In Italia la corruzione regna sovrana: ce lo ricordano quotidianamente gli scandali politici, i procedimenti giudiziari, le inchieste dei giornali. Lo dicono anche le classifiche internazionali: Transparency International ci mette al cinquantaquattresimo posto, dietro al Ruanda. Il problema c’è – enorme – ma forse ancora più enorme è la sua onnipresenza nel discorso pubblico, nella percezione comune. Ne parla una recente ricerca dell’Euripses, diretta da Giovanni Tartaglia Polcini, che spiega come le tanto citate classifiche internazionali misurino quanto diffusa sia la corruzione nella percezione degli italiani, non quanto sia effettivamente diffusa. Lo studio nota che se l’85% degli italiani è convinto che la corruzione sia ovunque, a domanda se abbiano conoscenza diretta di un caso di corruzione avvenuto negli ultimi dodici mesi la stragrande maggioranza risponde di no. Non si tratta di negare la pervasività della corruzione. Ma la centralità quasi egemonica del discorso sulla corruzione nel dibattito pubblico ha il potere di gonfiarne la percezione, allineando l’Italia, nelle classifiche, a paesi coi quali, quanto a parametri istituzionali e oggettivi, non ha nulla a che spartire. Questa centralità egemonica ha conseguenze politiche e sociali. Perché in Italia il discorso sulla corruzione – radicato certo nella corruzione reale – si è mangiato quello sulle diseguaglianze.
Da noi, ovunque si rilevi un’asimmetria di trattamento o l’accaparramento elitario di risorse, posizioni e potere, il pensiero va immediatamente a nepotismo, raccomandazioni oscure, favori incrociati, mazzette. Ora, in Italia l’ascensore sociale è bloccato e le diseguaglianze – di reddito e di ricchezza – continuano a crescere. L’ultimo rapporto Ocse sulla mobilità sociale nota che più del 60% di chi proviene da famiglie senza diploma superiore non raggiunge a sua volta il diploma superiore (media Ocse 40%). Spiega poi che ci vogliono in media cinque generazioni prima che una famiglia a basso reddito raggiunga il reddito medio nazionale, e che il livello di riproduzione sociale anche nei mestieri praticati è altissimo. I due fenomeni sono certo collegati. Ma possiamo ridurre l’uno all’altro? E si può affrontare l’uno attraverso l’altro? Eppure l’attenzione alla corruzione è stata alibi per ignorare le iniquità strutturali della società.
Un caso emblematico: da decenni, riforma dell’università è sinonimo di riforma dei concorsi. Ci sono i baroni, i concorsi truccati… Se vai a chiedere agli esclusi, agli espatriati, subito trovi citati baroni (talvolta reali, spesso teorici), nepotismo, assenza di meritocrazia. In risposta, una serie infinita di riforme del reclutamento – tra concorsi nazionali e locali, abilitazioni, meccanismi di controllo sempre più bizantini. Tutto vero, per carità. Ma sono davvero queste le cause profonde dell’esclusione (sociale, soprattutto) dall’università? O non è forse la mancanza pluridecennale di investimenti, il blocco del turnover, le troppo poche borse di studio – da quelle per il diritto allo studio a quelle dottorali e postdottorali? Per ogni vittima di un concorso truccato, decine, centinaia, migliaia sono esclusi ben prima, strutturalmente: c’è chi non può mantenersi durante gli studi; chi non ha i mezzi per fare un dottorato senza borsa; chi si addottora ma non ha poi le risorse, sociali ed economiche, per starsene parcheggiato per dieci anni ad aspettare un posto ipotetico che nel frattempo il governo di turno ha tagliato. È tutto questo – prima di baroni e concorsi truccati – che esclude interi strati sociali dalla possibilità stessa di tentare la carriera universitaria. Lo stesso accade in ogni angolo del sistema.
La corruzione è stata dai tempi di Tangentopoli, e rimane oggi, la foglia di fico ideologica che permette di ignorare, e perpetuare, forme più sottili ma più capillari di esclusione sociale, che la politica non combatte, ma favorisce. E di questo fenomeno il M5S è prodotto e rappresentazione.
Mentre altrove – Podemos, France Insoumise, Corbyn – il malcontento sociale è sfociato in movimenti “populisti” per i quali la critica alle diseguaglianze, all’intero assetto sociale ed economico, sono parte del Dna, il M5S comincia con “onestà”. La guerra alla povertà la fa non contestando il modello economico corrente – facendo cioè un po’ di guerra ai ricchi, alle élite e ai loro privilegi – ma piuttosto facendo la guerra agli sprechi, ai “disonesti”, che si intaschino le mazzette, evadano per milioni o, tirando a campare, trucchino l’Isee per prendersi il reddito di cittadinanza. “Abolire la povertà” mentre al contempo si riforma la tassazione in senso regressivo è un monstrum logico-ideologico contemplabile solo da un movimento nel cui orizzonte teorico e ideale una vera linea sulle diseguaglianze e sulle dinamiche che le producono non c’è. E alla lotta alla corruzione, alla “disonestà” – sacrosanta, per carità – viene assegnato il compito impari di farne le veci. Ma l’analisi è sbagliata – sono problemi collegati ma non sono un problema unico. E non si risolve l’uno affrontando l’altro.
In Italia, in questo “momento populista”, ancora manca un movimento che metta la lotta alle diseguaglianze al centro dell’agenda – che gridi magari ancora “onestà!”, ma gridi “eguaglianza!” un po’ più forte.