San Mauro Pascoli, 12 mila abitanti nel cuore della Romagna, è un paese diviso a metà. Lo attraversa l’autostrada Adriatica A14, che separa l’area produttiva, con le sue fabbriche, dal centro abitato. A Nord c’è uno dei distretti calzaturieri più importanti del Paese, a Sud si estende l’ordinato e pulito reticolo di strade e case che circondano piazza Giuseppe Mazzini, sulla quale si affaccia, con la bandiera tricolore, il Municipio.
Pochi passi e sei davanti al museo Casa Pascoli, realizzato nell’abitazione dove nacque Giovanni Pascoli nel 1855. Il poeta è uno dei vanti del paese: dieci minuti di auto e sei alla stazione ferroviaria di Savignano sul Rubicone, otto chilometri e sei al mare. Un vanto lo è anche il distretto industriale, con i suoi grandi marchi: da Sergio Rossi a Casadei e Baldinini. Non si è piegato nemmeno quando la crisi economica mordeva di più, continuando a esportare in tutto il mondo, anche quando tante altre aziende naufragavano. Ma San Mauro Pascoli adesso è noto anche per qualcos’altro: cinque anni fa un po’ di persone, dal sindaco ad alcuni imprenditori, si sono messi d’accordo per tentare di afferrare la felicità. Impresa titanica visto che riguarda la più ambiziosa tra le aspirazioni umane ma anche la più personale e fuggevole.
La prendi, scappa, ritorna, scompare. La felicità. Ma qui hanno pensato che rivoluzionare tutti gli orari che scandiscono la vita quotidiana delle persone – da quelli delle fabbriche a quelli dei servizi scolastici, sanitari e di welfare – fosse un primo passo per raggiungerla. Non facile da realizzare ma capace – si sono detti – di dare risultati tangibili per assicurare, almeno, il buon vivere.
Le donne il motore di questa piccola grande svolta
“Felicità è una parola grossa”, ammette Werther Colonna, presidente di Ivas, impresa locale di vernici. “Ma avere un buon rapporto con il proprio lavoro e usufruire di una riorganizzazione complessiva dei servizi che comprende anche le scuole e la medicina di base, per migliorare la qualità della vita, credo che consenta di essere un po’ più felici: anche se questo è solo un piccolo pezzo di strada”. Ivas è una azienda chimica. È una delle circa duecento che compongono il distretto industriale, con le imprese calzaturiere in prima fila e poi tante altre fabbriche che operano in settori come quello della meccanica. Ha 110 dipendenti, tra impiegati e operai. Tutti, in primavera e in estate, si presentano al lavoro alle 6:30 per poi smontare alle 14. Hanno mezza giornata a disposizione. Tempo libero per andare al mare – tanti lo raggiungono in bicicletta – , per il medico, per i figli, per le varie incombenze domestiche. “Adesso nessuno tornerebbe più indietro”, dice Colonna.
A San Mauro Pascoli la rivoluzione l’hanno voluta le donne, che costituiscono il 60% della manodopera occupata nelle aziende. Un giorno il sindaco Luciana Garbuglia ne chiamò 13 nella biblioteca comunale. Tutte operaie. Garbuglia chiese cosa non funzionava nella loro vita. Risposero che conciliare dimensione privata e lavoro, figli, scuola, fabbrica e spesa, era la principale fonte di stress. “Quel gruppo fu il nostro primo panel”, ricorda Garbuglia, che fa l’insegnante di sostegno e ha quattro figli. Dopo facemmo un sondaggio tra i lavoratori del distretto: emerse che erano proprio le donne a chiedere una riorganizzazione complessiva del paese”.
Adesso le scuole elementari sono chiuse il sabato (per permettere alle famiglie di trascorrere più tempo con i figli) ed è aumentato il rientro pomeridiano (per agevolare chi lavora). I medici di base hanno prolungato gli orari di visita fino alle 20, con un servizio infermieristico che consente di ottenere velocemente le ricette. Sono stati rivisti i servizi di assistenza agli anziani. Mentre le fabbriche – coinvolte già dieci, per un totale di mille lavoratori – hanno ridotto la pausa pranzo per chiudere prima: tutti a casa alle 16:30 o al massimo alle 17, un tempo si lavorava invece almeno fino alle 18.
“Potrebbe sembrare una cosa da nulla, ma non è così. Io adesso ho un’ora in più tutti i giorni per me stessa e per i miei due figli”, dice Elisa Pero, 45 anni, impiegata. “Posso portarli in palestra e magari concedermi anche l’estetista, prima dipendevo molto di più dall’aiuto che mi dava mia madre. Sono contenta, sì. E lo sono anche i miei figli”. Elisa lavora in una azienda meccanica, la Urbinati. Stabilimento bianco e azzurro e uffici spaziosi, vetrate che affacciano su un’area industriale che è immersa nel silenzio e ben tenuta. Ai vertici c’è Romina Urbinati, figlia del fondatore Nino. “Ho battuto i pugni sul tavolo per modificare tutto”, rammenta lei. “Abbiamo fatto tante assemblee, persino i sindacati all’inizio hanno puntato i piedi. Complice il retaggio di tradizioni patriarcali dure a morire, con gli uomini che non volevano rinunciare al tornare a casa, all’ora di pranzo, per trovare le tagliatelle nel piatto. Adesso chiudiamo tutti alle 17, e anch’io non vivo più in fabbrica”.
L’economista: “Più dipendenti tristi, meno produttività”
A ispirare la riorganizzazione non è stato il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla scia dello strutturato modello francese. Di più hanno fatto le teorie dell’economia della felicità, che annovera anche due premi Nobel per l’economia, come Daniel Kahneman (psicologo israeliano, vincitore nel 2002 “per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”) e Angus Deaton. “Nei Paesi industrializzati lo sviluppo economico non ha portato maggiore contentezza”, dice Stefano Bartolini, docente di Economia della felicità all’Università di Siena. “Molti studi lo dimostrano, tra questi anche la ricerca condotta negli Usa due anni fa dallo psichiatra James Davies: un americano su cinque ricorre a psicofarmaci. Uno dei problemi chiave è una concezione tradizionale del lavoro, basata sulla rigidità, che è nemica della vita privata e della qualità delle relazioni interpersonali. E resiste l’illusione che lo stress possa aumentare la produttività, mentre è vero il contrario”.
In questa storia scritta dalle donne c’è anche un uomo. È Luca Piscaglia, consulente del lavoro al quale si deve l’embrione del progetto del “distretto della felicità”. “Anni fa ricorremmo al job sharing per trovare manodopera – ricorda Piscaglia – arrivarono oltre 200 domande, tutte da donne: voleva dire che gli orari erano fondamentali”.
Come sempre accade nei piccoli paesi, dove tutti si conoscono, quest’aspirazione alla felicità cominciò a essere discussa a tavola, nei bar, dove anche adesso non è poi così raro trovare industriali che la sera giocano a tresette insieme ai loro operai. Ora si sono accodati anche gli istituti di credito: Romagna Banca a breve aprirà uno sportello, con turni di lavoro a rotazione, tanto per facilitare un po’ di più la vita. “Il senso vero dell’operazione è stato quello di mettere in sincronia tutto”, spiega Elena Fiero, delegata della Femca-Cisl. “Nelle nostre aziende c’è sempre stata una forte resistenza a concedere il part-time, richiesto soprattutto dalle donne. Adesso, invece, possono lavorare a tempo pieno mantenendo intatta la retribuzione”. Obiettivo raggiunto? Non proprio. E non solo perché il progetto deve coinvolgere anche i comuni limitrofi di Savignano sul Rubicone e di Gatteo, con i quali è previsto un “patto di distretto”. Ma anche perché non poche imprese sono ancora restie ad accettare di mutare radicalmente l’organizzazione del lavoro. Troppe le consuetudini radicate, nonostante, come avverte Colonna, “la cosa peggiore che può accadere a un’impresa sia quella di avere dipendenti malcontenti: diminuisce la produttività. Ma dobbiamo aspettare i tempi di tutti, senza dimenticare che anche a noi ne è servito tanto e siamo solo al punto di partenza”, dice il sindaco Garbuglia, che in consiglio comunale non ha trovato oppositori.
Tra le nuove iniziative, è già stata messo in campo una raccolta dei questionari – un secondo sondaggio – con i quali il Comune vuole misurare il grado di soddisfazione dei cittadini: 25 domande per capire che cosa non va, cosa, tra servizi sociali, scolastici e sanitari, trasporti, dovrebbe ancora cambiare per migliorare ulteriormente la vita. “In realtà io e il consulente del lavoro Piscaglia non abbiamo inventato nulla – racconta il sindaco – abbiamo solo scoperto l’acqua calda. Perché mi sembra una cosa persino banale cambiare un sistema quando si scopre che non funziona”.