Indaffarati (e silenziosi) per il colle

Leggiamo su La Stampa che “Letta apre il dialogo con Meloni per eleggere Draghi presidente”. Leggiamo su Repubblica che alla festa di Fratelli d’Italia il segretario del Partito democratico avrebbe detto l’esatto contrario: “Senza Draghi maggioranza a rischio”. Per carità, lo sappiamo che il nostro è un ingrato mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Soprattutto quando il nome del prossimo inquilino del Colle è “un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma” (come diceva Winston Churchill a proposito dell’ex Unione Sovietica).

In attesa che il nebbione si diradi, proviamo a riordinare le poche e confuse idee sull’argomento.

Primo: continuare a chiedersi se Draghi voglia salire al Colle o se preferisca restare a Palazzo Chigi è abbastanza ridicolo. Meglio risiedere in un condominio sgarrupato o meglio in un hotel a sette stelle? Meglio farsi logorare giorno dopo giorno da mille problemi e da una coalizione rissosa, o meglio garantirsi per sette anni uno scettro inviolabile? Meglio avere a che fare continuamente con Matteo Salvini, o meglio anche no? Assodato che nessuna persona sana di mente al mondo rinuncerebbe a farsi eleggere presidente della Repubblica solo perché glielo chiede il Financial Times, arriviamo al secondo quesito. Ovvero: quando e con quali modalità Draghi esternerà i suoi propositi? Interrogativo totalmente insensato, per non dire peggio, ma che rispecchia un altro titolone di qualche giorno fa. Che attribuiva ai partiti della maggioranza una geniale pretesa del tipo: Draghi ci dica cosa vuole fare.

Se dunque appare abbastanza improbabile che l’incarnazione del silenzio di tomba come forma suprema di comunicazione si lasci sfuggire una sillaba sull’argomento, ciò non esclude affatto (anzi!) che il personale addetto sia impegnato alla bisogna (ventre a terra, per dirla come Toto su Funiciello) in intenso e fattivo lavorio. Che, tuttavia, potrebbe avere un esito soltanto: elezione di Draghi alla prima chiama del Parlamento, con la più larga maggioranza e servita su un piatto d’argento (infine, tra il Foglio che lo vuole assolutamente al Quirinale e il gruppo Gedi che lo vuole assolutamente a Palazzo Chigi, noi scegliamo Ferrarelle).

Il Colle può attendere: Renzi va dagli emiri e snobba Salvini

Questa mattina sarà ad Atreju, la festa di partito di Fratelli d’Italia per parlare di riforme istituzionali con Marcello Pera, Luciano Violante e Sabino Cassese con vista sul Quirinale. Ma da domani il suo nome sarà su un cartellone molto più glamour, pur senza nulla togliere a Giorgia Meloni: Matteo Renzi è pronto a volare negli Emirati Arabi, dove lo attendono al Global Citizen Forum per l’ennesima conferenza di lusso.

E la decisione di andare all’estero non è passata inosservata. In questi giorni, Renzi avrebbe dovuto incontrare prima Matteo Salvini e poi Giovanni Toti per fare il punto in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. Ma fonti parlamentari confidano al Fatto che gli impegni sarebbero stati rinviati proprio a causa di un imminente viaggio all’estero dell’ex premier. Basta incrociare le date per scoprire che nelle stesse ore Renzi è annunciato come super-ospite del Forum, in programma domani e lunedì a Ras al-Khaima, un centinaio di chilometri a nord di Dubai. L’evento è organizzato dall’omonima organizzazione non-profit canadese fondata dall’imprenditore “filantropo” (così almeno dice di sé) Armand Arton, che per il Forum ha arruolato cantanti, manager e persino ex calciatori come Clarence Seedorf. Il programma degli speech è riservato e l’ufficio stampa della kermesse fa sapere che nessun evento sarà trasmesso in streaming, giustificando così una certa esclusività.

Per dare l’idea, il biglietto di ingresso ai panel costa 1.300 dollari. Ma l’appuntamento più atteso non va cercato nella scaletta degli interventi, ma nel “Global citizen gala”, il momento conclusivo del Forum dove tutti gli ospiti e i facoltosi hanno occasione di “fare network”, come promuove il sito che mette in vendita i biglietti. Per accaparrarsi un momento del genere, i prezzi salgono: 2.300 dollari per l’ingresso ai panel e al Gala, 2.600 se si includono due notti al meraviglioso Waldorf Astoria Hotel, albergo con tanto di piscina, spiaggia privata, palestra e centro benessere. Numeri del genere non devono spaventare, visto il tipo di pubblico a cui si rivolgono questi eventi. Non a caso ieri il Forum ha annunciato il tutto esaurito: sold out con qualche ora di anticipo sull’inizio dei lavori. Per la gioia del board dell’organizzazione, che oltre a Cherie Blair, moglie dell’ex primo ministro inglese Tony, include anche il cantante e produttore Wyclef Jean, l’economista Nouriel Roubini e soprattutto lo sceicco Moe Al Thani, membro della famiglia reale del Qatar.

Sarà un palcoscenico, quello emiratino, per incrociare diverse istituzioni di paesi africani ed asiatici, ma anche per godersi la sfilata di celebrità: tra gli altri, sono attesi l’attrice Eva Longoria, i dj Afrojack e Steve Aoki e la cantante e attrice Nichole Shcerzinger.

Un contesto di certo più suggestivo rispetto alle noie della politica italiana. Renzi questa mattina parteciperà in presenza ad Atreju, ma ha dovuto rimandare i colloqui riservati in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. Avrebbe dovuto vedere Salvini e all’inizio della settimana prossima Giovanni Toti per parlare del nuovo gruppo centrista che potrebbe pesare sul voto presidenziale. Tutto rinviato di qualche giorno.

Contattato dal Fatto, lo staff del senatore non ha dato spiegazioni sulla conferenza, dribblando anche la richiesta di chiarimenti sull’entità di eventuali gettoni di presenza, sui quali anche lo staff del Forum mantiene il riserbo.

È proprio sui soldi percepiti per le sue attività di speaker che Renzi se la deve vedere con le accuse del Movimento 5 Stelle, che adesso chiede all’Europa regole più ferree: due giorni fa gli eurodeputati M5S hanno presentato una serie di emendamenti ad hoc alla relazione finale della Commissione speciale contro le ingerenze straniere, nata soprattutto per mettere paletti ai finanziamenti ai partiti. Con questa mossa, il Movimento chiede di estendere i divieti anche ai singoli eletti, mettendo al bando i compensi ricevuti da Stati stranieri o da fondi a essi riconducibili. Proprio come nel caso di Matteo.

I testimoni pagati e il secondo governo per abolire i processi

1998. David Mills, l’avvocato d’affari inglese che alla fine degli anni 80 ha costruito il “comparto B” della Fininvest all’estero, utilizzato per accumulare fondi neri da usare per ogni sorta di reati, viene convocato come testimone in due processi-chiave per Berlusconi: quelli per le tangenti alla Guardia di Finanza e a Craxi (All Iberian). I vertici del Biscione gli promettono una lauta ricompensa se mentirà per Silvio. Mills esegue e, fra il 1999 e il 2000, riceverà dai conti esteri Fininvest una mazzetta di 600 mila dollari (per cui verrà condannato in primo e secondo grado per corruzione giudiziaria e poi salvato in Cassazione dalla prescrizione; Berlusconi invece verrà giudicato a parte grazie alle sue leggi auto-impunitarie e prescritto già in primo grado).

Stesso anno, altro depistaggio del processo All Iberian: come emergerà dai diari segreti di Yasser Arafat, pubblicati vent’anni dopo dall’Espresso, Berlusconi paga il capo dell’Olp per dichiarare che 10 dei 23 miliardi versati estero su estero a Craxi nel 1991 erano in realtà destinati alla causa palestinese.

9 ottobre. Il governo Prodi viene sfiduciato per un solo voto alla Camera per mano di Rifondazione comunista. Al suo posto arriva il governo di Massimo D’Alema, sostenuto da un pezzo di centrodestra al seguito di Francesco Cossiga e Clemente Mastella.

31 dicembre. Dell’Utri viene sorpreso e filmato dalla Dia a Rimini mentre incontra un falso pentito, Pino Chiofalo, che sta organizzando un complotto per screditare i veri pentiti che accusano Dell’Utri e i boss di Cosa Nostra. Chiofalo patteggia la pena e rivela: “Dell’Utri mi promise di farmi ricco”. Dell’Utri smentisce, ma il gip di Palermo dispone la sua cattura. La Camera (a maggioranza Ulivo) nega l’autorizzazione all’arresto, così come ha appena fatto con Previti salvandolo dalle manette per le mega-corruzioni giudiziarie.

1999, maggio. Carlo Azeglio Ciampi viene eletto presidente della Repubblica dopo Scalfaro. Dell’Utri si candida al Parlamento europeo, nel collegio Sicilia-Sardegna. Dalle intercettazioni ambientali di alcuni uomini di Bernardo Provenzano, si sente uno di loro, Carmelo Amato, raccomandare ai “picciotti” di votare per lui. “Purtroppo dobbiamo portare a Dell’Utri, lo dobbiamo aiutare perché se no lo fottono. Se passa lui e sale alle Europee, non lo tocca più nessuno, ma intanto è sempre bersagliato da qua, ti pare? Perché hanno detto di no là (la Camera ha appena detto no all’arresto, ndr). Pungono sempre, questi pezzi di cornuti (i magistrati, ndr), compare”. “Si sta lavorando, ci dobbiamo dare aiuto a Dell’Utri, perché se no questi sbirri non gli danno pace”. “Purtroppo ora a questo si deve portare in Europa… Dell’Utri… Sì, qua già si stanno preparando i cristiani (i mafiosi, ndr)”. In altre conversazioni emergono rapporti tra Dell’Utri e Pierino Di Napoli, il boss che consegna i soldi della Fininvest a Riina. Il 13 giugno Dell’Utri viene eletto al Parlamento europeo, dove entra subito nella commissione Giustizia.

2000. Dopo la sconfitta del centrosinistra alle Regionali, il premier D’Alema si dimette, sostituito da Giuliano Amato (al suo secondo governo), che completa l’harakiri del centrosinistra. Muore il boss Vittorio Mangano, di nuovo in carcere al 41 bis dal 1995, pochi giorni dopo essere stato condannato all’ergastolo per duplice omicidio. Berlusconi e Dell’Utri lo definiranno “eroe” perché non ha mai parlato.

2001. La campagna elettorale per le elezioni politiche è un lungo monologo del favorito Berlusconi contro i “comunisti” (memorabile il “Contratto con gli Italiani” siglato a Porta a Porta sulla scrivania in ciliegio messa a disposizione da Bruno Vespa), mentre il candidato di centrosinistra Francesco Rutelli rinuncia a qualunque polemica e balbetta in attesa della scontata sconfitta. Gli unici elementi di disturbo vengono da alcuni programmi tv: Satyricon di Daniele Luttazzi con un giornalista che parla dei rapporti fra il Cavaliere e Cosa Nostra; Il raggio verde di Michele Santoro e il Fatto di Enzo Biagi, che rilanciano quel tema, del tutto oscurato dalla classe politica. Indro Montanelli avverte gli italiani del pericolo di un “regime” con “la destra del manganello” e un appello di intellettuali (fra cui Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzorusso, Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Paolo Flores d’Arcais, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini) mette in guardia dai pericoli che corre la Costituzione. Tutto inutile.

13 maggio. Berlusconi stravince le elezioni alla guida della Casa delle Libertà e torna a Palazzo Chigi dopo sette anni. In Sicilia il centrodestra fa cappotto: 61 collegi su 61. Anche Dell’Utri viene rieletto, questa volta come senatore. Il boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, intercettato in quei giorni, parla con il mafioso Salvatore Aragona: “Con Dell’Utri bisogna parlare”, anche se “alle elezioni del ’99 ha preso degli impegni, e poi non s’è fatto più vedere”. Guttadauro aggiunge che Dell’Utri ha preso accordi direttamente con l’anziano capomafia Gioacchino Capizzi, capomandamento della Guadagna, la stessa famiglia mafiosa di Bontate, di Teresi e dei Pullarà. Poi Guttadauro annuncia l’intenzione di scatenare una campagna di stampa contro i pentiti e il carcere duro. Aragona gli segnala Lino Jannuzzi, giornalista del Foglio, di Panorama e del Giornale: “Buono è… ha scritto il libro contro Caselli, un libro pure su Andreotti ed è in intimissimi rapporti con Marcello Dell’Utri. Io sono stato invitato al Circolo, che è la sede culturale e intellettuale di Dell’Utri”.

Il Cavaliere vorrebbe ministro della Giustizia il leghista Roberto Maroni, che però ha una condanna definitiva per resistenza a pubblico ufficiale: Ciampi dice no e lo fa dirottare al Welfare. Il Guardasigilli è un altro leghista, Roberto Castelli, ingegnere meccanico specializzato in abbattimento dei rumori autostradali. Nessuna obiezione dal Colle per altri ministri o sottosegretari con pendenze giudiziarie: Bossi (condannato definitivo per la maxitangente Enimont), Brancher (condannato in appello per finanziamento illecito e falso in bilancio) e Sgarbi (pregiudicato per truffa al ministero dei Beni culturali, di cui ora è sottosegretario). E soprattutto Berlusconi: prescritto in Cassazione per la tangente di All Iberian a Craxi; prescritto in appello per le mazzette alla Guardia di Finanza; indagato a Caltanissetta per le stragi di Capaci e via D’Amelio (caso che sarà poi archiviato); indagato a Madrid per lo scandalo Telecinco; imputato in sei processi in Italia (quattro per falso in bilancio: Lentini, All Iberian-2, Sme-Ariosto-2, consolidato Fininvest; e due per corruzione giudiziaria: Sme-Ariosto-1 e lodo Mondadori).

(10. continua)

Colle, a B. servono 50 voti. E incassa quello di Brugnaro

Quattro parlamentari in due settimane. Il bottino dello shopping natalizio di Silvio Berlusconi per arrivare al Colle sta dando i suoi frutti: da metà novembre, quando ha fatto partire la sua campagna quirinalizia, ha conquistato i voti di Gianluca Rospi, Alessandro Sorte, Stefano Benigni e Claudio Pedrazzini. Il pressing continua sui parlamentari di “Coraggio Italia” e gli ex M5S del Gruppo Misto e ora in molti si chiedono: quanti voti mancano a Berlusconi per essere eletto al Quirinale? A oggi, a poco più di un mese dall’inizio delle danze, gliene servono 50. Questo è il pallottoliere ufficiale. Poi c’è quello in mano al leader di Forza Italia e ai suoi emissari che sono convinti che l’obiettivo sia molto più alla portata: nelle stanze di Arcore si parla di soli 25 voti per raggiungere il sogno di una vita, cioè quello del Colle dalla quarta votazione. Ma restando ai numeri ufficiali e prendendo per buone le dichiarazioni degli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il numero da cerchiare in rosso è 50.

La soglia dal quarto scrutinio, quando sarà richiesta la maggioranza assoluta, è 504 parlamentari. Il centrodestra sulla carta dispone di 454 voti (sarebbero 455 ma la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati non vota): 196 sono quelli della Lega, 131 di Forza Italia, 58 di Fratelli d’Italia, 31 di Coraggio Italia, 5 di Noi con l’Italia e 33 delegati regionali. Dall’altra parte, il centrosinistra può contare su 409 voti, mentre nel mezzo ci sono i 42 di Italia Viva e il gruppone dei 95 “cani sciolti” del Misto (oltre ai 9 delle Autonomie). Berlusconi come primo obiettivo deve tenere unito il centrodestra per poter contare su tutti i 454 voti disponibili. Oltre a coccolare continuamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni (“È stata la miglior ministra dei miei governi” ha detto ad Atreju martedì), deve provare a convincere i 31 parlamentari di Coraggio Italia! a sostenerlo compattamente. Ipotesi che al momento sembra piuttosto lontana visto che i totiani non stanno apprezzando per niente il pressing di Arcore su parlamentari come Emilio Carelli e Fabiola Bologna. Il leader di Forza Italia però sta agendo su due tavoli: i suoi emissari stanno lavorando sui parlamentari, mentre lui pochi giorni fa ha incontrato ad Arcore Brugnaro per chiedergli il sostegno alla sua candidatura al Colle. E da Arcore sono convinti di aver incassato un “sì” dal sindaco di Venezia e dei suoi 15 parlamentari. Un modo anche per mettere in difficoltà Toti che con Brugnaro nelle ultime settimane ha avuto più di uno screzio sulla leadership.

Il presidente della Regione Liguria si trova nel mezzo tra il seguire Matteo Renzi e federarsi in un gruppo unico centrista o, come vorrebbe Brugnaro, restare nell’alveo del centrodestra. Coraggio Italia è spaccato esattamente a metà: i due leader hanno entrambi una quindicina di parlamentari. L’obiettivo di Berlusconi è quello di poter contare su tutti e 31. Parallelamente si muoverà sul gruppo Misto e sugli ex M5s. Non tutti i 95 incerti sono “avvicinabili” perché fanno parte di componenti – come L’Alternativa – che Berlusconi non lo voterebbero mai. Ma gli sherpa di Arcore sono convinti di potersi muovere su un gruppo di 50-60 parlamentari preoccupati dall’elezione di Draghi per non scivolare al voto: “I franchi tiratori sono pericolosi in questa legislatura” avverte Antonio Tajani. Ieri il coordinatore di Fi, all’assemblea della Cna, ha ringraziato Giuseppe Conte per gli elogi a Berlusconi dei giorni scorsi. Ma Giancarlo Giorgetti, eminenza grigia della Lega, sembra non credere nell’elezione dell’ex premier puntando tutto su Draghi: “Non vince chi tira la volata ma chi sta nel gruppo”.

Matteo chiama l’altro Matteo: “Ha i voti, può essere decisivo”

“Sul Quirinale lavorerò per coinvolgere il maggior numero di forze politiche. Vanno coinvolti tutti, anche Renzi, che ha i voti per essere determinante…”. Lo scenario per l’elezione del capo dello Stato, Matteo Salvini, lo deposita a fine intervista. Siamo al quinto giorno di Atreju, la festa in versione natalizia di Fdi, e il leader leghista viene intervistato da Giovanni Minoli. Arriva, Salvini, il giorno dopo il grande feeling tra Giorgia Meloni ed Enrico Letta: entrambi per Mario Draghi al Colle e contro un ritorno al proporzionale. Applausi, molti, per Letta. Formali e quasi freddini per Salvini, quando qui prima c’erano ovazioni. “Vedo che il leader del Pd sposta nomi tra Chigi e Quirinale come fossero statuine del presepe. Contento lui…”, dice il leghista. Ma il vostro candidato è davvero Berlusconi (chiede Minoli)? “Silvio è un candidato vero”, risponde Salvini. “Nel caso facesse scelte diverse, abbiamo più di una donna che possa fare il presidente della Repubblica… Il centrodestra dovrà restare compatto per essere determinante nella scelta di un capo dello Stato che non abbia la tessera del Pd in tasca…”. Insomma, lo schema è quello e il kingmaker dell’alleanza vuole essere lui, trattando con tutti, soprattutto con Renzi (“la pubblicazione del suo estratto conto è indegna”) con cui condivide la preferenza per Pier Ferdinando Casini: “Vorrei un politico per il Colle”. Quasi un avvertimento a “Giorgia” a non cadere nella tela del Pd. Ma che sia proprio Meloni a volersi smarcare lo dimostra questa Atreju: una festa istituzionale, bipartisan, dove gli inviti a Orban e Bannon sono un lontano ricordo. Dove anche la platea giornalistica ha escluso i cronisti più “descamiciati”: ci sono Fontana e Vespa, non Maglie e Capezzone. Atreju 2021 sembra il biglietto da visita della Meloni per accreditarsi come interlocutrice affidabile per il Colle. Anche a costo di far finire nell’angolo la Lega. O magari proprio con questo obiettivo.

Nuovo record dei “migliori”: centonove voltagabbana

I cantori del governo Draghi ne celebrano spesso la capacità di assicurare stabilità. Ma a guardare i numeri del Parlamento emerge invece una certa agitazione, almeno tra i partiti: in appena dieci mesi, i cambi di casacca sono stati già 109, alla media da record di undici al mese. Un dato in continuo miglioramento, se si tiene conto che in queste settimane diversi parlamentari si stanno riposizionando in vista del voto per il presidente della Repubblica, a questo punto condizionato per natura dagli umori di un esercito di eletti che hanno già cambiato partito in passato e magari sarebbero pronti a farlo ancora.

 

Primato. Ogni mese undici trasformisti

Mario Draghi giura il 13 febbraio 2021, dopo che sono falliti gli ultimi tentativi di convincere 4 o 5 senatori a sostenere il governo di Giuseppe Conte. Un pezzo di Movimento 5 Stelle sceglie l’opposizione (oggi Alternativa è una componente del Misto e conta 20 grandi elettori per il Colle) mentre Giovanni Toti e Luigi Brugnaro strappano una trentina di parlamentari al centrodestra e al Misto. Il movimento isolato di qualche altro deluso completa il quadro. Da febbraio a oggi, si diceva, in dieci mesi ci sono stati 109 cambi di Gruppo (che dunque non tengono conto dei moti tra componenti del Misto, come l’approdo di Emanuele Dessì al Partito comunista italiano). Ma anche senza addentrarci in questi micro-spostamenti, il dato – ottenuto elaborando le statistiche di OpenParlamento – è molto alto.

Per rendersene conto basta confrontarlo con quello degli altri governi di questa legislatura. Durante il Conte-1, i cambi di casacca – sorvolando anche in questo caso sulle piccole componenti del Misto – sono stati 29. L’esecutivo gialloverde è rimasto in carica 15 mesi, dal giugno 2018 al settembre 2019, quindi in media ci sono stati meno di 2 cambi di gruppo al mese.

Un po’ più di imprevedibilità arriva con il Conte-2, anche perché dopo neanche un mese dal giuramento Matteo Renzi lascia il Partito democratico e fonda Italia Viva, portandosi dietro una quarantina di eletti che costeranno caro all’avvocato. Dal settembre 2019 al febbraio 2021, quando cade il governo, i cambi di gruppo sono 135, complice il tentativo di una decina di senatori di salvare l’esecutivo aderendo all’ultimo momento al Maie. Spalmati sui 17 mesi di vita giallorosa, i cambi di gruppo sono perciò otto ogni 30 giorni. In totale, mettendo insieme le due esperienze di Conte a Palazzo Chigi, arriviamo a 164 cambi di casacca che coinvolgono 143 parlamentari: la media scende a 7,4 transfughi al mese. Col governo Draghi siamo invece a undici cambi al mese (uno ogni tre giorni), in attesa dei nuovi smottamenti provocati dal Quirinale.

 

I recidivi. C’è chi ha cambiato cinque partiti

Il totale dei cambi di gruppo è arrivato a 273 (29 nel Conte-1, 135 nel Conte-2 e 109 nel Draghi), mentre gli eletti che si sono mossi da un partito all’altro sono ben 210. Parliamo di 141 deputati e 69 senatori, 67 dei quali si sono trasferiti per la prima volta durante il governo Draghi. Il dato non è da sottovalutare, perché significa che in meno di quattro anni di legislatura più di un quinto dei parlamentari ha cambiato schieramento. Va da sé poi che se gli eletti in movimento sono 210 e i cambi di gruppo 271, significa che una buona percentuale di loro non ha trovato pace neanche dopo un primo trasferimento e si è riposizionato almeno un’altra volta. Il record di questa particolare specialità è tutto per il senatore Giovanni Marilotti, eletto nel 2018 con il Movimento 5 Stelle in Sardegna.

Dopo essersi battuto contro il taglio del numero dei parlamentari, nel 2020 Marilotti aderisce al gruppo per le Autonomie, poi si sposta nel Maie nel tentativo di formare un gruppo di “responsabili” in grado di sostenere Conte contro gli attacchi di Renzi. Fallito l’esperimento, Marilotti va prima al Misto e poi, siamo nell’aprile 2021, si fa convincere dal Partito democratico, suo ultimo approdo.

 

Lo storico. Dal 1994 solo una volta peggio di così

I numeri elencati finora sono quasi un unicuum dai tempi di Tangentopoli. Considerate le ultime sei legislature (dal 1994 in avanti), il dato di 210 transfughi è il secondo più alto, battuto solo dall’ultimo Parlamento, quello in carica dal 2013 al 2018, capace di contare ben 347 trasformisti (più di un eletto su tre). Per il resto, pur con un anno di anticipo rispetto alla scadenza del mandato, è già record: tra il ’94 e il ’96 si spostarono 185 onorevoli, tra il 1996 e il 2001 furono 193, poi solo 73 a inizio millennio e 170 durante il secondo governo Prodi (dal 2006 al 2008), prima dei 180 in movimento tra il 2008 e il 2013. Più in linea con la media è invece il dato di oggi sui cambi di gruppo, perché i 273 di cui abbiamo parlato non hanno ancora nulla a che vedere coi 566 raggiunti durante i governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, primato storico – e forse imbattibile – in più di settant’anni di Repubblica.

 

Il saldo. Male il m5s, “misto” da doppia cifra

Le tabelle di OpenPolis chiariscono bene come si siano mossi gli oltre 200 transfughi di questa legislatura. Dal 2018 a oggi, l’unico Gruppo ad avere perso parlamentari senza guadagnarne neanche uno è il Movimento 5 Stelle, che per scelta non accoglie chi ha già militato in un altro partito. Il risultato è un sanguinoso -62 alla Camera e -34 al Senato. Totale: 96 eletti in meno, un esercito spesso indecifrabile – perché di estrazione ideologica molto diversa – che sarà decisivo nella scelta del nuovo presidente della Repubblica tra circa un mese.

Soffrono anche il Partito democratico (-31) e Forza Italia (-38, per quanto in miglioramento), mentre gongolano Fratelli d’Italia (+9) e Lega (+11). Ma l’anomalia più evidente è quella del Gruppo Misto, cresciuto di circa 70 elementi e arrivato a contare più di 100 parlamentari. Come un partito in doppia cifra alle elezioni.

Eni, il complotto di Amara: “Non fu ideato da Descalzi”

Finalmente chiusa la lunghissima e contorta indagine sul cosiddetto “complotto” in cui è stata coinvolta Eni a partire dall’estate 2014, quando un avvocato che allora lavorava, molto ben pagato, per la compagnia petrolifera, Piero Amara, fa depositare alla Procura di Trani un primo esposto contenente un mazzo di false accuse. Ne seguiranno altri, anonimi e farlocchi, a Trani e poi alla Procura di Siracusa. Infine è la Procura di Milano a ereditare il fascicolo e a dipanare l’intrico di accuse, calunnie, veleni e verità, giungendo oggi a indicare come responsabili del “complotto” l’avvocato Amara, spalleggiato dai sodali Giuseppe Calafiore e Vincenzo Armanna, con alcune sponde dentro Eni: Massimo Mantovani, Vincenzo Larocca e Michele Bianco, dell’ufficio legale della compagnia, insieme ad Antonio Vella e Alessandro Des Dorides, ex manager di vertice. Tutti (tranne Bianco) già licenziati da Eni.

Scomparsi invece dall’indagine Claudio Descalzi, l’amministratore delegato – beneficiario a sua insaputa delle manovre di Amara – e il suo braccio destro Claudio Granata. Erano loro due che Amara – dopo essere stato arrestato per altre vicende e dopo aver deciso di collaborare con i magistrati – aveva indicato come i mandanti del “complotto”, finalizzato a suo dire ad azzerare le indagini della Procura di Milano sugli affari di Eni in Algeria e in Nigeria (poi sfociati in processi finiti con assoluzioni per tutti); a far finire sotto procedimento disciplinare Fabio De Pasquale, il pm che indagava sulle (presunte) corruzioni internazionali della compagnia; a infangare i “nemici” di Descalzi dentro il consiglio d’amministrazione di Eni, Luigi Zingales e Karina Litvack, che chiedevano chiarezza sulle operazioni in Africa; e ad accusare di infedele patrocinio l’avvocato Luca Santa Maria.

A leggere le 13 pagine dell’avviso di conclusione indagini, si capisce come Amara (poi diventato famoso per i suoi verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria che hanno spaccato la Procura di Milano) non sia stato creduto, quando diceva che il “complotto” lo aveva organizzato su mandato di Granata per difendere Descalzi. Alle sue affermazioni non sono stati trovati riscontri. Tanto più nel clima avvelenato degli ultimi mesi, in cui la Procura di Milano è stata divisa dai dissidi interni ed è diventata oggetto di una serie di inchieste della Procura di Brescia che di fatto si sta occupando – evento inedito – delle scelte investigative compiute nelle indagini su Eni dai pm milanesi (Laura Pedio, Paolo Storari, Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro, Francesco Greco). Dunque – conclude ora la Procura di Milano – Amara ha fatto tutto da solo, giocando di sponda con manager Eni con cui era in affari. Dirigenti infedeli, poi espulsi – tranne Bianco – dalla compagnia (benché con condizioni di favore, nel caso di Vella). Nessun mandato dal numero uno di Eni, Descalzi, secondo quanto raccolto dalla Procura in una lunghissima inchiesta condotta prima dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari e poi conclusa da Pedio insieme all’aggiunto Stefano Civardi e al sostituto Monia Di Marco. Amara e Armanna hanno semmai incassato un sacco di soldi, realizzando operazioni di trading petrolifero con società del gruppo Eni come Ets (allora guidata da Des Dorides), in contatto con Napag (dell’imprenditore Francesco Mazzagatti e del manager Giuseppe Cambareri) e con la nigeriana Oando (di Boyo Omamofe). Amara non è stato evidentemente creduto neppure quando diceva che era stato Granata a intervenire direttamente per far accreditare Napag presso Versalis (società allora del gruppo Eni), con cui Amara ha fatto grossi affari attraverso Napag.

Spezzata la catena di comando che portava su su, a Granata e Descalzi, restano in gioco solo Vella, Mantovani, Bianco e Larocca, a gestire i procedimenti farlocchi creati a Trani e Siracusa e ad associarsi “fra di loro allo scopo di commettere più delitti di calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità giudiziaria, false dichiarazioni al pubblico ministero, favoreggiamento, corruzione tra privati”. Sono loro e solo loro a “inquinare lo svolgimento dei procedimenti in corso avanti all’Autorità giudiziaria milanese nei confronti di Eni e di suoi dirigenti e apicali per fatti di corruzione internazionale relativi ad attività economiche in Algeria e Nigeria”. Loro e solo loro a screditare “i consiglieri indipendenti di Eni, Zingales e Litvack”; a concordare “le propalazioni dell’avvocato Piero Amara, dell’avvocato Giuseppe Calafiore e dell’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, di modo da annullare l’apporto probatorio dichiarativo nel procedimento Eni Nigeria”; a calunniare Descalzi e Granata indicandoli come “responsabili del mutamento delle dichiarazioni di Armanna Vincenzo nel corso del processo Eni Nigeria”.

Ora le 17 persone sottoposte a indagini hanno 20 giorni per presentare memorie, produrre documenti, rilasciare dichiarazioni, chiedere nuovi atti di indagine. Poi la Procura chiederà il rinvio a giudizio. E sarà il giudice dell’udienza preliminare a decidere chi, infine, andrà a processo.

Roma, vestito da Babbo Natale rapina una farmacia e scappa

Con il cappello, la barba e il vestito rosso. Mascherato da Babbo Natale, un uomo ha rapinato, armato di pistola, una farmacia a Roma. È accaduto giovedì pomeriggio in via Luigi Bodio, nel quartiere Fleming, quadrante nord della Capitale. Il rapinatore, puntandole contro una pistola, ha costretto la farmacista a consegnare parte dell’incasso poi è scappato a piedi per le vie limitrofe. Sulla vicenda sono in corso indagini dei carabinieri della compagnia Trionfale, che hanno acquisito le registrazioni delle telecamere in zona.

Pavia, cavo si sgancia: lastra travolge operaio

Ieri pomeriggioa Torre d’Isola, in provincia di Pavia, un operaio è morto a causa di un incidente sul lavoro. Dante Berto, questo il nome dell’uomo, aveva 53 anni e risiedeva a Zinasco, sempre nel Pavese. La vittima stava lavorando per una ditta del Comune, in un cantiere per la manutenzione stradale. Secondo una prima ricostruzione, Berto sarebbe stato colpito da una lastra di cemento manovrata da una gru, messa probabilmente in movimento a causa di uno dei tiranti, che si dovrebbe essere sganciato. L’operaio ha riportato un forte trauma toracico ed è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso del Policlinico San Matteo. Poco dopo l’arrivo in ospedale, ne è stato dichiarato il decesso a causa delle ferite riportate.

Caso Michele Merlo, un indagato a Vicenza

C’è un primoindagato per la morte di Michele Merlo, il 28enne deceduto il 6 giugno all’ospedale Maggiore di Bologna per un’ischemia cerebrale causata da una leucemia fulminante. La notizia è stata data dal Corriere Veneto, dopo che il fascicolo aperto dalla procura emiliana è approdato a quella di Vicenza, di dove era originario il ragazzo. Il reato contestato è quello di omicidio colposo in merito a condotte mediche. Nei mesi precedenti alla sua morte, Merlo si era infatti rivolto ad alcuni Pronto soccorso in Veneto, riguardo il suo stato di salute e un vistoso ematoma comparso su una gamba. Cantante, Merlo è diventato un volto noto a molti telespettatori italiani grazie alle sue partecipazioni ad Amici e X-Factor.