Maduro va allo scontro. All’Ue: “Otto giorni a chi?”

La buona notizia è che il livello di violenza in Venezuela non raggiunge i livelli da guerra civile temuti: in 96 ore, si contano una trentina di vittime; e ieri non ce ne sono state, almeno ufficialmente. La cattiva notizia è che la turbolenza internazionale, sul Paese con due presidenti, nessuno dei quali pienamente legittimo, s’accresce.

Dopo scambi di messaggi fra i loro leader, Spagna, Francia, Germania e pure Gran Bretagna danno gli otto giorni a Maduro: o indice, entro una settimana, nuove elezioni politiche in Venezuela, o Madrid, Parigi, Berlino e Londra – ma la lista delle capitali presumibilmente s’allungherà – riconosceranno come legittimo il presidente autoproclamato Juan Guaidó. Il regime, però, rimanda ai mittenti l’ultimatum.

Benché espresso con modalità diverse, il messaggio dei vari Sanchez, Macron, Merkel e May collima: “Il popolo venezuelano deve poter decidere liberamente del suo futuro. Senza un annuncio di elezioni entro otto giorni, potremo riconoscere Guaidó come ‘presidente ad interim’ e sviluppare con lui questo processo politico. Lavoriamo intensamente con i nostri alleati europei”. Più sfumata nei tempi, ma quasi coincidente nella sostanza, la posizione di Federica Mogherini. L’Alto Rappresentante della politica estera dell’Ue, che aveva già chiesto a Maduro di annunciare “nei prossimi giorni la convocazione di nuove elezioni”. Altrimenti “verranno prese diverse azioni” che porranno anche “il tema del riconoscimento della leadership” nel Paese latinoamericano.

Come prevedibile, la riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ieri, a New York, al Palazzo di Vetro, è una palestra di retorica, ma non conduce a nulla. Russia e Cina, grandi alleati del regime chavista, parlano di “tentativo di golpe in Venezuela” e “questione interna: “allora, perché non parliamo qui dei ‘Gilets gialli’?”. Gli Usa, con il segretario di Stato Mike Pompeo, bollano il regime come “mafioso e illegittimo”, gli consigliano di non “mettere alla prova” la loro determinazione e invitano tutti “a unirsi alle forze della libertà in Venezuela”, riconoscendo Guaidó e sospendendo i rapporti economici e finanziari con il governo Maduro – la Banca d’Inghilterra ha già bloccato un prelievo di 1,2 miliardi di dollari in oro –.

Da Caracas, Maduro rilancia le parole del Cremlino e s’impegna a sconfiggere “il colpo di Stato che pretende di interferire nella vita politica del Venezuela, di mettere da parte la nostra sovranità e d’istituire un governo fantoccio dell’Impero americano”. E respinge l’invito a indire nuove elezioni: “Nessuno ci può dire se convocare o meno le elezioni”, afferma il ministro degli Esteri Jorge Arreza intervenendo alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; e ancora: “Chi siete voi per lanciare un ultimatum ad un governo sovrano? La vostra è un’ingerenza infantile”. Pure Cuba, il Nicaragua e la Bolivia, quel che resta della sinistra bolivarista oggi nell’America latina, denunciano l’interventismo statunitense e chiedono che cessi.

Lo scontro politico in Venezuela è divenuto istituzionale mercoledì, quando Guaidó, presidente dell’Assemblea nazionale, l’unica Camera del Parlamento venezuelano, s’è proclamato “presidente ad interim”, ottenendo l’immediato riconoscimento degli Stati Uniti, di numerosi paesi dell’Osa, l’Organizzazione degli Stati americani, e di altre capitali. Ad esasperare gli animi dell’opposizione al regime, sono stati la crisi economica, il cui segno è l’inflazione spaventosa, e il disagio sociale, testimoniato dai milioni di esuli soprattutto verso Colombia e Brasile. Ma gli Stati Uniti hanno certo soffiato sul fuoco, penalizzando con le sanzioni e agendo sulla leva del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana e incoraggiando l’opposizione. Le forze armate e la magistratura sono, invece, dalla parte di Maduro. Un sondaggio diffuso ieri, ma la cui attendibilità appare molto dubbia, indica che oltre quattro venezuelani su cinque considerano Guaidó il presidente legittimo e vedono nell’auto-proclamazione un motivo “d’ottimismo e speranza”, mentre appena un venezuelano su venti considererebbe Maduro il presidente legittimo. Nel contempo, sempre secondo i dati di Meganalisis, quasi il 90% degli intervistati pensa che i militari non riconosceranno Guaidó e quattro su cinque – addirittura – auspicano un intervento esterno, non è chiaro se solo umanitario o anche armato. Il 70% sarebbe, inoltre, contrario all’ipotesi di amnistia lanciata da Guaidó nei confronti dei sostenitori di Maduro.

Non è solo il lavoro a fare il politico

C’è grande attesa sulla nuova Cgil di Maurizio Landini: sarà cauto e orientato verso il Pd come, con mille distinguo, il sindacato versione Susanna Camusso? O prevarrà l’anima popolare e populista dell’ex leader della Fiom che lo mette in naturale sintonia con il governo, sponda M5S? Nelle sue prime dichiarazioni post-elezione, Landini sceglie un linea d’attacco pre-politica: “Abbiamo due vicepremier che si occupano di povertà e lavoro senza aver mai lavorato e senza essere mai stati poveri”. Qualcuno può vedere in questo una versione estrema di quella democrazia diretta predicata dal M5S (non più uno vale uno, ma chi sta in fondo alla scala sociale vale di più). Altri notano che è stata una polemica dell’estate 2018 quella di Silvio Berlusconi che contestava a Di Maio di non aver mai lavorato e quindi di non poter governare. Può stupire questa sintonia polemica con Berlusconi, ma stupisce ancora di più l’argomento: Landini è in un mondo, quello del sindacato, che resiste alla disintermediazione, che rivendica la professione della rappresentanza (anche l’erede di Landini alla guida della Fiom non ha mai lavorato in fabbrica). Forse Landini è stato un po’ travolto dall’emozione per il nuovo incarico e, dopo essere stato silente per molti mesi, deve riabituarsi a essere protagonista.

Grandi opere e clima, il fronte dei No verso un unico movimento nazionale

Si compatta il fronte dei no e ambisce a costruire un movimento globale che metta in crisi l’attuale modello di sviluppo estrattivista. Non più singole lotte dislocate sul territorio nazionale, ma un unico movimento. In trecento si sono incontrati ieri pomeriggio alla Sapienza per l’assemblea pubblica in vista della manifestazione del 23 marzo a Roma. Il comune denominatore dei vari comitati impegnati nella difesa del territorio e della salute è la lotta contro le grandi opere, ritenute inutili e dannose, a difesa del clima.

All’appello non manca nessuno. I no Tav in prima linea affiancati dai no Tap, no Hub del gas, no Triv, no Muos, no Mose, no Pedemontana, no Terzo Valico, no Grandi Navi. Non mancano i comitati della Terra dei Fuochi, quelli per l’acqua bene comune, i Cobas, i tarantini impegnati sul fronte Ilva, quelli contrari alla centrale di gas prevista a Sulmona, quelli in lotta contro i pozzi di stoccaggio del gas in Lombardia, gli studenti universitari, i no agli inceneritori e al ponte sullo Stretto e anche i contadini e i movimenti femministi. Il percorso di unificazione è cominciato a settembre con altre assemblee. Prima a Firenze, poi il 17 novembre in Val di Susa. Fino alle distinte manifestazioni dell’8 dicembre, da Torino al Salento. Ora puntano al 23 marzo come grande tappa in cui far convergere le esigenze comuni.

Ambiscono a un milione di partecipanti per rivendicare il diritto alla salute, al clima, all’ambiente e all’autodeterminazione delle comunità attraverso un movimento aperto e inclusivo. Invocano azioni congiunte con la creazione di una piattaforma nazionale. La politica è esclusa: concordano sul fallimento del cambiamento auspicato dall’attuale governo, che di fatto – sostengono – sta agendo in continuità con quelli precedenti. Lo pensa il Comitato cittadini liberi e pensanti, che organizza la festa del Primo maggio a Taranto: “Nessuno ha commentato la sentenza della Corte europea che condanna l’Italia per non aver tutelato i tarantini con i decreti Salva Ilva e l’immunità penale estesa anche ai Mittal. Visto che la politica non viene a Taranto, allora il 23 veniamo noi a Roma”. Lo pensano i No Tav: “Siamo nati come comitato anti governativo e rimaniamo tale. Tutto ciò che ci riguarda viene strumentalizzato per una costante campagna elettorale”. Lo sostengono i No Tap: “Dobbiamo diventare il problema da risolvere”. Si sta scrivendo una nuova pagina della storia contemporanea del nostro Paese. Non mancano i richiami al passato. Si identificano come “compagni” e c’è chi propone come modello a cui ispirarsi il movimento anti-nucleare degli Anni 70. Da risolvere con urgenza gli effetti delle grandi opere sull’ambiente e la salute e i conseguenti cambiamenti climatici indotti dal modello di sviluppo che l’uomo perpetra da decenni. La prima uscita pubblica sarà il 23 marzo.

Huawei tra spionaggio e 5G. I dubbi di Copasir e Agcom

Dopo la decisione di Vodafone di interrompere l’acquisto di alcune componenti di Huawei per lo sviluppo delle reti 5G, l’Internet super veloce di prossima generazione su cui dovranno svilupparsi tutte le nuove tecnologie, anche l’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) potrebbe iniziare ad affrontare il problema 5G e spionaggio. “Noi abbiamo fatto molto sul 5G, ma questa è una riflessione nuova e opportuna. L’Autorità si è posta da tempo il problema dell’espansione della competenza sulla sicurezza delle Reti che la legge assegna all’Agcom anche nei confronti della sicurezza strategica rispetto al pericolo di intrusione di terzi, sabotaggio e così via. D’altra parte la normativa sul golden power sembra aver fatto chiarezza sul punto affidando queste valutazioni alla presidenza del Consiglio dei ministri”, ha spiegato al Fatto Antonio Nicita, commissario dell’Agcom.

MentreUsa, Australia, Gran Bretagna, Germania e altri governi stanno valutando azioni legislative per escludere Huawei ma anche altre aziende cinesi, come Zte, dai contratti per le nuove reti 5G, è invece da Bruxelles che sull’Italia viene posto un grande punto interrogativo (di tipo strategico, visto che la Commissione Ue è prima promotrice dello sviluppo della Rete). Nella seconda relazione dell’Osservatorio 5G, sul quarto trimestre 2018, infatti si fa notare che in Italia manca una strategia sul 5G in un momento, peraltro, dove la sperimentazione è iniziata già in cinque città. “Questo può essere uno spunto di riflessione per l’Italia – afferma Nicita – Il completamento di una strategia nazionale sul 5G potrebbe adesso affrontare efficacemente anche questo punto”. La questione è arrivata pure sul tavolo del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza, che da tempo sta lavorando a un dossier che riguarda più in generale il cyberspionaggio, ma che in parte ha affrontato anche il tema delle aziende cinesi. Nei mesi scorsi è stato audito anche il vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio. L’assegnazione della sperimentazione della rete 5G attraverso la valutazione dei progetti presentati dagli operatori (nel 2017) e l’assegnazione delle frequenze, che hanno fruttato allo Stato una cifra record pari a 6,5 miliardi di euro (nel 2018), fanno capo proprio al Mise. La partita del 5G italiano è stata gestita tanto dal governo Renzi per le sperimentazioni, quanto da quello gialloverde per le frequenze. Se però il bando dell’asta per le frequenze prevede che siano garantite la sicurezza dei dati personali e quella delle Reti, nel caso delle sperimentazioni – una sorta di laboratorio per capire le potenzialità della nuova rete – il confronto è avvenuto sulla presentazione di progetti sviluppati, oltretutto, con decine di partner tecnologici e istituzionali. Ed è in queste sperimentazioni che, a Milano, Huawei compare come partner tecnologico di Vodafone insieme a molti altri (ad esempio Nokia come partner di rete) mentre a Bari-Matera è partner di Tim e Fastweb. La comunicazione di giovedì di Vodafone, comunque, cerca di non sfiduciare Huawei dal punto di vista tecnologico, soprattutto in assenza di certezze. Il colosso inglese ha più volte ribadito che tutti i fornitori sono sottoposti a processi di certificazione e verifica degli standard qualitativi e di sicurezza e il blocco degli acquisti riguarderà temporaneamente solo alcune delle componenti cosiddette core e, quindi, non l’accesso radio, fondamentale per il 5G. L’annuncio riguarderebbe il timore di investire in un mercato che rischia di andare in sofferenza per l’incertezza generata dai recenti stop al colosso cinese.

Ma che cosa si intende per componenti core e basta escluderle per rassicurare? In parte sì. “Si tratta dei sistemi presenti all’interno della rete, nel suo nucleo, appunto – spiega Nicola Blefari Melazzi, direttore del Cnit, che è il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni, docente all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata –. Se metto in sicurezza la parte core elimino una parte significativa di vulnerabilità. Da lì passano tanti dati. Se si è in grado di compiere intercettazioni nella rete core si possono ottenere molte informazioni, o meglio la gran parte di esse, per come sono strutturati i servizi oggi. È un po’ come riuscire a monitorare tutte le auto che transitano su un’autostrada o su di una tangenziale, invece che su una strada locale o periferica: si ha una visione più completa. Le parti periferiche sono più diffuse ed eterogenee. Certo si possono monitorare anche tutte le periferie e le strade locali, capillarmente, ma è più difficile. D’altra parte, oggi l’evoluzione della tecnologia riguarda in modo fondamentale proprio la parte periferica”.

Dell’Utri, Silvio e i Graviano: la Storia cambiò in 10 giorni

Un quarto di secolo fa la storia d’Italia è cambiata sia per la mafia sia per la politica. Il 27 gennaio 1994, esattamente 25 anni fa, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, responsabili delle stragi di Capaci e di via D’Amelio nel ‘92, delle bombe contro Maurizio Costanzo e le basiliche di Roma nel ‘93, e delle stragi di Firenze e Milano, sempre nel ‘93, sono stati arrestati a Milano. Il giorno prima, 26 gennaio 1994, Silvio Berlusconi annunciava la sua discesa in campo col discorso dal celebre incipit ruffiano “L’Italia è il paese che amo”. Due fatti staccati come dovrebbero esserlo lo Stato e l’antiStato. Eppure la Corte d’Assise di Palermo – nella motivazione della sentenza Trattativa di luglio scorso – lascia intendere che la fine della fase stragista dei corleonesi potrebbe avere una relazione con l’avvio della fase politica di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, cofondatori di uno dei pochi partiti che ha mantenuto nome e simbolo immutati dalle elezioni del ‘94 alle europee del prossimo maggio.

Questa lettura è accennata in una sentenza che è solo di primo grado, non definitiva e contestata da Dell’Utri. La sequenza cronologica sull’asse Milano-Roma-Palermo merita di essere ripercorsa perché ognuno possa valutare se l’arresto dei Graviano sia solo un flash nel buio o il fotogramma di un film più lungo.

Fine 1993 Silvio Berlusconi matura definitivamente la decisione di scendere in campo. Nascono i primi circoli di Forza Italia. A Milano, il primo è in un palazzo di via Chiaravalle 7, dove avevano sede gli uffici di Filippo Alberto Rapisarda, imprenditore che in passato aveva intrattenuto rapporti con alcuni boss mafiosi e che nei decenni ha avuto rapporti altalenanti con Marcello Dell’Utri. Intanto il boss Giuseppe Graviano, ricercato anche per l’uccisione di don Pino Puglisi a Brancaccio nel settembre ‘93, reduce dalla stagione delle stragi, si rifugia a Ficarazzi, in casa di un favoreggiatore, Giuseppe D’Agostino. Il figlio di D’Agostino, allora 11enne, vuole giocare al Milan e già nel 1992 era stato raccomandato da un certo Marcello Dell’Utri. D’Agostino vuole un lavoro stabile a Milano per convincere la squadra a prendere il figlio. Graviano promette di aiutarlo e gli dà appuntamento in un hotel di Milano il 27 gennaio.

18 gennaio 1994 È tutto pronto per il debutto di Forza Italia. Dell’Utri scende a Roma per organizzare le liste e alloggia al Majestic. Le mafie continuano la stagione stragista. Tocca alla ‘Ndrangheta uccidere due carabinieri sulla Salerno-Reggio Calabria per far paura allo Stato e riattivare la trattativa con l’Arma.

19 o 20 gennaio 1994 Secondo la sentenza Trattativa della Corte d’Assise di Palermo, in uno di questi due giorni c’è l’incontro al bar Doney in cui Giuseppe Graviano descrive la sua strategia politica a Gaspare Spatuzza. La Corte, sulla base di nuovi riscontri, ha creduto al racconto di Spatuzza, considerato invece poco credibile dalla Corte di Appello che ha condannato nel 2010 Dell’Utri ma solo per i fatti fino al ‘92. Non per i rapporti con i Graviano e la fase ‘politica’. Spatuzza per i giudici della Trattativa dunque quel giorno va a prendere in auto Giuseppe Graviano al bar Doney. Il boss gli comunica raggiante che, grazie alla serietà di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi, la mafia ha ormai “il paese nelle mani”. Resta fermo però l’ordine di eseguire la strage allo Stadio Olimpico, programmata per la domenica successiva. I cento carabinieri dovevano morire proprio perché in Calabria la ‘Ndrangheta si era già mossa, colpendo i Carabinieri con una serie di attentati. La data è incerta tra il 19 e il 20 gennaio. Comunque per la sentenza di primo grado sulla Trattativa il fatto che Dell’Utri dormisse in via Veneto il 18 gennaio sarebbe un riscontro alla credibilità del racconto di Spatuzza.

23 gennaio 1994 Una Lancia Thema imbottita di esplosivo viene piazzata dagli uomini dei Graviano davanti all’aula bunker del Foro Italico. I Carabinieri passano di lì e il giovane mafioso Salvatore Benigno schiaccia più volte il pulsante, ma il telecomando non funziona: l’attentato fallisce.

26 gennaio 1994 Berlusconi annuncia la sua discesa in campo. Giuseppe D’Agostino con la famiglia sale su un treno per Milano. I Carabinieri, guidati da una soffiata, li seguono. La famiglia spera che il figlio Gaetano sia preso al Milan.

27 gennaio 1994 In via Procaccini a Milano nel ristorante ‘Gigi il Cacciatore’ finisce la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono seduti a un tavolo da sei: i due fratelli con le future mogli (e poi madri di due figli concepiti nel 1996 in cella, ennesimo mistero di questa storia) più la coppia formata da Giuseppe D’Agostino e moglie. Al tavolo accanto ci sono i Carabinieri arrivati da Palermo in borghese. Li hanno seguiti mentre facevano la bella vita a Milano: pranzo da Giannino, ristorante famoso di Milano covo di tifosi del Milan come Graviano. Poi shopping alla Rinascente e in via Montenapoleone. Pausa tè al Saint Honore di via Matteotti. Aperitivo al Camparino in galleria. Il gruppo entra nel teatro Manzoni e Graviano compra una dozzina di biglietti per: Aggiungi un posto a tavola di Johnny Dorelli, in programma il giorno dopo. I Graviano e i loro amici resteranno. D’altronde sono di casa a Milano, da anni. Poi passeggiata a San Babila e il gruppo sale in taxi, direzione il Cacciatore, dove li aspetta Filippo con la compagna Francesca. I Carabinieri in taxi li seguono, attendendo rinforzi. Non c’è da scherzare. Giuseppe Graviano a soli 30 anni è già un predestinato al trono. Se non fosse finito in cella oggi probabilmente sarebbe al posto di Totò Riina. Il fratello Filippo, più grande ma defilato, è l’uomo dei conti. I due fratelli si siedono hanno appena il tempo di ordinare e farsi il segno della croce prima di mangiare quando scattano le manette. Dopo quell’arresto le stragi finiscono. Viene meno l’apporto del mandamento di Brancaccio, il più potente economicamente e militarmente. Secondo i magistrati della Corte d’assise che hanno condannato Marcello Dell’Utri in primo grado per la Trattativa però c’è un’altra ragione della pax.

Dopo l’arresto dei Graviano, la mafia avrebbe ricevuto rassicurazioni proprio da Marcello Dell’Utri di un intervento legislativo. Il braccio destro di Berlusconi era stato contattato tramite l’ex fattore della villa di Arcore di Berlusconi, Vittorio Mangano, a sua volta attivato dal boss di San Giuseppe Iato, Giovanni Brusca. Secondo la Corte, Mangano e Dell’Utri si incontrarono nel 1994 sul lago di Como. E, come raccontato da Mangano al suo amico Salvatore Cucuzza, Mangano avrebbe ottenuto rassicurazioni che Forza Italia avrebbe tentato di modificare la legge sugli arresti e sulle indagini per mafia in senso favorevole a Cosa Nostra. I tentativi, per la Corte di Assise di Palermo del processo Trattativa, poi abortirono grazie alla Lega Nord che tolse la spina al Governo Berlusconi. Sono passati 25 anni e Silvio Berlusconi ha appena annunciato la sua ennesima discesa in campo.

Grillo benedice l’alleanza gialloverde: “Rissosa ma vincente”

Beppe Grillo lo dice chiaramente nell’intervista rilasciata ieri al quotidiano America oggi e rilanciata sul suo blog: “Il connubio Movimento 5 Stelle-Lega è vincente”. E risponde, seppure con più cautela, a chi parla di spaccatura imminente: “Circa la durata sono ottimista, ma non dipende certo dallo starnazzare dell’opposizione. Dipende dal suo stesso equilibrio interno”. Certo ci sono le diverse identità politiche tra cinquestelle e leghi e un rapporto tra le due forze che “è un continuo confronto, anche sofferto, ma questo non vale per le cose di cui ci assumiamo una responsabilità condivisa” e che ha portato “alla realizzazione di rilevanti azioni politiche, molto avversate”: il decreto dignità, quota 100, il reddito di cittadinanza, lo Spazzacorrotti. Sull’immigrazione, “il garante” M5S promuove la linea del governo: “Affrontare questioni del genere richiede anche rudezza e assunzione di responsabilità. Sia noi che la Lega intendiamo impedire questo mercimonio della sofferenza, lo spaccio di false speranze e, intanto, ridiscutere tutta la questione a livello europeo”. E non lesina una battuta sugli ultimi battibecchi diplomatici: “Il che significa anche graffiarsi un po’ con la Francia e i suoi istinti colonialisti”.

Un “contratto”: il piano B della Lega in Ue

La data della convention della nuova alleanza sovranista annunciata più volte da Matteo Salvini e Lorenzo Fontana per febbraio o marzo, ancora non c’è. E il motivo è semplice: la strada verso quel progetto si è rivelata lastricata di problemi e di incognite. Il ministro della Famiglia fa su e giù da Bruxelles ogni mese, ma l’allargamento del gruppo Europa delle Nazioni e delle Libertà (dove siede la Lega con i tedeschi dell’Afd, le Rassemblement National di Marine Le Pen, gli olandesi di Wilders e gli austriaci dell’Fpo) è ancora in costruzione. Fontana sta sondando una serie di partiti minori di estrema destra, ma l’obiettivo numero uno – ovvero quello di arrivare a una campagna comune con l’Ecr (i Conservatori e Riformisti), in vista di un gruppo unico dopo le Europee – pare definitivamente tramontato. Durante la visita in Polonia di Salvini, Jaroslaw Aleksander Kaczynski, il numero uno del Pis, lo ha detto chiaro al ministro dell’Interno. A tenere le file della parte italiana del gruppo è Raffaele Fitto, che ha scelto di investire in Italia su Giorgia Meloni, tanto che sta cercando di portarla nel partito a cui fa riferimento l’Ecr, l’Alleanza dei Conservatori e Riformisti Europei. Tra l’altro giovedì l’Aula di Strasburgo voterà l’emendamento del socialista tedesco, Jo Leinen, al Regolamento del Parlamento, per rendere più difficoltose le regole per formare nuovi gruppi. Progetto contro il quale si sono scagliati fermamente dai Cinque Stelle, anche loro affannosamente impegnati a costruire un gruppo.

E allora, Fontana sta lavorando al piano B: una piattaforma, un programma, una sorta di contratto tipo quello del governo gialloverde in Italia, da offrire ad alleati potenziali per il post-elezioni.

I punti all’ordine del giorno parlano di visione di una “nuova Europa”, con uno sguardo alle politiche di austerity e all’immigrazione. Secondo una linea precisa: ovvero tenere conto delle specificità dei singoli paesi. Quindi, sul tavolo c’è la revisione di trattati come il Ceta, la stipulazione di accordi commerciali meno rigidi e di regole per i prodotti alimentari che tengano conto delle eccellenze delle varie nazioni, il tema della web tax (con la necessità di creare una tassa europea sui guadagni delle grandi multinazionali su Internet) e anche un approccio all’Islam che tenga conto del disagio soprattutto di stati come la Francia e l’Olanda (non a caso, ad ora, la maggiore alleata della Lega è la Le Pen).

Come andrà a finire, si vedrà. Per adesso, ai piani alti di Bruxelles, in base alle proiezioni si fanno tre scenari: un’alleanza (inedita) sovranista tra Ppe, Ecr e Enf; un’alleanza tra Ppe, Ecr e Alde (che è la maggioranza che ha eletto Antonio Tajani presidente del Parlamento europeo) oppure una che riproponga quella attuale, ovvero Ppe, Pse e Alde. In caso di alleanza sovranista, c’è da scommettere che una delle tre cariche apicali (presidente del Consiglio, della Commissione, del Parlamento) andrà a Manfred Weber, ad oggi Spitzenkandidat del Ppe, che è una figura di mediazione con Viktor Orbán. Da notare che della procedura di infrazione votata da Strasburgo a settembre contro l’Ungheria si sono perse le tracce.

Alle Europee FdI rischia: la Meloni chiama Storace

Obiettivo 4%. La soglia di sbarramento alle Europee è un cruccio per diverse forze politiche, ma soprattutto per Giorgia Meloni. Dal risultato del 26 maggio, infatti, si capirà se Fratelli d’Italia sopravviverà oppure no all’onda lunga della Lega di Matteo Salvini. Che, se dal 4 marzo ha cannibalizzato Forza Italia, sta portando via voti anche alla formazione politica portata avanti con determinazione dall’ex presidente della Camera.

I sondaggi sono ballerini: se alcuni indicano il partito della Meloni saldamente oltre il 4, altri lo danno pericolosamente al 3,5% (alle Politiche fu 4,3). Da qui un certo movimentismo per non lasciare per strada nessun voto. Dopo aver imbarcato Raffaele Fitto (candidato alle Europee), l’ultimo arrivato al soglio della Meloni è Francesco Storace. Che da tempo ha sciolto il suo movimento, La Destra, ma un po’ di voti nel Lazio ancora li sposta. “Per me è più naturale stare insieme che divisi. La Lega mi ha offerto la candidatura alle Europee, ma ho detto no. Giorgia i voti li ha, non deve temere Salvini”, fa sapere l’ex governatore del Lazio.

Dopo anni di gelo, Storace – già ospite di Atreju a settembre – è stato bene accolto, visto che gli è stata affidata la direzione de Il Secolo d’Italia, lo storico giornale della destra ormai solo on line. Una decisione presa all’unanimità dal Cda della Fondazione An, soggetto che detiene il patrimonio di Msi e Alleanza nazionale. Fondazione dove, dopo la scomparsa di Altero Matteoli due anni fa, Fdi detiene una risicata maggioranza.

A favore di Storace hanno votato tutti, anche i suoi ultimi compagni di viaggio Gianni Alemanno e Roberto Menia, segretario e presidente di quel Movimento nazionale per la sovranità fondato un paio d’anni fa proprio con Storace, per dare man forte alla Lega nella sua avanzata al centro sud. Iniziativa che dava molto fastidio a Fdi e difatti i rapporti con la Meloni erano a dir poco gelidi. Anche per via del mancato appoggio alla candidatura di Giorgia al Campidoglio nel 2016 (la lista Storace sosteneva Alfio Marchini).

In politica, però, tutto scorre e ora, con le Europee alle porte, la situazione è tornata assai fluida. Tanto che, dopo il ritorno di Storace, ora anche Alemanno e Menia non si guardano più in cagnesco con Fdi e il voto della Fondazione An su Storace potrebbe essere l’inizio di un dialogo. “Alle Europee ci saremo, ma non ci interessa correre da soli per fare l’1%. Siamo disponibili a dialogare chi vuole costruire un forte polo sovranista in Europa”, spiega Menia. Che guarda sempre a Salvini ma pure alla Meloni.

Poi c’è il centro e qui la questione si complica. Giovanni Toti da tempo lavora a nuova creatura che diventi la seconda gamba del centrodestra. Un mix di ex forzisti, Fdi, più altri soggetti (come il movimento di Nello Musumeci in Sicilia) che facciano diventare obsoleta l’opzione politica di Forza Italia. Un soggetto che poi, magari, aiuti la Lega a sganciarsi, in Parlamento, dai grillini dopo le Europee. Ma qui è Meloni a procedere col freno a mano tirato: va bene allargare Fdi, ma no al suo scioglimento.

Su tutto, poi, c’è il derby continuo con Salvini per non farsi mangiare voti. Se da una parte Fdi assicura il suo no alla richiesta di processare Salvini per la nave Diciotti, succede sempre più di rado che i parlamentari della destra vadano in soccorso della Lega in Aula e nelle commissioni. “Con tutto le assurdità messe in campo dal governo, non possiamo assolutamente permetterci di apparire come ruota di scorta della maggioranza”, spiega un deputato di Fdi.

Le scaramucce tra Salvini e Meloni, però, potrebbero avere un riverbero sulle Regionali. In Fdi, per esempio, si teme un disimpegno leghista sul voto in Abruzzo (10 febbraio) che potrebbe compromettere la corsa di Marco Marsilio, candidato del centrodestra espresso dal partito della Meloni, in vantaggio ma tallonato a vista da Sara Marcozzi (M5S) e Giovanni Legnini (Pd). La sconfitta di Marsilio (paracadutato da Roma) sarebbe un brutto colpo per la leader della destra, anche in vista delle Europee. Salvini lo sa e un po’ fa il pesce in barile.

Di Battista “spoilera” Le Iene: “Papà pagava i dipendenti in nero”

Prima chelo scoprano dal servizio delle “Iene” di questa sera, è lo stesso Alessandro Di Battista a raccontare agli elettori e sostenitori del Movimento 5 Stelle su Facebook che lui sapeva che il padre aveva un lavoratore in nero nella sua impresa di famiglia, la Di.Bi.Tec. “Mi sono incazzato a morte perché i lavoratori si mettono in regola e perché adesso sono tornato a dare una mano al Movimento e a noi fanno le pulci su tutto”, ha detto Di Battista, che ha raccontato come il padre glielo avesse confessato “ e che non se la fosse sentita di chiedergli una mano per risolvere quella situazione”. La decisione della diretta social è arrivata dopo la telefonata del padre ieri mattina: “Mi ha detto che Filippo Roma gli ha chiesto: ‘Ma lei ha o ha avuto un lavoratore in nero?’. Mio padre gli ha detto sì”. Come emerge da una nota del programma televisivo, la risposta di Vittorio Di Battista alla domanda è :”Per quattro o cinque ore alla settimana, pensa che scoop…”. La “Iena” chiede poi a Vittorio Di Battista se giustifica il lavoro nero e lui risponde: “In certi aspetti sì, in Italia è diffuso in maniera totale. Per contrastarlo si deve colpire la situazione che impedisce a tanta gente di assumere regolarmente perché costa un sacco di soldi”.

Tutti in lista col Sì: la madamina si fa il simbolo

Marcello Marchesi scriveva nel suo Diario futile: “Sono un signore di mezza età. L’altra mezza non si sa. Il numero degli anni non ha importanza. Matusalemme a quattrocento anni era un signore di mezza età”. Così a quasi 71 anni Sergio Chiamparino, ex Pci e poi Pd, ex presidente della Compagnia di San Paolo e attuale governatore della Regione Piemonte, sta per ridiscendere in campo alle regionali con una lista civica miscelata sul Sì Tav. E Bartolomeo “Mino” Giachino, già democristiano e berlusconiano, che viaggia verso le 74 primavere, annuncia che si presenterà alle prossime elezioni con un lista ispirata dal suo movimento “Sì lavoro Sì Tav”. A bruciare sul tempo tutti, comunque, è stata Patrizia Ghiazza, una delle sette madamine torinesi pro-Tav di rigorosa mezza età. Ha depositato il simbolo arancione “L’Onda”, che può preludere a una lista elettorale. La mossa della signora, di professione cacciatrice di teste, ha spiazzato le altre pasionarie del “Comitato Sì Torino va avanti”, che hanno subito replicato: “Il Comitato rispetta l’iniziativa che Patrizia Ghiazza ha preso a titolo personale. Proseguiremo nel nostro impegno civile e apartitico a sostegno dei temi e delle iniziative che riguardano i cittadini come noi”.

In ogni caso, madama Ghiazza ha anticipato non solo Chiamparino e Giachino, ma pure la Lega e Forza Italia, che vogliono spendere la carta elettorale del Tav. La Ghiazza orbiterà nel centrodestra? Forse. Oppure no, chissà. Marcello Marchesi diceva: “Signori truccati da operai, operai truccati da ceto medio, ceto medio truccato da signori. Come si fa a capire?”.

Qui non c’è niente da capire. Attraverso il pretesto di un vecchio progetto, il Tav, alcuni vecchi signori e alcune signore di mezza età faranno da lepre per interessi e gruppi di potere assai vetusti. Gente che, come Marchesi, magari pensa: “E se i giovani fossero tutti fessi? Può capitare ogni tanto una generazione di fessi”.

I signori e le signore di mezza età del Tav non si sentono fessi. Anzi. Pertanto “Mino” Giachino, una vita consumata da Carlo Donat-Cattin a Silvio Berlusconi e a Gianni Letta, può dichiarare che con le due manifestazioni Si Tav di Torino “abbiamo fatto crescere del 20% il consenso popolare alla Tav. Certo occorrerà tradurre il consenso popolare nel voto affinché la prossima Giunta Regionale sia decisiva, non come negli ultimi anni”. Il riferimento è a Chiamparino, che, in effetti, avrebbe potuto essere più decisivo in materia Tav, soprattutto quando al governo non c’erano i 5 Stelle. Ma Chiamparino si presenterà al voto proprio in nome del Tav, per cui, stando a Giachino, ha fatto poco o nulla. La Torino-Lione, insomma, è un pretesto per mascherare un presunto nuovo inizio, vecchio invece come Matusalemme: quella vecchia politica dei Palazzi, dei vecchi inciuci, dei vecchi interessi di caste e di consorterie, di vecchie vanità e di ambizioni. Però, attenzione: in una pagina di I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello si legge: “Che ci fosse roba per tutti, intanto, era soverchia presunzione”.