Mr. Jones, è un disco di paesaggi interiori, con testi che raccolgono le inquietudini dei giovani cresciuti nella provincia americana; che parlano soprattutto di solitudini sofferte, sogni di fuga infranti e dei relativi desideri di rivalsa. “Non so perché scelsi quel titolo per il nostro album d’esordio – spiega a 25 anni di distanza Adam Duritz, il leader della band –. In realtà, in quel momento pensavo che sulla copertina volevo qualcosa che nel disco non ci fosse. Ma mi piace pensare che un alone di mistero abbia circondato questo album per così tanto tempo”.

“La mia minaccia? Far ragionare le persone”

“Le parole sono armate tieni in alto le mani, giù da me noi siamo tutti un po’ sboccati e villani, ma quando ci armiamo di parole e di suono, a sparare lo sai siamo secondi a nessuno“. La voce storica dei 99 Posse, Luca “Zulù” Persico, è tornata a usare la musica e l’ironia come armi improprie per far saltare le coscienze assopite di noi italiani, “con la minaccia di farle ragionare”. “Bassi per le masse” è il suo secondo album da solista, missato da Madaski, con la musica di Dj Spike e una lunga fila di ospiti. Un album che si muove sulle basse frequenze del reggae e del dub per far ballare e pensare. “Bassi per le masse è un omaggio a John Lennon, un artista fondamentale per la mia crescita, ma soprattutto c’è la descrizione di tutto quello che ho fatto: ‘Mi rifugio nel basso, ricomincio da qua’. Non voglio insegnare nulla o indicare la strada giusta, voglio raccontare la mia totale alterità rispetto a quello che mi circonda. Sono altro, appartengo alla sinistra marginale, quella extraparlamentare, ma nonostante la nostra marginalità abbiamo costruito tanto e di questo vado orgoglioso”. Citando Johnny Stecchino in un brano si afferma che “il problema principale della nostra società è il traffico”. “È l’omertà. La tendenza dei nostri tempi è quella di raccontare, come se fossero molto semplici e di facile risoluzione, cose che in realtà sono molto complesse e con tempi di risoluzione lunghissimi. Non c’è un vigile in grado di mettere ordine: come dico in una canzone ‘Siamo messi molto male e non vi potete salvare’”.

A suo figlio Raul ha dedicato una ninna nanna, come se quella nascita avesse cambiato la sua musica. “Raul ha fatto fare pace a Luca e Zulù dandogli degli obiettivi pratici. Questa ninna nanna è l’occasione per raccontare un altro modo di immaginare il futuro di questo Paese, quando si addormenta un bambino si sta lavorando sui sogni. Ecco, se devo alimentare questi sogni preferisco fargli sognare una società in cui le differenze convivono proficuamente portando avanti tutte le potenzialità di una società senza farla retrocedere, piuttosto che una società in cui queste sono un pericolo”.

“Persino la musica è ossessionata dalle etichette”

Psichedelico è un brano di dodici minuti con il cantato che arriva a 4:33 e poi se ne torna da dove è venuto, come “Una ceramica italiana persa in California”. Psichedelico è un certo immaginario colorato, acido. Psichedelico è il pensiero di Davide Toffolo, prima ancora di arrivare all’ascolto di Sindacato dei sogni, l’ultimo album dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Lo è mentre sposta lo sguardo sulle cose. Invece di storcere il naso perché la maggior parte delle testate ha chiamato “graphic novel” ciò che non lo è, cioè la serie animata Adrian diventata un caso, lui – fumettista, intitolò un suo lavoro “graphic novel is dead” – invita a notare come sia bastato poco per ridare vita a una parola, rendendola uso comune. Sposta lo sguardo continuamente Toffolo, e va altrove: “Il punto è che sembra sempre servire una catalogazione, un connotato preciso alle merci. Vale anche per la musica. Noi siamo sempre stati un gruppo anarchico. Rock, ma anche un po’ reggae. Adulti, anzi forse vecchi, ma con una sonorità difficile da inquadrare anagraficamente. È lo stesso meccanismo per cui si definiscono all’interno dell’indie italiano cose che non hanno a che fare con la gran parte della scena indipendente. È che bisognerebbe fregarsene dei nomi”.

Cosa che i Tre Allegri fanno da circa venticinque anni. Per questo viene da chiedersi se “Mi capirai (solo da morto)”, una delle tracce del disco, non sia appunto un monito: “È un gioco ironico, anche perché noi in realtà eravamo già morti!” scherza Toffolo. “Noi restiamo ancora un oggetto non precisamente identificato. Una volta un discografico mi ha detto: siete fighissimi, ma siete troppa roba”. Insomma, troppo poco facili da inquadrare, travestimento compreso. L’idea di togliere la maschera tuttavia non è mai stata considerata perché “integralmente connaturata al progetto, non un’ossessione di difesa della privacy”. E anzi, ora i costumi e soprattutto le maschere potrebbero servire a trovare i “nuovi tre allegri ragazzi morti”. La band ha lanciato una competizione (#TalenTarm, su Instagram) che invita giovani gruppi a reinterpretare le loro cover, per poi poter aprire i concerti del tour (l’anteprima del 24 gennaio alla Santeria Social Club di Milano è stata sold out). Quando sta per sembrare autocelebrativo e anche un po’ fuori contesto – ma come, gli indipendenti che giocano al talent? – ecco che lo sguardo si sposta di nuovo e la risposta torna a spiazzare: “L’idea che sta nella nostra testa è quella di creare generazioni diverse di Tarm, come è successo per il lottatore messicano El Santo. Chi c’è dietro la maschera? Chiunque può essere l’Uomo Ragno. C’è un gruppo che suona come noi, nel 1994: spaccano”.

Dopo la selezione, “l’identità fisica dei Tarm potrebbe cambiare, forse spariremo”. Musicisti che cedono il passo scomparendo in una nuvola di fumo. Le maschere prenderanno vita per opera d’altri. E se non è psichedelia questa.

Campioni eterni. Quando l’età non conta

Pallone, basket, tennis, anche motociclismo: lo sport è in grado di raccontare delle storie incredibili di atleti vincenti a dispetto dell’età. L’ultimo è quella di Tom Brady, quaterbeck in finale del Super Bowl a ben 41 anni. Nove volte in campo nella partita dell’anno con i suoi New England.

Nove volte in campo nella partita dell’anno

Tom Brady Forse il football americano non è così seguito in Italia, eppure tutto il mondo conosce il Super Bowl e sa quanto pesi nella carriera di un atleta. Domenica Tom Brady, quaterback sulla via dei 42 anni, giocherà la sua nona finalissima, sfidando i Los Angeles Ram con i suoi New England. Un record che si aggiunge a quelli accumulati nelle altre otto partecipazioni: 4 volte miglior giocatore e 5 vittorie.

L’uomo di ferro vola nel Triathlon più duro

Alex ZanardiQuasi 3.000 atleti, 3,8 km a nuoto, 180 di bicicletta e 42,1 di corsa. Lo chiamano Ironman Triathlon, la versione più dura del triplice sport. Lo scorso settembre Alex Zanardi, 52 anni, ha chiuso un percorso del genere in 8 ore e 26 minuti, record storico per gli atleti disabili e quinto tempo assoluto considerando anche i normodotati, a soli 25 minuti dal vincitore tedesco Andi Boecherer, di 17 anni più giovane.

Il gol alla Russia a Usa ‘94 lo rende immortale

Roger MillaGloria del calcio camerunense prima che il pallone si globalizzasse – e che anche la giocata dell’ultimo terzino giapponese fosse a portata di clic –, Roger Milla stupì il mondo nel 1994, quando ai mondiali degli Stati Uniti, dopo un’onesta carriera in Francia, segnò alla Russia il gol della bandiera nella sconfitta per 6 a 1. In quel momento Milla, che festeggiava le reti con una danza intorno alla bandierina, aveva 42 anni.

Nessuno batte Vale (anche se negli anni ‘50…)

Valentino Rossi Sorpresa: nonostante a 40 anni lotti ancora per il titolo, Valentino non è il più “anziano” di sempre a aver vinto un Gran Premio nel Motomondiale. Fino a 60-70 anni fa non era insolito correre anche dopo i 40, e infatti il record appartiene a Ferguson Anderson (44 anni nel ‘53), ma in epoca moderna – e quindi in MotoGp – nessuno ha fatto meglio di Rossi, vincitore a Assen due anni fa a 38 anni compiuti.

Mr Hockey, sul ghiaccio dal Dopoguerra al 1980

Gordie Howe Se arrivi ad essere soprannominato con il nome dello sport che pratichi significa che hai lasciato qualcosa di grande. Per tutti gli appassionati, Gordie Howe è semplicemente “Mr Hockey”. E il nickname è meritato: prima partita da professionista in Nhl nel 1945, ritiro nel 1980, 35 anni dopo, all’età di 52 anni. Tra i più grandi di sempre, fu addirittura richiamato nel 1997, a quasi 70 anni, per un’ultima esibizione.

Tre titoli in tre decenni: primato unico in Nba

Tim DuncanRitirato da tre anni, Duncan è stato una leggenda Nba dei San Antonio Spurs, che lo chiamarono nel 97 dal College e non lo hanno più mollato fino al 2016. Due anni prima, compiuti i 38, Duncan ha vinto il suo quinto titolo Nba, registrando un record piuttosto insolito: l’ala degli Spurs ha vinto almeno un “anello” in tre decenni diversi (per altro con la stessa squadra). Prima del 2016 c’erano stati infatti il successo del ‘99 e i tre degli anni 2000.

Il Capitano infilza il Cska e fa il record in Europa

Francesco Totti L’ottavo Re di Roma non ha bisogno di statistiche per presentarsi, ma c’è un dato che rappresenta bene la sua longevità: a 38 anni e 59 giorni, il 25 novembre 2014, è diventato il più “anziano” marcatore della storia della Champions League, segnando al Cska Mosca. Meglio di lui aveva fatto solo Manfred Burgsmüller (38 anni e 293 giorni), ma nel 1988 la competizione aveva ancora il vecchio formato della Coppa dei Campioni.

Nascar a tutta velocità per il pilota classe ‘27

Hershel McGriffIl suo nome forse è noto solo agli appassionati di motorsport. Eppure McGriff detiene un record praticamente imbattibile: nel 2018, sei anni dopo l’ultima partecipazione, ha gareggiato in una corsa dei Nascar americani, le mitiche auto da velocità. Che cosa c’è di strano? Al momento di sedersi sul suo bolide, McGriff stava per compiere 91 anni, essendo nato il 14 dicembre 1927.

Meglio di Andre Agassi in vetta la ranking Atp

Roger Federer Venti Slam vinti, record di settimane (310) in vetta al ranking mondiale. Ma Roger Federer, che ancora battaglia con Novak Djokovic e Rafa Nadal per il posto di numero 1 Atp, è già nella storia: oltre ai titoli vinti, lo svizzero vanta il fatto di essere stato il tennista più “vecchio” a raggiungere la vetta del ranking. Andre Agassi c’era riuscito a 33 anni, Roger ce l’ha fatta a 36. E non è detto che non si migliori in futuro.

Otto Olimpiadi di fila: sugli scii dal ‘92 al 2018

Noriaki Kasai Un anno fa ha partecipato alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, categoria salto con gli sci. Niente di così emozionante per Kasai, che in Corea ha collezionato l’ottava partecipazione ai Giochi. Da Albertville 1992 a Pyeongchang 2018, passando per Torino 2006 e Soci 2014, dove ha vinto tre medaglie. Noriaki c’è sempre stato. E ora, dall’alto dei suoi 46 anni, punta Pechino 2022.

Tempi di pace, ma non per tutti: gli ebrei perseguitati in Libano

Quando dirigevo l’Unità ogni tanto, tra la posta politica di sostegno o protesta, c’erano lettere che mi disorientavano. Tutte avevano in comune una storia di cui, in tempo reale, ho conosciuto solo qualche pallido spunto. Ero in Israele durante la “guerra dei Sei Giorni “, immerso, da giornalista Rai sui cinque fronti (Libano, Siria, Giordania, Egitto e Palestina) e sapevo che in molti Paesi arabi erano esplose violenze e persecuzioni contro gli ebrei di quei luoghi, come se fosse scattato il segnale della fine. Le lettere mi chiedevano di parlarne. L’ho fatto, dedicando spazio soprattutto alla persona che era stata il preside della scuola italiana, mentre nelle strade di Tripoli avvenivano pogrom contro i nostri connazionali ebrei, in pieno tempo di pace, fra il processo di Norimberga e quello di Eichman, e mentre cominciava a esistere il sogno delle Nazioni Unite. Ma adesso l’ingiusto vuoto narrativo è stato colmato dal romanzo – documentario “Qual’è la via del vento” di Daniela Dawan, scrittrice già nota, che è nata a Tripoli, è fuggita nei giorni di sangue della vendetta libica, ed è ora Consigliere della Cassazione a Roma. Ma il libro della Dawan non è solo un importante ponte su un vuoto, il legame con una parte di storia contemporanea, importante, tragico e ben poco narrato.

L’autrice affronta la complessità degli eventi: chi sono gli ebrei italiani che in tanti vivono In Libia, e partecipano alla nascita di un Paese che sta per essere moderno, ricco e che potrebbe cambiare l’Africa? Chi sono i libici che rischiano e aiutano, le suore che proteggono le loro scolare ebree, le autorità del mondo che ci sono e non ci sono, e quelle italiane, che intendono fare tutto il possibile, ma non sembrano sapere con certezza se c’è e dove passa un confine fra italiani ebrei e non ebrei ? “Qual’è la via del vento “ si muove continuamente fra il livello familiare e privato delle storie, la storia vista dall’interno di una famiglia, e la storia che cambia e sconvolge ogni vita privata, spingendo a un continuo cambiamento di piani, decisioni, strategie e fiducia. A momenti la narrazione è pubblica e corale. A momenti è intima e personale. Fino al punto che quando Micol, fuggita da bambina, tornerà a Tripoli da avvocato per incontrare Gheddafi e reclamare i diritti negati, emerge anche il mistero di una sorella scomparsa. Il libro-documento di Dawan colma un vuoto e certo racconta una parte del non detto. Ma il romanzo è anche il diario di una vita italiana sconosciuta in un Paese che continua ad avere un tragico dialogo con il nostro Paese.

La pantera, dalla scuola alla strada

L’hanno avvistata durante la notte sulla via Nomentana, sfrecciava da un marciapiede all’altro, probabilmente senza curarsi delle strisce. Una pantera. Nera, come il buio che l’ha risucchiata. Passanti e automobilisti ci giurano, la polizia conferma. Ma da quella notte il felino ha fatto perdere le sue tracce, alla faccia di cacciatori, domatori, allevatori che si erano radunati a Roma e dintorni. Un segno però l’ha lasciato. Il movimento studentesco nato alla Facoltà di Lettere di Palermo e diffuso in ogni università gli ha rubato il nome. Tutti parlano della Pantera, che arrota le sue unghie sui legni delle aule occupate o nei corridoi ricoperti di manifesti. Accompagno Manolita a fare l’esame di etnomusicologia con l’illustre professor Carpitella, immenso conoscitore di suoni arcaici. Le scale della facoltà rimbombano di bonghi, dappertutto materassi, fornelletti e barbecue. L’aria sa di salsiccia e braciole. Lezioni sospese a forza, colloqui bloccati, esami…figuriamoci. Manolita studia da tre mesi, sa tutto sulla musica popolare calabro lucana, e non vuole sentir parlare di rinviare l’esame. Vede il professore che entra a fatica nel suo ufficio, scansa un sacco a pelo con tanto di dormiente. Ne esce un ragazzo che sbadiglia una frase tipo: “‘A facortà è occupata, oggi nunzentra…” Manolita sbotta e comincia a urlare in faccia all’occupante che quello è un abuso, un tradimento degli ideali dei movimenti studenteschi storici, una violazione di diritti sacrosanti… l’occupante panterofilo risponde emettendo un sonorissimo rutto e si allontana. Manolita e il professore rimangono interdetti e ammutoliti dalla potenza di quel rumore, un suono inclassificabile difronte a ogni analisi etnomusicologica. Io penso alla pantera, quella vera, sperduta sulla via Nomentana chissà dove… fortunatamente per lei.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Caso migranti: lezione di Virgilio per il ministro

Qualche giorno fa, su una rete televisiva nazionale, il ministro della giustizia ha manifestato con veemenza tutta la sua indignazione contro chi qualifica addirittura naziste, evocando così le deportazioni dell’Olocausto, le politiche sui migranti del governo italiano. In effetti, forse il confronto è eccessivo, eppure il ministro dovrebbe ricordare sia la recente storia italiana e il fascismo, nervo ancora scoperto di una nazione, sia il fatto elementare che i diritti o sono universali o diritti non sono. A proposito dei casi Diciotti e Sea Wacht, invece, al ministro della paura, che proviene da studi classici girerei un banale compito per casa, cioè tradurre, mentre magari sbocconcella una fetta di pane e nutella, questo brevissimo passo latino: “Huc pauci vestris adnavimus oris. Quod genus hoc hominum? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Hospitio proibemur harenae; bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, at sperate deos memores fandi atque nefandi.” Per togliere dall’imbarazzo il ministro riportiamo anche una traduzione: “Di qui navigammo in pochi alle vostre rive. Che genere d’uomini è questo? Che barbara patria permette quest’uso? Ci negano perfino il rifugio della spiaggia; muovono guerra e vietano di fermarci sulla vicina terra. Se disprezzate il genere umano e le armi dei mortali, almeno temete gli dèi, memori del bene e del male”. Si tratta di Virgilio, una grande voce antica, e del poema nazionale della Roma augustea (Eneide 1.538-543), in cui è espressa l’irrefrenabile indignazione verso la violazione di un antichissimo principio generale di civiltà umana. E non c’entrano né i fascisti né i nazisti.

La lotta alla mafia e la passione: i viaggi sul “Rita Express”

“Tutto a posto? C’è da fare qualcosa?”. Nella sala in cui si spostano sedie e si fanno pulizie irrompe un marcato e giovane accento siciliano. Nulla di strano, se non fossimo ad Altona, quartiere storico di Amburgo. A lavorare alacremente per un pubblico evento culturale è un attivissimo gruppo di signore italiane, si sono date il nome “Rete Donne”.

Lo guida una signora romana che è una vera miniera di avventure, proprie e altrui. Racconta di quando dormì in sacco a pelo sulla grande muraglia cinese o di spericolati viaggi in autostop; del prete evangelico della locale chiesa di San Paolo, omosessuale e sposato con il suo compagno, che per mesi ha dato ospitalità in chiesa a decine di fuggiaschi da Lampedusa e che celebra una splendida messa per bambini; oppure dell’immigrato italiano che finché morì ebbe due famiglie, una in Italia e una in Germania, l’una all’insaputa dell’altra fino ai funerali. Eleonora Cucinotta, questo il nome della signora, parla correntemente sei lingue, compreso il cinese. E meriterebbe, lei con le sue compagne, un racconto tutto per sé se non fosse che quell’irruzione siciliana appartiene a un’altra Eleonora, più giovane e con altra più breve storia di avventure.

Tanto è sobria nel suo cosmopolitismo la prima, tanto è scoppiettante la seconda. Viene da Enna, Eleonora Lambo, e ha tutti i requisiti della cabarettista di successo. Capelli neri tinti a metà di verde, ha una straordinaria capacità di riprodurre i personaggi canzonandoli, di improvvisare macchiette con la mimica dei muscoli facciali e di occhi grandi come noci. Dopo passaggi da Pisa e Barcellona ha preso a Palermo un master in animazione digitale, Accademia di belle arti di Palermo, l’unico in Italia. Poi è venuta fino ad Amburgo. Il mestiere? Progetti di animazione digitale per le scuole, da libera professionista. Insegnare i cartoni, a essere creativi sempre, anche quando c’è da riprendere la realtà nuda e cruda. Lavora con i bambini, ma lavora anche con gli anziani. Sta raccogliendo storie di immigrati, per salvare la memoria di una generazione di confine. Vorrebbe raccontare al mondo la sua Sicilia sconosciuta. E intanto, con un video autobiografico, ha vinto il premio “La mia Europa” in ricordo di Fabrizia De Lorenzo, la ragazza italiana uccisa ai mercatini di Monaco dai terroristi.

Mentre parla, l’altra Eleonora mi dà sottovoce l’informazione che quasi ribalta la conversazione: “Si porta nel cellulare la foto di Rita Borsellino, se la faccia vedere”. È un attimo. L’identità della giovane creativa si allarga a macchia d’olio. “Sì, è vero. Nel 2006 ho fatto la campagna elettorale per Rita sperando che diventasse presidente della Sicilia. ‘Tornare per vincere, vincere per tornare’ era il nostro motto. Ci abbiamo creduto. Guardi, in questa foto sono con due mie amiche, alla stazione dove aspettavamo di prendere il Rita Express, il treno che doveva riportare centinaia di giovani siciliani in patria con la speranza nello zaino. E qui c’è lei.” Mostra la sorella del giudice, sorridente come sempre, e riavvolge il filo: “Capii che cos’era la mafia quando avevo dieci anni. Noi bambini a Enna andavamo a giocare sul grande spiazzo davanti al tribunale. Poi quando uccisero Falcone e Borsellino quel grande cortile pubblico ci venne vietato. La mafia metteva le bombe. Così se lo prese l’esercito, e nella nostra visione della vita tutto cambiò. Per me che scelsi di andare a Pisa per non restare intrappolata fra clientelismi e raccomandazioni, l’idea che Rita vincesse era un sogno”.

Già questa conversazione sarebbe valsa la serata. Ma c’è anche un giovane ingegnere vicino a noi, mi dicono che sta ottenendo successi professionali fulminanti, si chiama Marco Bertazzi. Anche lui, rivela, era su quel Rita Express. Ma non si conobbero allora con Eleonora, c’è voluta Amburgo. E anche lui può dimostrare di avere combattuto la buona battaglia. Estrae dal portafogli il biglietto di quel treno, da dodici anni lo custodisce come un tesoro.

Davvero avvengono cose incredibili. Parlai di quel treno sul Fatto la scorsa estate, quando Rita chiuse i suoi occhi azzurri. E mi sono poi chiesto che fine avessero fatto quei ragazzi. Di alcuni, con cui ero rimasto in contatto, lo sapevo. Ma tutti gli altri dove saranno oggi? Sono dovuto venire ad Amburgo per incontrarne in una sola sera due, allora sconosciuti l’una all’altro. E tutti e due ancora impegnati in prima fila, lontani dalla loro terra e italiani di successo. Che semi resistenti furono gettati da quel sogno.

Tra Forum e realtàQuei giudici e i “rimproveri” per essere stata stuprata

Cara Selvaggia, è per me molto difficile scrivere questa lettera perché riapre vecchie ferite ma non riesco a tenere quello che ho dentro. Avrai letto la bufera su Forum e sul giudice donna che si è trovata al centro della tempesta mediatica. La storia: una ragazza viene stuprata e da quella violenza nasce un bimbo. Il bimbo viene riconosciuto dal padre che è in carcere, senza il consenso della madre che ora ostacola le visite della nonna paterna. La nonna chiede di vedere con regolarità il nipote al posto del padre. La madre si oppone: il padre non è degno di essere padre e la nonna non ha voce in capitolo. Il giudice, durante la discussione, rimprovera la ragazza perché la sera dello stupro era ubriaca tanto quanto lo stupratore.

Qui arriva la mia storia. Anche io sono stata violentata 10 anni fa e anche io ero ubriaca. Non così tanto da non capire nulla, ma così tanto da non avere la forza di reagire. Tutto quello che mi succedeva mentre i due abusavano di me era assolutamente chiaro e terribile ma potevo solo aspettare che finissero e pregare che non mi facessero del male ulteriore. Durante il processo l’avvocato di uno dei due ha impostato tutta la tesi difensiva sulla mia ubriachezza, sul fatto che fossi una poco di buono, sul fatto che le brave ragazze non bevono fino a ridursi in quel modo, sul fatto che le tre birre mi avessero resa più disinibita e poi me ne sia vergognata o pentita, dando la colpa di quel fraintendimento ai violentatori. Per me è stato umiliante e ingiusto, io ricordo tutto, ho vissuto tutto, ho sofferto tutto. In realtà sarei voluta essere così ubriaca da non ricordare nulla e invece ero stordita ma presente. Il giudice non ha mai sostenuto le parole dell’avvocato della difesa, lo ha spesso fermato e redarguito, uno dei due alla fine è stato condannato a una pena severa, l’altro a qualche anno in meno. Quelle parole su di me però mi sono rimaste dentro e hanno ferito anche i miei genitori, a morte, tanto che mio padre anni dopo ha contattato quell’avvocato su Facebook e l’ha insultato, beccandosi anche una denuncia per ingiurie. Ha sbagliato nella forma ma aveva ragione mio papà. Che due anni dopo è morto, con addosso quel dolore di avermi vista umiliata una seconda volta in tribunale davanti a tante persone, davanti ai miei stupratori. Tutto questo Selvaggia per dire che quel giudice mi ha fatto tornare in mente l’incubo di quel processo. E spero legga queste parole: un bicchiere non è mai di troppo. Un corpo addosso al tuo senza che tu lo voglia, è sempre di troppo.

Sara

Cara Sara, ho visto quella scena a Forum ed è stata imbarazzante. L’idea che un giudice per giunta donna possa avere un’idea così preistorica di quella cosa chiamata “consenso” mi atterrisce. Quel “anche lei aveva bevuto!” era degno di un commentatore della domenica su fb, non certo di un magistrato. Spero che la signora si scusi in fretta o potrebbe finire a sua volta a Forum , ma come imputata, contro qualche milione di donne inferocite.

Avere una figlia maschiaccio

Cara Selvaggia, ho letto tutto quello che c’era da leggere sulla polemica che riguarda Vladimir Luxuria e la trasmissione in cui è andata a spiegare ai bambini cosa significhi nascere donna in un corpo di uomo e molte altre cose che non riassumerò. Mia figlia di sette anni che chiamerò Rosa si sente un bambino più o meno da quando è nata. Io e mio marito abbiamo provato a nascondercelo per un po’ ma abbiamo mollato che aveva tre anni, quando cominciò a parlare di sé al maschile. Sì lo so che sembra assurdo ma noi le dicevamo “come sei bella” e lei diceva “io sono bello”. Con una forza e una decisione a cui ci siamo arresi subito. Ha sempre rifiutato gli abiti femminili, non ha giocato con altro che con le sue macchinine, adora Dragon ball e i videogiochi, non vuole nulla che appartenga al mondo delle bambine. Quando è stato il momento di mandarla alle elementari ci siamo preoccupati. Una bambina coi capelli cortissimi come li vuole lei, avrebbe destato sospetti? Quanto ci avrebbero messo le maestre a capire? Dopo una settimana siamo state convocate. “La bambina gioca a pallone con i maschi, a ricreazione dice ai compagni che lei è un maschio”. Abbiamo detto che lo sappiamo, che avremmo iniziato il percorso con lo psicologo perché servirà a lei ma soprattutto a noi, per capire come sarà giusto accompagnarla in un cammino tanto complicato. Il percorso è iniziato e ormai i compagni hanno accettato Rosa come una compagna un po’ bizzarra e maschiaccia. Però succedono cose tristi: i ragazzini di quarta lo chiamano Maschio, o i ragazzini che “Sei una femminaaaaaa?” perché in effetti Rosa crescendo ha un aspetto sempre meno definito. E torno a Vladimir. Se ci fosse una Vladimir in ogni classe e scuola che andasse a raccontare di quella bambina che voleva uscire fuori e che non poteva trattenere dentro di sè, mia figlia avrebbe vita più semplice. Tutti capirebbero , adulti e bambini. Chi vuole nascondere questa realtà ai bambini crea un ostacolo (ulteriore) ai genitore. Io non so come sarà il futuro di Rosa, spero più aperto e preparato del presente, ma se Luxuria è vista come il Diavolo, temo che prima, la mia Rosa, dovrà farsi un po’ di Inferno.

Giorgia

L’altro giorno, a Ravenna, qualche fesso ha fatto una scritta sul muro della scuola. La scritta diceva che il preside era gay. Il preside non l’ha fatta rimuovere, ha detto “Ho pensato che potesse essere più educativo farla rimanere lì come ‘pietra d’inciampo’ per l’intelligenza””. Ecco, Direi che le polemiche su Vladimir in tv con i bambini vanno lasciate lì, come pietra d’inciampo’ per l’intelligenza.

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