Sea Watch, il blocco continua. La Cei: ospitiamo noi i minori

I 47 migranti resteranno ancora un altro giorno a bordo della nave della Ong tedesca Sea Watch, battente bandiera olandese, ancorata da 36 ore a circa un miglio dalla costa di Siracusa. Inutili le manifestazioni pro accoglienza venerdì in porto e ieri sulla scogliera, inutili i lenzuoli appesi alle finestre dai siracusani che chiedono di farli scendere a terra. le Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha vietato lo sbarco anche ai minori: “Ma quali bambini, hanno 17 anni, vadano in Olanda”. Nella giornata di venerdì l’ufficio del Difensore dei diritti dei bambini del Comune di Siracusa, in contatto con la nave, aveva comunicato la presenza di minori non accompagnati a bordo della nave della Ong. Per questo la procuratrice per i minorenni Caterina Ajello, aveva scritto alle autorità di far sbarcare i “minori extracomunitari”, affinché potessero essere “collocati nelle apposite strutture”. Ma il Viminale non ha ancora ascoltato il suggerimento.

Il vicepremier, soffermandosi con i giornalisti ai gazebo della Lega a Milano, ha prima attaccato la magistratura, definendo “un’evidente invasione di campo di qualche giudice di sinistra che vuole fare politica” la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania di procedere a suo carico per sequestro di persona aggravato per l’abuso di potere nei confronti dei migranti del caso Diciotti. Il leader del Carroccio si è dichiarato “tranquillo” e, aggiungendo che “il Senato è libero” e non ci saranno indicazioni di voto, e anche se gli alleati grillini dovessero esprimersi “a favore non ci sarà crisi” di governo.

Salvini non è indietreggiato neppure dinanzi alle parole di Papa Francesco che da Panama ha definito i migranti “i Cristi di oggi”, e al possibile intervento dalla Conferenza episcopale italiana pronta ad accogliere gli extracomunitari della Sea Watch. “Ne abbiamo visti tanti di immigrati accolti dalla chiesa – ha replicato il ministro – e poi scomparsi in giro per l’Italia, ospitati quindi a spese degli italiani”. Intanto il governo olandese, ieri, ha confermato il suo “no” alla presa in carico dei migranti chiesta dall’Italia. Salvini gli chiede di ritirare la bandiera all’imbarcazione. Si fa sentire anche il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, dal quale dipendono le Capitanerie di porto: la Seawatch, dice su Facebook, ha deciso “di sfidare il mare, puntando verso le coste siciliane che si trovano ad oltre 100 miglia da Lampedusa” anziché riparare in Tunisia, “mettendo irresponsabilmente a repentaglio la salute e la vita dei naufraghi”.

Al momento la situazione della nave Ong, nonostante il meteo sfavorevole, è tenuta sotto controllo dalla Capitaneria di Siracusa, alla quale non è stata presentata nessuna “richiesta di soccorso”, come spiega al Fatto il procuratore aggiunto di Siracusa Fabio Scavone. “Noi ci preoccupiamo dei profili penali: la possibile necessità di assistenza sanitaria oppure carenza di alimenti, se ci fosse stato il diniego di soccorso saremmo intervenuti – aggiunge Scavone – ma allo stato attuale la Capitaneria ha chiesto alla Sea Watch se ci fossero necessità e dalla nave non hanno risposto, quindi deduco che al momento non ci siano condizioni igienico-sanitarie tali da avere necessità di un soccorso”.

Per adesso nessuno è salito a bordo della nave tedesca, diversi parlamentari hanno fatto richiesta ma non sono stati autorizzati. Salvini si è detto pronto a farlo. “Stiamo valutando di poter salire a bordo nelle prossime ore – ha detto il ministro – per acquisire tutti i documenti necessari a indagare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina le persone che aiutano nei fatti gli scafisti e i loro traffici di esseri umani”.

La nave rimarrà alla fonda finché il governo italiano non troverà una soluzione con l’Unione Europea e e con il governo olandese. C’è il rischio di nuovo caso Diciotti, al momento però escluso dal pm Scavone. “È diverso perché quella era una nave militare italiana, con la permanenza nel porto di giorni e giorni – spiega Scavone –, allo stato attuale non abbiamo queste condizioni, vedremo nelle prossime ore e in caso valuteremo eventuali richieste di soccorso”.

Censori & ballisti

Fermi tutti, nessuno si muova: la democrazia è in pericolo, il golpe è in agguato. Non quello in Venezuela, che piace un sacco ai sinceri democratici. No, quello di Carlo Freccero, che domani sera manderà in onda su Rai2 un terribile montaggio di vecchi spezzoni di Beppe Grillo quando faceva solo il comico. Consci della minaccia incombente sulle nostre istituzioni, il Pd e dunque Repubblica (o viceversa) lanciano l’allarme e invitano le forze del progresso a mobilitarsi contro la reazione in agguato. Lo sforzo richiesto è superiore a quello, pur possente, dispiegato contro la famigerata epurazione di Luca e Paolo per conto di Toninelli, poi scemato quando s’è scoperto che i due bravi comici continuano a perculare l’intero governo gialloverde ogni domenica a Quelli che il calcio. Stavolta nessuno dovrà restare indifferente, perchè il pericolo è duplice. Non bastando Grillo, c’è pure Povera patria con Bruchi, Giuli e Cazzullo (tre sovranisti della più bell’acqua), che l’altra sera ha trasmesso addirittura un servizio sul signoraggio bancario, scatenando le ire di economisti e banchieri. Noi ce lo siamo perso volentieri e ci fidiamo del sito di Repubblica che ieri apriva con la “rivolta social” contro “errori e imprecisioni” del reportage. Ma dubitiamo che fosse peggio delle migliaia di boiate propagandistiche diffuse a reti unificate dalla Rai berlusconiana e poi renziana dell’ultimo ventennio, senza mai l’onore di un’apertura di sito.

Il caso Grillo è, se possibile, ancor più inquietante: Freccero gli dedica lo speciale antologico del lunedì, dopo quelli su Celentano (15% di share su una rete data per morta), De André, Bertolucci, Freddy Mercury e prima di quelli su Boncompagni, Funari, Luttazzi, Benigni e tanti altri big della Rai quando era la Rai. La cosa indigna ovviamente tutti, anche il celebre cameriere renziano Andrea Romano che, non contento del contributo fondamentale fornito alla chiusura dell’Unità, accusa Freccero di aver “ottenuto l’ambita poltrona da M5S, per il quale (sic, ndr) ha combattuto cento battaglie (quali?, ndr). Oggi si sdebita con i padroni, regalando un programma al capo partito (il montaggio di vecchi spezzoni, ndr). Ovviamente con i soldi degli italiani che pagano il canone (e che non spendono un euro, visto che è tutto materiale Rai gratuito, ndr). #Servitú (la firma di Romano, ndr)”. Prontamente Repubblica si allinea, accusando Freccero di fare da “megafono principe al populismo” in “stile tv centrale coreana”. E rilancia la mesta campagna Twitter di un gruppo di webeti che incitano al “boicottaggio” di Rai2 e dei suoi sponsor.

Il tutto per “impedire che il servizio pubblico viri al sovranismo” (qualunque cosa significhi, applicato ai suddetti artisti) con “una rete ormai lottizzata da Grillo e i suoi fratelli”, anzi dal “fascista Grillo” che notoriamente ha riempito di parenti, pentastellati e camicie nere l’intero palinsesto. E il bello è che a dargli del fascista è chi vorrebbe censurarlo, anzi ricensurarlo (come se non fossero bastati Craxi & C.), terrorizzato dai suoi sketch di 30-40 anni fa a Fantastico, Sanremo, Te la do io l’America e Te lo do io il Brasile.

Noi, pur consci della minaccia che sta per abbattersi su quel poco che resta della libertà e della democrazia, segnaliamo un caso senz’altro più veniale, scoperto da Thomas Mackinson sul sito del Fatto. L’altro giorno il Corriere della sera spara in prima pagina: “Reddito di cittadinanza, corsa all’anagrafe per rientrare nei requisiti. La tentazione dei cambi di residenza per ottenere l’assegno, rispettando i requisiti Isee con trucchi come finti divorzi. I controlli della Guardia di finanza sui furbetti”. Hai capito i divanisti fannulloni cari al M5S? La prova è che a Savona, nell’ultimo anno, si sarebbe registrata un’ “anomala” corsa al cambio di residenza: ben 1.839 trasferimenti nella stessa città, tutti ovviamente fittizi per far figurare nuclei familiari autonomi (finti divorzi e figli che vanno a vivere da soli), scendere sotto la soglia di povertà Isee e arraffare indebitamente il sussidio. La tipica truffa dell’“Italietta che si arrangia”. La “notizia” fa il giro dei giornaloni e naturalmente dei social, grazie anche a Massimo Gramellini, vicedirettore del Corriere, che la riprende nella sua popolare rubrica quotidiana ( “I furbetti del redditino”). E dà tutto per scontato: “Come era prevedibile, è cominciata la caccia al reddito da parte dei cittadini che non ne hanno diritto”. Peccato che sia tutto falso. Il nostro giornalista l’ha scoperto facendo quel che avrebbe dovuto fare il Corriere: ha chiamato l’Anagrafe di Savona e ne ha ottenuto i dati degli ultimi anni, da cui risulta che i 1.839 cambi del 2018 sono tutt’altro che “anomali”. Nel 2016 e nel 2017, quando governavano Renzi e Gentiloni e nessuno poteva prevedere la vittoria dei 5Stelle nel 2018 e il reddito di cittadinanza nel 2019, i cambi di residenza furono rispettivamente 1.985 e 1.845: cioé più di quelli del 2018 che il Corriere definisce “anomali” e collega al reddito di cittadinanza (che, se c’entrasse qualcosa, avrebbe addirittura fatto diminuire le presunte truffe all’Anagrafe). Osserva Mackinson: “Si scopre così, con due telefonate, il secondo caso di utilizzo di dati farlocchi da parte del Corriere a distanza ravvicinata, dopo quello sull’allarme dei marchi delle auto di lusso che avrebbero subìto effetti ‘devastanti’ dall’ecotassa, come se chi può permettersi supercar da 100mila euro vi rinunciasse per 2mila di sovrattassa”. E dopo quello della procedura d’infrazione mai decisa dall’Europa, ma data per certa dal vicedirettore Federico Fubini, che ha scatenato le proteste dell’inviato a Bruxelles Ivo Caizzi. Ma queste son quisquilie al confronto del golpe in atto: vuoi mettere con Grillo e il signoraggio.

Una notte di musica per la Casa delle Donne

Roba da far impallidire l’Ariston. Il cast dell’evento di stasera all’Auditorium Parco della Musica di Roma accredita la certezza di vedere sul palco della Sala Sinopoli duetti inediti, improvvisazioni, sorprese, di quelle che Baglioni accoglierebbe a scatola chiusa anche a Sanremo. Fiorella Mannoia, Noemi, Emma, Paola Turci, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Luca Barbarossa con la Social Band, Nicky Nicolai, Stefano Di Battista, e attrici come Vittoria Puccini, Laura Morante, Eugenia Costantini. Laura Pausini ha diffuso un messaggio via social: non potrà esserci, ma (come Giorgia e Sabrina Ferilli) sostiene l’iniziativa dei colleghi, che non sono lì solo per deliziare il pubblico con musica e parole. La causa è di quelle complesse, e in qualche modo laceranti, nella storia recente della capitale. Un braccio di ferro che va avanti da più di un anno, con letture di segno opposto tra le parti in campo. Riguarda la destinazione futura della Casa delle Donne, con sede nell’ex penitenziario femminile del Buon Pastore, a Trastevere: da decenni gestita da oltre trenta associazioni che non riescono più a far fronte a un debito con il Comune che supera gli 800mila euro. Nelle intenzioni dell’amministrazione cittadina, la Casa delle Donne dovrebbe essere trasformata in un polo gestito da Roma Capitale, con la collaborazione di enti privati tramite bandi. Negano, dal Campidoglio, l’accusa di voler “chiudere” il Buon Pastore o di sfrattare chi attualmente vi opera. Dall’altra parte, lo sforzo per ripianare lo scoperto sull’affitto (con una trattativa a 300 mila euro) ha indotto molti big a contribuire anche attraverso uno show speciale come quello di stasera. Basterà per trovare una soluzione indolore per tutti? Il primo passo – la sensibilizzazione dell’opinione pubblica – è stato compiuto anche a suon di hashtag come #lacasasiamotutte. Ora è il momento della raccolta dei fondi. Dice Fiorella Mannoia: “Roma non può rassegnarsi a perdere la Casa Internazionale delle Donne, dopo 30 anni. Sarebbe un fallimento per tutta la città”.

Da qualunque parte la si guardi, la mobilitazione per la struttura di via della Lungara (che in un arco di decenni ha accolto più di mezzo milione di donne e che ospita archivi e biblioteche) rinnova una sorta di “patto d’impegno” tra artisti e pubblico. Le donne, in questo, sono costantemente in prima linea: come accadde all’indomani del terremoto de L’Aquila del 2009, quando ben 43 signore del pop si spesero live a San Siro sotto il marchio “Amiche per l’Abruzzo” o come quando, due anni fa, la celebrazione dei 40 anni di carriera di Loredana Berté all’Arena di Verona si trasformò in una sottolineatura della tragedia del femminicidio. Anche lì, in tante fecero corona alla protagonista della festa. Mannoia, Emma e le altre. Pronte a rimboccarsi le maniche, come stasera. E non solo per cantare.

“Con la cultura non si mangia? Cazzata: è la terza industria”

Manuel Agnelli ha quel suo tono profondo, di saggezza. Solidità che sa di gusto per l’esperienza. Sa fin dove si spingerà e fin dove no (specie con te, che macini domande sperando nel titolo del pezzo).

L’anima degli Afterhours, band seminale non solo del rock alternativo italiano, ma della nostra intera scena underground, è anche voce narrante del documentario Noi siamo Afterhours (regia di Giorgio Testi), uscito ieri in un cofanetto che contiene due cd dal vivo. Protagonista il concerto al Forum d’Assago del 10 aprile scorso: “Abbiamo fatto quello che volevamo, fino in fondo. Non mi sarei mai immaginato, trent’anni fa, di avere un palazzetto pieno davanti”. Il film sfrutta la scaletta del live per ripercorrere la storia del gruppo, compreso il momento in cui, nel 2006, avrebbe potuto sfondare negli Stati Uniti, a patto di fare armi e bagagli. A proposito di saggezza, forse è andata meglio qui.

Il frontman, dopo aver salutato X Factor, ripartirà a fine marzo con un tour intimista intitolato An Evening with Manuel Agnelli, al fianco del polistrumentista Rodrigo d’Erasmo. “È necessario riconoscere i momenti di riferimento, le tappe fondamentali – spiega –. Abbiamo fatto una festa celebrativa per non diventare istituzionali. È stato come razionalizzare di aver fatto un percorso lunghissimo. Di non aver più bisogno di dimostrare”.

Non è poco.

Bisogna avere il coraggio di dire “basta così”, ma i cerchi non si chiudono: sapere di aver raggiunto il risultato è confortevole, ma per quanto mi riguarda, non è eccitante. Preferisco sondare l’inconscio.

Restiamo lì: cos’è per lei il sogno?

Essere liberi. Avere la libertà di essere liberi.

Perché, scarseggia?

Viviamo un periodo di oscurantismo, di lati volutamente insondati. “Non libertà” sociale e creativa. È un periodo di frattura tra le generazioni, si rischia il corto circuito. Si sta dimenticando l’esperienza di chi ha preceduto.

Cosa manca?

Nessuno protesta, sono pochi e sfilacciati. C’è meno coscienza personale rispetto alla necessità, sta andando persa l’autoproduzione della controcultura. Non si può solo aspettare le istituzioni. La leggenda che con la cultura non si mangia è una cazzata. È il terzo comparto economico per l’Italia. Il problema è che non abbiamo guide in grado. I ragazzi i posti se li devono aprire, anche se non è facile.

Facile, no.

Adesso non voglio fare il vecchio trombone, ma ho visto due generazioni di gente disposta a prendersi le manganellate, perché pretendeva di avere i propri posti. Non sto inneggiando alla violenza in alcun modo, ma all’azione sì.

Gli artisti che posto hanno?

La poca reazione viene dalla poca coscienza del proprio ruolo. Per anni si è confuso l’intellettuale con il radical chic, termine peraltro usato male. E io, per intellettuale, intendo tutte le persone pensanti. Che l’ignoranza debba diventare un valore e che qualcuno si debba vergognare di avere idee, mi fa venire lo scoramento. C’è un lassismo, che tocca tutti i luoghi e il pensiero, pericolosissimo.

Forse chi ha già lottato è sfiancato.

Tocca ancora a noi. Non possiamo andare in pensione con la testa. Se ci siamo impegnati civilmente non era per farci belli, ma perché lo abbiamo vissuto come un diritto e un dovere. Se il lessico da bar è l’unico utilizzato, allora sarà solo lessico da bar.

E il lessico nella musica? Nel 2016 definì la scena indie autoreferenziale.

Questo argomento si presta a strumentalizzazioni, quello che dovevo dire l’ho detto.

Però proprio in questi ultimi anni le cose sono cambiate.

La scena musicale è fatta da tanti rappresentanti e tutto ha ragione di esistere. Poi ci sono cose più o meno interessanti, ma così è la musica, che è espressione delle cose che succedono nella società, non il contrario. Sono stato sufficientemente democristiano?

Decisamente. A “X Factor” è passato dal punitore della prima edizione al protettivo dell’ultima, sbaglio?

Ho sempre adorato tutti i concorrenti anche delle altre squadre che anzi, è capitato salutassero me e non i loro giudici semplicemente perché mi vedevano più spesso, provando io cinque volte a settimana. Nel caso di quest’anno, essendo le concorrenti giovanissime, ho avuto più istinto di protezione.

Che televisione sogna, ora?

Sto ragionando sulla seconda edizione di un programma musicale che mi assomigli, come Ossigeno. Il budget è un quinto di una sola puntata di X Factor, forse, ma c’è una squadra incredibile. Anche lì, al di là dei risultati, certe cose vanno fatte e basta.

Alberto racconta Sordi: “Sono un timido casalingo”

Pubblichiamo stralci dell’autoritratto di Alberto Sordi, uscito sulla rivista “Fiera del Cinema” nel 1960 e ora riedito da “Bianco e nero”, il quadrimestrale del Centro sperimentale di cinematografia.

 

Applicare un’etichetta a una persona è la maggiore soddisfazione di certa gente. L’etichetta che hanno applicato a me, e che viene usata abbastanza spesso dai giornali, è quella di “Sordi, uomo parsimonioso”. Se la usassero in senso elogiativo, sarei d’accordo; invece no, mi “accusano” di parsimonia. Io rischio di non capire. Una volta, avere il senso del risparmio, pensare al futuro, far fronte alle richieste del fisco, era, se non sbaglio, una virtù; oggi è diventata, chissà come, un difetto. O forse vogliono dire che è un difetto per un attore? Deve essere proprio così. Secondo tale teoria, un attore dovrebbe ostentare il proprio benessere, e trascorrere le serate, nei night club, scolando bottiglie di whisky. In tal caso, sono lieto di tenermi i miei “difetti”: stare un’ora dentro un night club, mi fa venire il mal di testa.

Il momento più felice della mia giornata è quello in cui posso mettermi in vestaglia e pantofole, e allungare i piedi sotto il tavolo, con un bicchiere di vino accanto. Di natura infatti, sono pantofolaio e casalingo. Vivo con due sorelle, che sono tutto per me: amiche e mogli e più che amiche e che mogli. Sono la discrezione in persona. Se ho voglia di scherzare, stanno allo scherzo, se capiscono che mi va di stare zitto, rispettano il mio silenzio. E poi ho alcuni amici con i quali mi incontro da anni, sempre al medesimo caffè; giochiamo a scopone, e chiacchieriamo, ma con molta parsimonia. Come romani, tendiamo a risparmiare le nostre energie, e uno apre bocca solo quando ha qualcosa di nuovo e di importante da dire: “Hai saputo?…”.

Indubbiamente, c’è un fondo di timidezza alle radici del mio carattere. Un po’ come molti di coloro che, a causa delle loro umili condizioni sociali, hanno avuto poco e hanno desiderato molto. E un po’ come in tutti gli italiani, che vengono al mondo in Italia, e restano “impressionati” per tutta la vita dalle raccomandazioni della loro mamma: “Mettiti la maglia… stai attento alle guardie… sai quello chi è…”, e così via. Quante volte mi sono rimproverato di non aver saputo rispondere a tono, di essere rimasto lì come un babbeo, di aver mancato di prontezza e di spirito; ma, poi, ripensando alle mie origini, e alla mia educazione, all’ambiente in cui ero vissuto, ho capito che la colpa non era mia, che la mia mancanza di disinvoltura era soltanto la conseguenza di certe premesse.

Oggi sono un po’ cambiato: sono più pronto, più disinvolto, è difficile che mi lasci prendere di contropiede. Ma ce n’è voluto per vincere la mia timidezza, e per acquistare una certa disinvoltura. Dapprima, come ho già detto, me ne stavo zitto, da parte, pago della mia posizione di subalterno: le poche volte che osavo dire la mia mi umiliavano, e quindi preferivo non espormi. Poi mi sono accorto che ispiravo una spontanea e immediata simpatia nelle persone che avvicinavo. E allora ho preso coraggio, mi sono scosso dal mio silenzio, e ho cominciato a intervenire, però, sbagliavo tempo, intervenivo sempre in ritardo e in modo goffo. Era quasi peggio di prima. Ricordate uno dei miei personaggi? Il tipo che interviene fuori tempo? È nato da questa esperienza.

Poi è venuta la seconda fase: quella delle manate sulle spalle… Altro errore, la via giusta naturalmente sta nel mezzo, ed è quella che credo di avere finalmente imboccato. Se, per esempio, oggi mi capita di essere presentato a una persona importante, diciamo a un ministro, io non balbetto più e non intervengo fuori tempo, come avrei fatto una volta. Ma non gli batto nemmeno la mano sulla spalla, anche se per caso ho avuto l’occasione di conoscerlo in privato, da uomo a uomo. Un ministro, perbacco, è sempre un ministro!…

Molti dei miei personaggi nascono da mie esperienze personali di vita; comunque si tratta sempre di personaggi che io debbo sentire, vivere, contribuire a creare. Ciò non significa però che io e il Sordi dello schermo siamo la stessa persona; finito il lavoro, ritorno me stesso. E invece la gente si aspetta di ritrovare in me “l’americano”, il “moralista”, il “marito”, il buffone, e così via. Da qui una serie di reazioni, ora noiose ora divertenti. Di primo acchito, chi mi conosce rimane sconcertato: non mi ritrova. Le signore mi dicono: “Lo sa che lei è più bello nella vita?… E poi, strano…, lei è molto serio, anzi quasi triste, ed è pieno di ‘complessi’”. Infine, dopo un po’ che stiamo parlando, s’illuminano e battono le mani: “Ah, ecco, ritrovo la sua risata…”. E immancabilmente aggiungono: “Su, ci racconti qualcosa…”. Ci sono le volte che hai voglia di “raccontare qualcosa” (cioè di fare lo spiritoso), e quelle che non ti va per niente; eppure spesso ti tocca farlo. Così son diventato sospettosissimo. Se mi accorgo che qualcuno m’invita a casa sua, non tanto per amicizia, quanto perché si aspetta da me un contributo d’ilarità, non lo frequento più.

Tutto questo per dire come nella vita di un attore ci siano degli aspetti desolanti; e come egli si senta talvolta immeschinito, dalla considerazione in cui la gente lo tiene. Una volta ne ho avuto un esempio bruciante. Ero allo stadio. Arriva Gregory Peck, e un giovanotto vicino a me si mette a urlare: “Ah Gregory…”. Il suo compagno lo tira per il braccio, ma lui continua a urlare, “Ah Gregory…”. L’attore non sentiva, e quello urlava ancora più forte. Infine si voltò, e il giovanotto, cogliendo al volo il suo sguardo: “Ah Gregory”, gridò di nuovo tendendo verso di lui la mano destra e sfregando il pollice con l’indice, “ammazza la grana!…”.

Gender, il sesso non c’è. Tutto merito del brand

L’attenzione alla questione del genere sessuale, mediaticamente noto come gender, ha travalicato gli studi specialistici e ha incontrato il pop. Alle “relazioni ai tempi della gender equality” il canale La Effe ha dedicato il programma Love me gender, mentre Rai3 con Storie del genere ha raccontato in otto puntate la vita di persone che hanno cambiato sesso.

Da quando dalla sessuologia e dall’antropologia si è passati all’estetica, intesa non come disciplina filosofica ma come ambito dell’apparenza, la società capitalistica si è subito riposizionata, e l’industria mondiale ha cominciato a sfornare prodotti in grado di soddisfare bisogni prima inesistenti e a costruire nuovi desideri per tenere il passo col cambiamento sociale.

I Gender studies hanno avuto il merito dagli anni 70 del Novecento in poi di fotografare la trasformazione dei generi, costringendo il discorso pubblico a uscire dagli steccati del dualismo biologico: se per alcune “scuole” esistono addirittura 31 generi sessuali, 29 oltre ai due studiati dalla biologia, per molti ancora il mondo è popolato solo da esseri umani maschi o femmine, col che si esaurisce tutta la realtà degli orientamenti e delle identità inscatolandole dentro uno schema tanto tranquillizzante quanto irreale.

Ma forse dovrebbe metterci in guardia il fatto che a sponsorizzare la fluidificazione di genere a beneficio della umana libertà siano oggi i grandi marchi di moda e le multinazionali del neo-capitalismo globale. In questi giorni il colosso dell’abbigliamento low cost H&M ha lanciato una collezione no-gender in collaborazione col marchio Eytys: pezzi unisex di lancinante deformità favoriscono una interscambiabilità di capi e corpi in virtù del bene supremo del- l’autodeterminazione e del “guardaroba condiviso”, idea che fu già di Gucci nelle sfilate di qualche anno fa. Nel 2017 il colosso spagnolo dell’abbigliamento Zara, il cui padrone Armacio Ortega è il sesto uomo più ricco del pianeta dopo gente come Jeff Bezos, Bill Gates e Mark Zuckerberg, lanciò la linea Ungendered: anche qui, jeans sformati, tute dai colori neutri, t-shirt dal taglio adattabile a qualunque fisico, in una estetica Ikea caratterizzata da efficienza nordica e attitudine rilassata. A novembre la cantante Céline Dion ha firmato una linea gender-free per l’infanzia, allo scopo di “Liberare i bambini dalla binomia di genere” (sic). “Vorrei rimuovere uno stereotipo”, ha detto all’Huffington Post, “i bambini devono scegliere da soli il loro percorso”. La linea, capace di attirare elogi (“una magia”) e anatemi (“satanismo), è stata “pensata per incoraggiare il dialogo, l’uguaglianza e altre possibilità”. Nello spot, Dion entra nel reparto maternità di un ospedale e con una soffiata di coriandoli trasforma i rosa e i celesti dei pigiamini nelle culle in un bianco e nero su cui rifulge il logo del marchio. Così il brand prende letteralmente il posto del genere, sostituendo l’inequivocabile dualità della biologia natale con la sua potenza unificante. Dotata di una pervasività inferiore a quella vestimentaria ma più significativa perché coinvolge lo spazio ipersignificante del volto, è la pulsione del mondo della cosmetica verso l’appetibile mondo dei big-spender senza genere. Sotto il vessillo della massima “La bellezza non è una questione di genere. È una questione di stile”, Chanel ha appena rilasciato la collezione di make-up per maschi Boy of Chanel. Modelli androgini esibiscono visi imberbi uniformati con fondotinta impalpabili, labbra idratate dal balsamo. La nuova routine di bellezza, si capisce, non è limitata alle passerelle o alla vita avventurosa di professionisti della bellezza, calciatori, star del cinema; ma si estende alla vita quotidiana di normali maschi metrosessuali impegnati a piacere a uomini e donne, nel caso queste avessero derubricato la virilità classica a favore dell’ambiguità.

Anche Givenchy ha realizzato una linea di make-up maschile che comprende un illuminante, uno stick opacizzante, una matita per le sopracciglia e un correttore per occhiaie e discromie. Nello spot su Instagram modelli e modelle emaciati semi-ermafroditi accostano i loro volti in un amplesso gelido nel quale la blanda fallicità del tubetto del correttore e la punta arrotondata dello stick interrompono l’eventuale nevroticità implicita nel rapporto uomo-donna affinché essi adorino l’armoniosa classicità fidiana della plastica. Too Faced, dell’americana Estée Lauder, usa da tempo testimonial trans-gender per pubblicizzare i suoi prodotti iperfemminilizzati. Fard color pesca brillanti e profumati sovrastano pelurie appena rasate in corrispondenza dell’osso mascellare; carnagioni cubane di ragazzi che un tempo avremmo visto nei videoclip nella parte dei machi sono esaltate da rossetti color fiamma.

Ha già superato ogni confine, esplodendolo nel multigender, la canadese Mac Cosmetics (il cui claim è “Cosmetics for All Ages, All Races, and All Genders”), che vende gli stessi prodotti a donne e uomini. Sull’Instagram di Mac, modelli con barba e pizzetto ostentano ombretti psichedelici, labbra rimpolpate dal gloss, zigomi scolpiti dal contouring e guance arrossate dal blush, in una caricatura dei tratti somatici ipersessualizzati che secondo alcune ricerche di Cultural e gender studies gli uomini immaginano debbano caratterizzare la donna.

Ormai la tendenza è inarrestabile e del resto quando l’umano muta ogni resistenza è vana. Significativo che i colossi dell’abbigliamento gender- fluid, inclusi Zara e H&M, fanno fabbricare i vestiti in Bangladesh, anche se meno di un tempo, dopo che 1134 operai sono morti nel 2013 nel crollo della fabbrica Rana Plaza alla periferia di Dacca da cui si riforniva anche l’italiana Benetton; evento che segnalò il Bangladesh all’Occidente politicamente ultrasensibile come una “nazione scorretta”; e in Vietnam, Cambogia, Indonesia. Secondo alcune ong come “Abiti Puliti”, benché si coltivi l’illusione che il mondo cosiddetto civile abbia gli occhi puntati sull’etica del lavoro di questi leviatani del progresso, lo fanno sfruttando i lavoratori con stipendi da 50 euro al mese e violando le più elementari misure di sicurezza. Forse non è un caso se la spasmodica attenzione mostrata dalle multinazionali occidentali verso i diritti civili, presentati al mondo sotto la sembianza del rispetto delle differenze sessuali con oculate campagne di marketing, si accompagni a una progressiva erosione dei diritti sociali perpetrata da una politica spesso al loro servizio. Se uomo e donna non esistono più come esseri differenti, sarà più facile smettere di preoccuparsi per l’essere umano.

Scontro tra elicottero e aereo, 5 morti e due dispersi sul ghiacciaio

Un elicottero privato impegnato nel servizio di eliski e un aereo da turismo si sono scontrati in volo mentre stavano sorvolando il ghiacciaio del Rutor, a 2.500 metri d’altezza nel vallone di La Thuile, in Valle d’Aosta. Cinque, per ora, le vittime accertate, i cui corpi sono già stati recuperati dal soccorso alpino, mentre altre due persone (uno svizzero e un francese) sono state trasportate in ospedale in gravi condizioni. Le ricerche sono state sospese ieri nel tardo pomeriggio. Due persone risultano disperse. L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha disposto l’apertura di un’inchiesta di sicurezza e l’invio di un team investigativo sul sito dell’incidente. Il team, spiega l’Ansv, svolgerà un sopralluogo operativo per chiarire le cause dell’incidente.

Sul posto sono arrivati gli elicotteri di soccorso dalle basi di Ivrea, Torino, Borgo Sesia. Uno dei due velivoli coinvolti è di una ditta privata che organizza tour di elisky da Courmayeur. Al pronto soccorso dell’ospedale Le Molinette di Torino è stata attivata procedura di maxi-emergenza: operative la choc room con equipe multidisciplinare, tre sale operatorie dedicate all’emergenza e 6 posti in terapia intensiva postoperatoria.

Piazza San Carlo, seconda vittima a quasi 20 mesi dalla finale. Morta donna rimasta paralizzata

È morta ieri mattina nell’ospedale Cto di Torino Marisa Amato, 65enne diventata tetraplegica dopo essere stata travolta dalla folla in fuga da piazza San Carlo il 3 giugno 2017. Un’infezione respiratoria aveva provocato un peggioramento delle sue condizioni e per questa ragione mercoledì era stata ricoverata in Terapia intensiva. Giovedì aveva spiegato ai medici che, nel caso di un ulteriore peggioramento, non avrebbero dovuto intubarla. Non voleva subire un accanimento terapeutico. Ieri alle 9.15 il cuore ha smesso di battere: “Ha ceduto per lo sforzo dovuto alle difficoltà respiratorie”, ha spiegato il direttore del reparto, Maurizio Berardino.

La sera 3 giugno 2017 a Torino decine di migliaia di tifosi bianconeri erano davanti al maxischermo su cui era proiettata la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. Marisa Amato e suo marito Vincenzo D’Ingeo, sposati da circa 40 anni, erano andati in centro città per mangiare una farinata. Finita la cena, volevano fare una passeggiata, ma la folla in fuga per il panico dovuto al timore di un attentato, li ha travolti. La donna è rimasta tetraplegica, ha passato più di un anno sul letto all’Unità spinale unipolare delle Molinette. Il 22 luglio su Facebook aveva annunciato il suo ritorno a casa. Di tanto in tanto raccontava le difficoltà, ma anche i momenti di normalità. Il 23 ottobre, giorno della prima udienza preliminare contro la sindaca Chiara Appendino e altri quattordici indagati di omicidio colposo, lesioni colpose e disastro, su Facebook compariva un post duro: “È una data che corrisponde a 507 giorni di vita inaccettabile, fitta di sofferenza, dolore, mio e dei miei cari”. “Se vuoi bene a una persona, le stai insieme sino alla fine – ha dichiarato ieri la figlia, Viviana D’Ingeo –. Le stai vicino. E noi le siamo stati sempre accanto”. Molti i messaggi di cordoglio rivolti alla famiglia. “La Città ha oggi più che mai bisogno di verità”, afferma il capogruppo Pd al Comune di Torino, Stefano Lo Russo.

“Ora scendo e gli butto la bomba”. Mafia calabro-albanese tra auto a fuoco e teste d’agnello mozzate

“Adesso prendo, scendo e gli butto una bomba qua…. Stasera gli sparo tutte le vetrine. Ti aiutano gli sbirri… vedi che succede la guerra mondiale qua a Viterbo”. Macchine dei carabinieri date alle fiamme, teste d’agnello utilizzate per intimidire e lettere con minacce di morte accompagnate da proiettili. È una Viterbo che ricorda quei Comuni dove la ‘ndrangheta agisce con la coscienza di chi sa che “qui senza la nostra autorizzazione non si muove nulla”, quella descritta nelle 720 pagine che compongono l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Roma Flavia Costantini. Sono 11 le persone che ieri sono finite in carcere al termine dell’operazione condotta dagli uomini del Comando provinciale dei carabinieri. Altri due indagati sono ai domiciliari. Le accuse, a vario titolo, vanno dall’associazione di tipo mafioso fino alle estorsioni e ai danneggiamenti, passando per le tentate rapine, le lesioni personali e un’altra sfilza di reati commessi con “violenza o minaccia”. Ai vertici dell’organizzazione c’era Giuseppe Trovato. “Peppino”, vicino alla famiglia calabrese Giampà, di Lamezia Terme, aveva trovato un socio nell’albanese Ismail Rebeshi, che presto aveva capito che “la ‘ndrangheta è una legge di rispetto”. Le tradizioni criminali delle ‘ndrine si uniscono alla violenza tipica delle organizzazioni dell’est Europa.

“Avete fatto una bella fusione – rivela un indagato intercettato – calabresi e albanesi, la meglio fusione che c’è in tutto il mondo”. Ne era nato un sodalizio capace di mettere in atto almeno 50 episodi intimidatori dal 2017. Colpi di mitra nelle vetrine, carabinieri pedinati e teste di maiali con tanto di proiettili conficcati in fronte. Il clan desiderava mettere le mani sul “commercio di preziosi usati (…)i locali notturni (…) il settore dei traslochi (…) il settore del recupero crediti”. L’obiettivo era il “controllo del territorio” e dei cittadini. Gli inquirenti sottolineano infatti che “diverse persone si sono rivolte all’associazione criminale” per “tentare di risolvere controversie di natura privatistica”.

Eternit bis, di nuovo a giudizio per omicidio volontario l’ex numero uno Schmidheiny

Si chiamavano Antonio Balestrieri, Salvatore De Simone, Gennaro Esposito, Angela Prisco, Antonio Rocco, Vincenzo Russo, Assunta Esposito e Franco Evangelista. Sono morti di mesotelioma pleurico dal 2000 al 2009. Erano ex dipendenti Eternit, dell’indotto o semplici residenti del quartiere di Bagnoli a Napoli, quello della fabbrica. Otto morti di amianto. Otto vittime di omicidio volontario, secondo l’ipotesi della procura di Napoli. Ipotesi accolta dal Gup che ha rinviato a giudizio con questa accusa l’imprenditore svizzero di Eternit spa, Stephan Schmidheiny, nell’ambito del filone napoletano del processo Eternit Bis. Prima udienza il 12 aprile davanti alla seconda sezione della Corte d’Assise di Napoli.

Il processo che inizierà a Napoli è uno dei rivoli della maxi-inchiesta della Procura di Torino nata nel 2009 dopo l’azione legale collettiva di circa 6000 persone che chiedevano giustizia e risarcimenti per le 3000 persone morte dopo aver lavorato o vissuto nei pressi degli stabilimenti Eternit in Italia. Nel 2014 la prescrizione in Cassazione ha salvato Schmydheiny da una condanna a 18 anni per disastro ambientale doloso e per omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. Mentre il Gup di Torino ha ‘spacchettato’ 258 accuse di omicidio volontario trasmettendole alle procure competenti rispetto agli vari stabilimenti Eternit in Italia. La procura di Napoli ha così indagato sulle condizioni di lavoro nello stabilimento attivo a Bagnoli dal giugno 1976 al dicembre 1985. Schmydheiny per mero fine di lucro risparmiò sulle gravose spese indispensabili per una radicale revisione degli impianti e delle procedure di lavoro – scrivono i pm Anna Frasca e Giuliana Giuliano – con il consapevole e voluto risultato che le fibre di amianto continuarono a disperdersi abbondantemente”, determinando le malattie e i decessi. “Ci auguriamo che questa volta lo svizzero non riesca a uscire dalle maglie della giustizia italiana”, commenta il presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, Ezio Bonanni, costituitosi parte civile.