Maria Licciardi al 41-bis nel carcere di L’Aquila

Lady camorraal secolo Maria Licciardi, è stata trasferita dal carcere di Lecce a quello di L’Aquila, dopo che il Ministero della Giustizia ha dato l’ok alla richiesta della Procura di sottoporre la donna al 41bis. Secondo la Dda di Napoli, la donna è a capo dell’omonimo clan fondato dal fratello Gennaro. Per i pm “a peccerella”, altro soprannome di Licciardi, arrestata dai carabinieri del Ros il 7 agosto, riveste ancora una “particolare posizione di responsabilità” nell’ambito del clan camorristico Licciardi e dell’Alleanza di Secondigliano e, “anche in ragione della sua particolare concreta pericolosità, risulta essere in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza”.

David Rossi, “il pm rispose al suo telefono dopo la morte”. A chiamare era Santanché

Nella stanza dell’ex manager Mps David Rossi, nei minuti successivi alla sua morte, è successo un po’ di tutto. La scena, si scopre dopo 8 anni, è stata “inquinata” dai pm che effettuarono un primo sopralluogo, di cui non si sapeva sostanzialmente nulla. E il paradosso è che a raccontarlo è un ufficiale dei carabinieri che non si sapeva fosse lì, e infatti il suo nome non compare in alcun rapporto di polizia giudiziaria: il colonnello Pasquale Aglieco, ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena.

A raccontare i dettagli inediti di quella sera è stato lo stesso Aglieco, sentito giovedì dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Rossi. La morte del manager è stato archiviata per due volte come un suicidio dalla Procura di Siena, una versione a cui la famiglia non ha mai creduto. Aglieco, per la prima volta, ha detto di “essere entrato nella stanza di Rossi, insieme ai tre pm Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi”, molte ore prima dell’arrivo della polizia scientifica. “Nastasi si è seduto sulla sedia di Rossi – ha ricordato l’ufficiale – e ha acceso il computer” manovrando il mouse “con una penna”. Uno dei tre pm, inoltre, “ha preso il cestino e lo ha svuotato sulla scrivania”. Dentro “erano contenuti i fazzolettini sporchi di sangue” (poi distrutti senza che ne venisse mai analizzato il Dna) e “i bigliettini” che sembrerebbero ricondurre il fatto a un suicidio. Quegli stessi biglietti verranno trovati in un altro punto della stanza. E ancora: sul telefono di Rossi arrivò una chiamata di Daniela Santanchè, a cui rispose uno dei pm. “Mi sembra Nastasi”, dice Aglieco. Infine, qualcuno chiuse la finestra. Difficile pensare che possa averlo fatto un suicida. Aglieco aveva giustificato la sua presenza nel vicolo davanti alla banca perché era andato “a comprare le sigarette”.

L’ex comandante dell’arma era già stato sentito come testimone dai pm di Genova, che su Siena aveva aperto una terza indagine per presunti depistaggi legati a festini sessuali. A tirarlo in mezzo a quella storia erano stati l’ex moglie e un presunto escort, Matteo Bonaccorsi, intervistati dalle Iene in modo anonimo. Quest’ultimo è stato sentito il 2 dicembre dalla Commissione, in forma segreta. Ma, con sorpresa, Bonaccorsi davanti a palazzo San Macuto si è trovato davanti Aglieco. Come faceva a sapere dell’audizione? E perché era lì? “Una soffiata”, si è limitato a dire il militare.

“Sfrutta i braccianti”: indagata la moglie del dirigente Immigrazione del Viminale

Isoldi consegnati di persona al caporale, nella stazione di Foggia. La paga di ogni bracciante spinta al ribasso fino a 35 euro al giorno, per 6 ore di lavoro, di cui cinque tornavano indietro per pagare il trasporto fino al campo. I documenti non sempre in regola, con i lavoratori che scappavano alla vista degli ispettori. Secondo i carabinieri di Foggia, anche nell’azienda agricola di Rosalba Livrerio Bisceglia i migranti che abitano nella baraccopoli di Borgo Mezzanone lavoravano in “condizioni di sfruttamento (…) desumibili anche dalle condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro)”, “approfittando del loro stato di bisogno”.

Situazioni molto diffuse in Italia, che stavolta hanno coinvolto una persona collegata a un uomo delle istituzioni. Livrerio Bisceglia, infatti, è la moglie del prefetto Michele Di Bari, che pure essendo estraneo all’inchiesta – che coinvolge in tutto 16 persone e 10 aziende del foggiano – ieri si è dimesso dal suo ruolo di capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, dov’era stato nominato nel 2019 dall’allora ministero dell’Interno, Matteo Salvini. Lo stesso leader della Lega che ieri si è scagliato contro l’attuale titolare del dicastero, Luciana Lamorgese, chiedendole di riferire in Parlamento sulla vicenda. Secondo gli inquirenti, Livrerio Bisceglia è stata “consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento, nella misura in cui si rivolge a un soggetto (…) di cui non può non conoscersi il modus operandi”. “Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi… e poi il giorno dopo iniziate a lavorare”, diceva la Bisceglia, intercettata, al caporale.

I Di Bari-Bisceglia sono una famiglia molto nota nell’area del Gargano. Il prefetto (non indagato) dal 2019 è anche nel cda della Casa Sollievo della Sofferenza, il cosiddetto “ospedale di Padre Pio” di San Giovanni Rotondo. Da prefetto di Reggio Calabria, invece, Di Bari incrociò la sua esperienza con quella di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi in primo grado per la gestione comunale dei migranti. Lo ha fatto non direttamente, ma attraverso i suoi ispettori che, assieme a quelli dello Sprar, hanno contestato il cosiddetto “modello Riace”. La moglie Rosalba, invece, gestisce diverse attività: l’azienda agricola e un affittacamere. “Saprò dimostrare la mia assoluta innocenza”, ha detto ieri la donna.

“Il dem Del Basso De Caro mi disse che avevo il trojan”

È il 10 dicembre 2020. C’è un microfono nascosto nell’ufficio dell’ex sottosegretario ai Lavori Pubblici, Antonio Bargone, poi presidente di Società Autostrada Tirrenica, quasi interamente partecipata da Autostrade per l’Italia (Aspi). Lo hanno piazzato gli uomini della Guardia di Finanza su delega della Procura di Benevento – procuratore capo Aldo Policastro – che ha aperto un’indagine su una gara ritenuta pilotata. Si ascolta Bargone a colloquio con Gianpaolo Venturi, ritenuto dai magistrati “intermediario” tra due degli arrestati di due giorni fa e “almeno un altro incaricato di pubblico servizio presso Aspi, allo stato non identificato”. I due parlano anche della gara d’appalto per il raddoppio a quattro corsie della SS 372 Fortorina, la Telesina. Venturi a un certo punto riferisce a Bargone che “Umberto è arrivato a dire che io avevo il telefono con il trojan dentro e le cimici in macchina”. “Umberto”, sottolineano gli inquirenti, è Del Basso De Caro, parlamentare del Pd, già sottosegretario alle Infrastrutture dei governi Renzi e Gentiloni.

È questo il motivo per il quale, come rivelato ieri in esclusiva dal Fatto, Del Basso De Caro è stato iscritto nel registro degli indagati a Benevento. L’iscrizione è avvenuta nell’ambito di un’inchiesta per corruzione, turbata libertà degli incanti ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, culminata negli arresti ai domiciliari di Bargone, Venturi, dell’imprenditore Fulvio Rillo e di Vincenzo Voci, contract manager di Aspi. Il parlamentare dem è estraneo alle vicende corruttive. Ma i pm lo ritengono responsabile delle fughe di notizie che, secondo il Gip di Benevento Pietro Vinetti, “hanno indotto gli indagati ad atteggiamenti più cauti, che hanno evidentemente inciso sulle indagini, rendendole più difficoltose e i discorsi intercettati più criptici e meno frequenti”. La cautela di alcuni degli indagati inizia in un momento preciso: l’11 maggio 2020. “Se fino a quel giorno – si legge nell’ordinanza di misura cautelare – i contatti tra Rillo e Venturi erano quotidiani, successivamente i colloqui si riducono in maniera drastica, e Rillo cambiava l’apparecchio telefonico”. “A fine maggio 2020 – continua l’ordinanza – Venturi si faceva controllare l’automobile alla ricerca di microspie (come risulta dall’analisi delle conversazioni intercettate) e da giugno attivava utenze mobili dedicate alle conversazioni con Rillo”.

Il Gip la spiega così: “La ragione di tale riduzione delle conversazioni, come successivamente l’organo inquirente aveva modo di accertare, era dovuto a una fuga di notizie relative all’attività investigativa in corso che aveva indotto gli indagati a condotte più caute”. Una fuga di notizie che, a parere del giudice, rende ancora più solida l’esigenza di procedere agli arresti domiciliari dei quattro.

La Procura intende interrogare Del Basso De Caro in qualità di indagato. Il parlamentare, erroneamente definito nell’ordinanza “senatore sannita” (in realtà è deputato), potrà così offrire la sua versione dei fatti su una vicenda in cui è coinvolto attraverso dialoghi di altre persone.

Lega Nord, sequestrati 3 mln: paga sempre il vecchio partito

Il Tribunale di Milano ha ordinato il sequestro conservativo di 3 milioni di euro nei confronti della Lega Nord. Lo ha deciso la giudice Orietta Miccichè nell’ambito della causa civile intentata da Matteo Brigandì. L’ex avvocato del Carroccio, come già scritto dal Fatto Quotidiano, da tempo è in causa con il partito per ottenere il pagamento di quelle che lui considera parcelle mai pagate. Per questo nel giugno scorso ha chiesto al tribunale il sequestro conservativo di 9,5 milioni di euro: 6,3 milioni di euro per le consulenze legali mai saldate, più una maggiorazione del 50%. Secondo Brigandì, i soldi andrebbero presi dai conti della Lega Nord, ma anche da quelli di Lega Salvini Premier. Il motivo, si legge nell’atto di citazione, è che “Lega Salvini Premier in buona sostanza è la stessa associazione di Lega Nord”. Una tesi molto pericolosa: se il tribunale dovesse dirsi d’accordo, oltre che delle parcelle richieste da Brigandì, Lega Salvini Premier potrebbe in teoria doversi fare carico anche del debito dei 49 milioni di euro, attualmente appannaggio della sola Lega Nord.

Ma la giudice Miccichè su questo punto ha detto no. Ha infatti autorizzato il sequestro conservativo (su una parte dei soldi rivendicati, 3 milioni), ma solo nei confronti di Lega Nord. Si legge nella sentenza: “La capacità patrimoniale della debitrice (Lega Nord, ndr) in rapporto all’entità del credito la costituisce, infatti, un elemento oggettivo che induce fondatamente a temere per la mancanza delle garanzie del credito e giustifica l’adozione di una misura – quale il sequestro conservativo – volta a eliminare il pericolo da infruttuosità del giudizio”.

La giudice ha invece espresso parere contrario al sequestro nei confronti di Lega Salvini Premier: “Gli elementi allo stato disponibili sono indicativi di due associazioni distinte, regolate da differenti statuti e del tutto autonome tra loro”.

Nell’atto di citazione, Brigandì aveva elencato vari aspetti a sostegno della sua tesi: la coincidenza delle sedi dei due partiti, il fatto che molti dirigenti facciano parte di entrambi i movimenti, la presentazione alle elezioni del 2018 del simbolo Lega Salvini Premier e dello statuto di Lega Nord e anche un’intervista in cui è stato Salvini stesso a dire che esiste una sola Lega. “Gli elementi indicati da parte ricorrente a sostegno della prospettata identità”, si legge nella sentenza, “non risultano né determinanti, né risolutivi al fine di ritenere l’unicità della persona giuridica o la sussistenza di un vincolo obbligatorio in capo a Lega per Salvini Premier con riferimento ai debiti di Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. Neppure la circostanza che il legale rappresentante di Lega Nord per l’Indipendenza della Padania e di Lega per Salvini Premier sia la stessa persona, Giulio Centemero, costituisce elemento che consenta di ritenere che si tratti di un unico soggetto giuridico, ben potendo la persona fisica rivestire più incarichi rappresentativi all’interno di diverse società, senza alcun riflesso sull’autonomia giuridica delle stesse. Se per un verso è fuori dubbio che i due movimenti politici abbiano posizioni ideologiche e politiche coincidenti – e in tale contesto abbiano svolto campagne elettorali unitarie, presentando talvolta i medesimi candidati – pur tuttavia tale vicinanza politica non è elemento sufficiente a far ritenere l’identità giuridica delle due associazioni”.

La partita, però, è ancora aperta. Conclude infatti la giudice: “In questa fase cautelare – connotata da carattere necessariamente di sommarietà – non sono stati raggiunti elementi che consentano di ritenere la sussistenza di un vincolo neppure solidale” tra i due partiti. Come dire: per essere certi che i debiti delle due Leghe non siano accumulabili, bisognerà aspettare la sentenza definitiva.

Stop a dpi e test gratis per le Rsa, la Lombardia contro Figliuolo

Dal 1° gennaio 2022 niente più Dpi e tamponi gratuiti per le Rsa lombarde. È il (brutto) regalo di Natale recapitato il 9 dicembre da Regione Lombardia. Da quella data, infatti, “cesseranno le forniture” da parte delle Ats e “gli Enti dovranno provvedere, in autonomia”. Forniture che fino a oggi erano assicurate della Struttura Commissariale. “Al peggio non c’è mai fine… – dice Luca Degani, presidente di Uneba Lombardia, associazione delle Rsa –In questo momento abbassare la guardia sulla diagnosi precoce in Rsa, lascia senza parole. Rischiamo di non ottenere per tempo risultati sicuri e di non isolare tempestivamente i positivi”.

Per il Pirellone, lo stop deriva dalla Struttura commissariale “che fino a ora ha garantito la fornitura dei dispositivi e dei test” a tutte le regioni. Il problema sarebbe la fine dello stato di emergenza (31 dicembre 2021), che comporterà la chiusura della Struttura commissariale. Ma, senza il Commissario, il governo deve intervenire con provvedimenti ad hoc per gestire le forniture sanitarie. Draghi non si è espresso, ma ieri il sottosegretario alla Salute Andrea Costa abbia dichiarato che “lo stato di emergenza può essere utile perché ci permette di affrontare la pandemia con una struttura commissariale”. Qualunque soluzione il governo deciderà, dovrà prenderla a breve, anche perché a rischio sono anche i contratti a td dei sanitari e i fondi per il contact tracing e le Usca.

Positivi con pass valido: Draghi costretto a Dpcm

Revocare o sospendere temporaneamente il green pass qualora si risultasse positivi al Covid-19 non è possibile, ormai è una certezza. Al punto che sul tavolo del Garante della Privacy, proprio ieri, pare sia arrivata la bozza di decreto che modifica il Dpcm di giugno (che ha introdotto il certificato verde) e sulla quale l’authority darà un parere all’inizio della prossima settimana. Sarà probabilmente un parere positivo se si considera che da mesi il Garante segnala – inascoltato – all’esecutivo il problema, sollecitandolo a risolvere. Ma finora, è la spiegazione che circola in ambienti di governo, non era stato possibile agire liberamente a causa delle limitazioni europee sul pass. Ora che invece pare ci sia un sostanziale via libera, si corre ai ripari. La bozza del decreto agisce su diversi fronti: estende, ad esempio, la possibilità di emettere il certificato anche ai “laboratori pubblici e privati accreditati” e a “professionisti sanitari e operatori di interesse sanitario” sul Sistema Tessera Sanitaria (Ts). Inoltre colma un gap originario: prevede che in caso di positività il sistema regionale la comunichi “alla piattaforma DGC (quella che emette i green pass, ndr) unitamente ai dati di contatto dell’interessato eventualmente disponibili”. Questa è la parte più delicata su cui si sta lavorando tecnicamente, cioè riuscire a intercettare i risultati dei tamponi positivi, cosa che in parte sarà possibile grazie alla rete della app di contact tracing Immuni. A quel punto la piattaforma “genera una revoca” delle certificazioni verdi rilasciate “inserendo gli identificativi univoci di dette certificazioni nella lista delle certificazioni revocate che vengono riconosciute non valide in fase di verifica”. Poi vengono comunicate anche al “Gateway europeo perché siano considerati non validi anche negli altri stati membri”. La revoca viene poi notificata al diretto interessato “per il tramite dei dati di contatto eventualmente disponibili”. Quando si guarisce, dovrebbe arrivare la restituzione: “La revoca verrà annullata automaticamente a seguito dell’emissione della certificazione verde di guarigione della positività che l’ha generata”. Altro scoglio, in questa fase, sarà aggiornare a quel punto la nuova durata del pass. Il decreto prova pure a superare il problema della comunicazione tra i diversi sistemi, regionali e non: “Il sistema Ts – si legge – mette a disposizione delle Regioni e Pa la lista delle certificazioni dei propri assistiti revocate” e a disposizione del Ministero della Salute “una funzionalità di interrogazione delle informazioni concernenti le revoche”. Anche per la scuola viene prevista una integrazione con il sistema finora utilizzato. Tutto, raccomanda il testo, informando l’utente delle modalità di trattamento dei suoi dati.

I media Uk: “Pfizer pagava gli esperti per screditare AZ”

L’accusa è di speculare sulla pandemia come “un avvoltoio”. Pfizer è finita sotto la lente d’ingrandimento di alcune testate britanniche per i guadagni che sta macinando grazie ai vaccini anti Covid. Un’inchiesta del canale britannico Channel 4, anticipata da alcuni quotidiani di Londra, ha rivelato che il costo di produzione del vaccino Pfizer-BioNTech è bassissimo: 76 centesimi di sterlina (89 centesimi di euro), mentre il prezzo di vendita applicato al governo del Regno Unito è di 22 sterline (25,7 euro). La società ha risposto spiegando che la stima è priva di senso, perché non tiene conto, ad esempio, della spesa per la ricerca e per la distribuzione.

I costi complessivi di produzione del vaccino restano però segreti, così come i prezzi di vendita agli Stati. Nel corso dell’ultima trimestrale Pfizer ha scritto che i margini percentuali di profitto pre-tasse sono “in the high 20s”, vale a dire dal 25 al 29% rispetto ai ricavi. Considerando che la società stima di fatturare quest’anno 36 miliardi di dollari solo grazie al vaccino, i profitti pre tasse dovrebbero attestarsi tra i 9 e i 10,4 miliardi di dollari.

La sintesi più critica l’ha fornita Tom Frieden, direttore del Center for Disease Control and Prevention (l’Agenzia federale che negli Usa si occupa di sanità) durante l’Amministrazione Obama: “Se ti concentri solo sulla massimizzazione dei tuoi profitti e sei un produttore di vaccini, sei un avvoltoio”, ha dichiarato.

La notizia che promette di creare più polemiche riguarda però la concorrenza con Astrazeneca, compagnia britannica il cui vaccino (venduto a prezzo di costo) non ha avuto la stessa fortuna di quello targato Pfizer-BioNTech (né di quello prodotto da Moderna). Colpa soprattutto della tecnologia usata e della maggiore incidenza di effetti avversi, è stato spiegato finora dalla maggioranza degli scienziati.

Ma a peggiorare l’immagine di Astrazeneca avrebbe contribuito anche Pfizer. Secondo un’anticipazione della puntata di Channel 4 pubblicata dal tabloid Daily Mail, la compagnia americana è stata accusata di aver pagato degli esperti per screditare il vaccino britannico. Alcuni relatori di un seminario tenutosi in Canada l’anno scorso – è l’accusa – hanno sostenuto che il prodotto di Astrazeneca, oltre a non essere efficace su persone immunodepresse, può far insorgere tumori.

Altro tema su cui si sta concentrando ultimamente la stampa londinese è la differenza di trattamento riservata da Pfizer ai vari Paesi del mondo. Per ammissione dello stesso numero uno, Albert Bourla, la compagnia ha applicato prezzi diversi a seconda del tipo di nazione, con il risultato che i vaccini sono arrivati in abbondanza quasi solo nel mondo ricco. Per fornire i Paesi più poveri ci sarebbero iniziative come Covax e Avat, ma finora sia le nazioni più abbienti che le case farmaceutiche hanno consegnato le dosi con estrema lentezza, come raccontato più volte dal Fatto.

Una spiegazione l’ha fornita il Financial Times, in un’inchiesta su Pfizer pubblicata la scorsa settimana. Strive Masiyiwa, miliardario dello Zimbabwe che coordina il team di vaccinazione dell’Unione Africana, ha spiegato al quotidiano come si è comportata con lui la compagnia. Alla fine del 2020, ha raccontato, si era accordato per la consegna di 2 milioni di dosi per iniziare a vaccinare il personale sanitario africano (5 milioni di persone), ma il contratto non arrivava. “Continuavano a dirmi: la settimana prossima. Così siamo arrivati ad aprile”. A maggio, Masiyiwa legge sui giornali che la Ue ha appena firmato un contratto con Pfizer per 1,8 miliardi di dosi. Invia a Bourla una “protesta molto pesante”, nella quale chiede qual è la causa del ritardo. Com’è finita? L’Unione Africana si è dovuta accontentare delle dosi regalatele dall’Amministrazione Biden.

Ospedali in crisi, Veneto e Liguria rischiano il rosso a inizio gennaio

Il Veneto e la Liguria, secondo le proiezioni dell’Istituto superiore di sanità al 6 gennaio 2022, giorno dell’Epifania, hanno oltre il 50% di probabilità di superare le soglie previste per la zona rossa, cioè il 30% di malati Covid nelle terapie intensive e il 40% dei reparti ordinari di area medica. Un’enormità. Anche se non andasse così male, diciamo il 20 il 30% che portano in arancione, sarebbero fortemente compromesse le attività ordinarie degli ospedali: dai pronto soccorso di cui raccontiamo da giorni le crescenti difficoltà agli interventi chirurgici programmati; dal trattamento delle malattie infettive e respiratorie non Covid alla gestione delle doppie rianimazioni (Covid e non Covid). Le proiezioni per l’Abruzzo, l’Emilia-Romagna e le Marche sono un po’ meno allarmanti ma queste cinque Regioni sono tutte classificate “a rischio moderato con alta probabilità di progressione a rischio alto”, cioè potrebbero finire in arancione da qui a un mese. Le altre sono a rischio moderato e solo il Molise è a rischio basso, ma anche nel Lazio – lontano dal giallo – si registrano criticità nei pronto soccorso.

Da lunedì, secondo l’ordinanza firmata ieri dal ministro della Salute Roberto Speranza, la Calabria raggiunge il Friuli-Venezia Giulia e Bolzano in zona gialla. Altre Regioni potrebbero seguire tra una settimana, per quanto la zona gialla, che prevede le mascherine all’aperto già introdotte in molte città delle zone bianche, significhi ben poco in termini di riduzione dei contatti e dei contagi. Ad ogni modo anche in Calabria sono state superate le soglie del 10% di pazienti Covid nelle terapie intensive e del 15% nei reparti ordinari, con quello che comporta in una sanità regionale notoriamente molto fragile. E occorre sottolineare che diverse Regioni hanno aumentato i posti letto su cui si calcolano le percentuali e che, per le terapie intensive, si considerano tutti i posti “attivabili”, anche in mancanza di un adeguato numero di anestesisti e infermieri e a scapito di chirurgie e unità coronariche.

Ieri abbiamo superato la soglia dei 20 mila contagi in un giorno, non si raggiungeva dal 3 aprile. Ben 118 i morti, come a fine maggio: aumenteranno ancora. L’incidenza settimanale, secondo il monitoraggio del venerdì, è salita a 176 casi ogni 100 mila abitanti, con punte massime di 556 a Bolzano (ma in calo), 378 in Friuli-V.G. e 365 in Veneto (in aumento): la progressione delle ultime settimane, a livello nazionale, è 98, 125, 155, 176. La curva si appiattisce lentamente perché l’indice di riproduzione del virus Rt, per la terza settimana, è leggermente sceso: da 1,20 a 1,18, comunque al di sopra della soglia epidemica di 1; l’Rt ospedaliero è passato da 1,09 a 1,07. La progressione, per quanto lenta, preoccupa Regioni e governo. Tanto più che la scienza non ha ancora risposte definitive sulla variante Omicron scoperta in Sudafrica: sembra resistere ai vaccini più della Delta tuttora prevalente in Italia, ma senza conseguenze cliniche gravi.

Al ministero della Salute sono preoccupati benché siano aumentate le prime dosi fino a 250 mila a settimana (gli over 12 non vaccinati restano 6 milioni) e siano cresciute fino a 450 mila al giorno le terze dosi meglio dette booster (ma ci sono ancora 1,7 milioni di over 80 senza richiamo). Scommettono sull’adesione di almeno metà delle famiglie alla campagna per la vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni (3,3 milioni) che comincia il 16 dicembre e sulla chiusura delle scuole, dove i contagi crescono, nel periodo natalizio, che però aumenterà i contatti altrove. L’obiettivo di Speranza è avvicinare Rt a 1 con le vaccinazioni, il super green pass e il green pass nel trasporto locale in vigore dal 6 dicembre, le zone gialle e gli inviti al distanziamento e all’uso delle mascherine. Francia, Germania e Gran Bretagna stanno peggio di noi e hanno introdotto misure simili alle nostre. Ma tutto questo può non bastare e negli orizzonti del governo non ci sono chiusure. Sul tavolo c’è solo l’ipotesi di intervenire con un’estensione ad altre attività del super green pass oggi previsto per i tavoli di ristoranti e bar, cinema, teatri, stadi e cerimonie pubbliche.

Orcel risarcito con 68 milioni dal Santander

Una sentenza di primo grado di un tribunale di Madrid giovedì ha ordinato a Santander, la maggior banca spagnola, di risarcire il banchiere italiano Andrea Orcel con 67,8 milioni, pari alla paga annua di 1.843 dipendenti di UniCredit. Secondo i giudici, l’istituto spagnolo guidato da Ana Botín ha violato il contratto di lavoro vincolante da amministratore delegato proposto ad Andrea Orcel quando a settembre 2018, per un disaccordo sulla sua paga, ha rescisso “unilateralmente e arbitrariamente” l’offerta di assunzione. Per potersi candidare, il manager italiano – oggi amministratore delegato di UniCredit – si era appositamente già dimesso dal suo ruolo di capo dell’investment banking della banca svizzera Ubs.

A gennaio 2019, dopo la rivolta degli azionisti contro il maxi-contratto di assunzione, la banca spagnola aveva fatto un’improvvisa marcia indietro, affermando di non poter soddisfare le richieste di pagamento di Orcel, comprensive della copertura fino a 35 milioni di un bonus da 55 milioni che il manager avrebbe dovuto ricevere da Ubs. Orcel aveva inizialmente chiesto fino a 112 milioni per violazione del contratto e danni ma, dopo la nomina in UniCredit, aveva ridotto le sue richieste. Alcuni addetti ai lavori considerano la sentenza un duro colpo per Botín, la presidente esecutiva del Santander, perché nell’estate del 2018 la manager aveva pressato personalmente Orcel perché accettasse il ruolo. Santander ha annunciato che farà ricorso contro la sentenza.