Oddio, i comunisti hanno occupato Banca d’Italia

Dice: “Le ricorrenti crisi finanziarie indicano che i mercati non sono in grado di autoregolarsi e che l’instabilità finanziaria può avere effetti economici e sociali potenzialmente devastanti”. Dice: “Il contenimento dei rischi di mercato derivanti dal possesso di strumenti finanziari opachi e illiquidi registra progressi insufficienti: l’esposizione delle maggiori banche dell’Eurozona agli strumenti ‘di II e III livello’ – che includono derivati – è ancora dell’ordine di 6.000 miliardi di euro, un multiplo elevato sia del capitale delle banche che li detengono, sia dei crediti deteriorati netti di tutte le banche dell’area euro”. Dice: “Analisi recenti mostrano che sistemi finanziari troppo grandi in rapporto all’economia reale smettono di produrre effetti positivi sulla crescita e possono minacciare la stabilità”. Dice: “L’esperienza mostra che l’applicazione del bail-in rischia di minare la fiducia nelle banche e generare instabilità”. Dice: “I depositanti negli Usa non hanno mai perso un soldo e mai lo perderanno: interviene un’autorità pubblica che ha un credito illimitato, che non chiede un soldo al Tesoro”. Si chiederà il lettore: e chi negli ultimi giorni ha redatto questa impietosa critica dei meccanismi del mercato e delle follie regolatorie nostrane? Forse Xi Jinping? No, Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia, istituzione che ovviamente non ha avuto nulla a che fare – né in opere né in omissioni – con le rivedibili decisioni che ci hanno portati sin qui e anzi si batte da anni, ancorché invano, per una società socialista.

Suore molestate, vietato parlarne

In attesa della riunione di tutti i presidenti delle conferenze episcopali sul tema degli abusi (Roma 21-24 febbraio) è in movimento il magma sulle violenze contro le suore da parte di preti e di vescovi. Particolarmente in Africa, ma non solo. L’eruzione è prevedibile quando il contesto civile o mediale la favoriranno.

Il 23 novembre è uscito un comunicato dell’Unione internazionale delle superiori generali (UISG): “Chiediamo che ogni donna religiosa che sia stata vittima di abusi denunci quanto accaduto alla superiora della propria congregazione e alle autorità ecclesiali e civili competenti”. Il comunicato, condiviso nella sostanza, non è stato da tutti apprezzato per la tempistica e per non aver scelto canali più interni. Pochi istituti l’hanno rilanciato.

Il sordo borbottio è in atto da anni. “Teologi morali e madri spirituali conoscono purtroppo questa realtà che oggi esplode. Sarebbe grave mettere l’accento unicamente su quanto avviene in Africa, Cile, India, Filippine ecc. Sono testimone di donne più anziane di me che sono state abusate da preti nella loro giovinezza anche qui, nella nostra vecchia Europa. Donne giovani lo sono state più recentemente negli anni ’80 nel pieno sviluppo delle nuove comunità legate a movimenti carismatici o a correnti più tradizionali”. Le parole di suor Geneviève Medevielle, docente onoraria di teologia morale all’Institut catholique di Parigi inquadrano e legano le informazioni già note.

Nel 2016 esce in Italia il volume di Anna Deodato, Vorrei risorgere dalle mie ferite (EDB) in cui si racconta il cammino di riscatto di alcune suore vittime di abusi. A luglio del 2018, dentro un più ampia inchiesta dell’Associated Press si denuncia una violenza a Bologna. In Francia viene pubblicata nel 2017 la testimonianza di un’ex religiosa, Marie-Laure Janssens (Le silence de la Vierge) e l’anno seguente quello di Claire Maximova, ex carmelitana (La tyrannie du silence). Nel luglio 2018 sei religiose cilene denunciano abusi da parte di un prete visitatore. Nello stesso anno, in India una suora missionaria di Gesù denuncia il suo vescovo (monsignor Franco Mulakkal). Un altro vescovo indiano, Prasad Gallela, viene dimesso da Roma per gravi comportamenti economici e morali. Il 30 luglio 2018 la conferenza che rappresenta la gran parte delle suore americane chiede di segnalare gli abusi subiti. L’elenco potrebbe continuare.

Rimane un’attenzione particolare all’Africa dove si moltiplicano le piccole fondazioni diocesane. A metà degli anni ’90 suor Maura O’Donohue, responsabile per la Caritas in ordine alla pandemia Aids, dopo un sondaggio con religiose in 23 paesi, presenta alle istanze romane uno studio di denuncia che non ha seguito. Quattro anni dopo, suor Marie McDonald, porta a Roma un rapporto in cui sottolinea non solo le violenze inferte alle suore dai “predatori”, ma anche quelle successive degli istituti che le abbandonano. I testi vengono pubblicati dal National Catholic Reporter nel marzo 2001. Da Roma parte una lettera ai vescovi africani, ma senza alcun risultato visibile.

Le violenze possono essere immediate e gratuite, ma normalmente nascono all’interno di relazioni di potere e di autorevolezza spirituale e culturale. Una coltre quasi insormontabile di silenzio sia degli autori che delle vittime le ha tenute finora nascoste. Pare che i paesi più coinvolti siano il Congo e il Kenya.

Nel 2002 viene pubblicato un libro di un prete americano, Donald Cozzens, Il sacro silenzio: negazione e crisi nella Chiesa, in cui si riprendono alcune denunce. Più recentemente, suor Mary Lembo, prepara una tesi di dottorato all’istituto di psicologia della Gregoriana affrontando 12 casi di aggressione sessuale e sottolinea il ruolo particolare del prete: “È una figura rispettata e temuta. Le vittime tendono a colpevolizzarsi. Nei casi esaminati è spesso la religiosa che è messa in questione. È stata lei ad attirare sguardi e attenzioni: e spesso è direttamente condannata”.

La Congregazione per la vita consacrata, grazie all’impulso degli attuali dirigenti, è da tempo alla ricerca di una via d’uscita su una materia che coinvolge non solo i religiosi e le religiose, ma anche la Congregazione del clero e quella dei vescovi. È possibile che all’indomani della riunione prevista a fine febbraio qualche decisione venga presa. Non si tratta solo di complessi problemi di maturità psicologica del clero e di relazione fra le diverse responsabilità degli organismi vaticani. Vi sono elementi su cui incidere, sia nell’ambito delle strutture locali, sia in quelle, assai meno condizionabili, delle culture.

La moltiplicazione, negli ultimi decenni, di piccole congregazioni femminili in capo al vescovo fa sì che non vi siano controlli interni adeguati e, alla sua morte, le religiose siano abbandonate a loro stesse. Gli istituti internazionali che hanno maggiori competenze e autonomie finanziarie hanno deciso di non chiedere più alle novizie di ottenere una lettera di presentazione del parroco, ma di chiederla attraverso la religiosa che ha contattato l’interessata. Così si richiede oggi al vescovo che vuole fondare una congregazione un parere obbligatorio (ma non purtroppo vincolante) del Dicastero romano. La spinta verso organismi rappresentativi a livello nazionale dovrebbe meglio garantire gli istituti più fragili e l’insistenza sulle formatrici e la loro qualificazione è diventata generale.

La parte più difficile è modificare le culture e il rapporto fra maschio e femmina in esse. Al sinodo del 2009 (sinodo speciale per l’Africa) era stato suggerito un confronto anche sul celibato dei preti, ma molti vescovi africani si sono duramente opposti. Si sentivano offesi perché gli africani erano considerati meno capaci di ottemperare al celibato degli altri. Una responsabile internazionale delle suore mi raccontava del suo stupore davanti alla piccata reazione di suore di colore rispetto alle denunce sugli abusi. “Voi li chiamate abusi, ma non capite la relazione fra donne e maschi della nostra tradizione culturale”.

Diverso anche l’esercizio dell’autorità. Il prete è spesso considerato come il capo villaggio, con tutti i comportamenti che questo riveste. Non siamo distanti dalla denuncia contro l’Occidente di imporre i suoi riferimenti, con una sorta di nuova colonizzazione interna al cristianesimo. Come se, dopo la democrazia in sede politica e il mercato in economia, si volesse decretare sulla cultura morale. Un passaggio delicato che, fra le agenzie mondiali, solo la Chiesa cattolica è in grado oggi di affrontare, ma il cui esito non sarà né facile né immediato.

“Fuori onda” rischia di finire l’Italia in Europa, non Conte

 

“I sondaggi vanno giù per i Cinque Stelle, sono molto preoccupati, loro scendono al 27-26% mentre Salvini è al 35-36%, quindi si chiedono quali possono essere i temi che ci possono aiutare in campagna elettorale”.

Conte parla con Merkel a Davos, Fuori onda di “Piazza Pulita”

 

I fuori onda di governo “rubati”, e ritrasmessi, non giovano granché alla concordia delle coalizioni. Tra i tanti ne ricordiamo uno del 2011 quando, con Berlusconi premier agli sgoccioli, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si fece beccare mentre definiva “un cretino” il collega Renato Brunetta. Ma siamo proprio sicuri che il coffee break confidenziale di Giuseppe Conte con frau Merkel (lei un succo d’arancia), accerchiati da giornalisti e telecamere sia così dispiaciuto al presidente del Consiglio?

Innanzitutto, il linguaggio del corpo. I due mostrano estrema confidenza: non una novità ma pur sempre una bella soddisfazione per chi, l’anno scorso di questi tempi, la Merkel la vedeva soltanto in tv. Mentre Conte spiega la complessa situazione italiana, la cancelliera fa continui cenni affermativi con il capo dimostrando:

a) l’inglese dell’avvocato del popolo è vivaddio comprensibile (sulla corretta pronuncia non sapremmo dire);

b) lei mostra di rendersi conto (chissà quanto sollevata?) che dietro la violenta campagna sovranista del M5S contro Francia (soprattutto) e Germania ci sono soprattutto esigenze elettorali.

Non preoccuparti Angela niente di personale, sembra dire Conte. Oppure: so’ ragazzi (Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”). Un premier così immedesimato nel ruolo istituzionale, così super partes ed equidistante da entrambi i contrattisti non l’avevamo ancora visto. Non una figurona per il franco coloniale, sbandierato da Di Maio e Di Battista come origine dell’esodo biblico dall’Africa, e adesso declassato, coram populo, a spottone. Però il labiale di Conte, nel momento in cui legittima i sondaggi che danno la Lega in continua crescita, con i grillini che arrancano dieci punti sotto, è un pressante messaggio a Parigi e Bruxelles: attenti che continuando a trattarci male facile che presto quel Salvini ve lo ritrovate a palazzo Chigi.

Infine, ce n’è anche per i due vicepremier, in particolare per Luigi Di Maio. Ovvero: va bene tutto ma rendetevi conto che continuando a menare mazzate in tutta Europa fra poco il caffè non ce lo offre più nessuno. Non sappiamo come l’abbiano presa i Cinque Stelle che pure lo hanno imposto da sconosciuto avvocato su quella poltrona. Avranno pensato che era un fuori onda per andare in onda?

Non è l’uomo che esiste per Dio, ma è Dio che esiste per l’uomo

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.

Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”.

Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. (Luca 1,1-4;4,14-21).

Il Vangelo di Luca, di cui oggi è proposto l’inizio, insegna a diventare discepoli di Gesù. I cristiani sono, infatti, il popolo che si mette alla scuola della misericordia e della tenerezza del divino Maestro, ne accoglie umilmente il messaggio, lo vive nell’unità, con l’impegno di offrire a tutti, soprattutto agli ultimi, la liberazione dal male e la salvezza eterna.

Nella sinagoga di Nàzaret, in Galilea, regione della sua attività, di sabato Gesù trova da leggere un famoso e difficile brano del profeta Isaia e gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Questo il suo commento: Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato. Ora conta il perché sono nato, non badate a dove e come! In Lui s’adempiono le promesse di Dio, s’inaugura il tempo del perdono. La sua parola è spirito e vita, dà inizio alla nuova storia di tutta l’umanità. Tra i suoi familiari, dai quali ha imparato a credere ai Testi sacri, Gesù pone al centro la realtà della sua vita, della sua missione e delle sue relazioni come compimento della Parola di Dio.

Così, le parole e le azioni di Gesù-Messia diventano buona notizia per i poveri, libertà per i prigionieri, vista ai ciechi, liberazione degli oppressi, anno per sempre di perdono del Signore. La lettura delle promesse, che si vanno compiendo, implica una corrispondenza con la vita di chi ascolta, provoca meditazione, muove il cuore alla conversione, prega per alimentare le fede, pratica la carità fraterna. Cristo non è altro che lo svolgimento del messaggio di liberazione annunciata da secoli e fedelmente aspettata da quanti hanno confidato nella fedeltà di Dio. A Nazaret si svela il sogno di Dio di un mondo nuovo.

Per questo l’evangelista Luca si decise di fare un resoconto ordinato della vicenda terrena di Cristo, come fu tramandata da coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio. L’ordine non è cronologico, bensì didattico e teologico (At 11,4). Ma gli occhi dei testimoni consultati e la riconosciuta credibilità della loro vita permettono, con sicura intelligenza e adeguata precisione storica, di renderci conto di quanto è avvenuto ed è stato trasmesso e accettato dalla Comunità, dalla Chiesa.

Gesù Cristo ha perfezionato e illuminato di luce nuova e amorosa il destino degli uomini, soprattutto dei senza storia! La speranza cristiana ha interrotto la mera successione cronologica del tempo consumato dal finire, dalla morte. Il Signore Risorto, spalancando le porte della vita per sempre, ha reso il tempo propizia e lieta opportunità di vera libertà, d’autentico amore. Prestiamo ascolto al Vangelo: narra che non è l’uomo che esiste per Dio, ma è Dio che esiste per l’uomo, per me.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Guido Rossa, un “eroe borghese” come Ambrosoli

Il quarantesimo anniversario dell’assassinio di Guido Rossa, ucciso dalle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979, è stato accompagnato da un profluvio di retorica che, anche non volendo, annulla il significato della storia. Come se una morte infame fosse il suo unico merito. Bisogna allora ricordare l’esempio che Guido Rossa ha dato da vivo. La sua vicenda viene così tramandata: operaio e delegato Fiom-Cgil all’Italsider di Genova, il 24 ottobre 1978 denuncia il compagno di lavoro Francesco Berardi per aver diffuso in fabbrica volantini delle Brigate Rosse. Esattamente tre mesi dopo, un commando della colonna genovese delle Br lo aspetta sotto casa e gli fa pagare la “delazione”. Manca un dettaglio. Non è Rossa ma il Consiglio di fabbrica a voler denunciare Berardi. Vanno tutti insieme dai Carabinieri e alla battitura del verbale assiste “un numeroso gruppetto di operai e delegati”, come ricostruisce Giancarlo Feliziani in Colpirne uno educarne cento, primo e migliore libro su Rossa. Quando il comandante spiega che una denuncia penale non si può firmare “Il Consiglio di fabbrica” ma servono nomi e cognomi, “partono i primi ripensamenti. La stazione dei Carabinieri, come per incanto, a poco a poco si svuota”. Rossa resta solo e da solo firma la denuncia. I brigatisti sanno subito chi è “l’infame”, aiutati anche dai giornali che allegramente stampano il suo nome. La sua sorte è segnata. Alla moglie che gli chiede perché l’ha fatto risponde: “Ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Quando le cose si devono fare, si fanno”.

Sei mesi dopo, il 12 luglio 1979, viene ucciso a Milano Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, mandante dell’esecuzione. Lascia alla moglie una lettera scritta quando capisce che finirà male: “Pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto”. Umberto Ambrosoli, che nel ‘79 aveva sette anni, dedica al padre parole che valgono anche per Rossa: “Sarebbero stati sufficienti anche solo silenzi, qualche piccola omissione, il non prendere posizione; avrebbe avuto salva la vita e con altissima probabilità sarebbe iniziata una brillante carriera nel mondo bancario”. Invece gli tocca solo il titolo di “eroe borghese” conferito dall’indimenticabile biografia di Corrado Stajano.

Guido Rossa, operaio comunista di 44 anni, lasciato solo dal governo Andreotti, ucciso dentro la sua Fiat 850 perché, quando le cose si devono fare, si fanno. Giorgio Ambrosoli, avvocato monarchico di 45 anni, lasciato solo dal governo Andreotti, ucciso dentro la sua Alfetta perché “lo sapevo e non mi lamento”. Sono la stessa cosa, due eroi borghesi. Diverse classe sociale e idee politiche, li unisce un identico imperativo etico. Giulio Andreotti disse luciferino che “Ambrosoli se l’andava cercando”, e avrebbe potuto dire la stessa cosa di Rossa. Una confessione: per lui fare il proprio dovere e andarsela a cercare erano la stessa cosa, e con questa ripugnante equivalenza ha corrotto la classe dirigente italiana.

Il principio etico di Rossa e Ambrosoli è stato sradicato dalla mafia, dalle Brigate Rosse e dall’andreottismo. Colpendone due ne hanno educati centomila, e i più giovani non lo sanno, cresciuti dall’esempio di padri attenti solo a non cercarsela. Ad anteporre al proprio dovere l’obbedienza al potente. A non svolgere mai l’incarico ottenuto perché si occupano solo di non perderlo e soprattutto di usarlo come trampolino per nuove ambizioni. Una classe dirigente fiera di insegnare ai giovani che chi parla di etica è un invasato. O, come dissero di Rossa le Br, facendo propria la truce cultura di Andreotti, “un mentecatto”.

Come il governo ricorda la Shoah

La Shoah, persecuzione e tentativo di sterminio di tutti i cittadini ebrei di Italia, Germania e di tutta Europa, si può celebrare con un bellissimo discorso alla Scala di Liliana Segre, con un ritrovarsi intorno al presidente della Repubblica, con un convegno nella “Sala dei Gruppi” a Montecitorio con la Comunità ebrea romana. Oppure con il riunirsi dei giornalisti sotto minaccia fascista alla Casa della Cultura ebraica, nel Ghetto di Roma. Ma non tutti sono all’altezza. Per esempio il Governo.

Qui l’attenzione è tutta puntata sulla nave Sea Watch ferma per ordine di Salvini in un mare gelato e tempestoso a un miglio dalla costa italiana, nonostante abbia a bordo quarantasette naufraghi salvati, tra cui alcune donne e otto bambini. Spiega con ragionevolezza il ministro del Mare Salvini, che la nave non può entrare in un porto italiano perché i porti italiani sono chiusi.

Ma il vero motivo, ha detto il ministro delle Infrastrutture Toninelli (anche lui fuori delle sue competenze), è che questi naufraghi spettano ai libici, e dunque la Ong che ha salvato avrebbe dovuto consegnare il carico umano ai carcerieri per ritornare in prigione. Il vicepresidente del Consiglio Di Maio ha subito capito, e ha convocato a Palazzo Chigi l’ambasciatore olandese. C’entra, perché la Sea Watch, oltre a essere una nave Ong, dunque manovrata da personaggi loschi e un po’ ebrei, che con il traffico dei salvati fanno un sacco di soldi, batte bandiera olandese.

La vicenda che ho appena narrato si svolge alla vigilia del Giorno della Memoria, ma questo fatto (e le incredibili somiglianze fra quello che i tre del governo stanno facendo e quello che accadeva ai cittadini italiani ebrei, a partire dall’approvazione delle leggi razziali italiane) preoccupa poco i nostri, data la scarsa propensione alla storia e la evidente assenza di memoria.

Dunque dobbiamo lasciare questo terreno per seguirne un altro.

Le tre persone indicate come “il governo” appaiono divise su molto, a volte su tutto, come Conte (detto “il presidente del Consiglio”) ha spiegato l’altra sera alla Merkel, (si vede in un filmino ben interpretato). E spesso hanno problemi con se stessi, se si pensa che lo stesso cautissimo “presidente” Conte se ne è andato (di sua iniziativa?) a Bruxelles per esibirsi in una furente scenata contro l’Europa. Ma c’è uno straordinario attacca-tutto che di colpo incolla e tiene insieme ogni pezzo, umano o ideale, che si dovesse rompere nel contratto.

Bastano pochi africani in arrivo per far perdere la testa a chi ci governa sotto l’egida della Lega. Ora che di africani ne arrivano sempre meno, è stata inventata la deportazione. E di nuovo non li preoccupa la estrema somiglianza con il modo in cui la Shoah è cominciata. I profughi, i salvati dal mare, anche chi ha meriti e permessi e documenti di accettazione, anche cittadini modello onorati dai sindaci, vengono spinti su autobus che ci fanno vedere sempre alla partenza, mai in arrivo.

Gli uomini del ministro del Mare agiscono subito, dovunque si sospetta che le famiglie stiano bene.

I Toninelli, i Di Maio, i Salvini sono al riparo della Shoah perché non sanno niente di questa cosa detta la Storia, e costruiscono sul non sapere la loro forza. Conta anche il tipo di reputazione conquistata in pochi mesi. Ora che si sa che Di Maio non ha precedenti scolastici, che Toninelli fa ridere (il ponte di Genova ha rovinato la sua carriera di uomo irresistibilmente sbagliato), ora che Salvini è (da solo) i quattro moschettieri in un unico omone extralarge, con il motto aggiornato “tutti per me”, possono iniziare la gara al grande peggio.

C’è chi vuole che il detenuto marcisca in prigione, chi convoca l’ambasciatore olandese, chi dice che non gli frega niente se sulla nave in tempesta ci sono bambini, lui sostiene che hanno tutti 17 anni.

Toninelli, da bravo, ripete tutto. Lo può fare perché quando i torpedoni stipati di deportati cacciati da Castelnuovo di Porto, con tutte le valigie ancora per terra, si mettono in moto, solo una giovane donna italiana si mette davanti al bus, impedendo per ore la partenza. Momento difficile per la polizia. Rossella Moroni è deputata (Leu) alla Camera. Sapeva che i deportati hanno un indirizzo di provenienza, ma nessun luogo di arrivo tranne la strada. I parlamentari italiani sono mille. Moroni era sola. Nasce di qui la grande forza dei nostri eroi.

“Notte gialla”: altri tafferugli in attesa dei Foulard rossi

La place de la République ha cominciato a tingersi di giallo fluorescente verso le 17,30 di ieri. I Gilet gialli hanno risposto all’appello di Eric Drouet che sulla pagina Facebook del gruppo La France en colère, di cui è leader, ha scritto: “Manifestare di giorno va bene, ma non è così che cambieremo le cose”. È stata la prima “notte gialla”. L’idea era di trasformare la piazza parigina in una “rotatoria gigante”: “Saremo presenti tutte le notti fino alla fine del grande dibattito”, ha detto Thierry Paul Valette, tra i suoi organizzatori.

Ma l’atmosfera si è fatta subito tesa sulla piazza. La polizia ha usato i lacrimogeni e cannoni ad acqua e disperso i Gilet. Nel pomeriggio dei tafferugli erano già scoppiati nella capitale. Alla Bastille, Jérôme Rodrigues, un Gilet vicino a Drouet, è rimasto ferito a un occhio. Oggi invece entrano in scena i Foulard rossi. La prima “marcia repubblicana delle libertà”, partirà alle 14 dalla place de la Nation verso la Bastille. Philippe Lhoste, imprenditore di Champigny, iniziatore del gruppo, vuole portare alla ribalta la “maggioranza silenziosa”. Loro non si dicono né pro-Macron né anti-Gilet Gialli, ma la giornata di oggi per Macron, che risale un po’ nei sondaggi, suonerà come un test.

La scheda: l’escalation

 

5-11 gennaio Juan Guaidó, esponente del partito di centrodestra Voluntad popular, s’insendia come presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana. Il 10 gennaio Nicolàs Maduro presta giuramento per il suo secondo mandato da presidente della Repubblica venezuelana. L’11 gennaio Guaidó definisce Maduro un usurpatore e si dichiara pronto a un governo di transizione verso nuove elezioni.

 

13 gennaio Guaidó viene arrestato e detenuto quasi un’ora dal Servizio di intelligence nazionale bolivariano. Poche ore dopo l’arresto Guaidó si autoproclama presidente legittimo di tutto il Venezuela.

 

23 gennaio Durante una manifestazione di protesta contro Maduro, Guaidó giura come presidente ad interim e si dichiara pronto a portare il governo a nuove elezioni. Durante la manifestazione ci sono scontri tra polizia e manifestanti, con 13 morti. Guaidó è riconosciuto da Stati Uniti, Canada, Brasile e Argentina. Il presidente Maduro, supportato da Turchia e Cuba, lo definisce un “pupazzo” degli Usa e il 25 febbraio intima i funzionari americani a lasciare il paese entro 72 ore.

“Se ne vada via subito, con tutta la cricca e senza soldi accumulati con la dittatura”

“Maduro deve preparare in fretta la valigia e andarsene, altro che settimana di tempo per organizzare nuove elezioni”. Antonio Ledezma, ex sindaco di Caracas, fuggito dagli arresti domiciliari imposti dal giudice venezuelano dopo quasi tre anni di carcere, dal novembre del 2017 è riparato a Madrid. In questi giorni si trova negli Stati Uniti: venerdì a Washington per una seduta dell’Oea, l’Organizzazione degli Stati Americani, ieri a New York, invitato all’Onu dal Dipartimento di Stato, per una sessione speciale sulla crisi venezuelana. Ledezma ringrazia gli appoggi internazionali, ma chiede un passo avanti.

Lei non è d’accordo con i presidenti di Spagna, Francia e Germania, perché?

Le parole e l’appoggio del presidente spagnolo Sanchez e degli altri ci fanno piacere, però non bastano. Maduro non ha titoli per convocare elezioni, al massimo ha otto, sette, sei, forse cinque giorni per lasciare il paese e consentire alla democrazia di riprendersi il Venezuela. Dopo anni così drammatici il popolo ha bisogno di pace, armonia e prosperità.

Nessuna ultima chance per Maduro dunque?

Nessuna. Maduro è illegittimo, lo ha ribadito anche la comunità internazionale. Se ne deve andare in fretta con tutta la sua cricca e senza toccare il patrimonio.

Cioè?

Sappiamo che il regime sta provando a riprendersi indietro il gruzzolo accumulato negli anni di dittatura e appoggiato nelle banche internazionali. Intanto la Banca d’Inghilterra ha già negato la sua richiesta per 1,2 miliardi di dollari.

Qual è la posizione di Guaidó, presidente ad interim?

Guaidó è il nostro presidente legittimo, lo riconosciamo tutti, chi si trova in Venezuela e quelli della diaspora e faremo di tutto per appoggiarlo.

All’estero, prima della sua dichiarazione all’Assemblea nazionale, in pochi lo conoscevano. È in grado secondo lei di reggere la pressione?

È un personaggio emergente, ma è già un leader. Ha in mano il testimone di questo passaggio epocale e saprà portarlo fino alla meta.

A Caracas e nel resto del paese sono ripresi gli scontri, una sorta di riedizione del caos della primavera-estate 2017, quali le differenze?

Stavolta l’aria è diversa, sarà la volta buona. I venezuelani non retrocederanno e saranno protagonisti della fine di questa narco-tirannia.

Nel 2017 l’opposizione ha mostrato punti deboli, li avete risolti?

Gli ultimi due anni sono serviti a calibrare l’obiettivo comune. La costanza della lotta non è mai venuta meno. Ora abbiamo anche una figura centrale a cui fare riferimento. Bisognava andare oltre le differenze ideologiche e puntare su una missione politica unica e condivisa. Ora la congiuntura ci unisce, prima no.

E lei, conta di riprendersi un posto di leadership nell’eventuale nuovo schema politico venezuelano?

Largo ai giovani. Io sto facendo lo sforzo massimo per aiutare questo processo, lavorando da lontano, ma con un solo obiettivo. Sono un figlio del Venezuela che ha esperienza e la pone al servizio delle generazioni future che andranno a governare questo glorioso Paese. Il Venezuela mi ha dato tanto nella vita, è ora che io cominci a dare qualcosa in cambio.

Con il presidente Nicolás Maduro in fuga assieme ai suoi più stretti collaboratori, scenario oggi probabile, è sua intenzione rientrare?

Sì, sono pronto, in qualsiasi momento, io come migliaia di compatrioti fuggiti in questi anni. Il sentimento per la patria non muore mai.

Come sono stati, finora, questi quattordici mesi di esilio per lei?

Una prova dura, ma utile per conoscere e assimilare abitudini, nuovi modelli di vita e affinare lo spirito di adattamento. Di fondo, però, c’è sempre un fortissimo senso di nostalgia.

L’Italia: un governo e quattro posizioni sulla crisi a Caracas

Qualunque cosa si pensi della crisi in Venezuela, lo spettacolo che su quella vicenda sta dando il governo italiano è quasi comico. Al momento in cui andiamo in stampa le posizioni all’interno del nostro esecutivo sono ufficialmente quattro (ma non escludiamo che il numero possa crescere durante la notte): una del Movimento 5 Stelle, una della Lega, una di Palazzo Chigi e una della Farnesina.

Andiamo con ordine. I grillini sono contro le ingerenze per cacciare il presidente venezuelano Maduro, peraltro rieletto da poco in elezioni boicottate da un gran pezzo dell’opposizione, ma giudicate tutto sommato regolari dagli osservatori internazionali presenti. Posizione ribadita ieri da Alessandro Di Battista dopo che la Ue ha dato un ultimatum di otto giorni al regime chavista: “Firmare l’ultimatum Ue al Venezuela è una stronzata megagalattica. È lo stesso identico schema che si è avuto anni fa con la Libia e con Gheddafi. Identico. Qua non si tratta di difendere Maduro. Si tratta di evitare un’escalation di violenza addirittura peggiore di quella che il Venezuela vive ormai da anni. E mi meraviglio di Salvini che fa il sovranista a parole, ma poi avalla una linea ridicola”. La Ue, è l’idea, dovrebbe farsi potenza mediatrice tra le parti, senza schierarsi. Concetti ribaditi – con persino maggiore libertà di linguaggio – dal sottosegretario M5S agli Esteri, Manlio Di Stefano: “Tra il classico interventismo Usa e il freno tout court della Russia a qualsiasi azione, l’Ue avrebbe facilmente potuto assumere la leadership di un processo di accompagnamento a Maduro verso una transizione politica e democratica a nuove elezioni, nei tempi e nei modi più adatti. Ma alcuni leader europei, si sa, sono affetti dalla sindrome del pene piccolo (mi scusino le signore leader) che li porta a sparare una cazzata ancora più grande di quella sentita dagli altri”. Post accompagnato su Facebook dall’eloquente immagine di un uomo sconvolto con un centimetro in mano. Ne sarà felice il suo ministro, Enzo Moavero Milanesi, che in serata ha fatto sapere: “Ci riconosciamo pienamente nella dichiarazione comune che gli Stati Ue hanno diffuso oggi sulla situazione in Venezuela, alla redazione della quale abbiamo partecipato”. Un po’ meno, va detto, dell’appassionato sostegno al cambio di regime dato fin da subito da Matteo Salvini, che già giovedì via Twitter aveva “riconosciuto” l’autoproclamato presidente Guaidó a titolo personale e ieri ha voluto rispondere a Di Battista: “Parla a vanvera: non solo milioni di venezuelani, ma anche migliaia di italiani soffrono da anni la fame e la paura imposti da Maduro”.

E Palazzo Chigi? In serata Giuseppe Conte ha capito di non poter tacere e inaugurato con una nota una quarta linea che è un mix tra quella M5S e quella di Moavero (che, a sua volta, coincide in parte con quella di Salvini). Conte/1: “È fondamentale scongiurare una escalation della violenza nel paese e cercare di evitare che il Venezuela, attraverso l’impositivo intervento di Paesi stranieri, possa diventare terreno di confronto e divisioni tra attori globali”. Cioè no ingerenze straniere e no ultimatum. Conte/2: “Auspichiamo la necessità di una riconciliazione nazionale e di un processo politico che in modo ordinato consenta al popolo venezuelano di arrivare quanto prima a libere scelte democratiche”. Cioè nuove elezioni in tempi brevi come chiede la Ue. Tutto chiaro?