Decreto Sicurezza: sono 8 le Regioni “ribelli” che ricorrono alla Consulta

Sono otto le regioni “ribelli” che stanno impugnando il decreto Sicurezza davanti alla Corte Costituzionale, per la parte che riguarda l’immigrazione.

Il tempo per presentare ricorso sta per finire: la scadenza è prevista per venerdì primo febbraio. Le ragioni della Toscana, Umbria, Basilicata ed Emilia Romagna, capofila nella battaglia, hanno convinto anche Calabria, Piemonte, Sardegna e Marche.

La giunta marchigiana è l’ultima arrivata: ha approvato la delibera per il ricorso alla Consulta appena una settimana fa, il 22 gennaio. La Sardegna si aggiungerà dopodomani. Prima che arrivi la decisione dei giudici costituzionali, però, bisognerà attendere almeno un anno.

Le delibere regionali presentano molti passaggi comuni. Di seguito, ecco i principali.

Protezione umanitaria

Prima del decreto, veniva concessa – per vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza, di mancato rispetto dei diritti umani – a chi non poteva accedere allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria. Per i governatori, l’abrogazione della protezione umanitaria (articolo 1 della legge Salvini) non soltanto aumenta gli irregolari sul territorio, ma rende anche più difficile assistere le persone che hanno diritto alle cure sanitarie, all’assistenza sociale, alla formazione lavorativa e all’istruzione.

Residenza anagrafica

Un altro dei punti fondanti dei ricorsi è l’eliminazione della residenza anagrafica per i richiedenti asilo (articolo 13). L’art 13 stabilisce che il permesso di soggiorno attribuito ai richiedenti protezione internazionale non costituisce documento idoneo per l’iscrizione anagrafica.

Competenza regionale

“Gli articoli 1 e 13 – si legge nella delibera della Basilicata – rappresentano norme lesive dell’autonomia regionale e degli enti locali, impattando in maniera significativa su competenze concorrenti e residuali garantite dalla Costituzione”. Questo è il punto di partenza: il governo ha legiferato incidendo su materie che, in base all’articolo 117 della Costituzione, competono alle Regioni.

Stranieri discriminati

“In materia di assistenza sociale, sanitaria, istruzione, formazione e politiche attive del lavoro – continua la delibera lucana – sono lesi i diritti essenziali della persona, con disparità di trattamento tra i cittadini degli stati membri e stranieri regolarmente soggiornanti e in violazione delle convezioni internazionali”. Motivazioni pressoché identiche si leggono nella delibera toscana.

Prestazioni assistenziali

Per la giunta dell’Umbria, la cancellazione della residenza anagrafica è “lesiva di altre disposizioni costituzionali in quanto irragionevolmente sono introdotti due presupposti diversi per situazioni che debbono essere (ed erano) disciplinate unitariamente: da un lato, per i cittadini italiani e gli altri titolari di permesso di soggiorno, le prestazioni assistenziali e sociali vertono sul presupposto della residenza anagrafica; dall’altro lato, i richiedenti asilo, anche se immigrati regolari, dovranno attestare il domicilio”.

Il circuito Sprar

Emilia Romagna e Calabria puntano il dito anche sull’articolo 12 del decreto che riguarda il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che è affidato agli enti locali. I richiedenti asilo adesso potranno essere ospitati soltanto nei Cara. Per entrambe le regioni siamo dinanzi a una “soppressione” dell’accoglienza presso gli enti locali. Per l’Emilia Romagna il decreto “sopprime testualmente l’accoglienza dei ‘richiedenti asilo’ (…) nonché ‘la tutela dei rifugiati e degli altri stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria’ presso i servizi di accoglienza dagli enti locali, di fatto riservando tale forma di accoglienza ai soggetti titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati”.

Pd, primarie light: Gentiloni porta tutti su Zingaretti

Il piano inclinato per estromettere e marginalizzare Renzi dal Pd il più possibile, va avanti – tra passi avanti e passi indietro – da giugno. Con la regia neanche tanto occulta di Paolo Gentiloni, che ci si è messo di impegno a trasformare le primarie dem nell’occasione giusta per portare a compimento questa operazione. Tanto che i gazebo dovrebbero assomigliare di più a quelli che incoronarono Romano Prodi leader dell’Unione nel 2005, che a una vera competizione.

Ieri La Stampa ha raccontato di un patto tra Nicola Zingaretti e Maurizio Martina, che includerebbe quest’ultimo vice segretario, conferma dei capigruppo e Gentiloni presidente dem. Gli interessati si sono affrettati a smentire. Ma se di patto fatto e finito non si può parlare, l’operazione che dovrebbe portare l’ex premier a diventare sia presidente del partito, che candidato premier è in fase avanzata, con il placet di tutti i big. Martina parla di “una donna”. Ma non si spingerà a votare contro in Assemblea.

Poi c’è l’endorsement di Marco Minniti per Zingaretti in un’intervista a Repubblica. Non male per uno che si sarebbe dovuto candidare contro di lui. Motiva la sua scelta perché “è cruciale” che ci sia “un segretario che superi il 50%”. “Se non arrivo io al 51%, preferisco che ci arrivi qualcun altro”, aveva detto parlando della sua candidatura a Lucia Annunziata. E ancora, annunciando il ritiro: “Si è appalesato il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 51%”. La soglia, questa, necessaria a evitare rivolgimenti in Assemblea. E qui, torna Gentiloni: era il 15 ottobre, quando interveniva all’iniziativa romana di lancio della candidatura di Zingaretti, regalando a Minniti (che stava ancora riflettendo) un ringraziamento per il lavoro fatto nel suo governo. Un modo per riconoscere entrambi, per spingere ai margini Renzi-Boschi- Lotti. La corsa dell’ex ministro dell’Interno si è arenata quando gli è stato chiaro che non solo veniva percepito come l’uomo di Renzi, ma anche che l’ex premier non aveva intenzione di sostenerlo davvero, ma di commissariarlo: Lotti doveva essere il responsabile liste.

È sempre Gentiloni che ha mediato il rapporto tra Carlo Calenda e Zingaretti, quello che ha cercato di mettere insieme fronte repubblicano e candidatura del Governatore. E in tanti hanno firmato, alla ricerca di una vita dopo Renzi: da Dario Nardella a Matteo Ricci, i sindaci che avevano promosso la corsa di Minniti.

A dimostrazione del fatto che il congresso del Pd si gioca nella contrapposizione Gentiloni – Renzi, c’è il fatto che Lotti sta portando le truppe di renziani doc su Roberto Giachetti. La mozione Martina appare troppo permeabile e composita e si sta prematuramente sfaldando, tra chi è pronto a seguire l’ex segretario e chi si riposiziona. I risultati di alcuni la dicono lunga: nel circolo di Simona Malpezzi, portavoce della mozione Martina, Pioltello, vince Zingaretti, come in quello di Matteo Mauri, uomo forte in Lombardia.

Nello staff corrono ai ripari, evidenziando un fatto, in realtà incontrovertibile: con tutti questi endorsement a Zingaretti, sono i sostenitori di sinistra ad essere in difficoltà. E i sogni di Pier Luigi Bersani di rientrare si allontanano sempre di più. Perché il Governatore, nel diventare l’uomo di tutti, si annacqua. Il resto si vedrà. Il margine di vittoria non è secondario per la legittimità del segretario (e per gli esiti delle manovre di Renzi). E se alle Europee, il fronte guidato dal Pd prende più del 20%, il partito vive. Sotto, scatta il liberi tutti.

Blitz a bordo della Sea Watch Diciotti, Di Maio “testimone”

C’è chi ha perso un occhio, chi ha cicatrici sul viso e sul corpo, tagli e dita ammaccate per le botte ricevute nei centri di detenzione libici. Uno su quattro ha tra i 14 e i 17 anni. Però il ministro dell’Interno Matteo Salvini vede solo “mare calmo, cuffiette, telefonini e ragazzotti a torso nudo”: la solita pacchia, che con lui è finita.

Da otto giorni 47 naufraghi sono a bordo della Sea Watch 3, a due minuti e mezzo di navigazione dal porto di Siracusa. Ieri, contravvenendo all’inedito divieto di ispezione disposto dalle autorità, tre parlamentari sono arrivati sulla nave dell’Ong dopo aver noleggiato un gommone privato. Eppure, sempre ieri, l’unico aspetto di questa storia che ha creato scalpore è che su quel gommone, insieme a Nicola Fratoianni (Leu) e Riccardo Magi (+Europa), ci fosse anche una rappresentante di Forza Italia, Stefania Prestigiacomo, decisa a verificare di persona quali fossero le condizioni dei migranti. “È una madre”, l’ha giustificata con sommo paternalismo il presidente di Forza Italia Antonio Tajani, “evidentemente è stata colpita più dal fattore umano che politico”. “Abbiamo voluto dimostrare che c’è qualcosa che va oltre gli schieramenti”, ha risposto lei, subito nel mirino degli odiatori web.

Nonostante la mezza rivolta che ieri si è levata da Forza Italia contro la Prestigiacomo, era stato lo stesso Silvio Berlusconi, ancora ieri, a dire che “francamente, con senso di realismo, 47 nuovi immigrati che si aggiungono ai più di 600mila che abbiamo oggi sul territorio del Paese non cambiano nulla: se fosse mia responsabilità, io li farei senza dubbio sbarcare”. Un attimo dopo, il leghista Igor Iezzi twittava sulla “vergogna azzurra” dei parlamentari che chiedono che “i clandestini siano sbarcati”.

Ma ieri non è stata solo una giornata di battibecchi interni al centrodestra. Anche nella maggioranza gialloverde è andato in scena il consueto botta e risposta tra Salvini e i 5 Stelle.

Da una parte i due ministeri coinvolti nell’affare Sea Watch (il Viminale per lo sbarco, le Infrastrutture per l’attracco) mostrano la stessa linea: il ministro Danilo Toninelli ha sostenuto sul blog delle Stelle la tesi di Salvini, ovvero che la nave abbia “disobbedito” e messo a rischio la vita dei migranti perché anziché dirigersi in Tunisia ha puntato verso l’Italia, nonostante il maltempo. Dall’altra, ospite di Barbara D’Urso, il 5 Stelle Alessandro Di Battista ha portato avanti una posizione differente: “Per me dovrebbero sbarcare, ci vuole molto coraggio.

Poi devono essere accuditi e con massima dignità fatti partire verso Amsterdam”, ha aggiunto l’esponente grillino, visto che la nave dell’Ong batte bandiera olandese. “Bisogna creare un incidente diplomatico” per farsi ascoltare dall’Europa, è la tesi del Movimento, ribadita anche dal vicepremier Luigi Di Maio. Che ieri, su La7, ha anche annunciato di essere “pronto a testimoniare” sul fatto che la decisione di non far sbarcare il pattugliatore della Guardia Costiera, il Diciotti, fu presa di comune accordo da tutto il governo. Non fu quindi una iniziativa personale del ministro Salvini, che – se il Parlamento darà il via libera – dovrà rispondere in tribunale di sequestro di persona. Di Maio dà per scontato che il processo si farà: “Salvini ha detto che lo vuole, non gli faremo un dispetto votando contro”.

Ma mi faccia il piacere

La gara. “Di Maio e Salvini? Non giochiamo a chi è più stupido” (Nathalie Loiseau, ministra del governo francese agli Affari europei” (repubblica.it, 23.1). Potrebbe vincere lei.

La stiamo perdendo. “Attenzione: stiamo perdendo la Libia” (Marco Minniti, deputato Pd, il Foglio, 23.1). Tranquillo, Minnì, è già successo tutto nel 1943.

Trova le differenze. “Abbiamo due vicepremier che si occupano di povertà e di lavoro senza mai essere stati poveri e senza avere mai lavorato” (Maurizio Landini, neosegretario Cgil, 25.1). “Essendo stato povero, so benissimo come sia difficile far quadrare i conti e arrivare a fine mese” (Silvio Berlusconi, presidente FI, 25.9.2005). “Di Maio è il primo ministro del Lavoro che non ha mai lavorato in vita sua” (Silvio Berlusconi, 9.7.2018). “Si vede che Di Maio e Salvini non hanno mai lavorato in vita loro” (Carlo Calenda, Pd, La Stampa, 24.12.2018). Silvio e Carlo segretari della Cgil, subito!

Agenzia Sticazzi. “Oggi ho mangiato dei broccoli incredibili, con le puntarelle, ma vi confesso che ho mangiato pure dei cipollotti e quindi statemi lontani… fortunatamente l’odore non vi arriva” (Matteo Salvini, Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, Facebook, 19.1). “Stasera sto leggero: pizza con cipolle e salame piccante. Voi che fate Amici?” (Salvini, Twitter, 11.1). Noi, tendenzialmente, ci facciamo gli affari nostri.

Gara di rutti. “Ho sempre stimato Matteo Salvini, lui è un vero uomo, coraggioso, con gli attributi. Gli scrivo su Instagram e lui mi risponde, spesso quando posta foto in cui mangia. Io magari gli scrivo ‘che buono, gnam gnam’ e lui mi risponde simpaticamente, con frasi carine, e con uno ‘gnam gnam’ di risposta” (Francesca Cipriani, showgirl, Un giorno da pecora, Radio1, 22.1). Sono soddisfazioni.

Mamma mia che impressione! “Su Raiuno e c’è la fiction gay friendly scritta dallo sceneggiatore lgbt. Allora scarrelli su Raidue e c’è Brando che sodomizza la Schneider. Su Raitre Luxuria con i bambini di 9 anni. Pure Adrian è cartone animato porno-soft in prima serata” (Mario Adinolfi, Facebook, 22.1). E niente, glielo fanno proprio apposta.

Fake news. “Radio Radicale. La voce della Repubblica. Un archivio immenso, unico in Italia, con gli eventi politici e giudiziari degli ultimi 40 anni. Ma per il governo deve chiudere” (l’Espresso, 27.1). No, semplicemente non dobbiamo più pagarla noi.

Giustizia è fatta. “La vittoria di Amanda Knox. Giustizia italiana condannata” (il Giornale,25.1).Meredith Kercher l’hanno ammazzata i giudici.

Modestia a parte. “Il 64 enne Cesare Battisti, assurto a simbolo della Sinistra internazionale sconfitta, nell’avvilente video-jingle del ministro Alfonso Bonafede (un avvocato!), appare quasi stupito di essere diventato così famoso” (Enrico Deaglio, ex Lotta Continua, Il Venerdì di Repubblica, 25.1). Ecco perchè, dopo quattro omicidi e altrettanti ergastoli, si nascondeva in Francia, poi in Brasile, infine in Bolivia: perchè è un ragazzo schivo.

La Repubblica di Salvini. “Tav, la controanalisi di Salvini: ‘Costa meno finirla che fermarla’”, “Un’indagine parallela. Meglio, un accertamento ulteriore… Quasi una misura prudenziale l’indagine commissionata dai leghisti a un gruppo di esperti coinvolgendo anche professori dell’università di Milano e avvocati di Roma… Ed ora quell’analisi parallela sembra aver dato i suoi frutti… L’offensiva leghista sulla Tav sembra lanciata e promette di proseguire” (Paolo Griseri, Repubblica, 26.1). Forza, compagno Matteo, sei tutti loro!

La Repubblica del Regno. “… fu il re d’Italia Carlo Alberto di Savoia che… emise lo Statuto…” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 26.1). No, Carlo Alberto fu solo re di Sardegna dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849. Il Regno d’Italia nacque il 17 marzo 1861, quando Carlo Alberto era sottoterra da 12 anni.

Il titolo della settimana. “Non soltanto rom e clochard. Il reddito di cittadinanza andrà anche ai ladri” (il Giornale, 26.1). E allora com’è che il Giornale non è favorevole?

“In tivù c’è ancora troppa ipocrisia: il politicamente corretto è insopportabile”

Ore 18 l’appuntamento. Ore 17.59 arriva Paolo Bonolis, strati di lana a proteggerlo, apre la porta del suo appartamento romano: pochi mobili, quelli essenziali, al muro una gigantografia con Walter Bonatti accovacciato sulla punta di un monte (“uno dei miei miti”), libri ovunque, anche García Márquez in lingua originale (“sì, leggo in spagnolo”); tutto è in ordine, con un’eccezione: il tavolo dal salotto invaso da fogli di carta, scritti a penna, “perché non uso il computer e sono impegnato nella stesura di un libro”. Quando parla ama le citazioni, non si perde in digressioni, e se una domanda non la ama del tutto, compare una leggera balbuzia: “Fino a 12 anni i professori neanche mi potevano interrogare, ci mettevo troppo a rispondere”.

Del Paolo Bonolis caciarone, ammiccante, spinto nei termini, resta solo il sorriso.

Vive qui?

No, ci sono per le riunioni, per prendere appunti, e a volte per stare solo e allungarmi sul divano.

Finito lo show, silenzio.

Totalmente zitto, no, altrimenti sarebbe una forma di autismo. In generale sono più pacato rispetto alla tv: la telecamera prevede un atteggiamento anche esasperato, perché trovo divertente esasperare, mentre fuori dagli studi rallento di colpo.

Come i comici…

Sono realmente tranquillo, direi timido, con una vita riservata. Esco pochissimo.

Niente salotti romani.

Non saprei cosa dire, non li conosco, e un po’ mi inquieta questa straordinaria familiarità che hanno tra di loro: mi sentirei uno Stranger in a Strange Land (Straniero in terra straniera, romanzo di Robert Heinlein del 1961).

Si sente romano?

Romano de Roma, no: papà milanese, mamma di Salerno.

È considerato un fuoriclasse.

Ho solo una traiettoria di divertimento che piace anche agli altri.

Si diverte realmente.

Qualche volta ancora sì, e nonostante l’imponente quantità di lavoro, ci salviamo con lo spirito.

Qual è?

Siamo disincantati, ci piace dare un calcio nel sedere all’ipocrisia comportamentale della televisione, lì dove vince la continua affettazione dell’apparire.

Esempio.

L’altra sera si è seduta di fronte a me una donna stravolta da interventi estetici e botulino. La guardo. Le domando: “Lei chi era?”

Politically correct grande nemico.

È la cosmesi ben fatta dell’ipocrisia; poi la moltiplicazione dei social, il commento continuo, l’opinione indiscriminata ti porta quasi ad aver paura di pensare e parlare.

Dicevamo, si diverte meno.

È fisiologico: quello che era affascinante, con gli anni diventa abitudine, consuetudine e cresce la stanchezza fisica. Recupero con maggiore fatica rispetto a vent’anni fa.

Non sente il brivido della telecamera?

Non sento la necessità morbosa di esserci, tanto che tra un paio di anni vorrei fermarmi, perché non sono più contemporaneo.

In cosa?

Parlo un linguaggio analogico in un mondo digitale, non ho più i riferimenti da offrire, quelli che rispondono alle esigenze di questi tempi: non uso il computer, ho un cellulare vecchio, con il quale rispondo e mando al massimo gli sms. (Si ferma un paio di secondi) Sono cresciuto in un’epoca che si avvitava sulle ideologie, oggi si avvita sulle tecnologie.

E le fa paura.

Temo che la tecnologia possa diventare un’ideologia, e mi rendo conto della distanza generazionale attraverso il confronto con i miei figli: in mezzo ci sono delle ere, e non ho più voglia di correre appresso a tutto ciò, mi diverto ogni tanto a condannarlo , o a mettere dai piccoli argini con le persone a cui voglio bene, ma senza condizionare esistenzialmente.

Il suo apice in carriera è “Il senso della vita”, ed è un programma molto politically correct…

Non sono d’accordo, ed è un format di cui avevo bisogno: amo leggere e riflettere, ma ho i limiti di conoscenza, cultura, e capacità intellettuale; con quella trasmissione ho cercato persone da ascoltare, soggetti in grado di schiudere un pensiero rivelatore; un brivido d’intimità in un periodo sociale nel quale l’intimo è quasi cancellato dall’esteriore.

Oramai in tv i protagonisti svelano particolari intimi.

Pensano sia una delle benzine del successo, e capita soprattutto con chi è in difficoltà nel raggiungere l’agognato riflettore; così mettono in piazza qualunque lato della loro esistenza, quando dovrebbero mantenere un po’ di pudore.

Basta che se ne parli.

Mi inquieta parecchio e non avviene solo in tv: sano sempre tante, troppe le persone che quando ti incontrano ti buttano addosso una sacca di fatti propri e di altri.

Non vuole sapere.

Ogni volta penso: “Ma a me, che me ne frega?”.

In quanti si avvicinano a lei per un secondo fine?

Non cerco di capirlo, delle persone mi fido, se poi quello che mi mostrano è un’illusione, allora complimenti, il numero mi è piaciuto, in quel crederci sono stato bene.

È forse il presentatore più pagato.

Li prendo perché ho il mercato che me li dà.

Lineare.

Anni fa avevo un contratto da 7, 8 miliardi, e una giornalista mi disse: “Non prova vergogna per quello che guadagna?” Questa domanda mi provocò notevole fastidio…

Risposta?

“Con me l’azienda fattura intorno ai 175 miliardi l’anno, quindi sono sottopagato”.

A scuola provocava anche i professori?

Non ricordo, ma come dicevo, fino ai 12 anni, non mi hanno potuto interrogare, rispondevo per iscritto; mio padre stesso, quando tentavo di dirgli qualcosa, a un certo punto si rompeva: “Aoh, scrivi”.

Intimidito dalla balbuzia?

Un po’ mi ha chiuso nei confronti dell’esuberanza, mentre il personaggio televisivo maschera quello che sono, e fa emergere solamente ciò che vorrei essere.

Deriso?

Da nessuno, o forse è successo, ma certi atteggiamenti mi entravano da una parte e uscivano dall’altra.

Ogni tanto capita ancora.

Mio figlio ha lo stesso problema, ma è pure un accavallarsi di pensieri, si crea come un ingorgo, e me ne sono accorto quando da giovanissimo ho recitato a teatro, e avevo una sola battuta: “Arrivano le guardie!” Cacchio, la pronunciavo perfettamente, ero così stupito da ripeterla in continuazione.

Tra poco c’è Sanremo, e lei sul palco portò Tyson.

È stato il colpo a effetto di quel Festival, uno che indubbiamente ha commesso delle colpe e ha pagato; poi quando ci parli, ti prende un colpo, non tanto per la muscolatura, piuttosto per una vocina da castrato simile a quella di Luca Laurenti.

Ha intervistato Donato Bilancia…

Prima di quell’incontro, avevo intrapreso un percorso emotivamente impegnativo: volevo capire qual è il momento in cui la parte oscura diventa prevalente, cosa scatta, se è una questione biochimica o altro. Al termine ho chiesto di parlare con Donato Bilancia, uno che fino a un momento prima di uccidere, era passato inosservato.

E…

Quando si è seduto davanti ho visto una pupilla che non si dilatava mai, assenza completa di interazione, come un cyborg che valutava solamente le proprie intenzioni.

Ora un quiz: a una data fondamentale, il suo ricordo. 9 maggio 1978.

La morte di Aldo Moro: avevo 17 anni e non sono mai stato politicamente coinvolto, la mia vita era banale rispetto a quegli anni; la forza ideologica l’ho scoperta dopo.

Non percepiva l’aria…

Sì, ma sfuggivo: giocavo a pallone, poi studiavo, quando potevo viaggiavo.

Dove andava?

Seguivo un amico di mio padre che lavorava per la rivista Mondo sommerso; con lui ho scoperto la Cambogia, il Nord Africa, la valle del Nilo, il Sahara, la Tanzania.

Pagava suo padre?

E chi aveva i soldi? Lui scaricava il burro ai mercati generali, al massimo poteva mandarmi a Coccia di Morto.

11 luglio 1982.

I tre gol alla Germania nella finale dei Mondiali. Lo sport l’ho sempre seguito e in tutte le sue latitudini, quando posso vado allo stadio o alle gare dei miei figli e se ci sono le Olimpiadi, mi commuovo.

Che ragazzo era?

Avevo iniziato da poco la televisione, e nel frattempo studiavo.

Ancora non la riconoscevano per strada…

La fama è arrivata con Bim Bum Bam, in particolare dal secondo anno, quando avevamo iniziato a scriverlo noi, e non Lidia Ravera.

Esautorata?

Nonostante le sue indubbie qualità di scrittrice e giornalista, aveva uno stile un po’ stucchevole, melassoso; ne parlai con i vertici e gli chiesi se potevo sostituirla insieme a Giancarlo Muratori.

A 21 anni contro la Ravera, vuol dire carattere.

Non mi è mai mancato. E poi non sono un attore, non sono in grado di fingere, quello che dico e faccio mi deve appartenere; comunque dalla Rai mi hanno mandato via dopo il primo anno: pensavano avessi un carattere poco addomesticabile.

Ci rimase male?

In realtà puntavo alla carriera diplomatica, per questo studiavo Scienze politiche, volevo continuare a viaggiare.

Non pensava alla tv.

Per niente, sono andato avanti solo perché a un certo punto ha iniziato a rendermi del denaro e con i soldi ho soddisfatto le prime necessità, a partire dalla macchina.

Quale?

Una Dyane rossa da sei cavalli: un’estate ho percorso l’intero perimetro dell’Italia.

8 novembre 1989.

La caduta del Muro: il ventennale l’abbiamo festeggiato nella seconda serata di Sanremo.

La politica era entrata nella sua vita?

Tempo dopo ho scoperto il piacere dell’osservazione storica più della frequentazione.

Tipo?

La rivoluzione hippy o lo psichedelismo e i movimenti musicali in stile peace e love; ancora oggi se vedo Hair di Milos Forman, piango all’ultima scena (quando il pacifista parte per la guerra in Vietnam).

Si identifica.

Quelle suggestioni, quel coinvolgimento, quei cromosomi culturali sono dentro di me e se fossi stato lì, in quel momento, sarei stato uno di loro; a 58 anni, con la famiglia, vado ancora in vacanza a Formentera, un posto diventato commerciale, eppure insisto nel ricordo di quando potevamo stare nudi in spiaggia senza che importasse a nessuno.

23 maggio 1992.

La morte di Falcone. In quel periodo stavo prendendo più coscienza, e quella tragedia è una delle grandi contraddizioni di questo Paese: siamo una nazione di clienti con dei livelli di clientela più fragili e alcuni tremendamente gravosi; la mafia è un livello di clientela altissimo con dentro lo Stato i suoi conniventi e i suoi nemici.

Non ama la politica, però è andato da Renzi alla Leopolda.

Mi sta simpatico; è uno gradevole, intelligente e bizzarro, sicuramente preso da sé, ma quando arrivi a quel livello devi avere un po’ di presunzione; il problema è quando l’io è sovrastato dall’ego. Anche Berlusconi mi sta simpatico.

I due si assomigliano.

Non lo so, può essere (ride).

Sua moglie è criticata sui social per l’aereo privato, le borse e altri ammennicoli.

Lei è più giovane di me, ha tredici anni meno, ed è cresciuta in un’altra dimensione: io con Sandokan… scusi un attimo (squilla il cellulare, risponde, dall’altra parte il silenzio. Bonolis incalza: “Mauro… Mauro… Mauroooo… o parli o vaffanculo…” Altro silenzio. “Ok, hai scelto vaffanculo, vabbè”. Attacca e sorride). È un amico.

Riprendiamo…

Dicevo Sandokan, Tognazzi e Vianello, Il libro Cuore, I ragazzi della via Pal, mentre su mia moglie hanno inciso Dynasty e Falcon Crest.

Abissi.

A un certo punto devi fare un compromesso. Ma è divertente, un po’ come scrivere nel 2019 un libro a penna.

A che punto è della stesura?

Indietro, ma non voglio avere fretta, preferisco godermelo.

Dal ghetto di Varsavia alla bestia di Praga

Anche al cinema è Giornata della Memoria: di sommersi e salvati (e carnefici), i cinque film sulla Shoah che trovate in sala.

 

I bambini di Rue Saint- Maur 209 . Il bel documentario dell’esperta Ruth Zylberman ruota intorno a un palazzo di Parigi: “È stato scoprendo il censimento del 1936 che mi sono accorta che un terzo dei trecento abitanti del 209 di Rue Saint-Maur erano ebrei. Dei cinquantadue deportati, nove erano bambini”. Indomita e indefessa, la cineasta li ha ritrovati in giro per il mondo, da New York a Tel Aviv e Melbourne: “Ripresi insieme all’edificio che rappresenta la loro infanzia, divengono una sorta di unico organismo vivente portatore di memoria”. Quei bambini interrotti, brutalmente prelevati dalla polizia francese nella notte del 16 luglio 1942, tornano a toccare il cortile, le scale, le finestre, e dicono dell’oggi, anche il nostro: che significa essere espropriati del proprio qui e ora? Interrogativo, si capisce, politicamente incandescente.

 

Chi scriverà la nostra storia. La regista Roberta Grossman e la produttrice Nancy Spielberg (sorella di Steven) adattano il saggio di Samuel D. Kassow, Chi scriverà la nostra storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia. Adrien Brody e Joan Allen tra le voci narranti, il doc inquadra una storia non raccontata della Shoah, ovvero l’opposizione con carta e penna di un manipolo di ebrei alla supremazia della memoria nazista. Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, la compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum raccolse e seppellì migliaia di documenti e manufatti, diari e interviste, poi portati alla luce alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Raro materiale d’archivio, talking heads e drammatizzazioni accurate, per un collage mirabile ed emozionante.

 

Schindler’s List. Il capolavoro di Steven Spielberg è nuovamente in sala a 25 anni dall’uscita italiana, nel 1994: vinse sette Oscar, tra cui miglior film e regia, e ancora oggi è stampigliato sul nostro immaginario collettivo, sicché ha fatto davvero Memoria. Come scrisse Morando Morandini, quella dell’industriale tedesco Oskar Schindler “è, in fondo, la storia di un uomo che vende l’anima al diavolo per salvare un migliaio di vite. Oggi in Polonia gli ebrei sono meno di 4.000. I discendenti degli ‘Schindlerjuden’ sono più di 6.000. Steven Spielberg, ebreo americano, ha pagato il debito con il suo popolo, riaprendo una ferita che deve rimanere aperta”.

 

La douleur. Dal memoir omonimo della Duras, si torna alla Francia occupata del 1944, allorché il consorte della scrittrice, Robert Antelme, intellettuale e membro della Resistenza, viene preso dalla Gestapo: Marguerite vorrebbe un figlio da Dionys Mascolo, gioca di seduzione con il collaborazionista Rabier e soffre come un cane. Il regista Emmanuel Finkiel, che ad Auschiwtz ha perso i nonni, sa di quel che filma, si affida alla brava Mélanie Thierry e gira con empatia e intelligenza: La douleur è un gioiello.

 

L’uomo dal cuore di ferro. Reynard Heydrich, chi era costui? La mente della Soluzione finale, il macellaio di Praga, la bestia bionda. Dal sorprendente romanzo HHhH (acronimo di Himmlers Hirn heisst Heydrich, “il cervello di Himmler si chiama Heydrich”, Einaudi) di Laurent Binet, viene purtroppo un film ignavo, diretto da Cedric Jimenez e con Jason Clarke per Heydrich, il gerarca nazista più alto in grado assassinato durante la Seconda Guerra Mondiale.

Senza i sopravvissuti nessuno vorrà più capire lo sterminio

Per anni il compito di spiegare cosa è stata la Shoah è gravato sulle spalle di quei sopravvissuti che hanno scelto di continuare a rivivere il trauma del loro internamento nei campi (e della loro sopravvivenza). Testimoni spesso mal sopportati, ascoltati più per il rispetto che si deve agli anziani, a chi arriva da un’altra epoca (e per un senso di colpa collettivo) che per una reale domanda di comprensione, men che meno di compassione. Ora che stanno morendo, cosa resterà?

La risposta – terribile ma anche molto plausibile – si trova in un romanzo dello scrittore israeliano Yishai Sarid, appena pubblicato dalle edizioni e/o: Il mostro della memoria. Il libro è la lunga lettera di un giovane uomo israeliano senza nome al suo datore di lavoro, cioè il direttore del museo Yad Vashem che a Gerusalemme coltiva la memoria e gli studi sull’Olocausto. Questo protagonista anonimo, e dunque universale, è diventato uno studioso della Shoah per mere ragioni di sopravvivenza: in quel campo di studi c’era una borsa di studio che gli avrebbe permesso di mantenere la giovane moglie. Non ha un particolare timore reverenziale per la materia, va in Germania, studia la letteratura già disponibile, poi trova un suo approccio: la ricostruzione minuziosa delle tecniche di sterminio, un lavoro quasi di analisi dell’organizzazione (come direbbero alla Bocconi) che non considera le vittime, i drammi individuali, la moralità perversa degli assassini.

“Il linguaggio burocratico è la mia unica lingua”, dice Adolf Eichmann, il burocrate che pianificò le deportazioni, nel contestato libro di Hannah Arendt La banalità del male. E il personaggio raccontato da Yishai Sarid applica lo stesso approccio, anche quando si trova a diventare una apprezzata guida nei campi per gli studenti israeliani in gita scolastica. Nei primi tempi al suo fianco c’è un sopravvissuto di Auschwitz e tutto sembra funzionare: lo studioso racconta il meccanismo implacabile dello sterminio, l’efficienza assoluta raggiunta nell’omicidio di massa, mentre il reduce spinge i ragazzi all’empatia, rende umana e individuale una tragedia così generale da diventare quasi rarefatta, impossibile da afferrare. Poi il sopravvissuto invecchia, si ammala, torna in Israele. E il giovane studioso resta solo. In apparenza tutto sembra andare bene: i gruppi di visitatori aumentano, le recensioni sono positive, i progetti collaterali lo gratificano, riesce perfino a pubblicare un apprezzato saggio. Eppure, e questo è tutto il senso del romanzo di Sarid, senza il sopravvissuto il “mostro della memoria” diventa impossibile da gestire: quando la guida di Auschwitz prova a essere distaccato, didascalico, i gruppi di visitatori restano spiazzati da quella che sembra quasi essere ammirazione per la capacità organizzativa dei nazisti e per la loro scelta di non fingere compromessi, di accettare in pieno la violenza intrinseca nell’uomo.

Di fronte alle obiezioni, la guida inserisce nel suo racconto le vittime: ma nessuno vuole davvero conoscere come venivano strappati i denti d’oro, gli esperimenti con i gas nei camion, le bugie dei Sonderkommando che rassicurano i prigionieri prima della camera a gas. Nessuno vuole davvero capire, gli unici interessati sono gli sviluppatori di un videogame che vuole essere molto realistico. “Le storie horror piacciono”, dice uno degli startupper. E così, la guida senza nome, l’inconscio collettivo di Israele e dell’Occidente, senza l’appiglio di carne e voce dei sopravvissuti, finisce per soccombere al “mostro della memoria”. Con quali conseguenze lo vedremo. O forse lo stiamo già vedendo.

Stella, Goebbels, Leo & C: l’amore ai tempi dell’orrore

L’amore ai tempi dell’orrore: è questo il filo rosso, se ce n’è uno, della sterminata offerta editoriale in occasione del Giorno della Memoria 2019. Gli amanti “nati sotto contraria stella” sono declinati in modalità Terzo Reich: non discendono da famiglie rivali, ma da “razze” differenti, in anni in cui la fake news della “razza” veniva spacciata per vera, e per legge, in mezza e più Europa. Che razza di disumanità.

Lui ebreo e lei nazista, o viceversa: ecco il canovaccio, con protagoniste le relazioni pericolose sbocciate in violazione delle leggi e/o dello spirito del tempo, antisemita e razzista. Dal caso Kaufmann alle trame di Magda Goebbels, dalla spia Kristin ai tormenti di Paul Celan e Ingeborg Bachmann, il romanzo rosa di ambientazione nazifascista tira, e funziona: fatta salva la bontà letteraria delle opere, però, il rischio di edulcorare la Shoah, trasfigurandola in un fogliettone sentimentale, resta.

L’importante è non perdere di vista il contesto: “Denuncia o non denuncia, signorina o non signorina, il signor Leo era ebreo, e un ebreo a quei tempi una brutta fine, prima o poi, l’avrebbe fatta comunque”. È l’incipit folgorante del Caso Kaufmann di Giovanni Grasso (Rizzoli), che riaffabula la storia vera di Irene Seiler e Lehmann Katzenberger (il Kaufmann della fiction), amanti nella Norimberga degli anni Trenta, nonostante la disparità di età – lei ventenne, lui sessantenne – e di origini. Denunciati, finiranno al Tribunale speciale: Leo con l’accusa di “lordura razziale” e “violazione della legge sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco”; Irene per “falsa testimonianza e irresponsabilità” per essersi nel frattempo iscritta al partito nazionalsocialista. La sentenza vuole essere esemplare: morte all’uomo e carcere alla donna.

Non va meglio a Stella di Takis Würger (Feltrinelli), anche perché Stella – vero nome di Kristin – è una smaliziata spia ebrea che collabora con la Gestapo, denunciando altri ebrei pur di salvare i genitori dal campo di concentramento. Questo romanzo si ispira a sua volta a un amore vero, quello tra lo svizzero Friedrich e la tedesca Kristin, travolti da un insolito destino nella Berlino, ancora per poco, danzerina e mondana.

Tradimenti, ossessioni e false identità sono al cuore pure dei Sogni calpestati, ovvero quelli della signora Goebbels. “Flirtando con il verosimile”, Sébastien Spitzer ricostruisce la resistibile ascesa di Magda, “la peggior menzogna del secolo”, mezza ebrea – perché figlia di Richard Friedländer, sposato da sua madre in seconde nozze – e amante di un sionista, Haim Arlozoroff. La scoperta dei natali ebraici della Goebbels è recente: non è chiaro se lei stessa ne fosse consapevole – benché l’autore lo dia per scontato –, ma comunque non mosse un dito per evitare al padre-patrigno la morte a Buchenwald. “Esperta di apparenze, maestra nell’arte di ingannare”, la nazista è donna dai robusti appetiti: più del marito Joseph – entrambi si consolano con altri spasimanti –, ama il potere, il Führer, il Reich, il “mio Cristo… ha fatto di noi delle regine e delle principesse”.

Sbilanciata e tormentata è infine la relazione tra Paul Celan – nato Antschel a Cernovitz, da genitori poi morti in un lager in Ucraina – e Ingeborg Bachmann, austriaca “figlia del carnefice”. Eppure, tra i due la frattura non passa per il sangue, semmai per la testa, e infatti Neri Pozza licenzierà il libro il 31 marzo, scongiurando ogni sovrapposizione e rimando alla Giornata della Memoria: Ci diciamo l’oscuro di Helmut Böttiger dissotterra un amor fou giovanile, consumato a Vienna nel 1948. Entrambi vi arrivano da sradicati, “incantati” l’uno dall’altra, tra “attrazione e repulsione”, tanto che lui, in una poesia, la chiama “straniera”. Laddove non riescono la guerra o la politica o le radici a separarli, lo fa l’arte: quella “loro condizione di poeti, troppo esclusiva, troppo imparentata, li mette l’uno contro l’altra”. Di quella passione effimera vi è un testimone effimero: il papavero. Appunta Ingeborg: “La mia stanza è un campo di papaveri, a lui piace sommergermi di questi fiori”. Paul li adora perché sono il simbolo dell’oblio; non a caso la sua prima raccolta “ufficiale” si intitola Papavero e memoria e il suo verso più profumato recita: “Ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria”. Si amano per appena sei settimane, ma come fosse per sempre, non una Giornata soltanto.

Mail Box

 

Chi ride di Banfi all’Unesco scorda la “nipote di Mubarak”

Salvini ha ironizzato sulla scelta dell’alleato di governo Di Maio di nominare Lino Banfi come rappresentante dell’Italia all’Unesco. Non mi ricordo un analogo atteggiamento quando era alleato di Berlusconi che imperversava nelle cronache politiche e giudiziarie, senza subire censure o perlomeno perplessità da parte della Lega.

Il “Capitano” si ricordi che abbiamo visto persino un voto del Parlamento sulla “nipote di Mubarak” per salvare il Cavaliere. Salvini sfrutta la mancanza di memoria storica degli italiani, che permette passino schifezze di tutti i tipi.

Andrea Finotti

 

Ministro, il telefono in classe è un clamoroso errore

Da docente in pensione e simpatizzante del Movimento 5 stelle, credo che il ministro Bussetti sbagli clamorosamente nell’essere favorevole all’uso del telefonino in classe.

Pasquale Mirante

 

I morti sul lavoro: la strage dei 28 in appena un mese

Nessuno ha detto nulla sul fatto che nella sola giornata di venerdì sono morti tre lavoratori: Gianfranco Caracciolo di 37 anni, folgorato in un cantiere sulla Pedemontana (Vicenza); Antonio Puleo di 64 anni, schiacciato dal muletto a Palermo; Assane Nokho, agricoltore di 62 anni, schiacciato dal trattore a San Miniato.

Oramai è un bollettino di guerra che non conosce sosta, e molti hanno pure il coraggio di definirle ancora con il termine ipocrita “morti bianche”. Non c’è nulla di bianco in una morte sul lavoro, ed è un termine che offende le vittime e i loro familiari.

Negli anni Sessanta le chiamavano omicidi sul lavoro; lo so che è un termine forte, ma di sicuro più realistico della presa in giro del termine “morti bianche”. Siamo a 28 morti sul lavoro da inizio anno e se si considerano quelle su strada nel tragitto di andata e ritorno tra la propria abitazione e il posto di lavoro, la cifra raddoppia: siamo a circa 56 morti.

Marco Bazzoni

 

Mario Draghi ci copre le spalle dagli errori di calcolo del Fmi

Mentre si alzano venti di guerra civile in Venezuela e i giudici del tribunale dei ministri di Catania chiedono l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per l’affaire Diciotti, l’intervento di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, contesta con tempistica ineccepibile la previsione del Fondo monetari internazionale circa la recessione in Europa, e quindi scagiona l’Italia come Paese untore. Soffermandoci per il momento sull’intervento di Mario Draghi, non v’è dubbio che l’effetto prodotto sui mercati sia stato benefico, come quello sull’economia europea non in stato di recessione e, infine, quello sul nostro Paese e quindi sul governo giallo-verde.

Tutto ciò, tenuto anche conto della promessa dello stesso Draghi, in base alla quale all’occorrenza la Bce sarebbe intervenuta ad adiuvandum.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Io, padre di un cervello in fuga, invito tutti a cambiare

Questa è la lettera di un padre che ha pensato di sfogarsi e di dare voce ai tanti genitori che pensano le stesse cose. Da quattro anni mio figlio Stefano ha lasciato la sua terra, l’Irpinia, per andare a studiare fuori, prima alla Bocconi poi a Barcellona. Sono un libero professionista e so quante difficoltà ci sono nella nostra provincia per lavorare, io restai e non me ne pento ancora dopo 32 anni, ma forse la situazione per noi era migliore. Oggi noto che si sta molto peggio di prima ed i figli d’Irpinia che partono sono di più. Tutti noi dobbiamo far sì che i giovani intelligenti non se ne vadono perché qui non possono fare niente. Il 23 Novembre 2018, esattamente 38 anni dopo il tragico terremoto che ha colpito l’Irpinia e ha avuto come epicentro il mio paese, Conza della Campania, che coincidenza incredibile, mio figlio si è laureato alla Bocconi. Ed è nata all’improvviso in me la speranza che mio figlio Stefano e altri giovani come lui in un anniversario così triste come quello del terremoto dell’Irpinia possano rappresentare la rinascita di questa terra meravigliosa, perché che n’è davvero bisogno.

Michele Carluccio

 

Il Senato al voto su Salvini. Cosa faranno i Cinquestelle?

Le risposte della politica nazionale e comunitaria non sembrano in grado di individuare una soluzione in grado di contemperare i diritti dei migranti con i diritti dei cittadini dei Paesi di accoglienza. Ora la Magistratura ha chiesto al Senato di poter processare il ministro dell’interno Salvini, e i senatori dovranno esprimersi. Come si comporteranno i Cinquestelle? I loro principi e la loro storia sono stati coerenti con la difesa nel processo e non dal processo. Cosa faranno ora?

Gian Carlo Lo Bianco

 

Il M5S appoggi il referendum sul Tav: può uscirne vincente

Sul Tav condivido pienamente la linea contraria del Fatto. Condivido le stesse perplessità sulla legittimità di un eventuale referendum. Mi chiedo, però, se in termini politici una consultazione non possa essere di gran lunga preferibile a un compromesso per il M5s, qualora Salvini insistesse per la realizzazione dell’opera. Nel referendum il Movimento 5 stelle potrebbe combattere con coerenza, e magari anche vincere la sua battaglia insieme a milioni di persone. E nessuno potrebbe accusare questa forza politica di cedimento o di aver ammainato una bandiera fondamentale.

Antonio Maldera