Ecco chi serve in tutti i posti lasciati liberi da Quota 100

Nei prossimi tre anni, quota 100 libererà 20 mila posti di lavoro nei settori della meccanica, delle tecnologie della comunicazione, alimentare, tessile, della chimica e del legno. Lo dice la Confindustria e aggiunge che le aziende avranno bisogno in totale di 193 mila nuovi tecnici entro il 2021. Tra questi, 113 mila serviranno alle industrie meccaniche, elettriche, elettroniche e nei servizi informatici e delle telecomunicazioni. Non saranno però solo super-tecnici e ingegneri ad avere vita facile nella ricerca di un impiego. Le competenze tecnologiche saranno richieste a tutti ma altri fattori influiscono sul mercato del lavoro. L’attenzione all’ecologia, per esempio, aiuterà gli specialisti di “green economy”. L’invecchiamento della popolazione italiana aumenterà il bisogno di medici e infermieri. L’espansione del commercio online sta portando in dote molti posti nel settore della logistica. Senza dimenticare che abbiamo “la migliore cucina del mondo” e nei ristoranti servono sempre cuochi e camerieri.

Nel Paese con 2,6 milioni di disoccupati, altri 1,6 milioni di scoraggiati che hanno rinunciato a cercare lavoro, a chi sa scegliere il giusto settore va più liscia. Anzi, in difficoltà sono le aziende che spesso non trovano la manodopera richiesta. Con il progetto Excelsior, Unioncamere ha stimato che nel 2023 – se il Pil crescerà dell’1% nel 2019 e poco meno negli anni dopo – avremo 427 mila occupati in più. Oltre a questi, la pubblica amministrazione e le aziende dovranno assumere altri 2,1 milioni di persone per sostituire i pensionati e chi lascerà il lavoro per altre ragioni. A differenza di Confindustria, Unioncamere non considera l’effetto dei pensionamenti anticipati a 62 anni di quota 100.

Nella lista dei più richiesti ci saranno 210 mila tra esperti di analisi dati, sicurezza informatica, intelligenza artificiale e analisi di mercato, da impiegare nell’industria e nei servizi. Più altri 76 mila da pescare nel settore “meccatronica e robotica”, in particolare tra quelli abili nella manutenzione e gestione dei robot. L’economia circolare, invece, potrà fare la fortuna di 480 mila esperti di gestione dell’energia, acquisti verdi, marketing ambientale e installatori di impianti ecologici: i cosiddetti green jobs.

L’allungamento della vita media accresce la necessità di servizi alla persona e potrà aprire le porte del lavoro a 323 mila operatori della salute come dottori e fisioterapisti. Non mancherà l’effetto Amazon: 78 mila saranno ricercati per svolgere il ruolo di magazziniere, responsabile di reparto e controllore di traffico. Anche la cultura aiuterà con 134 mila chiamati a innovare il mestiere di docente e di operatore dei beni culturali.

Nell’immediato, l’Anpal – sempre in collaborazione con Unioncamere – prevede che la maggiore richiesta per gennaio 2019 sarà nella ristorazione. Previsti 38 mila ingressi in questo mese, ma spesso è difficile trovarli, anche perché le condizioni offerte soprattutto a chi lavora in sala sono molto peggiori rispetto a quelle proposte in altre nazioni (anche questo spiega la fuga).

Nel prossimo quinquennio i settori in crescita e i pensionamenti potranno dare spazio a due milioni e mezzo di giovani. Non è tutto scontato: ci sono dubbi sull’andamento dell’economia e non è detto che gli obiettivi sul Pil siano alla portata. Inoltre, se saranno centrati, a beneficiarne sarà soprattutto il Nord con 1,3 milioni di posti contro 531 mila del Centro e 661 mila del Sud. E comunque non è detto che queste opportunità diventino davvero contratti di lavoro, perché c’è il rischio che le imprese non riescano a trovare abbastanza persone preparate.

A parte i 20 mila posti per tecnici liberati, è ancora un’incognita il contributo totale che potrà dare quota 100. Non sappiamo il numero di persone che sceglieranno di usarla per anticipare la pensione. Uscendo prima, infatti, si riduce il totale di contributi versati e naturalmente l’assegno è più basso di quello che si matura con i requisiti della legge Fornero. Questo potrebbe scoraggiare gli aventi diritto e spingerli ad aspettare le soglie previste prima della riforma. Il turn- over resta una cosa sulla quale non si può scommettere. In questi giorni è molto vivo il dibattito: sembra ci siano industrie che assumeranno persone con le stesse mansioni dei pensionati, altre che invece ne approfitteranno per dotarsi di nuove professionalità e altre ancora che useranno quota 100 per liberarsi dei lavoratori in esubero senza nuovi ingresso. Un’ipotesi che potrebbe concretizzarsi nello stabilimento Fca di Mirafiori.

Resta un fatto: chi ha paura della disoccupazione sa in che cosa specializzarsi per correre meno rischi.

Dalle stelle alle stalle: la politica a perdere

Lo sconforto invece che la carriera, il dirupo al posto dell’ambizione, dolore più che piacere. “Non voglio mettere più piede qui”, ha detto ad aprile scorso Giuseppe Vacciano chiudendo l’ultimo scatolone nell’ultima ora di prigionia. Per questo peone di Latina, un bravo e onesto impiegato della Banca d’Italia promosso senatore dal movimento di Grillo, il Parlamento si è rivelato carcere, luogo insalubre, terra non da conquistare ma da fuggire. Chiese di andare via appena ruppe con i Cinquestelle (ha onorato il divorzio restituendo sempre la metà dell’indennità, osservando con scrupolo la disciplina del movimento pure da fuoriuscito) e vergò a ripetizione le dimissioni. Il 15 febbraio 2015, poi il 16 settembre, il 13 luglio dell’anno successivo, il 25 gennaio dell’altro anno ancora e il 20 aprile dell’anno scorso. “Non c’è stato niente da fare, le dimissioni sono state sempre respinte”. Grazie a Dio ora è salvo: da politico è tornato uomo e uomo rimarrà.

L’élite, o meglio la “casta”, meta irraggiungibile e dorata dell’Italia potente e affluente o soltanto benissimo agganciata e sistemata nelle sale affrescate del Parlamento, diviene, per certe persone, Alcatraz o quasi. Il luogo fisico dove non l’ambizione ma la mortificazione vince. Il Palazzo del diritto diviene così l’adunata in cui tutti i rovesci si danno appuntamento. Sono vite capovolte, storie capovolte e anche sentimenti irriconoscibili dalla maggioranza degli eletti, di coloro che saliti in groppa al cavallo non ne vogliono scendere più. “Fine mandato? Non mi interessa”, disse Ignazio La Russa anni fa. “Io voglio restare, non voglio che finisca mai”. E così per lui è stato, il suo corpo oramai è trasfigurato in marmo, come quello che arreda il Transatlantico.

Ma lei? Doveva essere il trampolino di lancio per una vita che ha sognato e praticato sempre di corsa. Lei, la canoista pluridecorata, la campionessa applaudita e celebrata, si chiama Josefa Idem. Caricata nel vagone del Pd, poi da Matteo Renzi assisa al trono di ministra dello Sport, è calata, nel giro di un lancio dell’agenzia Ansa che riferiva dell’Ici non pagata per un immobile di sua proprietà, nel girone dei reprobi, immolata sull’altare dell’onestà. Idem si è trovata, per via di questa sanzione amministrativa, allineata ai cattivi della Terra. “Sono stata vittima di ciò che volevo cambiare”.

Adesso che vive a Ravenna può spulciare l’almanacco dei fregati. Un intero alfabeto. Per esempio alla lettera s, Gerry Scotti. Era il 1997 e venne eletto con i socialisti: “È stata una brutta pagina. Non sono riuscito a dire nulla e a fare nulla. In quattro anni mi hanno fatto venire la nausea”. I giochi a premi, i quiz di Mediaset: è tornato da dove era venuto, sorprendentemente rinato, anche con una marcia in più. È sempre insondabile l’animo umano. Perché, per esempio, Franco Califano nel 1992 abbia deciso di candidarsi con i socialdemocratici, il partito (chi ha cinquant’anni ricorderà) esempio del trasformismo, del piccolo cabotaggio, rappresentazione di una Italietta ministeriale, affamata e clientelare, resta un mistero. Lui, trasgressivo dal naso in giù, cantante e poeta sempre fuori misura, per via del suo talento ancora ricordato, raccolse 198 preferenze (allora il voto si esprimeva anche con multiple preferenze) e una figuraccia. Lo fece per soldi? In tutti i modi a Montecitorio non entrò. E col senno di poi di sicuro si è trattato di una fortuna, il Califfo aveva dimenticato che il grande Trilussa, nominato senatore a vita, non varcò mai il portone di palazzo Madama (morì venti giorni dopo la nomina, il 21 dicembre 1950) e il maestro Arturo Toscanini vergò, un’ora dopo averlo ricevuto, il rifiuto ad accettare lo scranno di senatore.

Sapeva forse a quel che sarebbe accaduto. Alla disgrazia di essere eletto o nominato e non alla gioia, al dispiacere più che al piacere. “Lei si candiderebbe con un partito del quale non condivide nulla?”, chiese Maria Amati al momento di tornarsene a fare il medico a Vasto, dopo una legislatura vissuta nel clima nero della lite continua, della sinistra andata in frantumi, degli odi e dei rancori che hanno poi portato il Pd alle cifre che oggi conosciamo. E Franco Palermo di corsa è tornato a Trento a insegnare diritto privato. “Chi vuole conoscere la mia idea o un consiglio sa dove trovarmi”. Come la sincera riflessione dell’ex deputata Grazia Rocchi: “Mi sento più utile dov’ero prima”.

Montecitorio o palazzo Madama, e perfino le poltrone ministeriali, sanno trasformarsi in gabbie, e i giochi di palazzo in nevrasteniche sedute di resistenza. L’impegno pubblico può avere riflessi psicologici negativi e produrre patologie anche alla salute. Per fare politica ci vuole fisico e una coscienza con un pelo lungo così. Bisogna essere abituati a dire e a contraddire. Un capolavoro di queste ore sono gli esiti della querela fatta per metà da Matteo Salvini nella querelle leghista dei 49 milioni di euro spariti dalle casse leghista. Ebbene il segretario pro tempore ha deciso di puntare il dito contro il tesoriere Belsito ma non contro il suo dante causa Umberto Bossi e il di lui figlio Renzo, che si è indebitamente appropriato di beni altrui. Risultato: Belsito condannato e i due Bossi assolti.

La politica dunque non fa sempre e solo fatti ma produce anche misfatti. Chiama a sé chi non dovrebbe, lascia andare chi invece potrebbe utilmente restare. E chi guarda, con spirito primitivo e ingenuo lo spettacolo, può anche non gradire. Maria Chiara Carrozza, che è stata ministro dell’Istruzione del governo Letta, scienziata di prima fila e docente di bioingegneria industriale, già rettore del Sant’Anna di Pisa, è corsa via, fuggita proprio: “Mi sento attratta dal ritorno alla mia professione”. Una formula elegante, un linguaggio educato per esprimere più che la rinuncia a continuare, il rifiuto a condividere ciò che non si sa o non si può.

Correre, correre a gambe levate. In queste ore Michela Marzano pubblica l’ultimo suo libro, “Idda”. Insegna alla Sorbona a Parigi, scrive su Repubblica, ha una vita piena e felice, macchiata, diciamo così, dalla permanenza in Parlamento nella scorsa legislatura: “Non posso dire che non sia stata utile quell’esperienza, ma che sollievo non esserci più nel tempo in cui le competenze sono dileggiate, giubilate. Avanza solo chi non sa far niente”

E Franca Rame, quando tornò nella sua casa di Milano, sedotta da Di Pietro e poi abbandonata sugli scranni di Palazzo Madama, spiegò: “Al Senato non si usa ascoltare chi interviene. La maggior parte dei presenti chiacchiera, telefona su due e anche tre cellulari, sbriga la corrispondenza. Voglio uscire da lì. Tornare a dire ciò che penso”.

Uscire, e magari anche essere felice di trovare un taxi ad aspettarla. “Non avendo un impiego subordinato, ho dovuto reinventarmi. Ho preso la licenza. Faccio la tassista, è un mestiere affascinante. Chi pensa che la mia nuova vita sia piena di dolore rispetto alla precedente, sbaglia di grosso. Sono felicissima, totalmente realizzata”. Lei, Paola Bragantini, aveva da deputata uno stipendio che forse le permetteva l’autista. Oggi è lei al volante.

La vita, misteriosa e insondabile, porta alcuni a rinunciare alle prebende che tanti altri aspirerebbero a far proprie, e conduce qualche altro che in quel mondo d’oro ha vissuto, alla condizione di clochard. Maurizio Grassano, leghista di Alessandria, deputato e prima ancora presidente del consiglio comunale di Alessandria, non ha visto solo la carriera arrestarsi, per merito di una condanna definitiva a due anni e mezzo, scontata ai domiciliari. “Pian piano le cose sono andate peggio. Il lavoro mi è mancato, il comune di Alessandria si è costituito parte civile e ha chiesto un risarcimento danni enorme. Mi hanno ipotecato l’auto, poi la casa. Ho rotto con mia moglie, i rapporti si sono guastati anche con mio figlio. Disoccupato, giro a piedi ma oggi, proprio oggi, l’ufficiale giudiziario mi notificherà lo sfratto perché l’abitazione è stata venduta all’asta. Mangio alla Caritas. Mi aspetta la panchina, se ne resta una ancora libera”.

“No all’ultimatum europeo Maduro sconta l’embargo”

Giura che sul Venezuela il governo non è diviso, anzi che “la linea è chiara, ed è la stessa dell’Unione europea”. E nega che il M5S si sia sbilanciato a favore di Nicolas Maduro, il dittatore di Caracas ora in fortissimo bilico: “Però l’embargo lo ha molto penalizzato”. Parola di Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Affari esteri per i Cinque Stelle.

Il governo ha mostrato varie posizioni opposte tra loro. Matteo Salvini si è esposto subito per l’autoproclamatosi presidente Guaidò, mentre il M5S si mostra neutrale e invece il ministro degli Esteri Moavero si è allineato alla richiesta della Ue di nuove elezioni prima possibile. Un enorme caos, non trova?

No. Su questi temi la competenza è del presidente del Consiglio Conte e del ministro degli Esteri Moavero, e ieri hanno detto la stessa cosa, ossia che serve un percorso che porti a nuove elezioni, monitorate da un organismo internazionale, ma senza ingerenze esterne come ha ricordato il premier. È una linea che coincide con quella dell’Ue, che ha chiesto le urne ma senza porre ultimatum di otto giorni, come hanno invece fatto Francia, Germania e altri Paesi.

Alessandro Di Battista ha definito l’ultimatum “una stronzata”. E Salvini ha detto che l’ex deputato del Movimento “parla a vanvera”.

Per fortuna non spetta a Salvini occuparsi di politica estera. Anche io penso che sia assurdo dare un ultimatum. Le transizioni politiche devono avere il tempo necessario per maturare: altrimenti sono forzature, o meglio ingerenze esterne.

Salvini è il vicepremier. E se i due partiti che formano il governo litigano sulla linea, la linea comune non c’è.

C’è una differenza di pensiero tra i due partiti di governo. Ma lo ripeto, la decisione in merito compete al premier e alla Farnesina. E l’Italia tra i grandi Paesi della Ue è l’unico che sta mostrando di avere i piedi per terra e senso di responsabilità.

Lei ha parlato di “sindrome da pene piccolo” per i leader di alcuni Paesi Ue. Non è fuori luogo?

(Sorride) Il riferimento ovviamente è a Macron, che vuole sempre parlare di tutto, per primo e senza concordare con l’Unione europea.

Però in passato voi Cinque Stelle vi siete molto esposti a favore di Maduro. Nel 2017 votaste contro una mozione del governo che chiedeva il ripristino dei principi democratici in Venezuela, presentando anche un documento di segno opposto.

La nostra mozione non sosteneva Maduro, ma la necessità di garantire gli italo-venezuelani e percorsi democratici per il Paese. Invece il documento del governo di fatto voleva impegnare l’esecutivo a far cadere il presidente del Venezuela. E questo non si può fare. Un Paese terzo non può influire così su un’altra nazione.

Lei e i suoi colleghi presentaste un documento elogiativo del governo Maduro, con tanto di cifre. Era un chiaro sostegno, no?

No, era solo un modo per ripristinare un po’ di realtà, a fronte del testo del governo che raccontava uno scenario da terza guerra mondiale. Citammo dati, gli unici disponibili, elencando le fonti. Non abbiamo negato i problemi sociali in Venezuela. Ma su quanto accaduto ha molto influito l’embargo.

La gestione di Maduro è stata un drammatico fallimento, non pensa?

Sicuramente non è stata positiva. Però è difficile da valutare viste le condizioni in cui ha operato. Se domani applicassero l’embargo all’Italia non credo che ne usciremmo vivi.

Passiamo all’Egitto e al caso Regeni. Sabato su Repubblica il presidente della Camera Roberto Fico ha accusato il presidente Al Sisi di avergli mentito, e ha poi sostenuto: “Il nostro ambasciatore è al Cairo con obiettivi molto chiari: se non si raggiungono bisogna trarne le conseguenze”.

Noi dobbiamo fare tutto quello che è possibile a livello politico per avere giustizia. Al Sisi non ha nessun interesse in questo momento nell’ignorare le pressioni italiane ed è in difficoltà su questa vicenda. Però va riconosciuto che non si possono avere rapporti solo con Paesi totalmente democratici. Se fosse così, noi e la Ue dovremmo interrompere le relazioni con tre quarti delle nazioni mondiali. Magari è scomodo dirlo, ma è la verità.

Lei richiamarebbe l’ambasciatore dall’Egitto?

Io sono stato d’accordo con la scelta di Roberto di interrompere i rapporti con il Parlamento egiziano. E noi a ogni occasione torniamo sul tema con gli interlocutori egiziani. Dopodiché si può anche ritirare l’ambasciatore, ma non ci porterà alla verità sulla morte di Regeni. E se Al Sisi potesse darci i responsabili ce li avrebbe già dati.

Sostiene che lui non sappia chi sia stato?

Noi dobbiamo affidarci alla giustizia e non ai processi alle intenzioni. Premesso questo, è evidente che un presidente possa anche nascondere un fatto del genere. Ma è un nodo con cui bisogna fare i conti.

A proposito di presidenti, la guerra del M5S a Macron nasce innanzitutto come reazione alla sua offensiva diplomatica in Libia?

È evidente come Italia e Francia abbiano interessi contrastanti sugli scenari internazionali, visto che hanno economie sovrapponibili. Ma noi non facciamo la guerra a Macron, bensì a un modello politico: quello di chi predica la democrazia e l’uguaglianza ma che nei fatti applica un neo-colonialismo. Abbiamo anche chiesto che il governo di Parigi renda pubblici gli accordi di decolonizzazione firmati tra la Francia e i Paesi africani. Bisogna capire a che condizioni hanno guadagnato la libertà.

Voi a novembre avete organizzato una conferenza di pace sulla Libia a Palermo. Ma il Paese è nel caos. Ergo, è stata un insuccesso.

Quella conferenza è stata un passaggio, come previsto, però ha avuto il merito di dare all’Italia un ruolo di interfaccia a tutte le parti coinvolte. E poi ha fatto capire che un percorso democratico converrebbe a tutti.

Lo scenario nel Paese è tragico: si combatte e si litiga.

Non è paragonabile a quella di un anno fa, glielo assicuro. Ora almeno le leadership si parlano, mentre prima si sparava e basta. Spero che entro l’anno si possa arrivare a elezioni. Ma dipenderà innanzitutto dai libici.

“Io, infiltrato: così ho combattuto la mafia dei rifiuti”

C’è un vecchio pezzo di Woody Guthrie dedicato a una figura leggendaria della storia americana, il bandito Pretty Boy Floyd, che dice: “Some will rob you with a six-gun, and some with a fountain pen”, “Alcuni ti derubano con una pistola a sei colpi, altri con una stilografica”. Potrebbe essere questo il motto indiscusso di Nunzio Perrella, se il protagonista di Bloody Money –l’inchiesta di fanpage.it su corruzione, rifiuti e criminalità che da oggi è anche un libro con risvolti inediti, pubblicato in coedizione con Paper First –, non preferisse altri versi, come quelli di un cantante meno conosciuto al grande pubblico, ma per certi versi altrettanto mitico. Almeno per l’affollato demi-monde partenopeo marchiato a fuoco dall’immaginario anni Ottanta. Il suo nome era Patrizio. All’anagrafe Patrizio Esposito, da Porta Capuana, cuore antico di Partenope. Probabilmente il primo neomelodico della storia che si ricordi – ancor prima di Nino D’Angelo – che nel 1984, a soli 24 anni, morì per overdose nel pieno della sua consacrazione artistica. Una “faccia da scugnizzo” lo definì Pippo Baudo, presentandolo a Rai Uno nel 1979. Il pezzo che Nunzio Perrella cita a memoria, considerandolo un po’ la summa della sua visione del mondo, s’intitola ‘A miseria ‘e Napule. A un certo punto, nel bel mezzo della nostra lunga intervista, forse annoiato dalle domande, inizia a canticchiarlo: “Tribunale… C’aggio studiato, te voglio raccuntà… elementare a fa’ ‘o scugnizzo, a prima media ‘a ‘gghi arrubbà, ‘a seconda ‘a ‘gghi a scippà, ‘a terza a rapinà. Che ce potevo fa’ se ‘a scola d’o marciapiede chest’ ce fa’ ‘mparà… Tribunale nun me dà n’ata cundanna, damme ‘na penna ‘mmano… ‘mparame a studià…”. Sta in questi versi la motivazione che Nunzio Perrella adduce quando gli si chiede perché è diventato un boss della Camorra, prima di pentirsi e diventare sin dagli anni Novanta un collaboratore di giustizia, cosa che dopo quasi vent’anni tra carcere e arresti domiciliari, sostiene di non essere più. “Il prossimo che mi dà del camorrista lo querelo”, ripete stanco di tutti i bocconi amari che negli ultimi mesi ha dovuto mandar giù, leggendo i giornali e guardando i programmi tv che hanno raccontato le sue gesta da “infiltrato” o “agente provocatore”. Differenza che lo lascia del tutto indifferente: “Dai video di fanpage.it è chiaro che gli stessi uomini che rubavano trent’anni fa rubano anche oggi. Come è possibile? Cambia solo il modo di fare affari, ma la sostanza è la stessa”. Si vede che il suo ego da gran parlatore è al settimo cielo per tutto il rumore suscitato dalla sua impresa.

Chi è Nunzio Perrella?

Sono nato in una famiglia povera. Madre di origini contadine, papà ammalato di tubercolosi. Prima di me ebbero un figlio, Nunzio, che morì a un anno e mezzo. Un altro mio fratello fu dato in adozione, non ce la facevano a sfamarci. Ricordo che vivevamo in una stanza dove c’era bagno e camera da letto. A undici anni ho cominciato a portare i caffè in una sala biliardo nel Vasto, a Napoli, dove ho conosciuto Mario Merola, un appassionato giocatore d’azzardo. Ho conosciuto sin da piccolo criminali, puttane, camorristi. Con il terremoto dell’Ottanta finiamo sgomberati all’Hotel Torino, accanto alla Stazione. Si stava meglio che a casa. Quando, a poco più di 18 anni, sono finito in galera dopo aver fatto il palo a un tizio che rubava auto, sono stato un anno e mezzo nel Padiglione Avellino del carcere di Poggioreale, dove ho incontrato tutti i più grandi camorristi dell’epoca”.

Così è diventato anche lei camorrista?

La domanda che mi faccio è: perché le istituzioni, invece di punire col carcere un giovane che aveva commesso un reato per fame, non mi hanno dato l’opportunità di uscire dalla povertà con lo studio? Perché non mi hanno messo una penna in mano? Perché ancora oggi non lo fanno con tutti i giovani che delinquono, almeno all’inizio?

Metterla così è una scusa formidabile per tutti i criminali…

All’epoca della mia prima volta in carcere, mio padre entrava e usciva dall’ospedale, e i miei guadagni rappresentavano l’unica entrata in famiglia. In carcere ho trovato tutta la Camorra Napoletana. Peppe ‘a Braciola, Umberto Ammaturo, Franco Maisto. Mi mandavano a prendere provoloni e salami per portarli a Cutolo. “Tanti saluti al guappo della Campania”, mi scriveva O‘ professore sulle cartoline che inviava quando non era a Poggioreale. Si riferiva a me, mi prendeva in giro, ma era affettuoso. In carcere ho conosciuto anche i fratelli Alfieri, la famiglia Giuliano. Con Lovegino Giuliano, in particolare, c’è sempre stato massimo rispetto, con lui ho avuto un’amicizia duratura, a Forcella ci andavo sempre tranquillamente…

E una volta fuori?

Ho cercato di tenermi lontano dai guai. Mi sono messo a vendere le sigarette di contrabbando per strada, a piazza Vittoria. Cinque pacchetti di Marlboro a mille lire. Quando Peppe ‘a Braciola uscì dal carcere, fu ricoverato in clinica e lì divenni il suo galoppino. Mi sentivo un “uomo grosso” per merito suo. Così accettai di mettermi nel settore delle bische clandestine. Eravamo in tre, Antonio Bardellino, Alfredo Maisto e io. Prendevamo il 20% di cresta da tre bische. Cominciai a guadagnare bene.

Il clan Perrella è sempre più potente…

Soprattutto mio fratello Mario aveva in pugno la situazione. Eroina, cocaina. Tra gli anni Ottanta e Novanta, facemmo la guerra allo storico clan Puccinelli che un tempo comandava. Ci furono omicidi, tradimenti, arresti. Ma il clan Perrella era forte, soprattutto nel settore della droga.

A proposito di droga, è vero che ha trattato con i narcos sudamericani?

Sì.

C’è chi dice che lei incontrò anche Pablo Escobar?

Una volta, tra il 1988 e l’89.

Veniamo al business dei rifiuti

Da trent’anni sto raccontando a giudici, forze dell’ordine e giornalisti come funziona il sistema dei rifiuti, chi sono i veri criminali che stanno distruggendo l’Italia. L’esperienza mi ha insegnato che i camorristi sono la manovalanza, il marcio sta altrove. Tra i colletti bianchi. D’altro canto, come può un delinquente che non sa dire due parole in italiano, capire come funziona un capitolato d’appalto e come aggiudicarselo? Politica, impresa, e certe volte pure la giustizia, tengono insieme questo sistema, in cui i camorristi agiscono come soldati, fanno il lavoro sporco che serve a mantenere le cose in equilibrio.

Lei ha operato a lungo nell’interramento illecito di monnezza…

Sul finire degli anni Ottanta, si mette mano alla provincia di Caserta. Le aziende del Nord già interravano a Sessa Aurunca e a Castelvolturno. Avevano bisogno di un clan in grado di fargli avere le autorizzazioni necessarie per scaricare. Vengo a sapere dove si fanno certe cose a Napoli e nell’entroterra casertano. Cominciamo a scaricare lì, poi anche più a Nord, alla discarica dei Cerrone, a Malagrotta…

Come facevano i camorristi a sapere dove era preferibile scaricare?

Bella domanda. Mi affidai a un giornalista esperto del settore, un tizio che girava in una Ypsilon 10. Sapeva dove si poteva scavare e interrare i rifiuti, ci indicava i siti. La nostra collaborazione è andata avanti finché una soffiata mi rivelò che il giornalista di notte fotografava le discariche e prendeva appunti sul nostro conto. Faceva il doppio gioco. Si diceva che fosse la fonte di un’altra giornalista, Rosaria Capacchione, (allora cronista del Mattino, eletta senatrice Pd nel 2013, ndr) che all’epoca si interessava della questione….

Cosa face quando uscì fuori il nome della Capacchione?

Nulla, però accadde un fatto molto interessante. Partecipai a una riunione per decidere dove scaricare alcuni rifiuti in provincia di Caserta. Un camorrista di Mondragone, discutendo con gli altri, si lasciò scappare: “Se ‘sta zoccola non si toglie da mezzo, non scarichiamo più”.

Parlavano della Capacchione?

Si riferivano ai suoi articoli. A causa dello scalpore provocato da un suo pezzo, era stato vietato il trasporto extraregionale dei rifiuti. In pratica, non potevamo più far circolare legalmente la monnezza verso la Campania. Era stato un bel colpo. Perciò volevano toglierla di mezzo, ma io intervenni e dissi che se l’avessero fatto, sarebbe stata la fine: non avremmo mai più lavorato.

Perché ha deciso di partecipare all’inchiesta Bloody Money?

L’ho fatto perché mi reputo una persona seria. Per questa mia caratteristica ho sempre avuto il rispetto di tutti, anche di molti ex miei sodali che ho accusato e mandato in carcere. E poi mi sono comportato sempre in maniera corretta con le istituzioni, dopo essermi pentito ho detto ciò che sapevo per contribuire a migliorare la situazione.

C’è un episodio specifico che l’ha spinta a collaborare con i giornalisti di fanpage.it

Una volta, qualche tempo fa, fui intervistato in un programma Rai. Nei camerini incontrai una donna campana che aveva perso un bambino a causa di un tumore. Con lei c’era Don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che da anni combatte per salvare la Terra dei Fuochi. Dopo averci parlato in privato, ci siamo abbracciati. Lei mi ha chiesto di dire la verità, di aiutare a liberare la nostra terra dai rifiuti, dal cancro, dai criminali che ci stanno ammazzando. Quello è stato il momento in cui ho capito di dover smascherare quel malaffare…

Dopo l’inchiesta ha ricevuto minacce?

Vivo nella paura. Ho messo in pericolo la mia famiglia, me stesso. Potevo starmene buono, ma non ce l’ho fatta. Volevo dimostrare che in Italia non funziona niente… Negli ultimi tempi ho già cambiato quattro appartamenti, tra poco traslocherò l’ennesima volta.

Può dirci dove vive ora?

No.

Uno degli aspetti più inquietanti che emerge da Bloody Money è l’infiltrazione del malaffare nella gestione dei rifiuti al Nord

A mio avviso la situazione al Nord Italia attualmente è molto peggio di quanto si immagini. Tra le province di Ferrara, Rovigo e Bologna, c’è un mare di monnezza sotterrata. Ci sono intere colture, alcune anche pregiate, che crescono sui rifiuti. Le falde sono inquinate, si muore di tumore.

Su quali basi lancia quest’allarme?

Se qualcuno, nel mondo delle istituzioni, vuole rendersene conto con mano, sono pronto ad accompagnarlo sui siti dove c’è questo schifo. D’altro canto, qualche mese fa, prima di Bloody Money, con Sacha Biazzo (uno degli autori dell’inchiesta, ndr) e fanpage.it avevamo già denunciato quanto succedeva a Ferrara, con i rifiuti tossici.

Lei sarebbe pronto ad aiutare nuovamente le istituzioni che l’hanno delusa e di cui pensa tanto male?

Sì, certo. Sempre.

(ha collaborato Antonio Lamorte)

Rai, 30mila euro a Grillo per i diritti televisivi

Lo spettacolo “C’è Grillo”, in onda stasera su Rai2, costerebbe alla Rai oltre 30mila euro. Lo rivela l’Adnkronos: sono i diritti che viale Mazzini dovrebbe corrispondere alla “Marangoni spettacoli”, ovvero all’agente storico di Beppe Grillo, per l’uso di vecchi filmati del comico. Nei giorni scorsi c’è stata polemica per la decisione di dedicare una puntata al fondatore del M5S. Il contratto non è stato ancora firmato e potrebbe essere modificato con una cessione gratuita dei diritti da parte dell’agente di Grillo.

Eni compra il 20% di Adnoc Refining

Maxi accordo per Eni ad Abu Dhabi. Il gruppo italiano ha infatti siglato un’intesa con Adnoc per l’acquisizione del 20% di Adnoc Refining e il 20% di una nuova joint venture che si occuperà della commercializzazione dei prodotti petroliferi. Un’operazione che complessivamente comporterà per Eni un esborso cash di 3,3 miliardi di dollari e che consentirà al gruppo italiano di incrementare la propria capacità di raffinazione del 35%. Alla firma era presente anche il premier Conte.

Bimbo di 7 anni morto in casa per le botte

Un bambino di 7 anni è stato ritrovato morto all’interno di un appartamento di Cardito in provincia di Napoli. Potrebbe essere stato colpito con una scopa. La sorella di 8 anni è ricoverata d’urgenza all’ospedale Santobono (Na). Illesa la terza bimba di 4 anni. Indaga la Polizia, allertata da una telefonata fatta da qualcuno che avrebbe sentito le urla dei bambini. Il compagno della mamma, dopo una serie di accertamenti, è stato sottoposto al fermo.

Macron: “L’Italia merita altri leader”

Emmanuel Macron è passato al contrattacco dell’Italia. Ieri in visita al Cairo, il presidente francese ha detto che non risponderà alle critiche di Di Maio e Salvini sulla Francia perché “non hanno alcun interesse”, come riferiscono i media francesi. Però poi ha affondato: “Non risponderò, è la sola cosa che si aspettano. Tutto questo è irrilevante. Il popolo italiano è nostro amico e merita dei leader all’altezza della sua storia”. “Prima di fare la morale, liberi l’Africa”, la replica di Di Maio.

La “talpa” della Lega sulle Ong: “Ora Salvini spieghi in Aula”

“Il ministro dell’Interno Matteo Salvini farebbe bene a spiegare all’opinione pubblica, al Parlamento e magari in qualche altra sede i rapporti opachi, suoi e dei suoi collaboratori con chi è stato utilizzato per tentare di infangare le Ong”. Dopo l’intervista esclusiva pubblicata ieri dal Fatto , il parlamentare di Sinistra Italiana – Leu, Erasmo Palazzotto, ieri ha chiesto a Salvini di spiegare in Parlamento i suoi rapporti con gli agenti di sicurezza privata che, nel 2016, erano a bordo della nave Vos Hestia della Ong Save The Children. Uno di loro, Pietro Gallo, ha dichiarato di aver inviato nel 2016 fotografie e notizie allo staff del ministro – prima di denunciare in procura e far partire l’indagine dei pm di Trapani – facendo da “talpa” per conto della Lega. In un caso avrebbe registrato e inviato le conversazioni dei volontari dell’Ong. “L’intervista apparsa oggi sul Fatto Quotidiano – ha dichiarato Palazzotto – apre uno squarcio inquietante su questa vicenda”.