La nuova edizione del volume Giùnapoli di Silvio Perrella, riapparso dopo oltre un decennio per le edizioni Beat, offre l’occasione per fare il punto della situazione sulla cultura e sull’identità partenopea. Anzi, sulla cultura dell’identità partenopea: a partire dal nuovo secolo, Napoli è diventata infatti un vero e proprio genere letterario, con all’attivo centinaia di pubblicazioni in ambito saggistico e narrativo. A tutt’oggi si contano oltre 50 scrittori residenti in città, alcuni dei quali di caratura internazionale. Eppure, non c’è neanche una sola casa editrice di rilievo nazionale, che funga da polo aggregativo come accade a Bari per Laterza o a Palermo per Sellerio.
Per non parlare della crisi del maggiore quotidiano cittadino, della debolezza di istituzioni culturali longeve, del più generale declino degli investimenti e dell’occupazione. Il picco delle energie creative, in definitiva, coincide con il momento di maggior crisi dell’apparato produttivo. Come spiegare il fenomeno?
Ripercorrendo le tracce del passato letterario, forte dell’insegnamento di Raffaele La Capria, Perrella identifica nell’immediato dopoguerra il momento di “blocco storico” del Meridione, costretto a svendere se stesso pur di sopravvivere: l’immagine di una Napoli misera e violenta, paurosamente seducente per la propria crudeltà e costretta a fare scalpore per diventare protagonista (da Curzio Malaparte a Gomorra), non è che l’altra faccia della cartolina suadente e tradizionalista di un popolo felice, tra canti e lazzi.
La cessione della sovranità, dell’indipendenza, della forza-lavoro e finanche della propria stessa immagine è stata il prezzo da pagare per consentire alla cultura napoletana di sopravvivere allo straniero di turno.
In realtà, le cose non stanno esattamente così. Tra il versante pulcinellesco e quello dell’agiografia camorristica emerge una corrente contraria, una pattuglia nemmeno tanto sparuta di intellettuali che tenta di problematizzare i nodi irrisolti e di lasciare aperte le ferite storiche. Non è un caso si tratti soprattutto di scrittrici, sensibili per vocazione alle differenze e alle istanze delle minoranze.
Se la capofila è Elena Ferrante – che, lungi dall’amarcord, tenta di scrivere il primo romanzo di formazione compiuto della meridionalità contemporanea – di sicuro vanno annoverate anche Antonella Ossorio e Viola Ardone.
La prima, con il suo La mammana, si muove tra il sacro e il profano durante i moti del 1848, ripercorrendone i tumulti attraverso la storia intima di due donne e sottolineando l’importanza dell’indagine psicologica individuale ed emotiva per la comprensione della vicenda collettiva.
La seconda, con Una rivoluzione sentimentale e soprattutto con l’imminente Il treno dei bambini, scava nelle storture sociali delle scuole di periferia d’oggi o delle famiglie indigenti del dopoguerra costrette a spedire al nord i propri figli, rinnovando l’annosa questione della “costruzione” dell’asservimento del sud. Agnese Palumbo invece utilizza lo strumento della non-fiction per intessere un articolato mosaico di storie, rimandi e rettifiche di luoghi comuni della cultura napoletana: uno per tutti, nel recente I love Napoli, si rilegge la figura di Maria Carolina d’Austria – dalla storiografia ufficiale sempre descritta come novella Messalina – sotto la lente della sua grande visione politica (il Codice Leuciano del 1789, ad esempio, sancisce la parità lavorativa tra uomini e donne). Massimo Cacciapuoti, fin dall’esordio di Pater Familias, riflette sul passato prossimo inquadrando nel familismo il male tragico della contemporaneità, mentre Iaia Caputo con il recente Era mia madre individua nel passaggio di consegne tra genitori e figli l’unica forma di “progresso” ormai possibile, nel momento storico in cui il patto sociale sembra saltato. Le scrittrici summenzionate sfruttano sapientemente il tema identitario per fuoriuscire dall’impasse storica, sottoponendo al vaglio della critica il modello sociale con cui è stata strutturata l’immagine del Meridione fin dal 1860. L’identità napoletana ha sempre dovuto ciclicamente riformularsi, trovando nuovi e ingegnosi modi per metabolizzare gli influssi stranieri senza farsene fagocitare: siano essi angioini, aragonesi, borbonici o più recentemente savoiardi.
A ogni momento di crisi ha sempre fatto seguito un’esplosione creativa senza precedenti, utile a compensare le carenze strutturali con le innovazioni culturali. Resta da capire, ora, se queste energie siano forti abbastanza da reclamare un aggiornamento del dibattito sulla questione meridionale, quantomeno in chiave letteraria.