La ‘ndrangheta può “contare sulla presenza di associati ‘occulti’, di una testa pensante riservata e invisibile, dotata di regole segrete e speciali”. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha spiegato che si tratta di regole che consentono l’ingresso nella struttura riservata “dei soli appartenenti alla massoneria coperta”. Mentre per il procuratore generale Bernardo Petralia serve un vero e proprio “Piano Calabria”, il presidente della Corte d’Appello Luciano Gerardis si è soffermato sulla carenza delle piante organiche negli uffici giudiziari reggini, ma anche sul nuovo palazzo di giustizia, rimasto un cantiere da più di 10 anni. Per il magistrato la “realizzazione ritarda oltre ogni pessimistica previsione”. Le bacchettate Gerardis le ha riservate a chi ha dimenticato cosa siano i diritti umani: “Le cronache ci atterriscono con il racconto di un mondo che sembra aver smarrito persino il senso di umanità. La solidarietà, di cui tratta la nostra Costituzione, appare un optional che può mettersi da parte senza alcuna conseguenza”.
“Logge e ’ndrangheta, oggi è ancora peggio di quando fui espulso”
Amerigo Minnicelli è massone per convinzione laica e per tradizione di famiglia. “Sono discendente – racconta – di Luigi Minnicelli, garibaldino e ufficiale dei Mille. A lui è intestata la loggia numero 972 di Rossano Calabro, di cui sono stato Maestro Venerabile”. Ora non lo è più. Nel 2012 è stato espulso dal Grande Oriente d’Italia (Goi), la più numerosa tra le comunioni massoniche italiane: “Perché ho denunciato che la ’ndrangheta si è infiltrata dentro le logge calabresi”. Ha fatto subito ricorso contro l’espulsione e il suo caso sarà discusso dalla Corte d’appello civile di Catanzaro a novembre, dopo sette anni.
“Non sono per niente stupito dalle dichiarazioni dell’ex Gran Maestro del Goi Giuliano Di Bernardo”, dice ora. Nella sua recente testimonianza al processo di Reggio Calabria sulla ’ndrangheta stragista, Di Bernardo ha raccontato che nel 1993 il suo vice al Grande Oriente, Ettore Loizzo, di Cosenza, gli aveva spiegato che non aveva fatto nulla per impedire le prime infiltrazioni delle cosche calabresi nelle logge: “Avrei messo a rischio la mia vita e quella della mia famiglia. La verità è che 28 su 32 logge calabresi sono controllate dalla ’ndrangheta”.
Minnicelli conferma. “Ho conosciuto il professor Di Bernardo nel 1992 nel corso di un convegno in Calabria. Ci siamo reincontrati lo scorso gennaio quando siamo stati auditi, lui prima di me, dalla Commissione parlamentare antimafia sul rapporto tra ’ndrangheta e massoneria. Le sue affermazioni rese di recente alla Corte d’Appello di Reggio Calabria aggiungono, a quelle già note, altre notizie e confidenze ricevute da Licio Gelli, Ettore Loizzo, Ennio Battelli… Tutti illustri defunti. Da quello che si intuisce, oltre alla pervasività dei malavitosi nelle logge del Goi, già denunciata anche da me in sede giudiziaria, vi sarebbe stata persino una responsabilità, in capo al Grande Oriente, quale cosciente veicolo di propagazione della mafia dalla Calabria e dalla Sicilia verso il Nord”.
Minnicelli ha dubbi sui tempi di questa propagazione: “Non credo che ciò sia avvenuto già prima della Gran Maestranza di Di Bernardo e di quella successiva di Virgilio Gaito, anche se non mi sentirei di escluderlo. Di certo il quindicennio in cui è stato Gran Maestro Gustavo Raffi e ora gli anni di Stefano Bisi sono in perfetta continuità con quel passato. Fino alla fine degli anni Novanta gli iscritti alla massoneria più antica d’Italia erano stabilmente 10 mila circa, mentre dopo Raffi sono quasi triplicati. In Calabria gli iscritti erano circa 600 distribuiti in una trentina di logge. Oggi, a quanto si sa, sono quasi 3 mila in 100 logge. Se le mafie hanno usato la massoneria (e non solo) per espandere i loro metodi al Nord, in campo politico ed economico, ciò è potuto accadere solo dopo la Gran Maestranza di Gaito, che era assai avversa a quegli ambienti malavitosi e collaborativa con la magistratura e con la Commissione parlamentare antimafia (allora presieduta da Tiziana Parenti) alla quale furono spontaneamente consegnati gli elenchi degli iscritti di tutta Italia, e non solo di Calabria e Sicilia, creando un precedente che l’attuale Gran Maestro Bisi ha bellamente ignorato”.
Le infiltrazioni della ’ndrangheta nelle logge ci sono. “Come ampiamente documentato da me e da altri, sono numerosi gli iscritti (calabresi e non solo) che in questi ultimi vent’anni sono finiti sotto inchiesta. Eppure mai nessuno di questi è stato espulso dal Goi e nemmeno processato, come pure vorrebbero le Costituzioni massoniche. La Calabria è diventata determinante per eleggere il Gran Maestro, prima Raffi e poi Bisi. Gli indagati sono tutti rimasti al loro posto, validi portatori di consensi elettorali alla linea tollerante con la malavita. C’è stata perfetta continuità tra Raffi e Bisi, a dispetto delle loro pubbliche dichiarazioni contro la mafia. Nella massoneria oggi prospera un pensiero unico, tanto che l’attuale Gran Maestro Stefano Bisi si appresta al suo secondo mandato, presentandosi come candidato unico alle prossime elezioni del Goi”.
Chi ha protestato è stato cacciato: “I dissidenti sono stati ridotti al silenzio o espulsi. E snobbati anche dagli apparati dello Stato”. Nei giorni scorsi abbiamo saputo che 15 magistrati calabresi sono indagati per corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento mafioso. “È la riprova – conclude Minnicelli – che nella magistratura calabrese ci sono complicità e infiltrazioni”.
La Terza Camera fa bere le altre due
Un’imperdonabile mancanza del servizio “beverage” parlamentare è stata finalmente colmata da qualche giorno. Ne da notizia l’agenzia Adnkronos in un denso lancio in cui racconta lo sbarco di uno dei rossi prodotti in Puglia da Bruno Vespa alla buvette della Camera: “Si tratta del Puglia Rosso Igp, primitivo 100%, annata 2015. Sull’etichetta in primo piano c’è la ‘firma di famiglia’, una ‘V’, con sotto la scritta in nero su sfondo bianco, Il Bruno dei Vespa”. Questo prezioso manufatto è ancora più importante per una sua straordinaria caratteristica: in genere i produttori danno il proprio nome al vino più importante della casa, ma Vespa, spiega la scheda di presentazione, “ha fatto la scelta opposta: ha battezzato il vino di minore costo perché la sua sfida è far accostare il maggior numero di consumatori a un prodotto con un eccellente rapporto qualità-prezzo” (e questo prezzo, da listino, sarebbe 8,90 euro). “Il Bruno dei Vespa” – che non s’arrischia ancora a farsi Brunello, ma tempo al tempo – colma, come si diceva, una lacuna imperdonabile: se il presidente della Terza Camera produce vino, possono le altre due non averne qualche bottiglia? D’altra parte il prezzo è popolare e bisogna “far accostare il maggior numero di consumatori” a questo “eccellente prodotto”: è una questione di cultura enogastronomica, mica di soldi.
Scarpinato contro il dl Salvini: “Criminalizzare non serve”
Contro il decreto targato Salvini il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato ha dedicato un ampio passaggio della sua relazione per l’anno giudiziario. Ricorda che prevede “nove nuove figure di reato, tra cui la sanzione per l’accattonaggio, per cui è previsto l’arresto e la sanzione al parcheggiatore abusivo” con il risultato che gli uffici giudiziari si “ingolfano”. Per il Pg, c’è stato e c’è ancora un uso strumentale del codice penale per creare consenso sociale, “alimentando l’illusione che problemi di tale complessità possano essere risolti mediante la facile scorciatoia di nuove forme di criminalizzazione e inasprimenti sanzionatori”. Tra i vari focus della relazione merita attenzione un dato fornito da Scarpinato, purtroppo non nuovo, sulla cifra irrisoria complessiva che lo Stato incassa dai condannati a pene pecuniarie: “È inferiore al 10%”, conclude Scarpinato, “per circa il 90%” dei casi c’è “un inutile spreco di risorse e di tempo”.
Giuseppe Pignatone: “Qui il vero il problema resta la corruzione”
“Il problema principale di Roma è la corruzione”. Parola del procuratore Giuseppe Pignatone. Per quanto riguarda la criminalità organizzata, ha messo in rilievo che “sentenze importanti hanno riconosciuto il 416 bis”. Offorno strumenti di contrasto “a forme di estrema pericolosità”. Il Pg Giovanni Salvi, ha parlato anche di due casi che hanno scosso l’Italia e non solo: le morti gli omicidi di Giulio Regeni in Egitto e di Stefano Cucchi a Roma. “La procura ha profuso molti sforzi nel tentativo di assicurare alla giustizia i torturatori e assassini di Regeni. Ha sin qui ottenuto, almeno, che non si accettassero verità di comodo”. Quanto alla morte di Cucchi, per cui sono sotto processo alcuni carabinieri, tre accussati di depistaggio, Salvi ha assicurato che si andrà fino in fondo “in ogni grado di giudizio”. Quanto ai dati sui reati, quelli sessuali, “nelle sue varie forme” sono aumentati del “24%”. In calo, invece, gli omicidi volontari: dai 20 del 2015 ai 10 del 2018.
Rifiuti, il procuratore Alfonso: “Dietro ai roghi la regia è unica”
Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso lancia l’allarme sulla questione degli incendi di rifiuti, fenomeno che è “in aumento esponenziale” anche nel Nord Italia. “La portata del fenomeno – ha sottolineato ieri Alfonso nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario – che interessa tutte le regioni settentrionali, lascia ipotizzare la presenza di un’unica regia, la cui individuazione passa attraverso l’avvertito coordinamento investigativo tra le Direzioni distrettuali antimafia del Nord, le Direzioni distrettuali antimafia di Napoli, Salerno, e di quelle della Calabria”. Non una novità, ma più una conferma, soprattutto per la polizia giudiziaria, che da mesi lavora sugli incendi in Lombardia collegati al ciclo dei rifiuti. Nella provincia di Milano, ha spiegato Alfonso, “si assiste all’aumento esponenziale dei segnali indicatori di attività illecite. Nell’ultimo anno numerosi sono stati gli incendi dolosi in danno di impianti formalmente autorizzati e di capannoni dismessi”.
“Basta con gli appelli dilatori e temerari, è una cosa indegna”
Pubblichiamo stralci dell’intervento pronunciato da Piercamillo Davigo, in rappresentanza del Csm, all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Torino.
Il Consiglio superiore della magistratura si è insediato il 25 settembre 2018, ancora nuovissimo, ma la sua attività ha segnato delle discontinuità rispetto alla precedente consiliatura. Il primo dato di difformità riguarda le nomine degli incarichi direttivi e dei semidirettivi degli uffici giudiziari.
Il precedente consiglio, anche in conseguenza dell’abbattimento dell’età pensionabile da 75 a 70 anni, ha proceduto alla nomina di oltre mille direttivi. Si diceva durante la campagna elettorale per il Csm che questo sarebbe stato il consiglio delle conferme e non più il consiglio delle nomine. Purtroppo non è così perché sia per le continue vacanze determinate dall’età o dalle dimissioni, non soltanto ci sono più di cento nomine da effettuare, ma ce ne saranno altre cento.
È intervenuto un atteggiamento più collaborativo nel rispetto delle regole e non nelle ripartizioni dei posti. Se c’era una cosa che io trovavo insopportabile erano le nomine all’unanimità nelle cosiddette nomine a pacchetto che qualche volta nascondevano l’oscuro patto: uno a me, uno a te e uno a lui. Siamo investiti anche dall’ondata di ritorno degli annullamenti da parte del giudice amministrativo di numerose nomine effettuate dal precedente consiglio. Anche qui è cambiata radicalmente la posizione del Csm: anziché cercare di resistere contro la decisione del giudice amministrativo limitandoci a rimotivare le delibere di nomina, riesaminiamo ex novo la pratica tenendo conto delle indicazioni dei Tar e del Consiglio di Stato senza però che questo possa significare l’azzeramento della discrezionalità del Csm. L’attenzione verso le esigenze dei distretti è massima. Per esempio in via d’urgenza è stata pubblicata la copertura delle vacanze del distretto di Genova dopo il luttuoso avvenimento che avrà conseguenze sul carico di lavoro giudiziario rilevantissime.
Vorrei aggiungere che dovremmo fare bene a ricercare con pazienza una collaborazione stretta tra Csm, le singole corti e soprattutto col ministero della Giustizia per evitare che ottime intenzioni possano portare a guasti. Qualunque incremento di organico se non è accompagnato dall’arrivo effettivo dei magistrati ha come conseguenza l’aumento delle scoperture. Forse sarebbe il caso di rimeditare la norma che consente la pubblicazione dei posti vacanti e quelli che si renderanno vacanti nell’anno successivo. (…) Da quando un posto viene bandito a quando un magistrato inizia a esercitare passano quattro anni. Questo significa che abbiamo costantemente una scopertura d’organico. (…) Un’altra nota sulla giurisprudenza disciplinare. (…) C’è stata un’inversione di tendenza perché sono aumentate di molto le assoluzioni per i ritardi nel deposito di provvedimenti. Nella situazione della giustizia italiana a me sembra sia come contestare di avere le scarpe slacciate a chi è sopravvissuto a uno tsunami. Il più delle volte i ritardi nei depositi dei provvedimenti riguardano magistrati che lavorano più degli altri. In compenso c’è stato un particolare rigore nei confronti di comportamenti gravi. (…) Sento parlare di giustizia da quando ho cominciato a indossare la toga. Tutti gli anni si scopre che, salvo piccoli miglioramenti locali, la situazione è sempre la stessa. Addirittura quando c’erano risorse avevamo raddoppiato il numero di magistrati, del personale amministrativo e delle dotazioni finanziarie, ma il contenzioso è triplicato.
Correre dietro a una domanda di giustizia patologica con l’aumento dell’offerta non serve a niente. Ogni incremento di produttività viene immediatamente riassorbito dalla crescita della domanda. Allora è necessario introdurre adeguate deterrenze contro chi agisce o resiste in giudizio sapendo di avere torto. (…) Non possiamo far finta che non esistano impugnazioni dilatorie e qualche volta temerarie. Sono stato per più di 30 anni in Cassazione e il 15% dei ricorsi erano contro sentenze di patteggiamento. È una cosa indegna. In altri Paesi comporterebbe conseguenze gravi per chi propone questo tipo di impugnazioni. E allora, se pur io approvo gli interventi normativi in materia di prescrizione, penso che non possano andare disgiunti dall’introduzione di efficaci rimedi contro la proposizione di impugnazioni dilatorie. Come avviene ad esempio in Francia, dove solo il 40% delle sentenze di condanna viene appellato, mentre in Italia pressoché tutte, per la semplice ragione che in Francia non esiste il divieto di ‘reformatio in peius’.
“Io, talpa pentita della Lega: non mi han dato un lavoro”
Ho perso il lavoro. Sono stato minacciato. E il ministro dell’Interno Matteo Salvini mi ha abbandonato”. Pietro Gallo è l’agente della sicurezza a bordo della Vos Hestia – la nave utilizzata da Save The Children per i soccorsi – che nell’ottobre 2016 fa partire le indagini della procura di Trapani sulle Ong. Le sue dichiarazioni sono state ritenute attendibili. La procura ha indagato 20 persone, tra comandanti delle navi e volontari delle ong Jugend Rettet, Save the Children e Medici senza frontiere. È l’unica inchiesta sulle Ong rimasta in piedi. Le altre sono state archiviate. L’accusa: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La procura ha sempre precisato: gli eventuali reati sono avvenuti esclusivamente per salvare vite umane.
Gallo, lei prima di denunciare alla squadra mobile, il 14 ottobre 2016, ha contattato qualcun altro?
Sì. Inviammo una mail ai servizi segreti, ad Alessandro Di Battista – che non rispose – e chiamammo la segreteria di Matteo Salvini. Io e la mia collega fummo richiamati da Salvini pochi minuti dopo, mentre passeggiavamo sul lungomare di Trapani. Il ministro le disse che ci avrebbe raggiunti anche subito, ma gli spiegammo che stavamo per imbarcarci, così ci diede il numero di un suo collaboratore. Con un accordo: avrei inviato alla mia collega fotografie e informazioni utili che lei, a sua volta, avrebbe girato al collaboratore di Salvini. Così fu.
Cosa chiedevate in cambio?
Nulla. Però, quando la collega incontrò Salvini a Milano con il suo staff, spiegò che rischiavamo di perdere il lavoro, perché ci avrebbero ritenuto delle spie. La collega mi riferì d’essere stata rassicurata: le dissero di non preoccuparsi.
Come ha inteso questa rassicurazione?
Se avessi perso il lavoro, avrei ricevuto un aiuto a trovarne un altro. Infatti l’ho perso. Non ho mai chiesto nulla. Però, ho ricevuto delle minacce, collegate alle mie denunce sulle Ong, e quando l’ho fatto presente allo staff del ministro non ho ricevuto neanche una telefonata di solidarietà.
Che tipo di minacce?
Un proiettile in una busta. E un foglio con su scritto “1800 morti nel Mediterraneo” e accanto il mio nome e quello di Salvini.
Torniamo al 2016: perché informavate lo staff di Salvini di quel che accadeva nel Mediterraneo? E ancor prima di denunciare?
Volevamo che le anomalie che vedevamo nei soccorsi entrassero nel dibattito politico. Supponevo che presentasse delle interrogazioni parlamentari o denunciasse, affinché qualcuno avviasse le indagini.
È quello che fece?
Non mi risulta.
Fu lui a chiedervi di denunciare alla squadra mobile?
No. Fu una nostra iniziativa.
Ma allora a cosa serviva informarlo?
Francamente, a questo punto non lo so.
I suoi telefoni sono stati sequestrati dalla procura di Trapani, i suoi messaggi dalla Vos Hestia sono entrati nel fascicolo d’indagine. Il 22 ottobre, mentre lei è a bordo, la sua collega le scrive: “sarebbe stato utile avere la registrazione di qualcuno di Save the Children che ammette che fanno tutto per pubblicità…”. Che vuol dire?
La collega mi chiedeva di registrare qualcuno di Save the Children che dicesse quelle parole.
Per conto di chi?
Di Salvini o della Lega.
E lei che ha fatto?
Ho registrato qualche conversazione e l’ho girata alla mia collega. Ma non dicevano quel che si aspettavano.
Lei si rende conto che era una sorta di “infiltrato” a bordo per conto della Lega?
Certo.
Perché l’ha fatto?
Mi aspettavo che denunciassero in procura o almeno pubblicamente.
In queste ore Salvini intende denunciare la ong Sea Watch per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: lei ritiene che, con le informazioni che inviavate al suo staff, all’epoca, avrebbe potuto fare lo stesso?
Sì.
Salvini al Fatto, nell’agosto 2018, confermò di aver incontrato personalmente la sua collega, che definì “in gamba e coraggiosa”. E aggiunse: “Ne usai e diffusi anche le informazioni, assolutamente interessanti, purtroppo senza riscontri immediati”.
Posso solo dire questo: in quel momento storico, aveva più informazioni in mano lui, che la procura di Trapani.
Se potesse tornare indietro lo rifarebbe?
La denuncia, sì. Le informazioni per Salvini, no.
Dica la verità: si aspettava qualcosa in cambio ed è rimasto deluso. Non faccia l’anima bella, non le crederebbe nessuno.
Capisco che possa pensarla così. Ma la verità è diversa. Non lo rifarei perché mi sono sentito usato. E perché l’obiettivo raggiunto è l’opposto di quello che speravo.
Cosa sperava?
Che le nostre denunce, dal versante politico, portassero a una regolamentazione del ruolo delle Ong nel Mediterraneo. Non alla loro sparizione dai soccorsi. Salvini ha fatto un uso politico dell’inchiesta di Trapani. Che poi è l’unica vera inchiesta, perché le altre non hanno portato a nulla. Senza di noi non avrebbe costruito la sua campagna elettorale, il suo consenso e persino la politica estera sull’immigrazione. Siamo stati l’innesco di tutto questo. Ma il mio obiettivo non era impedire alle Ong di salvare gente in mare. Anzi.
È importante che la Sea Watch sia nel Mediterraneo?
Certo che è importante: altrimenti questi ultimi 47 naufraghi chi li salvava? Salvini invece ha criminalizzato le Ong e creato il deserto. Quando sento che 170 persone sono morte, perché non c’era nessuno a soccorrerle, io oggi mi sento responsabile. In 8 mesi di navigazione ho contribuito a salvare 14mila persone. So di cosa stiamo parlando. Il mio obiettivo non era questo.
Lei nei suoi mesi a bordo ha assistito a contatti tra Ong e trafficanti?
No. Mai. Noi ci piazzavamo in punti dove di solito erano già avvenuti i recuperi. Ho svelato che i trafficanti accompagnavano i gommoni e davanti a noi li riportavano indietro.
E ha fatto la “spia” per conto della Lega.
Di questo oggi mi vergogno. Profondamente. Anche per l’assenza di solidarietà e gratificazione.
Qualcun altro tra voi ha avuto qualcosa in cambio dalla Lega?
No. So soltanto che qualcuno di noi ha inviato all’epoca in Regione Liguria un curriculum. Ma senza alcun risultato.
Berlusconi e FI fanno i no border: “Fateli scendere”
L’attacco sul caso Sea Watch il governo stavolta lo riceve dal fianco destro. Silvio Berlusconi ai microfoni del Tg2 ha dichiarato: “Si continua a far credere che l’immigrazione sia il primo problema del Paese. Io non vedo francamente che cosa possa svilupparsi con la discesa di 47 altri migranti in una situazione precaria di fronte alla presenza di oltre 600mila clandestini che sono ancora in Italia ”. La svolta ‘pasionaria’ è simboleggiata dalla richiesta di Stefania Prestigiacomo, parlamentare siracusana, di salire a bordo della nave dell’Ong senza esito: “Non è possibile salire a bordo. Di cosa hanno paura?”. Dai principali esponenti di Forza italia parte un fuoco di fila nei confronti dell’esecutivo gialloverde. La deputata Mara Carfagna dice che le parole di Berlusconi “chiariscono la differenza tra noi e loro, l’immigrazione non è il principale problema del Paese” e aggiunge “prima si salvano le vite, poi si analizzano i casi”. All’attacco anche il presidente dei deputati di Fi Mariastella Gelmini: “Ora oltre ai muscoli serve cuore e cervello. Il governo non ha fatto niente sui rimpatri”.
“Il giudizio politico spetta solo al Parlamento”
La giunta per le immunità del Senato non deve stabilire se Matteo Salvini ha commesso un reato negando l’autorizzazione allo sbarco ai 177 migranti sulla nave della Guardia Costiera Diciotti tra il 20 e il 25 agosto, ma se si è trattato di un atto compiuto nell’esercizio delle funzioni di ministro dell’Interno e, in questo caso, se era indirizzato alla tutela di un interesse dello Stato “costituzionalmente rilevante” o al perseguimento di un “preminente interesse nazionale”. Si tratta di “una valutazione discrezionale e insindacabile che spetta soltanto alla politica”, spiega il professor Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale tra 2008 e 2009.
Professor Flick, i fatti sembrano chiari, Salvini rivendica anche di aver bloccato lo sbarco.
Il tribunale dei ministri dice che qui gli estremi del reato oggettivamente ci sono. Il pubblico ministero, che aveva chiesto l’archiviazione, era di parere diverso. L’articolo 13 della Costituzione stabilisce che la libertà personale può essere limitata solo nei casi previsti dalla legge e con atto motivato dall’autorità giudiziaria, che nel caso della nave non c’è stato.
Il reato c’era?
Il giudice penale deve verificare solo se il comportamento oggetto di indagine configuri un reato commesso nell’esercizio delle funzioni: un’aggressione alla segretaria, per esempio, non rientra nelle funzioni di un ministro. Al Parlamento spetta di verificare se il comportamento ricada o meno in una delle due categorie di interesse dello Stato che consentono di non rispettare la legge.
Resta da stabilire, quindi, se tenere sulla nave i migranti rientri nel diritto di un ministro che deve gestire le politiche migratorie o sia frutto di una scelta tutta politica, per tenere sotto pressione l’Ue, ma priva di motivazioni relative all’impatto sull’Italia di quelle 177 persone.
Lo può decidere solo il Parlamento. Per garantire eguaglianza di trattamento tra il ministro e i normali cittadini, c’è il tribunale dei ministri costituito da giudici ordinari in ogni sede di corte d’appello, a seguito di una riforma del 1990 dopo l’unico caso di giudizio per reati ministeriali presso la Corte costituzionale. Questo collegio è competente a valutare il fatto. Se il pm riceve una denuncia per un reato ministeriale, deve passare gli atti a quel collegio che stabilisce se si tratta di un reato comune o di un comportamento nell’esercizio della funzione e se esso sia legittimo. Per procedere ulteriormente, è necessaria una autorizzazione del Parlamento che può negarla se il comportamento, ancorché illegittimo, è indirizzato alla tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un preminente interesse nazionale. E’ logico che la verifica sulla violazione della legge spetti soltanto al giudice e la verifica sul valore politico della violazione spetti soltanto al Parlamento. Invece non trovo nell’ordinamento una valutazione di ‘atto politico’ che, come tale, autorizzi a violare la legge.
In pratica un ministro, espressione della maggioranza parlamentare, deve chiedere a una giunta dominata dalla stessa maggioranza un giudizio sui propri atti.
Mi rendo conto che l’esito potrebbe sembrare obbligato. Ma così non è nei fatti, come dimostra il dibattito già in corso anche all’interno dei partiti di maggioranza: dibattito esclusivamente politico che prescinde dal giudizio tecnico sul rispetto della legge.