La legge è uguale per tutti: ma se sei single, gay o divorziato un po’ meno

Se sei sposato hai sconti sui bus, sui parcheggi, sui taxi, un punteggio più alto per l’assegnazione di una casa popolare e molto altro. Se invece sei un semplice convivente, una ragazza madre o un genitore single, una coppia separata od omosessuale, potresti dover pagare le tariffe piene. Il consiglio comunale di Genova, durante la discussione sul bilancio, ha approvato il 24 gennaio otto ordini del giorno che rischiano di discriminare tutti i tipi di famiglie non sposate.

Gli odg, su cui la giunta aveva dato parere positivo e che sono stati approvati con i voti della maggioranza di centrodestra e l’opposizione di centrosinistra e M5S, impegnano il Comune ad accordare alle coppie iscritte al “Registro delle Famiglie” riservato alle coppie sposate alcuni vantaggi tra cui: preferenza nell’erogazione dei servizi sociali, riduzione del costo delle certificazioni anagrafiche, punteggio aggiuntivo per l’assegnazione delle case popolari, abbonamenti agevolati al trasporto pubblico, tariffe scontate per i taxi, tagliandi agevolati per i parcheggi, deroghe per le zone a traffico limitato. Gli odg però, ed è questa la difesa della maggioranza, specificano anche che queste agevolazioni “non devono configurare alcuna irragionevole disparità di trattamento rispetto ai membri delle unioni civili e delle convivenze di fatto iscritte negli appositi registri”. “Però allora non si vede perché distinguere i due casi. Inoltre – sottolinea Alessandro Terrile, consigliere del Pd – in caso dei conviventi non mi risulta ci siano registri. C’è un intento discriminatorio: siamo pronti a portare al Tar qualsiasi decisione che prenderanno gli assessori e che potrebbe svantaggiare separati, conviventi, omosessuali”. Il registro riservato alle sole coppie sposate era stato varato dall’amministrazione Bucci l’11 settembre scorso. “Allora ci dissero che non aveva alcuna conseguenza pratica. Adesso spuntano questi otto ordini del giorno” spiega Terrile. Secondo il consigliere del M5S, Stefano Giordano, “si tratta dell’ennesima decisione ideologica di questa maggioranza che in particolare ha preso di mira le famiglie arcobaleno, ad esempio non accordando la possibilità di iscrizione all’anagrafe per i figli di due madri, tanto che in seguito è intervenuto il Tribunale costringendo gli uffici a procedere”.

Divisione delle famiglie in serie A e serie B a seconda se i genitori siano sposati o meno, mancata registrazione dei figli degli omosessuali, ma non solo. A Genova, con la nuova amministrazione Bucci, si respira aria di Veneto leghista: nella primavera scorsa aveva fatto discutere la decisione dell’assessore alla Sicurezza Stefano Garassino di applicare un “Daspo” di 48 ore ai mendicanti sorpresi a rovistare nei cassonetti della spazzatura. A luglio, poi, la Lega aveva contestato e provato a fermare un progetto – peraltro della stessa amministrazione Bucci – che prevedeva l’impiego di richiedenti asilo nell’opera di assistenza agli anziani d’estate, per combattere l’emergenza caldo. “Non lasciamo i nostri anziani in balìa dei presunti profughi”, aveva dichiarato, allarmata, la consigliera leghista Francesca Corso.

L’ispiratore: l’economista Stefano Bartolini con il suo libro-manifesto

Viviamo in Paesi ricchi, ci siamo affrancati dalla povertà di massa e abbiamo accesso ai beni di consumo, all’istruzione, alla sanità, a una vita più lunga e sana. Eppure ognuno di noi avverte nell’aria il serpeggiare di un’insoddisfazione diffusa, di un malessere e un disagio che si esprimono in una dolente e ostinata litania che passa di bocca in bocca: la mancanza di tempo. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro
e consumo. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Ecco perché i dati evidenziano che la felicità non è migliorata dal Secondo dopoguerra, anzi in certi casi, come gli Usa, è peggiorata. Ed ecco perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra vita individuale e collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo. Questa è in sintesi la tesi dell’economista Stefano Bartolini – che insegna Economia politica ed Economia sociale all’Università di Siena – e del suo “Manifesto per la felicità: come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere” (Donzelli). La ricerca di un modello economico alternativo al paradigma attualmente dominante, perché maggiore ricchezza non equivale a un maggiore benessere sociale e individuale.

San Mauro e la rivoluzione della felicità

San Mauro Pascoli, 12 mila abitanti nel cuore della Romagna, è un paese diviso a metà. Lo attraversa l’autostrada Adriatica A14, che separa l’area produttiva, con le sue fabbriche, dal centro abitato. A Nord c’è uno dei distretti calzaturieri più importanti del Paese, a Sud si estende l’ordinato e pulito reticolo di strade e case che circondano piazza Giuseppe Mazzini, sulla quale si affaccia, con la bandiera tricolore, il Municipio.

Pochi passi e sei davanti al museo Casa Pascoli, realizzato nell’abitazione dove nacque Giovanni Pascoli nel 1855. Il poeta è uno dei vanti del paese: dieci minuti di auto e sei alla stazione ferroviaria di Savignano sul Rubicone, otto chilometri e sei al mare. Un vanto lo è anche il distretto industriale, con i suoi grandi marchi: da Sergio Rossi a Casadei e Baldinini. Non si è piegato nemmeno quando la crisi economica mordeva di più, continuando a esportare in tutto il mondo, anche quando tante altre aziende naufragavano. Ma San Mauro Pascoli adesso è noto anche per qualcos’altro: cinque anni fa un po’ di persone, dal sindaco ad alcuni imprenditori, si sono messi d’accordo per tentare di afferrare la felicità. Impresa titanica visto che riguarda la più ambiziosa tra le aspirazioni umane ma anche la più personale e fuggevole.

La prendi, scappa, ritorna, scompare. La felicità. Ma qui hanno pensato che rivoluzionare tutti gli orari che scandiscono la vita quotidiana delle persone – da quelli delle fabbriche a quelli dei servizi scolastici, sanitari e di welfare – fosse un primo passo per raggiungerla. Non facile da realizzare ma capace – si sono detti – di dare risultati tangibili per assicurare, almeno, il buon vivere.

 

Le donne il motore di questa piccola grande svolta

“Felicità è una parola grossa”, ammette Werther Colonna, presidente di Ivas, impresa locale di vernici. “Ma avere un buon rapporto con il proprio lavoro e usufruire di una riorganizzazione complessiva dei servizi che comprende anche le scuole e la medicina di base, per migliorare la qualità della vita, credo che consenta di essere un po’ più felici: anche se questo è solo un piccolo pezzo di strada”. Ivas è una azienda chimica. È una delle circa duecento che compongono il distretto industriale, con le imprese calzaturiere in prima fila e poi tante altre fabbriche che operano in settori come quello della meccanica. Ha 110 dipendenti, tra impiegati e operai. Tutti, in primavera e in estate, si presentano al lavoro alle 6:30 per poi smontare alle 14. Hanno mezza giornata a disposizione. Tempo libero per andare al mare – tanti lo raggiungono in bicicletta – , per il medico, per i figli, per le varie incombenze domestiche. “Adesso nessuno tornerebbe più indietro”, dice Colonna.

A San Mauro Pascoli la rivoluzione l’hanno voluta le donne, che costituiscono il 60% della manodopera occupata nelle aziende. Un giorno il sindaco Luciana Garbuglia ne chiamò 13 nella biblioteca comunale. Tutte operaie. Garbuglia chiese cosa non funzionava nella loro vita. Risposero che conciliare dimensione privata e lavoro, figli, scuola, fabbrica e spesa, era la principale fonte di stress. “Quel gruppo fu il nostro primo panel”, ricorda Garbuglia, che fa l’insegnante di sostegno e ha quattro figli. Dopo facemmo un sondaggio tra i lavoratori del distretto: emerse che erano proprio le donne a chiedere una riorganizzazione complessiva del paese”.

Adesso le scuole elementari sono chiuse il sabato (per permettere alle famiglie di trascorrere più tempo con i figli) ed è aumentato il rientro pomeridiano (per agevolare chi lavora). I medici di base hanno prolungato gli orari di visita fino alle 20, con un servizio infermieristico che consente di ottenere velocemente le ricette. Sono stati rivisti i servizi di assistenza agli anziani. Mentre le fabbriche – coinvolte già dieci, per un totale di mille lavoratori – hanno ridotto la pausa pranzo per chiudere prima: tutti a casa alle 16:30 o al massimo alle 17, un tempo si lavorava invece almeno fino alle 18.

“Potrebbe sembrare una cosa da nulla, ma non è così. Io adesso ho un’ora in più tutti i giorni per me stessa e per i miei due figli”, dice Elisa Pero, 45 anni, impiegata. “Posso portarli in palestra e magari concedermi anche l’estetista, prima dipendevo molto di più dall’aiuto che mi dava mia madre. Sono contenta, sì. E lo sono anche i miei figli”. Elisa lavora in una azienda meccanica, la Urbinati. Stabilimento bianco e azzurro e uffici spaziosi, vetrate che affacciano su un’area industriale che è immersa nel silenzio e ben tenuta. Ai vertici c’è Romina Urbinati, figlia del fondatore Nino. “Ho battuto i pugni sul tavolo per modificare tutto”, rammenta lei. “Abbiamo fatto tante assemblee, persino i sindacati all’inizio hanno puntato i piedi. Complice il retaggio di tradizioni patriarcali dure a morire, con gli uomini che non volevano rinunciare al tornare a casa, all’ora di pranzo, per trovare le tagliatelle nel piatto. Adesso chiudiamo tutti alle 17, e anch’io non vivo più in fabbrica”.

 

L’economista: “Più dipendenti tristi, meno produttività”

A ispirare la riorganizzazione non è stato il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla scia dello strutturato modello francese. Di più hanno fatto le teorie dell’economia della felicità, che annovera anche due premi Nobel per l’economia, come Daniel Kahneman (psicologo israeliano, vincitore nel 2002 “per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”) e Angus Deaton. “Nei Paesi industrializzati lo sviluppo economico non ha portato maggiore contentezza”, dice Stefano Bartolini, docente di Economia della felicità all’Università di Siena. “Molti studi lo dimostrano, tra questi anche la ricerca condotta negli Usa due anni fa dallo psichiatra James Davies: un americano su cinque ricorre a psicofarmaci. Uno dei problemi chiave è una concezione tradizionale del lavoro, basata sulla rigidità, che è nemica della vita privata e della qualità delle relazioni interpersonali. E resiste l’illusione che lo stress possa aumentare la produttività, mentre è vero il contrario”.

In questa storia scritta dalle donne c’è anche un uomo. È Luca Piscaglia, consulente del lavoro al quale si deve l’embrione del progetto del “distretto della felicità”. “Anni fa ricorremmo al job sharing per trovare manodopera – ricorda Piscaglia – arrivarono oltre 200 domande, tutte da donne: voleva dire che gli orari erano fondamentali”.

Come sempre accade nei piccoli paesi, dove tutti si conoscono, quest’aspirazione alla felicità cominciò a essere discussa a tavola, nei bar, dove anche adesso non è poi così raro trovare industriali che la sera giocano a tresette insieme ai loro operai. Ora si sono accodati anche gli istituti di credito: Romagna Banca a breve aprirà uno sportello, con turni di lavoro a rotazione, tanto per facilitare un po’ di più la vita. “Il senso vero dell’operazione è stato quello di mettere in sincronia tutto”, spiega Elena Fiero, delegata della Femca-Cisl. “Nelle nostre aziende c’è sempre stata una forte resistenza a concedere il part-time, richiesto soprattutto dalle donne. Adesso, invece, possono lavorare a tempo pieno mantenendo intatta la retribuzione”. Obiettivo raggiunto? Non proprio. E non solo perché il progetto deve coinvolgere anche i comuni limitrofi di Savignano sul Rubicone e di Gatteo, con i quali è previsto un “patto di distretto”. Ma anche perché non poche imprese sono ancora restie ad accettare di mutare radicalmente l’organizzazione del lavoro. Troppe le consuetudini radicate, nonostante, come avverte Colonna, “la cosa peggiore che può accadere a un’impresa sia quella di avere dipendenti malcontenti: diminuisce la produttività. Ma dobbiamo aspettare i tempi di tutti, senza dimenticare che anche a noi ne è servito tanto e siamo solo al punto di partenza”, dice il sindaco Garbuglia, che in consiglio comunale non ha trovato oppositori.

Tra le nuove iniziative, è già stata messo in campo una raccolta dei questionari – un secondo sondaggio – con i quali il Comune vuole misurare il grado di soddisfazione dei cittadini: 25 domande per capire che cosa non va, cosa, tra servizi sociali, scolastici e sanitari, trasporti, dovrebbe ancora cambiare per migliorare ulteriormente la vita. “In realtà io e il consulente del lavoro Piscaglia non abbiamo inventato nulla – racconta il sindaco – abbiamo solo scoperto l’acqua calda. Perché mi sembra una cosa persino banale cambiare un sistema quando si scopre che non funziona”.

“I Comuni sfileranno Brexit dalle mani di May”

Paul Mason, 58 anni, giornalista e saggista, è uno dei più influenti intellettuali di sinistra britannici. Di estrazione popolare, nel febbraio 2016 ha lasciato il ruolo di caporedattore dell’economia di Channel 4 per essere libero dagli obblighi di imparzialità giornalistica. Influente attivista del Labour di Corbyn, si definisce un socialdemocratico radicale.

Cosa c’è alle radici della Brexit?

Il Regno Unito ha sempre avuto una relazione molto distaccata con l’Unione europea e non ha mai voluto fare parte del suo progetto di consolidamento. Quando si è posta l’opzione di uscirne, l’élite di destra, nazionalista, imperialista, colonialista, se ne è impadronita e ha liberato le oscure viscere del Paese, ostile soprattutto all’immigrazione dai Paesi dell’Est Europa. Il voto è il risultato di questa ostilità.

Chi sono gli elettori laburisti che sostengono il Leave?

Si dividono in due categorie: chi vota Labour per abitudine ma è culturalmente di destra. Ma anche autentici laburisti che non hanno accettato un’immigrazione senza controllo e, per alcuni, senza vera integrazione. Per decenni il Regno Unito ha accolto e integrato immigrati dalle ex colonie, ma gli arrivi dall’Europa dell’Est dopo il 2003 sono stati incontrollati. La ragione per sostenere Brexit da sinistra è che una offerta illimitata di lavoratori deprime i salari e consegna ai datori di lavoro milioni di persone senza cittadinanza e quindi senza diritto di voto… ed è una ragione molto convincente per chi già guadagna poco e ha lottato duecento anni per quel diritto.

E questo, al di là del suo personale euroscetticismo, Corbyn non può ignorarlo…

Corbyn non agisce per motivi personali ma sulla base del fatto che i 50 seggi che servono al Labour per formare il governo e porre fine all’austerità e agli attacchi ai lavoratori sono tutti fra i laburisti che hanno votato Leave in Inghilterra e Galles. In Scozia, al contrario, i laburisti sono progressisti e sostengono Remain. E c’è un altro fattore incredibile: nello spazio di una generazione, il vero cuore morale e culturale del Labour si è spostato nei grandi centri cosmopoliti. Tenere tutto insieme è molto complicato.

Quali scenari vede per uscire dall’impasse?

Sappiamo che entrambi i partiti si stanno preparando a elezioni anticipate, malgrado la resistenza di molti Tories. Il 29 gennaio il Parlamento probabilmente approverà degli emendamenti che toglieranno di fatto al governo il controllo sulla Brexit, una crisi costituzionale senza precedenti. Il Labour sembra intenzionato a supportare almeno uno di questi emendamenti, che richiede una estensione dell’art. 50 e un voto che escluda il no deal. Se questo accade, Theresa May convocherà le elezioni.

Quindi Corbyn, esattamente come la May, sta mettendo il partito prima della nazione.

No, sta mettendo la nazione prima dell’Unione europea. Io sono profondamente critico dell’Ue, penso che non possa sopravvivere se non abbandona il neoliberalismo. E penso che, anche se restiamo, dovremmo lottare per riformarla, riscrivendo completamente il Trattato di Lisbona.

Mueller arresta anche Stone. Lui: “Mai contro Trump”

“A 9. Colpito!”. Il procuratore speciale Robert Mueller fa divenire una battaglia navale il Russiagate, l’inchiesta sui contatti tra la campagna elettorale di Donald Trump ed emissari del Cremlino. Tiro dopo tiro, la corazzata del magnate presidente s’inclina sotto le bordate, ma non affonda ancora. Questa volta, finisce agli arresti Roger Stone, un ex consigliere di Trump: compare in tribunale, si dichiara innocente, esce su cauzione di 250 mila dollari.

Un rito già visto con Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale, costretto a dimettersi; Paul Manafort, manager della campagna, lobbista degli ucraini filo-russi, e Rick Gates, suo socio; e Michael Cohen, l’avvocato personale di Trump, quello che gli pagava sotto banco le amichette perché tacessero. Tutti sono stati inquisiti, arrestati, condannati; e tutti, adesso, per uscirne meglio, collaborano con la giustizia.

Tutti meno Stone, almeno finora. Lui – fa sapere l’ufficio di Mueller – è sospettato di subornazione di testimone, ostruzione alla giustizia e false dichiarazioni. Il procuratore speciale sospetta, inoltre, che i responsabili della campagna gli abbiano detto di provare a ottenere da Wikileaks e-mail rubate che potessero danneggiare i suoi rivali nella corsa alla nomination e, nella fase finale di Usa 2016, la sua antagonista Hillary Clinton. Gli sviluppi del Russiagate s’intrecciano con la fine dello shutdown. Giunta al 35° giorno, la serrata dell’Amministrazione federale paralizza il La Guardia, uno dei tre principali aeroporti di New York, dove i voli restano fermi per disposizione della Federal Aviation Administration. Il caos contagia molti scali degli Stati Uniti; disagi e ritardi si fanno sentire anche a Newark e a Filadelfia. Forse, Trump comincia a preoccuparsene. E così, dopo cinque settimane di paralisi dei servizi non essenziali dell’Amministrazione federale – 800 mila dipendenti senza stipendio –, il presidente e l’opposizione democratica trovano un accordo su una legge che stanzia fondi per riaprire, sia pure non al 100%, i servizi federali. Nel frattempo, andranno avanti le trattative su come e se finanziare il muro anti-migranti al confine con il Messico: Trump, dunque, non l’ha spuntata. Le anticipazioni di fonti di stampa sul compromesso venivano poi confermate da Casa Bianca e Congresso: il rito del discorso sullo stato dell’Unione, martedì 29, davanti al Congresso riunito in sessione plenaria, è salvo.

Torniamo al Russiagate. Arrestato all’alba a Fort Lauderdale in Florida, Stone è comparso ore dopo davanti a un Tribunale: il giudice gli ha imposto restrizione di movimento, che gli consentono solo di presentarsi in Tribunale in Florida o a New York. All’uscita dall’udienza, l’ex consigliere di Trump s’è difeso con vigore: “Le accuse sono false e politicamente motivate”, ha detto; e s’è impegnato a “non testimoniare contro il presidente”. Stone ha anche denunciato il comportamento tenuto dagli agenti dell’Fbi e le modalità dell’arresto alle cinque del mattino. “Si sono presentati in 29, con 17 auto: hanno fatto irruzione, perquisito la casa, spaventato mia moglie e i nostri cani. Bastava che mi chiamassero”. L’uomo è parso sereno, nonostante l’apra contestazione della piccola folla che l’attendeva fuori dall’aula. Neppure Trump ha gradito l’enfasi dell’arresto del suo ex collaboratore: “È la più grande caccia alle streghe nella storia del nostro Paese! I trafficanti di droga e di esseri umani sono trattati meglio. Chi ha avvisato la Cnn perché fosse lì (al momento dell’arresto, ndr)?”, twitta. E la Casa Bianca incalza: “Questa storia non ha nulla a che vedere con il presidente” che “non ha fatto nulla di male”: ritornelli che Trump e i suoi portavoce ripetono dall’avvio dell’inchiesta.

“Juan Guaidó è legittimato: la presidenza era vacante”

“Siamo preoccupati ma non credo scoppierà una guerra civile”. Una fonte interna all’Associazione di Diritto costituzionale risponde così alla domanda del Fatto sull’eventualità di una guerra civile in Venezuela. La fonte, dopo aver chiesto l’anonimato per evitare ritorsioni da parte del regime, prosegue: “Perché scoppi una guerra civile è necessario che buona parte dei venezuelani sia ancora a favore di Maduro e sia disposta a scendere in strada a combattere e morire per lui, ma oggi solo il suo entourage e i vertici delle forze dell’ordine, specialmente l’esercito, sono ancora al fianco del cosiddetto presidente. Va anche considerato che molti soldati semplici non sarebbero disposti ad ammazzare perché anche i loro parenti soffrono del grande inganno di questo finto erede di Chavez”.

La fonte è anche docente di Diritto costituzionale in una delle università pubbliche più importanti del Paese. “Noi professori veniamo pagati in ritardo, ma siamo ancora in grado di acquistare qualche bene primario. La maggior parte della gente invece non ce la fa ed è costretta a fare la fame. I prezzi altissimi e l’inflazione stratosferica hanno reso anche i salari medi incompatibili con il carovita. Maduro ha tradito l’obiettivo di Chavez di far emergere dalla povertà i più deboli e ha distrutto il ceto medio mentre ha arricchito ancora di più la nomenclatura e i vertici dell’esercito”. Sulla legittimità delll’autoproclamazione di Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale a capo dello Stato, dice: “La Costituzione prevede il trasferimento del potere al presidente dell’Assemblea se la presidenza è vacante. Siccome il risultato delle ultime Presidenziali è stato giudicato truccato dalla maggior parte dei venezuelani e della comunità internazionale, ne consegue che Maduro non sia il legittimo presidente e dunque la sua posizione sia vacante. Pertanto è legittimato il passaggio di poteri a Guaidó”.

Due presidenti e zero dialogo. Il Venezuela aspetta il “golpe”

Prove di dialogo abortite in Venezuela tra il presidente la cui elezioni è contestata, Nicolás Maduro, e il presidente auto-proclamato, Juan Guaidó. Maduro, da poco insediatosi per un secondo mandato, dopo un voto non democratico per larga parte della comunità internazionale, prospetta un colloquio a Guaidó; Messico e Uruguay si offrono di ospitare l’incontro, di tentare una mediazione. Ma Guaidó, il presidente del Parlamento che mercoledì ha assunto i poteri esecutivi, fa sapere che non intende partecipare a “dialoghi inutili e dilatori”: lui è disposto a negoziare solo tre punti, la “fine dell’usurpazione”, cioè della presidenza di Maduro, e la creazioni di un governo di transizione, che porti al più presto a elezioni democratiche. E a chi lo accusa di “colpo di Stato”, risponde: “Se mi arrestano, quello sì è un golpe”. Elezioni democratiche le chiede anche l’Unione europea, seppure con toni diversi da Paese a Paese, mentre Donald Trump mette tutto il peso degli Stati Uniti dietro a Guaidó, sostenuto da larga parte dei Paesi dell’Organizzazione degli Stati latino-americani, mentre la Russia e la Cina sono i grandi “garanti internazionali” di Maduro. Che di Guaidó dice: “Lo conosco, è un agente dei gringos, che lo hanno formato e lo hanno fatto entrare in politica… Eseguirà i loro ordini…”.

Nel Paese, la tensione resta altissima. Proteste, incidenti, scontri hanno già fatto decine di vittime: un bilancio, provvisorio, stilato da organizzazioni non governative, contava 26 morti all’alba di ieri; la giornata di venerdì sarebbe poi stata meno cruenta. C’è l’impressione che il bilancio avrebbe potuto essere più tragico, la deriva verso la guerra civile più netta. Invece, i militari e gli apparati dello Stato paiono essere fedeli al regime di Maduro, “chavista” e “bolivarista” nel segno dell’eredità di sinistra di Hugo Chavez e della tradizione latino-americana indipendentista e nazionalista. Con Maduro, c’è pure l’apparato giudiziario, alla cui indipendenza non c’è da prestare troppo credito. Guaidó si muove nel Paese, incontra sostenitori, propone una mobilitazione continua, dà appuntamento oggi alla gente per nuove manifestazioni e domani ai militari: promette un’amnistia “a coloro che passeranno dalla parte della Costituzione”, anche a Maduro. Che, dal canto suo, ribadisce di essere “l’unico presidente” di un Venezuela che, di fatto, ne ha due, senza che nessuno riesca a governare un’economia in crisi con inflazione inauditi.

La comunità internazionale si muove in ordine sparso. Da Washington, John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, afferma che i beni Usa in Venezuela sono affidati alla tutela di Guaidó, che starebbe per rinnovare – con quale effetto e con quale autorità, resta da vedere, i vertici dell’industria petrolifera pubblica venezuelana –. E il Brasile offre a Maduro “un corridoio di fuga”.

Nell’Unione europea, dopo la fuga in avanti “pro Guaidó” della Francia, Spagna e Portogallo, che, con l’Italia – però quasi assente –, sono i Paesi più attenti all’America Latina, provano a suggerire una linea comune: chiedono a Maduro d’indire in Venezuela libere elezioni “entro una settimana”, pena il riconoscimento di Guaidó.

Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera europea, si ferma un passo prima: chiede un voto “libero e credibile”, ma non indica scadenze ed evita di evocare il riconoscimento di Guaidó. Maduro non apprezza la mossa di Madrid: “Spagnoli insolenti – dice –, se vogliono se ne vadano”. Da Panama, dove Papa Francesco partecipa alla Giornata mondiale della Gioventù, la Chiesa si schiera per il cambiamento: “Il popolo lo chiede e noi con loro”, dice il vescovo Mariano Parra. L’Onu dovrebbe pronunciarsi questa mattina: una riunione del Consiglio di Sicurezza è convocata al Palazzo di Vetro, gli Usa saranno rappresentati dal segretario di Stato Mike Pompeo. Difficile prevedere un’iniziativa delle Nazioni Unite capace di sbloccare la situazione: incombono i rischi di veti incrociati russo e americano. L’incertezza e la pericolosità della situazione trovano conferma nella partenza da Caracas di parte del personale diplomatico Usa: “È normale, in queste condizioni, accelerare l’uscita del personale non essenziale”, spiega un portavoce dell’Ambasciata.

Lo staff della Ruocco reclama un posto “tra le autorità”

“Buongiorno, per la presidente On. Carla Ruocco è stato riservato un posto tra le autorità? Gradirei essere informato”. Così lo staff della deputata grillina ieri si “premurava” per la partecipazione al convegno “Trasmettere ed insegnare la Shoah è impossibile?”, organizzato presso l’Aula del Palazzo dei gruppi parlamentari e che ha visto la presenza del presidente della Camera Roberto Fico, del sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, della presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni oltre che di una numerosa delegazione di diversi parlamentari.

La richiesta di sedere tra le “autorità” – va detto – fa parte di una serie di richieste dello stesso tenore abbastanza abituali nei palazzi della politica. Ma ovviamente gli oppositori del M5S – memori delle polemiche sulla “casta” – non si sono fatti scappare l’occasione per punzecchiare una delle avversarie più ostiche: “Quando si siedono sulle poltrone, chiedono il posto in prima fila pure nei convegni sulla Shoah”.

La mostra degli studenti romani in visita ad Auschwitz

Testimoni dei testimoni: la memoria si trasmette come una staffetta. Passa da chi ha vissuto di persona le atrocità dei lager, agli studenti delle scuole di Roma che hanno visitato Auschwitz per farsi raccontare la sua storia nera. E dai ragazzi, oggi, viene trasmessa ancora a chiunque la voglia conoscere. Lo fanno con una mostra, allestita al palazzo delle esposizioni di via Nazionale: si chiama proprio così, “Testimoni dei testimoni”.

Il progetto nasce dalla sindaca Virginia Raggi e del suo vice Luca Monaco. Il Comune organizza i “viaggi della memoria” con le scuole secondarie capitoline dal 2016 (all’ultimo hanno partecipato 29 istituti): una visita ai campi di concentramento e ad altri luoghi della Shoah insieme ai testimoni sopravvissuti all’Olocausto. “Da queste esperienze – ha detto la sindaca – si esce diversi da come si entra. Volevamo trasmettere quest’emozione anche a chi non ha potuto partecipare ai viaggi”.

Così è nata l’idea di una mostra, curata dagli stessi studenti e realizzata dal collettivo artistico Studio Azzurro. A fianco della Raggi, l’hanno raccontata alcuni dei ragazzi coinvolti. La giovanissima Michela Ponticelli, molto emozionata, ha raccontato il senso dell’iniziativa: “Nella mostra non si vede il campo di Auschwitz ma mostriamo soprattutto i volti delle persone. Contro il razzismo, abbiamo cercato di far vedere l’umanità”.

La mostra si apre oggi, alla vigilia del Giorno della Memoria, e prosegue fino al 31 marzo. L’installazione più emozionante è quella che apre il percorso: uno stanzino angusto dalle pareti di legno, grande come un vagone, dove si entra e si rimane al buio, in meditazione, per qualche minuto. Ascoltando il latrare dei cani, le voci di Mussolini e Hitler, i rumori martellanti della vita alienata nel campo di sterminio.

Otto e i suoi reporter-007: una “diretta” sullo sterminio

Si chiamava Otto Pünter. Nel 1927, a Berna, fondò l’agenzia di stampa Insa. Di idee di sinistra, propose al Partito socialista svizzero, e in particolare a Libera Stampa, il quotidiano dei socialisti del Canton Ticino, di fornire notizie sul mondo del lavoro e soprattutto sui movimenti fascisti e nazisti che avevano già preso il potere in Europa, o si approssimavano a farlo. Otto, che fu il primo giornalista socialista a essere accreditato presso il governo e il Parlamento svizzeri, mantenne la parola.

Dal 1933 alla fine della Seconda guerra mondiale, e alla caduta del totalitarismo nazista, grazie soprattutto al lavoro dei cronisti dell’Insa, in più di un caso costretti ad agire come agenti segreti, Libera Stampa e ad altri giornali della Confederazione, che era nazione neutrale, riuscirono a documentare gli orrori dello sterminio degli ebrei e le altre stragi compiute dalle Ss e dai soldati di Hitler. Lo fecero sfidando le censure del governo federale, che non voleva inimicarsi la Germania, tra l’altro il maggiore partner commerciale della Svizzera, e ostacoli di ogni genere. E lo fecero bene, tanto che, a metà del 1942, da numerosi organi di stampa elvetici si poteva apprendere che gli ebrei uccisi dai tedeschi, fino a quel momento, erano un milione. Libera Stampa pubblicò pure, il 19 dicembre 1942, la dichiarazione congiunta anglo-russo-americana in cui si parlava chiaramente di sterminio, e si accusava i tedeschi di avere trasformato la Polonia in un mattatoio. Una dichiarazione che, invece, era stata oscurata dall’agenzia stampa nazionale, l’Agenzia Telegrafica Svizzera.

A raccontarlo è la storica Silvana Calvo nel saggio L’informazione rifiutata. La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie sul genocidio degli ebrei, appena pubblicato dall’editore torinese Silvio Zamorani (pagine 359, euro 38). Come nota Fabio Levi nell’introduzione al libro, “che i giornali svizzeri, negli anni della Seconda guerra mondiale, avessero pubblicato notizie sulle persecuzioni e sullo sterminio degli ebrei in Europa era cosa nota”. Non era mai stato documentato con la dovizia della Calvo, tuttavia, “il flusso ininterrotto di informazioni apparse via via, molto spesso quasi in tempo reale, sui più diversi aspetti del genocidio”. La “precisione dei numeri – aggiunge Levi – la varietà dei luoghi considerati e la ricchezza dei particolari contenuti nelle innumerevoli citazioni proposte – nel volume della Calvo – suscitano un’impressione molto forte, soprattutto se misurate sulla pretesa inconsapevolezza e sulla indiscutibile passività manifestate dalle autorità dei Paesi schierati contro il nazismo per tutto il periodo della guerra”. Come dire che pochi, rispetto a quanti in più avrebbero potuto essere, si impegnarono per fare conoscere ciò che accadeva nei lager e sui fronti; tanti vennero a sapere; e molti fecero finta di niente, raccontando poi di essere rimasti all’oscuro della Shoah e delle decimazioni degli slavi, dei rom, delle popolazioni civili.

Il lavoro dell’agenzia Insa, di Libera Stampa sotto la guida del leader socialista Guglielmo Canevascini, e degli altri giornalisti elvetici, avveniva in una nazione memore delle vecchie tradizioni democratiche e di libertà di stampa.

Negli anni del nazismo e della guerra, però, pur tenendo presente i confini della Confederazione stretta tra la Gemania di Hitler e l’Europa occupata dall’Asse, al coraggio dei giornalisti, di alcuni pastori delle chiese evangeliche e di personalità del mondo ebraico, si contrapposero la ragion di Stato e l’ignavia. La Croce Rossa della Svizzera mandò sul fronte orientale sei missioni mediche, quattro nell’Unione Sovietica e due in Grecia, al seguito della Wermacht. I delegati furono assoggettati, alla stregua di ausiliari dell’esercito tedesco, alle leggi e all’ordinamento disciplinare militari, con l’obbligo pertanto di curare soltanto i soldati tedeschi e con il divieto totale di rendere noto ciò che avevano visto.

E, infatti, tacquero, anche se in privato non poterono non confessare di avere intuito perfettamente l’Olocausto che si stava consumando. Quando, nel corso del 1944, la sconfitta hitleriana si delineò, e la censura federale sull’informazione venne allentata, il giornale Thurgauer Arbeiter Zeitung, l’8 luglio, poté affermare che “dall’inizio della guerra, è sempre stato insopportabile il fatto che si sapesse, da buone e fidate fonti, che l’orrore che si celava dietro l’espressione ‘soluzione finale del problema ebraico in Europa’ significava lo sterminio sistematico di milioni di ebrei, (…) ma questi rapporti sono stati proibiti dalla censura mediante un termine inventato per l’occasione, ‘favolette dell’orrore’, e la loro diffusione è stata severamente punita. (…) Siamo sembrati tutti consenzienti, persino una istituzione come la Croce Rossa Internazionale, che non voleva mettere in pericolo le sue relazioni con certi governi responsabili. Se con ciò è stato davvero evitato un male maggiore, non si sa. L’ottusa inerzia verso questi avvenimenti è sembrata una agonia morale”.

Sempre nel 1944, il Das Volk scrisse: “Ora che si sollevano i veli che una troppo paurosa censura non può più imporre, il mondo scoprirà cosa sono capaci di fare uomini non più legati al diritto. Capirà che i fatti di oggi non sono l’inizio, ma la logica fine di uno sviluppo di fronte al quale ha taciuto fino a quando è stato troppo tardi”. E proseguiva: “L’élite spirituale d’Europa, salvo qualche lodevole eccezione, ha preferito agire timidamente quando invece era necessario alzare decisamente e prepotentemente la voce”.