Tav, guerra finale della Lega a colpi di (vecchi) numeri

Non resta che la guerra finale: la Lega ha capito che non riuscirà a ottenere alcun compromesso dal Movimento Cinque Stelle sull’Alta velocità Torino Lione. E così prepara le munizioni per contestare l’analisi costi e benefici (pare molto negativa) della commissione di esperti al ministero dei Trasporti appena il ministro Danilo Toninelli la pubblicherà a febbraio.

Per qualche giorno i leghisti avevano coltivato l’ipotesi di un “mini Tav” al posto di quello in costruzione. Ma poiché non era affatto mini – restava il tunnel principale e si risparmiavano soltanto 1,7 miliardi, a fronte di riduzioni consistenti anche dei benefici – e poiché i Cinque Stelle e i movimenti no Tav non hanno lasciato margini, la Lega ora prepara l’ultima trincea. Ai giornali di ieri i leghisti hanno fatto filtrare di avere pronta una contro-analisi costi-benefici che sarebbe favorevole al Tav. Possibile che in pochi giorni Salvini e soci abbiano fatto lo stesso lavoro che ha richiesto mesi al professor Marco Ponti e agli altri esperti riuniti da Toninelli?

Come spiega un importante leghista di governo, “non c’è un vero studio alternativo, ma stiamo raccogliendo documenti e dati per essere pronti quando l’analisi costi-benefici di Toninelli sarà pubblicata, per esempio abbiamo recuperato i dati dell’Osservatorio di palazzo Chigi sul Tav”. È il solito organismo guidato dall’ingegner Paolo Foietta che in questi anni ha alimentato tutto il fronte pro-Tav. Ma Ponti e gli altri esperti hanno cercato di prevenire le critiche e hanno basato la loro analisi costi-benefici proprio sui dati e le previsioni di traffico merci dell’Osservatorio, in modo che nessuno potesse contestare i numeri dello studio.

Tra Francia e Italia passano circa 42 milioni di tonnellate di merci ogni anno, solo 3,9 milioni via treno, in declino rispetto a 20 anni fa. Finora per il Tav Torino-Lione sono stati spesi circa 1,4 miliardi: ne mancano altri 10. Andare avanti costerebbe all’Italia almeno 3 miliardi (il 35% del tunnel di base, 8,6 miliardi secondo il costruttore Telt) più i due per il collegamento finale da parte italiana. Dopo aver vagheggiato per anni miracolosi benefici – sempre più difficili da sostenere visto che il traffico merci e passeggeri con la Francia è stagnante – la Lega si prepara a contestare la stima dei costi effettivi dello stop ai lavori.

Nello scarno dossier leghista c’è anche un articolo di due economisti della Bocconi appena uscito su Lavoce.info, sito che in passato ospitava gli articoli di Ponti e del suo braccio destro Francesco Ramella molto critici sul Tav. Oggi invece Massimo Tavoni e Marco Percoco (Politecnico di Milano e Bocconi) attaccano frontalmente il lavoro di Ponti e sostengono: “Le analisi costi-benefici sono difficili da fare e non è sorprendente avere casi di risultati discordanti, ma vista la rilevanza pubblica e l’acceso dibattito anche in seno al governo è utile un ulteriore approfondimento”.

Tavoni e Percoco sollevano un argomento che la Lega è già pronta a usare: quando le merci si spostano dalla strada (tir) alla ferrovia, lo Stato perde gettito fiscale dalle accise sui carburanti, ma – dicono Tavoni e Percoco – è sbagliato includere questo mancato introito tra i costi dell’opera perché le accise sono molto superiori al danno ambientale che devono compensare (l’inquinamento) e quindi sono solo tasse che non c’entrano con l’analisi costi-benefici dell’opera. Applicando questa correzione all’analisi sul Terzo Valico di Genova – bocciato dalla commissione Ponti ma promosso dal governo – i costi scendono di 900 milioni e l’analisi diventa positiva.

Ma Ponti e soci hanno prevenuto l’obiezione e nel loro studio hanno considerato il fatto che il danno per lo Stato da mancato gettito è un beneficio per i contribuenti, che pagano meno tasse, quindi i due effetti si elidono e l’obiezione di Tavoni e Percoco non è rilevante. Ma la battaglia finale dei numeri è appena cominciata.

Sorbillo, anche la bomba è l’anima del commercio

La bomba esplosa davanti alla mitica pizzeria di Gino Sorbillo è un fatto grave, che ha giustamente smosso procure, stampa e solidarietà. Tuttavia, proprio perché la camorra è una cosa seria e le parole lo sono altrettanto, c’è una serie di passaggi nella narrazione di questa vicenda che mi lasciano molto perplessa e che hanno a che fare col modo in cui lo stesso Sorbillo e la stampa hanno raccontato il tutto. Partiamo dalla questione “bomba”. Si è letto ovunque “Bomba esplode davanti alla pizzeria Sorbillo”, “Bomba devasta”, “Bomba distrugge”. Lo stesso Sorbillo dice “bomba” e “ordigno esplosivo”, parla di danni per migliaia di euro, esibisce a favore di flash il cartello “Chiuso per bomba” a poche ore dall’accaduto (cartello scritto mentre le telecamere lo riprendevano) e afferma che il boato ha svegliato “tutto il centro storico di Napoli”. La bomba era in verità una bomba carta, un qualcosa di un po’ più grosso e potente di un petardo. Questo non rende meno grave il messaggio, ma di sicuro gli effetti. Tant’è che i danni sono stati contenuti. Il locale non è stato né distrutto né devastato. È stata danneggiata una saracinesca e poco più. Il vigilante che era all’interno, vicinissimo alla porta (come si vede in uno dei video diffusi), non si è fatto neppure un graffio. Il cartello “chiuso per bomba, riapriremo presto” esibito in foto da Sorbillo poi, è quantomeno ambiguo. Il locale era già chiuso da giorni per ristrutturazione, quindi non è vero che la causa della chiusura, quel 16 gennaio, sia stata la bomba. E non si capisce perché lanciare questo messaggio, visto che avrebbe riaperto presto e a fine lavori, come poi è stato.

L’INCENDIO. Passiamo alla parte più antipatica della storia. La notte stessa dello scoppio della bomba carta Sorbillo si precipita su Facebook e scrive: “Cinque anni fa mi hanno incendiato la pizzeria e ora anche la bomba!”. Poi ribadisce il concetto in varie interviste tv e stampa: “Cinque anni fa qui nella stessa sede hanno appiccato un incendio. Non è il primo atto che ci fanno, denunceremo”. “Come cinque anni fa trovai la forza per ricominciare”. “Un’ulteriore aggressione dopo quella di 5 anni fa che distrusse la pizzeria, da allora ho preso precauzioni”. Quasi tutti i giornalisti, a quel punto, nei vari articoli sulla bomba carta rievocano quell’incendio.

Ma andando a cercare notizie sull’incendio avvenuto nell’aprile del 2012 che effettivamente danneggiò i locali della pizzeria, la verità sembra un’altra, e cioè che si sia trattato di un corto circuito. Sia la polizia scientifica che i vigili del fuoco arrivarono alla medesima conclusione: incendio non doloso. Fonti vicine alla procura sostengono che quell’incendio non fu seguito neppure da una denuncia di Sorbillo, al massimo potrebbe esserci stata una relazione di servizio dei vigili del fuoco. Quindi no, sebbene anche ai tempi vi fosse stata la solidarietà della città, del sindaco De Magistris, del solito consigliere Borrelli che rilancia qualsiasi notizia riguardi Sorbillo e che disse “Non si sa ancora di che natura sia stato l’incendio, noi riteniamo che questo episodio non sia casuale e invitiamo le autorità preposte ad indagare”, nonostante si fosse parlato di camorra, no, l’incendio non fu colpa della camorra, ma di un quadro elettrico difettoso. Perché, quindi, Sorbillo continua a dire che la bomba è la seconda intimidazione ai suoi danni della camorra? Non è così, e sostenerlo senza prove (anzi con prove che lo smentiscono) non è un favore alla legalità, ma a chi dice che stia cavalcando questa vicenda (e sono tanti, basta spulciare il suo Instagram) per farsi pubblicità. A voler essere precisi, anche nel locale milanese di Sorbillo “Lievito Madre” nel 2016 vi fu un incendio in piena notte ma anche in quel caso, come accertarono i figli del fuoco, non fu doloso. Non accadde a Napoli però, e non ci si azzardò a scomodare la camorra.

LE VERSIONI.Poi ci sono le dichiarazioni di Sorbillo sui mandanti , che subiscono vari aggiustamenti nei giorni. Prima dice che è stata la tifoseria organizzata, poi quelli che non hanno gradito la sua pizza contro il razzismo e in favore di Koulibaly, poi dice che la camorra vuole far vedere ai commercianti del quartiere chi comanda, poi che potrebbe essere una guerra tra bande, poi che hanno colpito lui perché lui è il simbolo della rinascita e della legalità a Napoli e lui è un ex carabiniere, queste cose le sa. Però specifica che nessuno gli ha mai chiesto il pizzo e nessuno l’ha mai minacciato. Una leggera confusione.

Qualcuno comincia a storcere il naso e lo accusa di utilizzare toni troppo enfatici, per cui Sorbillo risponde ai detrattori “Se a Napoli ti mettono una bomba e lo denunci intensamente vuoi farti pubblicità”. Nel frattempo Sorbillo continua a postare sui social foto di se stesso col cartello “Aperti dopo la bomba”, a lanciare iniziative come la pizza gratis per tutti (nei mesi scorsi aveva lanciato sui social la pizza Fedez, la pizza No razzismo, la pizza Pino Daniele, la pizza No ai botti e così via, a seconda dell’evento del giorno). Racconta le telefonate che gli hanno fatto Cracco e Oldani, va ovunque in tv, riempie la pagina Fb delle sue apparizioni e interviste. Posta le scene girate dalla videosorveglianza quella notte chiedendo di condividerle. Ma soprattutto, fa quello che ha lasciato perplesse parecchie persone, me compresa. Matteo Salvini va ad Afragola e Sorbillo, a due giorni dalla bomba carta, va in aeroporto a stringere la mano a Salvini. Cioè, non è Salvini che va nella sua pizzeria a portare solidarietà, ma è Sorbillo che va da lui. Il tutto con fotografo che immortala la scena mentre Salvini vestito da poliziotto stringe la mano a Sorbillo col camice da pizzaiolo, come se Sorbillo girasse per strada sempre così, certo, del resto mica è un manager, è un pizzaiolo. E l’altro mica è un ministro, è un semplice poliziotto. Un’immagine che racconta la perfetta, simile strategia di due uomini di comunicazione. Va aggiunto il particolare che Sorbillo è quello che anni fa, cavalcando un altro momento storico, si fece ritrarre davanti alla sua pizzeria con il cartello “Dopo gli insulti ai napoletani, in questo locale non sono graditi i leghisti”. Dopo qualche anno va a stringere la mano al ministro che cantava “Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani”.

Insomma, Pizzaman (così decide modestamente di definirsi nella sua autobiografia del 2017 Gino Sorbillo) è di sicuro vittima della camorra ma anche di un egocentrismo che rischia di offuscare – ed è un peccato – il messaggio positivo che il suo successo e la sua promozione della legalità lanciano in tutto il mondo. Nel frattempo, la procura continua a indagare e per ora la pista più accreditata è quella legata alla faida tra i clan Mazzarella-Sibillo. Si spera che Gino Sorbillo ci aggiorni al più presto sulle indagini. Senza ambiguità e ricami però, perché poi, il paradosso per un piazzaiolo, può diventare quello di trasformare un evento serio in un evento serio che galleggia in qualche mezza bufala.

Dall’autista del bus insulti razzisti a una passeggera straniera

Parole offensive, insulti razzisti e bestemmie nei confronti di una passeggera straniera e il video registrato da un cellulare diventa virale. Il protagonista è un autista di un bus di Padova che indirizza a una passeggera straniera, che sembra essersi lamentata della velocità eccessiva del mezzo, una serie di improperi: “Andate a casa vostra, qui c’è gente che lavora (….) stai zitta te deficiente”. E ancora: “Non sono razzista. Io ne ho i c… pieni di voi, andate a casa vostra, cosa venite a fare qua a rompere i c… Silenzio! Basta rompere i c… alla gente che lavora! Stai zitta!”. Insomma oltre un minuto di insulti e offese dell’autista, che frattanto continua a guidare il bus tra le strade di Padova mentre c’è chi riprende con i cellulari e una passeggera chiede di moderare le parole perché ci sono dei bambini a bordo. Il video dell’increscioso episodio, che risalirebbe a qualche tempo fa, è diventato virale sui social, tanto che Busitalia, l’azienda dei trasporti che gestisce gli autobus a Padova, ha acquisito le immagini per risalire all’identità del conducente, annunciando seri provvedimenti nei suoi confronti, e invitando chiunque abbia informazioni a riferirle. Il sindaco di Padova, Sergio Giordani: “L’autista va licenziato”.

Il quadro trafugato dai nazisti. Merkel: “L’opera torni agli Uffizi”

Il dipinto “Vaso di fiori” del pittore olandese Jan van Huysum tornerà in Italia dalla Germania. Lo ha detto ieri il governo tedesco spiegando che l’opera appartiene agli Uffizi di Firenze. “È certamente chiaro che il dipinto appartiene alla collezione degli Uffizi. Nell’ambito delle sue responsabilità il Governo federale sostiene il raggiungimento di questo obiettivo”. Così il governo di Angela Merkel, tramite il ministro Michael Roth, ha risposto al parlamentare italo-tedesco del Bundestag Fabio De Masi, deputato del gruppo della Linke (La sinistra), autore di una interrogazione sul trafugamento nazista del quadro del pittore olandese dalla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, portato da un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale. “In questo contesto il Ministero degli Esteri ha ripetutamente consigliato di restituire volontariamente il dipinto agli Uffizi – ha aggiunto il ministro tedesco – . È responsabilità dell’autorità giudiziaria dei Lander esaminare l’ammissibilità del sequestro di un bene da parte di un’altra autorità giudiziaria di uno stato membro dell’Unione Europea in un procedimento penale ivi condotto. Il Governo federale non può fare alcuna valutazione ed esercitare alcuna influenza”. “Sono doppiamente soddisfatto per questi sviluppi politici – ha commentato ieri il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt – da un lato perché il fatto che la vicenda del Vaso di Fiori sia stata posta al centro di un’inchiesta parlamentare testimonia quanto anche il popolo tedesco abbia a cuore che la restituzione possa andare a buon fine. Dall’altro, perché il governo riconosce ufficialmente ciò che noi sosteniamo da tempo: e cioè che la casa legittima del capolavoro di van Huysum è a Firenze, in Palazzo Pitti”.

Il sindaco del centrodestra ricorderà la Shoah nel giorno delle Foibe: proteste Anpi e Cgil

Un’unica data per ricordare le vittime della Shoah e quelle delle Foibe. L’idea è venuta al sindaco di Siena Luigi De Mossi che governa la città dallo scorso giugno dopo settant’anni di governi rossi. L’amministrazione comunale di centrodestra ha deciso, proprio alla vigilia della Giornata della memoria dedicata all’Olocausto degli ebrei, di ricordare tutte le vittime in un’unica cerimonia che si terrà il prossimo 10 febbraio, detto anche “Giorno del Ricordo” delle vittime delle Foibe. Oggi, contrariamente agli anni passati in cui storici e testimoni erano stati invitati ad eventi a Palazzo Pubblico, non è prevista alcuna iniziativa istituzionale in ricordo delle vittime dei nazisti anche se venerdì sono state poste due targhe sulla facciata di una scuola in ricordo di due sorelle ebree, Graziella e Marcella Nissim, deportate ad Auschwitz nel 1943.

L’idea di unire le due giornate ha fatto esplodere la polemica: “Ci meraviglia che il Comune si faccia promotore di una iniziativa che pone sullo stesso piano la più grande tragedia del Novecento con un evento, seppur tragico, di proporzioni assolutamente non paragonabili – scrivono Cgil, Anpi, Istituto Storico della Resistenza e Nonunadimeno –. La Shoah è stata il punto più basso che l’essere umano abbia potuto toccare, è stata l’aberrazione dell’uomo sull’uomo, è stata l’idea di annientamento sistematico del popolo ebraico. Le foibe, senza sottovalutare il valore di una singola vita, furono conseguenza di conflitti politici ed etnici, un conflitto regionale, diremmo oggi”. Anche il rabbino di Siena, Crescenzio Piattelli, ricorda che la Shoah e le Foibe “sono cose molto diverse” mentre il sindaco De Mossi tiene la linea: “I due eventi non sono così distanti – dice – si parla di persone che hanno dovuto subire mostruosità e fare classifiche è assurdo, i morti sono morti, il dolore è lo stesso dolore. Non facciamone una questione ideologica”.

Ultrà, neofascisti e il poliziotto spione, in carcere i rapinatori della “banda delle parrucche”

Otto rapine in nove mesi. E una storia personale che s’intreccia fra il mondo ultras romano e l’estremismo di destra. Erano già in carcere i componenti della “banda delle parrucche”, che per tutto il 2017 hanno seminato il panico a Roma e dintorni. Li avevano presi proprio il 7 novembre di quell’anno, colti in flagrante fuori dalla Banca di Credito Cooperativo di Palestrina, a pochi chilometri dalla Capitale. Ieri il gip Bernadette Nicotra ha emesso una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere in cui si afferma che quelle rapine precedenti, a colpi di coltelli di ceramica, le avevano commesse sempre loro. A capo della banda secondo gli investigatori c’era Franco Oddo, detto lo “Zio”, ultras laziale. E con lui, secondo le accuse, c’era anche l’amico Corrado Ovidi, ultras romanista (nel 1998 fu assolto nel processo che lo vedeva imputato per i gravi incidenti di Brescia-Roma di quattro anni prima). I due erano assidui frequentatori fra gli anni 80 e 90 del Movimento Politico Occidentale di via Domodossola a San Giovanni. Corrado, fra l’altro, ha altre due sorelle, fra cui Tatiana, compagna del leader di Forza Nuova a Roma, Giuliano Castellino. Oddo e Ovidi in quegli anni erano parte integrante della cosiddetta “banda del Kapplerino” – dal soprannome di Elio Di Scala, morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine – sgominata nel 2003 e in cui già all’epoca ritornavano gli intrecci fra estrema destra e curve. Al loro fianco, allora come oggi, Massimo Mariani, altro nome molto noto fra i movimenti neo-fascisti romani, fuggito all’estero ed estradato nel 2011 proprio per i fatti di fine anni 90.

I rapinatori, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si avvalevano di un ex poliziotto, Stefano Cangelosi, che intercettava la radio della polizia ed era in grado di informare in tempo reale i sodali degli spostamenti delle forze dell’ordine. Un meccanismo perfetto che funzionava come un orologio. Oddo poi, secondo i pm, si occupava di ‘riciclare’ il malloppo attraverso operazioni fittizie.

Figli di coppie omo, il Campidoglio è fermo. Le Famiglie Arcobaleno: “Raggi ci incontri”

Mentre Chiara Appendino da Torino guida i sindaci che, pur in assenza di leggi che lo prevedano esplicitamente, iscrivono all’anagrafe i figli di due padri e di due madri, la sua collega a Cinque Stelle Virginia Raggi a Roma tiene le bocce ferme. “Siamo in attesa di un parere dell’Avvocatura di Stato”, spiegano in Campidoglio. Dopo Milano, che riconosce le coppie lesbiche ma non quelle gay come abbiamo raccontato sul Fatto, anche nella Capitale l’avanzata dei diritti delle famiglie omogenitoriali deve fermarsi. Lo denuncia Alessia Crocini, madre insieme alla sua ex compagna Chiara di Levon e coordinatrice per il Lazio dell’associazione Famiglie Arcobaleno: “Siamo l’unica grande città in Italia dove il Comune non riconosce in nessun modo l’omogenitorialità, visto che a Milano le madri sono riconosciute e c’è un’apertura anche nei confronti dei padri, per non dire di Bologna, Torino, Napoli, Firenze, Palermo. Per me significa dover viaggiare con quattro documenti in borsa, fotocopie e manleve, sperando che non succeda niente a mio figlio perché per lo Stato italiano, nei suoi confronti, io non esisto”.

Roma è una delle città dove gli iscritti alle Famiglie Arcobaleno sono più numerosi: si contano circa 100 bambini e bambine figli di due madri o due padri. Qui il Tribunale dei minori, quando era presidente Melita Cavallo, si è mosso prima degli altri per fornire alle famiglie una minima copertura attraverso l’adozione del figlio del partner, la cosiddetta stepchild adoption. In Comune, però, è tutto fermo: “Dopo un primo riconoscimento di due padri deciso ad aprile dagli uffici senza che la sindaca fosse intervenuta, trascrizioni e annotazioni sono ferme – racconta la presidente dell’associazione -. In seguito abbiamo saputo che il responsabile di quell’atto ha cambiato incarico e mansione. Non abbiamo mai avuto risposte alle nostre proposte di incontro con la sindaca. Passare attraverso le stepchild è un percorso lungo e oneroso e che non garantisce pieni diritti, inoltre pensiamo ci sia anche una questione politica: ci aspettiamo una risposta da Raggi. Chiediamo per i nostri figli gli stessi diritti di tutti i bambini”.

A maggio scorso, dopo l’unica trascrizione deliberata dal Comune e su cui la Procura ha presentato ricorso, Famiglie Arcobaleno e Rete Lenford hanno spedito alla sindaca un parere legale a favore del riconoscimento. In seguito i tribunali di diverse città – tra cui Milano – hanno indicato il riconoscimento come legittimo, ma a Roma non è cambiato nulla, mentre il via libera a trascrizioni e annotazioni è arrivato anche, per rimanere nella città metropolitana, da Fiumicino e Cerveteri. Il Campidoglio ha chiesto un parere al ministero dell’Interno che ha interpellato l’Avvocatura di Stato. Si attende la risposta. Intanto l’assessore alle Politiche sociali Laura Baldassarre incontrerà Famiglie Arcobaleno. “Per noi genitori separati – spiega Alessia Crocini al Fatto – è doppiamente difficile. Io con Chiara ho un ottimo rapporto e nostro figlio è come se godesse di un affido condiviso, ma solo perché lo abbiamo deciso noi. Poniamo che il bambino, mentre è con me, abbia necessità di un intervento chirurgico urgente per cui serve l’autorizzazione del genitore. Se Chiara non fosse raggiungibile, dovrebbe decidere un giudice minorile”.

“Messina Denaro non più operativo, sua cattura a breve”

Le parole suonano quasi come un annuncio. E le parole sono quelle del capo della Direzione investigativa antimafia Giuseppe Governale. “Matteo Messina Denaro sarà arrestato – ha spiegato ieri Governale -, non sappiamo quando ma quel momento arriverà. Hanno costruito un mito, è formalmente il reggente della cosca di Trapani, ma non ha alcuna valenza operativa”. Attorno alla Primula rossa di Castelvetrano il cerchio si stringe sempre di più. Non si contano ormai più le operazioni che portano in carcere suoi fiancheggiatori o tesorieri. Sempre Governale, ieri, intervenendo alla cerimonia per la consegna del premio di giornalismo “Mario e Giuseppe Francese”, nel quarantennale dell’omicidio mafioso del cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia, avvenuto a Palermo il 26 gennaio 1979, ha spiegato che “per la sua cattura è al lavoro giorno e notte una task force straordinaria che ha un solo obiettivo, prenderlo”. Anche il questore di palermo Renato Cortese conferma la “non operatività” di Messina Denaro che da anni ormai non paga più i suoi avvocati per assisterlo nei diversi processi dove è imputato.

Il Comitato Unesco può essere utile

Caro direttore, l’intervista, sempre simpatica e ironica, di Pupi Avati che, pur essendo ben vivo, stava per essere sostituito da Lino Banfi nel Comitato Italiano dell’Unesco presieduto da Franco Bernabè contiene molte osservazioni interessanti e una notizia purtroppo molto negativa. “Non ci riuniamo mai”, confida l’ottimo regista bolognese. E questo è grave coi tanti problemi che bollono nel pentolone del Belpaese dove gli interventi dell’Unesco vengono richiesti da più parti restando malauguratamente inascoltati.

Ho fatto parte anch’io, anni fa, del Comitato Italiano dell’Unesco, ai tempi in cui ne era ancora presidente l’ex parlamentare Tullia Carrettoni, figlia del grande grecista Romagnoli, intellettuale molto fine anch’essa, sempre in battaglia per i diritti laici della donna e per l’integrità del patrimonio culturale.

Devo dire che purtroppo non si combinava molto nonostante l’impegno, i finanziamenti, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’organizzazione, erano del tutto insufficienti, mentre la burocratizzazione dell’organismo centrale era ormai una gabbia. Però l’impegno c’era, le riunioni erano frequenti, ci si provava studiare e a definire progetti. Ricordo che col regista Maurizio Scaparro, autore di una utilissima pubblicazione sui teatri greci e romani del Mediterraneo, avevamo progettato uno studio sui momenti di storia nei quali arabi ed ebrei avevano convissuto in forma pacifica. Per esempio, con rari esempi di intolleranza, durante i cent’anni di dominazione araba della Sicilia.

L’intervento dell’Unesco fu importante se non decisivo per la lottizzazione di Monticchiello in Comune di Pienza, denunciata anzitutto da Alberto Asor Rosa. L’architetto Francesco Bandarin riuscì a far bloccare nuovi sviluppi di quella più che mediocre lottizzazione la quale sfigurava il paesaggio sotto Pienza (nientemeno) suggerendo forme, se non altro, di camouflage e bloccando col ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli (intervenuto al convegno di Monticchiello) altri sviluppi edilizi. Purtroppo non è accaduto altrettanto, l’anno scorso, col centro storico di Roma nonostante l’unanime protesta di Comitati e Associazioni contro il degrado continuo della più bella e vasta città antica del mondo con lo slogan “Non ne possiamo più” di questo e di quest’altro sfregio. Da piazza di Firenze, sede del Comitato Italiano dell’Unesco, nessuna risposta. Lo stesso per il maxi-parcheggio che si sta realizzando sotto e quasi dentro le mura di una delle più straordinarie città d’Italia: Bergamo.

A Pupi Avati direi però: chiedete di venire riuniti, chiedete di sapere perché il Comitato Italiano dell’Unesco non si riunisce e quindi non risponde alle sollecitazioni accorate (e documentate) di comitati, associazioni, gruppi di cittadini che si battono soltanto per l’interesse generale sancito dall’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico del Paese”.

Il vostro ruolo, Banfi o non Banfi (certo, al posto di Folco Quilici che tanto ci ha insegnato sulla terra e sul mare d’Italia, e non solo…), è quello di concorrere a farlo rispettare e applicare. Cordialmente

*Comitato per la Bellezza

Lele Mora, il broker dei boss e gli affari in Montenapoleone

Dal campo nomadi a via Montenapoleone. Due estremi di Milano. A tenerli insieme una strana vicenda che ci conduce dietro le quinte della movida meneghina. Dove attorno ai tavoli compaiono personaggi legati ai boss, broker in bilico tra affari e prostituzione, ras da stadio che dalla curva del Milan si infilano in gineprai societari, locali stranoti, riviste patinate. È la Milano by night. Riprendiamo. Le 14,30 del 31 maggio scorso, in via della Chiesa Rossa all’angolo con via Calzolari c’è un distributore abbandonato, più in là il campo nomadi. Vicino al distributore, accanto a un Suv nero Lele Mora, l’ex agente dei vip e ed ex capo scuderia delle olgettine, è preoccupato. Non lontano un uomo è appena sceso da una Smart. È Michele Cilla nato in Germania nel 1970. Urla al telefono: “Ho bisogno di due sbarbati con il motorino e accavallati (armati, ndr)”. Cilla ha appena perso circa 40 mila euro. Avrebbe dovuto comprare uno stock di bottiglie di champagne. Mora e un tale Fabrizio erano incaricati dell’acquisito. Sono stati rapinati dentro al campo. Soldi spariti. Mora non denuncia e a verbale mesi dopo dirà di conoscere Cilla da vent’anni. Tra loro negli ultimi 24 mesi vengono censiti 600 contatti telefonici. La storia si chiude con un’accusa di estorsione per Cilla e altri due. Mora che non ha denunciato appare come vittima. A dicembre gli arresti.

Cilla poi è ragazzo intraprendente. Ama la bella vita e i locali. Un mondo che gli regalerà gloria e galera (mai condanne per mafia). Molti dei locali, negli anni, secondo i pm, li ha gestiti per conto di Guglielmo Fidanzati, boss di Cosa nostra, figlio di don Tanino, già capo del mandamento dell’Arenella, morto nel 2013. Insomma Cilla si fa un nome nella malavita che conta. Finisce in un’altra inchiesta. Sul tavolo sempre il nome dei Fidanzati e un bel po’ di riciclaggio. Tanti i capi d’imputazione. Uno almeno condiviso con Giancarlo Lombardi detto Sandokan, oggi capo della curva Sud del Milan. Capo dietro le quinte perché sulle gradinate comanda Luca Lucci, una condanna per droga appena patteggiata, un’altra per aver picchiato un tifoso dell’Inter e poi quella foto con il ministro dell’Interno Matteo Salvini durante la festa per i 50 anni della Sud. Milanista è anche Riccardo Spada, classe ’88, arrestato a dicembre con Cilla. Nel 2017 Spada entra come amministratore nella Golden night Srl. Con lui altri due, non indagati: Luca Paleari e il macedone Goranco Anakiev, detto Goran. Entrambi legati a Cilla.

È la Milano by night. Nessuno dei protagonisti che seguiranno è però coinvolto nell’indagine dello champagne. Luca Paleari, molto amico di Cilla e già vicino all’entourage di Mora, è amministratore unico della International Company. La società, con una procedura di fallimento in atto dal 4 gennaio, ha gestito uno dei locali più noti della città, la Drogheria Parini, aperta nel 1915. Il locale si trova in via Borgospesso all’angolo con via Montenapoleone e occupa gli spazi che uno tempo ospitavano le celle dei frati minimi della chiesa di San Francesco di Paola in via Manzoni. I locali sono ancora della Curia. Qui Cilla ha lavorato. Il manager del locale è Goran, il quale negli anni, pur mai indagato, ha gestito locali passati per le mani di Cilla. Socio di maggioranza dell’International è Giancarlo Maria Esposito, incensurato e non indagato, il quale condivide quote con Giancarlo Lombardi e Luca Lucci nella Kobayashi di viale Abruzzi, società che si occupa di locali. Amministratore unico della società è Giovanni Carlo Capelli detto il Barone, altro volto noto della curva rossonera. Lucci, Lombardi e Capelli di questa storia sono però solamente protagonisti e non indagati. Lombardi poi nel 2018 si getta nell’editoria. Con Paleari edita il settimanale scandalistico Sono, acquistando i diritti dalla Di.Co. Primo direttore è Guido Veneziani, ex socio del l’Unità e coinvolto (ma ancora non condannato) nel fallimento di Roto Alba, già centro stampa per le Edizioni Paoline.

Torniamo a dicembre. Quando Cilla viene arrestato si trova in prova ai servizi sociali. Otterrà dal Tribunale di sorveglianza di poter rientrare molto tardi a casa. In poco tempo mette insieme un risiko di locali: dal Byblos 69 al Miami all’interno dell’Acquatica. L’ex direttore del Byblos è oggi un “omissis” sopra a un decreto di perquisizione per una delicata indagine su un giro di prostituzione in hotel di lusso. Fu lui a maggio a far sapere a Cilla dell’affaire champagne. L’ultima tessera del mosaico di Cilla doveva essere uno storico locale di Brera, la cui società è in liquidazione. Tessera però mancante. L’arresto e quello champagne rovineranno i piani del broker amico del boss e di Mora.