Quel battello per pulire il mare fermo nel porto da 14 anni

Quattordici anni per entrare in funzione. Ad aprile, finalmente, l’unità navale Cnndd Be 30, meglio conosciuta come il battello spazzamare delle Isole Tremiti, solcherà finalmente i mari. A garantirlo l’Ente Parco del Gargano che ha ricevuto l’imbarcazione 14 anni fa in comodato dal ministero dell’Ambiente. “Le difficoltà che hanno impedito l’effettivo impiego del battello spazzamare sono state soprattutto di ordine normativo” – fanno sapere dal Parco. Ma cosa è accaduto in questi 14 anni? Il servizio era stato istituito per iniziativa del ministero dell’Ambiente, allora Altero Matteoli, poi sostituito da Alfonso Pecoraro Scanio. Avrebbe dovuto provvedere alla “rimozione dei rifiuti solidi galleggianti dagli specchi acquei entro 6 miglia dalla costa per uso in conto proprio”, ma una serie di problemi burocratici ha bloccato il suo impiego.

Progettato e realizzato dai Cantieri Navali Di Donna di Gaeta, come spiega lo stesso Ente Parco, può essere usato “dal proprietario o da persona che abbia un contratto di lavoro”. E qui il primo problema: l’ente non ha personale proprio da impiegare sull’imbarcazione. Così viene chiesta la disponibilità al Comando Territoriale per l’Ambiente perché assuma la gestione del battello, ma questi risponde di no “per carenza di personale tecnico con patente nautica”. Il Parco chiede aiuto al ministero più volte. Il tempo passa e il battello richiede interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Così il ministero, per risolvere la situazione, come fa sapere il Parco, “evidenziava che gli Enti affidatari del battello, dopo aver assunto l’esercizio previsto dal comodato d’uso, potranno attraverso la normativa di appalto di servizi, individuare il soggetto cui affidare le attività”. Il Parco può finalmente affidare il battello.

Così, a dicembre di tre anni fa, avvia una procedura per la gestione del servizio di pulizia ambientale dell’Area Marina Protetta Isole Tremiti per l’anno 2017. Viene pubblicata la manifestazione di interesse, ma alla data di scadenza della gara nessuno si presenta. E si arriva al 2018. Nuova gara con importo base di 25mila euro più Iva, nuovo buco nell’acqua. Anche questa volta nessuno si aggiudica il bando.

Come fare allora per ripulire le acque di una delle località turistiche più belle d’Italia? L’Ente, con determinazione n. 393 del 31/08/2018, decide così “di ricorrere alla procedura di acquisizione in economia tramite affidamento diretto”, come previsto dalla legge. Il battello viene affidato a una ditta locale, ma al momento non è ancora in mare. Dal parco assicurano che andrà in funzione ad aprile, quando comincerà la stagione turistica e l’afflusso di persone sulle isole sarà maggiore. Speriamo.

Intanto però molto è stato speso in questi anni. Ecco alcune cifre fornite proprio dall’Ente Parco, che si riferiscono solo agli ultimi tre anni. Per il rimessaggio (2016-2018) circa 3mila euro, per la manutenzione ordinaria e straordinaria, l’annotazione di sicurezza Rina e la dotazione di sicurezza incluso la zattera 11 mila 381 euro e 250 euro circa per l’assicurazione. Molti soldi, pubblici.

Farmacie, limitata la concentrazione

L’ingresso delle società di capitali nella titolarità dell’esercizio delle farmacie private, stabilito nella legge sulla Concorrenza del 2017, non è mai piaciuto ai farmacisti italiani. Aprirà la strada a oligopoli a vocazione puramente commerciale, dicevano, con meno tutele per il cittadino. E così nel decreto legge Semplificazioni, che approderà oggi in Senato, è stato inserito un emendamento, presentato da Pierpaolo Sileri (M5S), che mira quantomeno a ridurne il rischio. Le società di capitali infatti potranno controllare, direttamente o indirettamente, non più del 10% delle farmacie esistenti nel territorio della stessa Regione (prima il limite era del 20%). Pena diffida e sanzioni da parte dell’Antitrust. Non è invece passata la modifica, sempre proposta da Sileri, alla manovra di bilancio in cui si chiedeva che almeno il 51% dei soci rappresentanti del capitale sociale e dei diritti di voto fossero farmacisti iscritti all’albo o società di farmacisti. “L’obiettivo – ci ha spiegato Sileri – è evitare che la criminalità organizzata faccia fallire le farmacie per prendersele. Una minaccia molto concreta al Sud”.

Crisi cinese, la virata che sa di antico: aziende statali come volano industriale

Mentre il mondo si interroga ansiosamente sull’esito del braccio di ferro tra Trump e la Cina, con la scadenza di marzo che potrebbe scatenare una nuova ondata di misure protezionistiche statunitensi, cresce il numero di osservatori che ritengono che il contrasto con Washington non sia la causa unica né determinante del rallentamento cinese. Un’economia, quella di Pechino, in cui si sta verificando una progressiva compressione del ruolo delle imprese private come motori della crescita, a tutto vantaggio delle imprese statali, per scelta della leadership di Xi Jinping, che in questi anni ha enfatizzato il ruolo della politica industriale da attuare mediante le aziende pubbliche, di cui è stata incentivata la crescita dimensionale mediante fusioni. Sembrano lontani i tempi (era il 2013), in cui il partito comunista guardava al mercato come “meccanismo decisivo di allocazione delle risorse”. Nel frattempo, il Paese ha proseguito ad indebitarsi, mentre l’impatto espansivo del nuovo debito si affievoliva.

C’è stato un ulteriore giro di vite alla vigilanza bancaria per contrastare fenomeni come lo shadow banking, che aggira i limiti qualitativi e quantitativi al credito. Questo razionamento del credito concorre al rallentamento dell’economia cinese ma sta colpendo soprattutto le imprese private, visto che le banche hanno aumentato i prestiti alle aziende pubbliche foraggiate anche da sussidi statali. Il consolidamento delle imprese pubbliche crea mastodonti inefficienti, che soffocano competizione e innovazione e che continuano a sanguinare copiose perdite: il ministero delle Finanze cinese ha ammesso che oltre il 40% delle imprese pubbliche opera in persistente perdita. Ma il gigantismo delle conglomerate pubbliche si è tradotto anche nel crollo della redditività del capitale investito e in una crescente divaricazione negli indici di produttività rispetto al settore privato, che pure sta entrando in sofferenza a causa di questi incentivi distorti, con investimenti in progressiva frenata. Il sistema delle imprese pubbliche, che controlla attivi pari a oltre due volte il Pil cinese, rischia quindi di essere la vera determinante della frenata del Paese, oltre che un ostacolo allo sviluppo della produttività. Dopo aver creato enormi eccessi di capacità produttiva nell’industria pesante e nelle costruzioni, legati al decollo industriale del paese, la Cina pareva decisa a pilotare lo sviluppo privato come correttivo “di mercato” a eccessi e inefficienze della pianificazione, sia pur mantenendo un’occhiuta supervisione ideologica, con la presenza di cellule di partito nelle imprese. Questa nuova virata che sa di antico, verso giganti pubblici come cinghia di trasmissione della politica industriale, rischia di riportare il Paese indietro nel tempo, proprio mentre il mondo occidentale pare aver deciso di non essere più terreno di silenziosa conquista economica da parte di Pechino.

La crociata europea contro la doppia qualità dei prodotti

Stessa marca, stessa confezione e stessa multinazionale che li produce. Ma i prodotti cambiano ingredienti e, soprattutto, qualità a seconda del Paese europeo in cui vengono venduti. Un fenomeno, questo del cosiddetto dual quality, che soprattutto gli Stati dell’Est denunciano da tempo, lamentandosi della disparità sulle materie prime utilizzate soprattutto nel settore alimentare, dove numerosi alimenti identici in apparenza a quelli che si trovano sugli scaffali di Germania o Grecia, in realtà contengono quantità inferiori di carne o pesce o edulcoranti artificiali anziché di origine naturale. Insomma, materie prime più scadenti rispetto agli Stati dove c’è maggiore attenzione al consumatore. E ora, dopo una battaglia andata avanti per anni, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria e Slovenia sono riusciti a far approvare a larghissima maggioranza dal parlamento di Strasburgo un emendamento che prevede che le società che commercializzano prodotti che sono “significativamente differenti” per composizione o caratteristiche potrebbero essere multate fino a 10 milioni di euro oppure sborsare il 4% del fatturato annuale nei Paesi interessati, a seconda di quale sia il più alto.

Le prove non mancano. In Slovacchia hanno scoperto che una nota marca di surgelati vendeva nei loro supermercati bastoncini con meno pesce rispetto a quelli che si trovano sui banconi in Austria. In Repubblica Ceca, invece, si sono accorti che una bibita all’arancia non aveva in realtà alcuna traccia di arancia, mentre in Germania lo stesso prodotto la conteneva. E in Ungheria, sugli stessi 71 prodotti commercializzati con la stessa marca ma venduti in Italia, solo 25 sono risultati uguali; gli altri 46 erano “più buoni” da noi. L’anno scorso – spiega il Salvagente – l’accusa di discriminare alcuni Paesi con formulazioni e ingredienti diversi è arrivata anche a Knorr, Nestlé, Danone e Hipp. Mentre un’inchiesta di mercato condotta a Praga – riporta il sito Great italian food trade – ha mostrato come la Sprite ceca abbia più dolcificanti artificiali di quella tedesca. Si riscontra, inoltre, un maggior utilizzo di olio di palma in tutti i Paesi dell’Est che sugli altri mercati, dove è sostituito con altri olii come quello di girasole. Ma la problematica coinvolge indifferentemente generi alimentari e non, come detergenti, cosmetici o articoli destinati ai bambini. Dal canto loro le multinazionali si sono difese dalle accuse spiegando che le differenze sono determinate dal fatto che ogni popolazione ha i suoi gusti e che i vari prodotti vengono adattati agli specifici gusti.

Come è possibile? Il produttore non è ancora obbligato a informare il cliente finale che il bene di un marchio familiare, presente sul mercato di uno specifico Paese europeo, può differire in un altro Paese proprio per composizione, peso, qualità o altre caratteristiche correlate dal momento che peso e qualità dei prodotti può essere, infatti, influenzata da fluttuazioni stagionali e altre variabili legate alla disponibilità di materie prime in territori differenti dal punto di vista ambientale e climatico.

Così a metterci una pezza è arrivato il New deal for consumers, vale a dire il piano di azione della Commissione europea per aumentarne la tutela dei consumatori, che modificando la direttiva 2005/29/Ue, consentirà di bollinare come pratica ingannevole la commercializzazione di due prodotti di base diversi ma con lo stesso nome. Secondo l’Organizzazione europea dei consumatori (il Beuc), il voto è “un passo nella giusta direzione”. Ma alcune preoccupazioni sono state sollevate rispetto alle sanzioni. Secondo l’emendamento, infatti, l’ammenda massima di 10 milioni di euro può essere imposta solo per le violazioni transfrontaliere che danneggiano i consumatori in almeno tre Paesi dell’Ue o in due Paesi diversi da quello dell’operatore commerciale.

“Anche se la questione dual quality è poco presente in Italia, è utile ricordare che solo leggendo l’etichetta si può conoscere realmente quello che acquistiamo: oltre all’indicazione dello stabilimento di produzione che identifica in maniera certa il luogo, viene infatti riportato anche il nome della fabbrica dove viene elaborato il cibo che mangiamo”, spiega Raffaele Brogna, responsabile del sito Io leggo l’etichetta. E, così, spulciando bene queste informazioni si riesce anche a risparmiare. Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dal portale, emerge che i Savoiardi venduti a marchio Conad sono prodotti dal blasonato Vicenzi Biscotti, lo yogurt Conad da Vipiteno, il riso Coop da Scotti, la pasta Italiamo trafilata al bronzo della Lidl arriva dal Pastificio Liguori, il latte Conad è prodotto da Granarolo, il riso Conad da Curti e il succo di frutta Coop arriva da Conserve Italia.

Fiat 500, c’è urgente bisogno di restyling

Quando arrivò, la Fiat 500 aveva lo stesso compito della Tata Nano. I puristi si rimettano pure seduti sulle sedie da cui sono scattati: non è un paragone irriverente, ma solo la constatazione che in origine l’obiettivo comune era la motorizzazione di massa. Fallito nel caso dell’indiana, centrato in quello della piccola torinese. Che peraltro nel tempo è diventata quasi un marchio a sé e non finisce di stupire neanche ai giorni nostri, se è vero che nel 2018 è stata venduta in 194 mila esemplari, con il 15% di quota nel segmento di riferimento in Europa, dove è prima in 11 mercati e sul podio in altri 4. In pratica quattro pezzi su cinque vengono venduti fuori dall’Italia, buon segno perché il fenomeno non è solo nazionale e conferma il suo ruolo di icona.

Certo, nel computo finale a pesare parecchio sono le 500X, ovvero le versioni crossover che vanno tanto di moda. E questo ci porta a una considerazione inevitabile: per riequilibrare il mix, ma anche per confermare questi numeri, c’è bisogno di novità. La 500 attualmente in vendita ha 12 anni di vita, ovvero più o meno il doppio dell’età media normale di un modello. Magari se li può permettere a livello estetico, visto il design senza tempo, ma tecnicamente no di certo. Soprattutto perché l’evoluzione tecnologica è rapida e pressante, e l’obsolescenza prima o poi arriva. Per restare unici, insomma, bisogna reinventarsi.

Dacia, così si diventa una potenza commerciale

Piacque subito all’élite parigina e all’Eliseo, perché era l’idea provocatoria di scavalcare la crisi raccontando ancora una volta al mondo ciò che Renault voleva essere: un creatore di automobili. Ma l’essenzialità ha progressivamente lasciato il passo alla concretezza, all’integrazione con il resto del gruppo Renault, alla qualità percepita e perfino al design. Rinasce così Dacia nel 1999, e parte dall’intuizione di un ad intellettuale, Louis Schweitzer, con la mossa di acquistare il marchio rumeno in decadenza e rilanciarlo con la suggestione di una vettura da 5 mila euro di listino. Dacia Logan arriva nel 2004, in Europa occidentale ne costerà 7.500 euro, ma con doppio airbag e abs compresi nel prezzo. Low cost, ma senza il cinico riutilizzo di meccanica scaduta. Logan è una berlina compatta progettata completamente al pc e fabbricata in Romania, con un investimento iniziale di 500 milioni di euro. Soprattutto, è solo l’inizio. In 15 anni Dacia ha venduto oltre 5 milioni di autovetture ed esteso la sua gamma a 6 modelli, aggiungendo la Logan Mcv, cioè station wagon, poi la media Sandero, il monovolume Lodgy e il multivan Dokker, ma soprattutto il suv Duster, arrivato nel 2010 e rinnovato nel 2018. Oggi è un player mondiale con stabilimenti anche in Russia, Brasile, Iran, India e Colombia e Marocco. Nel mirino ci sono mercati maturi e non emergenti. Lo scorso anno ha venduto nel mondo 700.798 autovetture, di cui 511.622 in Europa, con una crescita del 10,3%, mentre in Italia ha chiuso il 2018 con 61.600 contratti, + 6,2%, ovvero undicesimo costruttore in classifica e in campo. Non in panchina.

Tata Nano al capolinea. Finisce il sogno dell’ultra low cost

La Tata Nano passerà alla storia come una scommessa su quattro ruote. Ma persa. Il colosso indiano dell’auto ha, infatti, confermato che entro pochi mesi il modello uscirà definitivamente di produzione a causa degli scarsi risultati commerciali degli ultimi anni (nel 2018, nello stabilimento di Sanand, ne sono state sfornate solo poche decine).

Per questo, l’azienda ha deciso di non adeguarla ai nuovi requisiti di sicurezza che entreranno in vigore nel corso del 2019, decretandone di fatto il pensionamento. Certamente, però, la Tata Nano diverrà presto un business case dell’automotive, di quelli che si studiano nei corsi di economia e marketing aziendale. L’auto nacque come una people’s car, un mezzo ideato per motorizzare in massa l’India e accompagnarla nella transizione dalla mobilità delle due a quella delle quattro ruote. Eppure, nonostante i buoni propositi, non il vero amore tra la Nano e i consumatori indiani non è mai scoppiato.

Inizialmente il listino era fissato a circa 1.700 euro. Cifra in cui dovevano rientrare i costi di produzione nonché il profitto di Tata e della rete di vendita. Un’impresa impossibile, tanto che il prezzo del veicolo crebbe subito a 2 mila euro e poi, ancora, agli attuali 3 mila.

Cifre comunque irrisorie se confrontate con quelle necessarie per acquistare i veicoli più spartani venduti alle nostre latitudini. Naturalmente i contenuti tecnici sono proporzionali alle ambizioni e all’assegno da staccare: motore bicilindrico da 0,624 litri di cilindrata e 33 Cv di potenza (poi salita a 38) e cambio manuale a 4 marce. Niente servosterzo, niente vetri elettrici, niente aria condizionata, Abs, Esp, airbag. Assente persino il portellone posteriore apribile per accedere al vano bagagli, raggiungibile abbattendo gli schienali posteriori (difetto poi corretto). Niente di niente, quindi, se non la possibilità di offrire un abitacolo per quattro passeggeri.

Vista pure la vecchia joint venture fra Fiat e Tata per il polo industriale di Ranjangaon, si ipotizzò che la Nano potesse sbarcare in Europa, pur con gli opportuni adeguamenti. La commercializzazione in India iniziò nel marzo del 2009, col primo esemplare consegnato a luglio di quell’anno. Il lancio europeo, invece, venne rimandato al 2012 per adattare l’auto alle normative Euro 5 e ai crash test più restrittivi del vecchio continente: sfide tecniche che non vennero mai superate visto che da noi la Nano non è mai arrivata.

Tuttavia, quella che doveva essere l’auto di massa è stata un fiasco: ad aprile 2013, dopo 4 anni di commercializzazione, ne risultavano prodotte solo 230 mila. E da lì è stata una costante e inesorabile flessione delle vendite, la stessa che presto consegnerà la Nano alle cronache storiche dell’automotive.

In francia i gilet gialli fanno parte del paesaggio

“Il 17 novembre ho guardato i gilet gialli in tv. Il 18 ho detto a mia moglie che mi vergognavo di essere rimasto a casa. Allora ho preso la macchina e ho raggiunto una rotatoria”. Nel frattempo Pierre Volpi, neo-pensionato di La-Londe-les-Maures, un comune del Var, ha recuperato il tempo perso. Da due mesi a questa parte, una volta superata l’esitazione del primo giorno di manifestazione, è diventato uno dei pilastri del gruppo dei Gilet gialli presente sui comuni di La-Londe-les-Maures, Bormes-les-Mimosas e Le Lavandou. Ha anche spento la tv per convertirsi al web.

Con la sua “bella squadra” – come la chiama lui -, circa 1500 iscritti su Facebook, non occupa più le rotatorie ma si sposta in funzione del tipo di azione. Il sabato si riuniscono tutti per manifestare a Tolone. Il 15 gennaio, Pierre raggiunge Sarah e Robert a casa di Pascal e tutti e quattro si mettono a discutere in giardino. Per sfondo, galline che scorazzano tra i piedi, una voliera, che Pierre trova molto bella, e la casa di Pascal, una vera opera da artista del bricolage.

Ebrei e musulmani

Dalla parte opposta della Francia, Emmanuel Macron, in maniche di camicia, sta tenendo il suo primo grande dibattito davanti a 600 sindaci riuniti in una palestra della Normandia. Ai quattro Gilet gialli la cosa interessa poco e scherzano sul presidente che “fa le domande e dà le risposte”.

La lettera di Macron, pubblicata domenica 13 gennaio, li ha lasciati di sasso. Il trucco, dicono, è fin troppo facile da trovare: “L’immigrazione, l’identità, non sono temi per noi. Macron sta provando a dividerci”. Robert ne approfitta per precisare ai suoi nuovi amici che ha origini ebraiche, mentre Sarah ricorda che è musulmana. Pascal ride: “Noi cristiani siamo in minoranza a questo tavolo”, dice. Sarah continua: “Il fatto che Macron non risponda alle nostre domande, e anzi sostenga che siamo una folla antisemita, omofoba e che istiga all’odio, è molto grave”. Eppure Macron “qualcosa è riuscito a farla”. “Ci ha svegliati”, aggunge Pierre.

All’orizzonte, continua, mostrando un volantino, si profila il Referendum di iniziativa civica (Ric). “Se in Islanda ci sono riusciti, perché non dovremmo farcela pure noi? – interviene Robert -. Hanno nazionalizzato le banche, rifiutato di pagare il debito, dissolto l’Assemblea nazionale e indetto un’Assemblea costituente. Ci hanno messo un anno. Noi possiamo tenere altrettanto”. Pierre nota, ridendo, che “chiedendo il Ric, e non misurette che potrebbero essere prese rapidamente, i Gilet gialli hanno paradossalmente scelto la strada più lunga”. Sarah, lavoratrice autonoma nell’artigianato, constata comunque che il movimento, che occupa “un posto importante” nella sua vita, provoca sempre più tensioni e sentimenti di rigetto: “Indossare il gilet giallo, esporlo in macchina, ora è più complicato. Le persone ci dicono che abbiamo vinto, che dobbiamo tornarcene a casa, ci trattano come casi sociali”. Il governo gioca su questo progressivo disamore dell’opinione pubblica insultando il movimento, che definisce oltranzista e istigato da “faziosi e sovversivi”.

Il forte di Bregançon

Per i Gilet gialli del Var, la vicenda della “presa del forte di Bregançon” è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Quando, a fine dicembre, hanno saputo che Macron ci avrebbe passato le feste di Natale in famiglia, hanno deciso di andare a fare un pic nic sotto il fortino, portando degli striscioni. Tra loro c’erano anche Pierre, Robert, Pascal e Sarah. La polizia li ha braccati, poi è intervenuta la stampa. “Fino a quel momento nessuno si era davvero accorto di noi – confessa Florent, un Gilet del Var incontrato a Parigi –. Eravamo dei bravi ragazzi del sud che, a un certo punto, si sono ritrovati in mezzo ai gas lacrimogeni. E poi c’è stata la manifestazione del 5 gennaio, che ci ha mandato su tutte le furie”. Durante l’“Atto ottavo” della protesta, tutta la Francia ha visto il comandante della polizia Didier Andrieux mentre picchia un Gilet giallo di Tolone sul cofano di un’auto. La scena, preceduta da una serie di altri episodi di violenza, ha scioccato profondamente i manifestanti e il Var ha fatto irruzione sul campo delle violenze poliziesche e del radicalismo giallo.

“Le violenze della polizia ci hanno obbligato a cambiare discorso”.

“Lanciare pietre e mostrare la foto di Macron con la testa decapitata sono gesti violenti, lo so, ma sappiamo tutti che la rivoluzione non si fa con le rose, o no?

L’amicizia fraterna nata dal movimento potrebbe, paradossalmente, diventare l’altro tallone d’Achille dei Gilet gialli. Come continuare a esistere, mediaticamente e politicamente, e andare oltre la dimensione strettamente locale, restando apolitici? “Uno dei limiti del nostro movimento è che ci ostiniamo a non voler discutere su cosa fare del nostro futuro – martella Elvire -. La questione vale anche per i gestori di un gruppo Facebook che riunisce 6.000 persone, che non sono poche. L’essere apolitici a ogni costo per me ci mette nell’impasse”.

La linea resta apolitica

La giovane donna, dirigente nella funzione pubblica, si è già fatta escludere due volte dal gruppo di Bandol per la sua adesione manifesta al partito della France Insoumise. Ogni volta ritorna, senza scoraggiarsi, ma teme che alla lunga passare notti intorno a bidoni dati alle fiamme e a “mangiare salsicce” sia tempo perso. “Neanche io ho aspettato i Gilet gialli per voler cambiare la società – risponde Manu -. Ma quando sono qui con voi non è per assistere a una riunione di partito, è per partecipare a un movimento di contestazione”.

Olivier ritiene che sia tempo di “trasformare il movimento, di far schiudere la crisalide”. È la sfida degli atelier di riflessione che si tengono tutti i mercoledì sera nella sala della Società Nautica di Bandol. La parola si libera. “Alcuni di noi appoggiano azioni più dure, altri azioni pacifiche – spiega Olivier -. Abbiamo deciso che le due forme possono coesistere”. Più la notte avanza e più le domande si fanno pressanti: è il caso di partecipare al grande dibattito? di federare i gruppi dei Gilet Gialli del sud della Francia? di lanciare una forma di coordinamento nazionale come hanno fatto a Commercy? Che statuto dobbiamo dare ai portavoce?

Incrociamo un giovane diplomato a Sciences-Po, vicino all’UPR-Union Popolaire Républicaine, il partito sovranista di François Asselineau, che confessa di “vivere i più bei giorni” della sua vita militante, contento che il dibattito si sia esteso al Ric. C’è anche una pensionata che, in bella scrittura, ha riempito tre pagine di rivendicazioni nel cahier de doléances, ma non vuole farsi coinvolgere troppo perché “teme l’influenza dell’estrema destra sul movimento”. La linea apolitica resta però un caposaldo per i Gilet. “Su questo punto non cediamo. Qualsiasi cosa, ma questo no, non è negoziabile”.

A Tolone, nel 1995, un certo Jean-Marie Le Chevallier, del Front National, è riuscito a carpire la poltrona di sindaco, per la durata di un mandato. Da allora il Var resta un dipartimento caro all’estrema destra. Alcuni responsabili politici sono riusciti a radicarsi localmente e Marine Le Pen è arrivata in testa al primo turno delle presidenziali. Eppure, alle ultime legislative, nel Var ha spopolato il partito di Macron, La République en marche. “Di tanto in tanto si sente parlare di immigrazione, ma non si è mai visto tra noi nessuno che politicamente aderisca al Fronte National – sottolinea Géraldine -. Chi vota Fn nel Var non è Gilet giallo. “Ma è tra noi che le cose si complicano”, deve riconoscere Géraldine.

Sul posto ci sono anche tre roulottes e uno stand dove ci si può informare sul Ric, annotare delle idee e consultare il regolamento di come funziona un’occupazione. Per adesso, Vinci Autoroutes, i gendarmi e i responsabili politici locali tollerano l’accampamento e, dal momento che la maggior parte delle rotatorie sono state sgomberate, molte persone affluiscono al casello. Comincia poco alla volta a prendere piede l’idea di trasferirsi a tempo indeterminato e di insediare una sorta di fortino che domini su tutta la pianura, anche se il “gruppo di Le Luc” si rivendica profondamente pacifista. Éric, che porta una sciarpa militare in maglia intorno al collo, ha a lungo militato nell’“intellighentsia locale di gauche”, con l’associazione Attac o aderendo alla Lega per i diritti umani. “È tutta la vita che aspetto questo movimento. I miei vecchi compagni di battaglia non sono Gilet gialli. Qui è come essere in trincea, non ci sono né comfort né pulizia, e non è un posto molto rassicurante. Ma ci stiamo vivendo cose straordinarie”.


Da Mediapart.fr traduzione Luana De Micco

“Dal campo alla panchina: così Allegri è riemerso dalla polvere”

E il destino, si dice. Ad Agliana, Massimiliano Allegri, arrivò su consiglio di un giornalista locale, Enzo Cabella, tifosissimo degli “arancioni” della Pistoiese. Gianni Doni, all’epoca direttore sportivo e, oggi, presidente dell’Aglianese: “Eravamo in serie D, il patron Silvano Pieralli titolare di un’azienda di filati, voleva provare a vincere il campionato e così diede l’ok per due ex professionisti: Scugugia, già difensore del Cesena, e appunto Allegri. Cabella garantì per lui, dicendo che era forte e che, soprattutto, aveva bisogno di una mano”.

Il millennio era appena iniziato, anno 2001. Max era alla fine di una carriera dignitosa, ma era rimasto intrappolato in quell’Atalanta-Pistoiese di coppa Italia che, ad agosto 2000, fece registrare un’impennata anomala di scommesse sul parziale/finale: 1 primo tempo, X finale. Giusto quello che successe: vantaggio di Doni (Cristiano), pareggio nella ripresa di Bizzarri per i toscani. Finale: otto deferiti, tre dell’Atalanta (Banchelli, Doni e Siviglia, poi anche altri) e cinque della Pistoiese (Aglietti, Amerini, Bizzarri, Lillo e, appunto, Allegri).

In primo grado, marzo 2001, vengono condannati in cinque ad un anno di stop: Siviglia, Zauri, Gallo, Aglietti e, appunto Allegri (Doni venne prosciolto subito, salvo – anni dopo – confermare in un’intervista che la gara era stata truccata e che tutti sapevano). A nulla valse, per l’attuale tecnico juventino, ammettere di essere sì uno scommettitore quotidiano, ma solo di cavalli. A maggio il ribaltone, tutti prosciolti.

Col morale sotto i piedi, Allegri aveva scarse opzioni davanti. Quando gli venne proposta questa squadra piccola ma ambiziosa, a 100 chilometri da Livorno. Lui accettò di corsa. Doni: “Gli davamo poco più di 1000 euro al mese, benzina compresa”. Dubbi? “Nessuno, una persona squisita, da metterci le mani sul fuoco”. La squadra non era male: “Avevamo Giovanni Rossi come bomber, calciatori come Minieri, Bonavita, Riberti. Allegri e Scugugia permisero il salto di qualità”.

L’allenatore era Francesco Buglio, uno “di categoria”, già vice di Lippi a Pistoia, nel 1987. “Non andavano molto d’accordo. Max era un allenatore in campo, aveva personalità e una capacità di leggere la partita impressionante. Col senno di poi, direi che era già tutto scritto e che bisognava solo sapere leggere. Un giorno, a San Lazzaro di Savena, Max ce l’aveva con il suo compagno Giunta, che doveva coprirgli le spalle, ma correva poco. Si voltò verso Buglio e gli disse: ‘Lo levi te o lo levo io?’ Il mister non la prese proprio bene”. Quando Doni e Buglio si incontrarono, nei tre lustri successivi, non parlarono di Max: “Non abbiamo mai fatto il minimo cenno ad Allegri e alla sua storia, ho paura anche di chiederglielo”.

Arrivò la C2, cioè il professionismo. Verso la fine del campionato patron Pieralli comunicò di voler lasciare, troppe spese pr giocare in quella categoria. “Pensammo anche ad Allegri come allenatore-giocatore, per risparmiare, ma non ci sembrò molto convinto”.

In estate, Pieralli salutò per davvero. “Con gli altri due o tre dirigenti storici, piccoli commercianti o artigiani, stavamo per mollare. Ma a quel punto, un giorno sì e l’altro pure, ci ritrovammo davanti alla porta due giocatori: Max e Giovanni Rossi, a supplicarci di pagare l’iscrizione e di affidarsi a loro, con ruoli diversi: il primo come allenatore, il secondo come direttore sportivo”.

Il destino stava dando un altro giro di ruota. Allegri è quello che tutti conoscono. Rossi attualmente è il ds del Sassuolo. Amici intimi.

Ancora Doni: “Ci convinsero, stipendio sui 25mila euro all’anno, spese incluse”.

L’anno della C2, con Max in panchina, arrivano Sordo (ex Milan) e Andreotti (ex Pisa e Florentia). L’Aglianese si salva giocando bene, per due volte fa 0-0 contro la corazzata Sangiovannese, costruita per vincere e allenata da un altro emergente: Maurizio Sarri, 180 minuti di noia al cubo.

L’Allegri visto togliersi il cappotto e buttarlo in terra per la rabbia Carpi (tre anni fa), Doni lo vide tale e quale a Forlì, penultima di campionato quando, in vantaggio – che avrebbe significato salvezza anticipata – tal Fogacci si fece espellere scioccamente. “Ho ancora nelle orecchie le urla. Mai visto uno più incazzato”.

Ad Agliana frequentava solo il tennis club, unico punto di ritrovo della squadra. Nessun indizio, anche minimo di una carriera così travolgente (“lo sguardo arrivava al massimo all’anno successivo, tra C e D, figurarsi la Champions”).

Già, la Champions. Per capirci: a quei tempi veniva trasmessa in chiaro su Mediaset. “Il mercoledì, insieme a Max e agli altri ragazzi che si fermavano ad Agliana, compravamo pizza, gelato e birre, e salivamo a casa mia, sopra il negozio, a vedere la diretta in tv. Max, come tutti, ogni tanto sbottava: ma come si fa a far giocare questo? Toglilo, non lo vedi che è spompato? Se qualcuno mi avesse detto che, dopo 15 anni, uno di quella tavolata avrebbe disputato la finale di Champions, sarei morto dalle risate”.

Max e Giovanni si sentono e si vedono ancora oggi, a 15 anni e 30 vite di distanza. “Quando gli dico: non ci avrei mai creduto, e tu? Risponde con un sorriso”. Ma il filo dell’amicizia è di quelli resistenti. “La cosa più bella è sapere che ci si pensa, reciprocamente. Il giorno dello spareggio per non scendere in seconda categoria, la sera, seduto sul giardino di casa, verso mezzanotte, mi squilla il telefonino e sul display appare la scritta: Max. Si era a poche ore dalla finale di Champions, a Berlino, contro il Barcellona. Ciao Massimiliano, dico. E lui: allora ce l’abbiamo fatta a salvarci eh…”.

L’Aquila, dopo il terremoto

“Gray is the new black”. E non solo nel senso che il grigio del cemento, la speculazione edilizia e la rendita immobiliare non sono mai stati così di moda. Ma anche nel senso che anche chi – come il sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi, già militante di Casa Pound –trovava il nero (inteso come colore politico: quello del fascismo) molto cool, ora si trova perfettamente a proprio agio col grigio cementizio delle opere pubbliche inutili, anzi dannose.

Mentre ci avviciniamo mestamente al decennale del terremoto che fermò la vita dell’Aquila, appare lampante che di tutto questa eroica città avrebbe bisogno meno che di devastanti parcheggi sotterranei.

Avrebbe bisogno di un progetto di ripopolazione della città storica, che ridia vita ad uno dei più struggenti tessuti monumentali d’Italia. Un progetto capace di riportare le funzioni pubbliche, i servizi, le banche in quella che rischia sempre più di ridursi ad una quinta monumentale, con i cittadini chiusi nelle 19 ‘not town’ di cemento mangia-campagna e mangia-anima volute da Berlusconi e Bertolaso all’inizio del peggior dopo-terremoto della storia nazionale.

E invece nulla, il camerata Biondi guarda lontano, e vede la riapparizione non dell’impero (per ora), ma più modestamente di un parcheggio sotterraneo. E non sui colli fatali di Roma, ma sotto la collina su cui sorge il più insigne monumento del Rinascimento abruzzese, la Basilica di San Bernardino. Riapparizione: il sostantivo scelto da Mussolini nel celebre discorso del 1936 calza a pennello anche per il nostro progetto, che fu partorito da una giunta di centrodestra nel 1998 e che riappare ora come se nulla fosse successo, fuori da ogni pianificazione.

È cosa fatta, la giunta ha appena annunciato che in due mesi inizieranno i lavori. Questo oggettino – un silos di soli sei piani! – dovrebbe andare a sostituire, cancellandola per sempre, la scarpata alberata che costeggia, a sinistra guardando la facciata, la scalinata monumentale che porta alla Basilica dove riposa il grande predicatore del Quattrocento, Bernardino da Siena. Come se i monumenti dell’Aquila non avessero patito abbastanza danni, oggi si progetta una distruzione creativa dal valore tristemente simbolico: posti auto da vendere, contro un luogo carico di storia capace di dare solo un reddito spirituale.

E non si tratta solo di alberi, ma di una inscindibile unità monumentale con la facciata della Basilica, capolavoro di Cola dell’Amatrice, e con la scalinata contornata dalle edicole: una delle più chiare incarnazioni di quella unità tra “paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione” che l’articolo 9 della Costituzione affida alla tutela della Repubblica.

Per capire l’entità del danno, sarebbe come se si abbattesse una delle due file di cipressi che affiancano il famoso viale carducciano di Bolgheri, o come se si cancellassero gli alberi che svettano sul Pincio, sopra Piazza del Popolo a Roma.

La scalinata di San Bernardino, affiancata dalle scarpate che portano la campagna in città, è stata celebrata da moltissimi viaggiatori. Riccardo Bacchelli, nella sua Italia per terra e per mare, si commuove al ricordo della “più bella scalea della città, ripida, è quella che mette capo davanti la chiesa di San Bernardino. Essa è nobile e abbandonata, e l’erba spunta dalle piante, e v’è una solenne mestizia”. E il nesso tra la scala monumentale e gli alberi che oggi si vorrebbero umiliare appare chiarissimo agli occhi di Carlo Emilio Gadda: “La scalea larga ed erta, mal connessa ne’ gradi, con lombardi ippocastani e acacie spettinate ai due margini, era dura come ogni modo dell’ascendere: non un mendico vi tremava, né uno zoppo, implorando; mentre che un’anima, una presenza, imploravo io dalla tristezza del tempo…”.

Per fortuna, pur nella tristezza di questi nostri tempi, la scalinata di San Bernardino ha invece trovato qualche difensore. L’avvocato Fausto Corti, ex presidente della sezione aquilana di Italia Nostra, ha appena rivolto insieme ad altri cittadini un appello pubblico alla Soprintendenza, perché sia apposto un vincolo paesaggistico, assurdamente inesistente, su questo assetto monumentale e insieme naturale consacrato dalla storia. L’appello denuncia “gli effetti devastanti che l’opera avrebbe sullo skyline di quella parte della città, e in particolar modo sulla Basilica di San Bernardino, che costituisce uno dei monumenti simbolo della città”. Nello stesso documento si sollevano pesanti dubbi sulla regolarità della gara che vide trionfare (nel 2008, prima del terremoto e dunque un’era geologica fa) la Orione Costruzione Generali, un’impresa che oggi risulterebbe tra l’altro priva dei requisiti richiesti dal bando.

A Bernardino degli Albizzeschi, che dorme nella chiesa in cima a quella collinetta, dobbiamo alcune delle pagine più acute del pensiero italiano circa l’etica dell’economia. Credeva in un’imprenditoria capace di creare utilità sociale: mentre condannava senza appello le opere inutili, o meglio utili solo ad accrescere il capitale di chi le faceva. Non è difficile immaginare cosa avrebbe detto dello strumento del project financing: che in teoria dovrebbe servire a fare opere di interesse generale con capitali privati, e in pratica fa quasi sempre l’opposto. Si racconta che quando Bernardino morì, dalla sua bara cominciò a uscire un rivolo di sangue che si fermò solo quando le opposte fazioni da cui l’Aquila era lacerata si decisero a far pace. Fermare un parcheggio multipiano rischia di essere più difficile.