Il piano per unire WhatsApp, Facebook, Messenger etc.

Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Facebook, prevede di integrare i servizi di messaggistica al social network (WhatsApp, Instagram e Messenger). Lo scrive il New York Times. L’operazione richiede lo sforzo delle migliaia di dipendenti di Facebook per riconfigurare le app WhatsApp, Instagram e Messenger, sottolinea il quotidiano citando alcune persone coinvolte nell’attività. Tutti e tre i servizi continueranno a funzionare come applicazioni stand-alone, la loro infrastruttura di messaggistica sottostante invece sarà unificata. Facebook è ancora nelle prime fasi del lavoro e prevede di completarlo entro la fine di quest’anno o all’inizio del 2020, spiega il quotidiano. Zuckerberg avrebbe anche ordinato che tutte le applicazioni incorporino la crittografia end-to-end, un passo significativo al fine di proteggere i messaggi da occhi indiscreti che non siano dei partecipanti alla conversazione. Dopo l’entrata in vigore delle modifiche, un utente di Facebook potrebbe inviare un messaggio crittografato a qualcuno che ha solo un account WhatsApp, per esempio. Attualmente, questo non è possibile perché le applicazioni sono separate.

Strani giri e soldi spariti dietro il ko del club

Bonifici non pervenuti, pagamenti sospetti, contratti interrotti. In Serie C c’è una squadra che non si presenta in campo da un mese e rischia la radiazione. Ma dietro al disastro sportivo del Pro Piacenza ci sono una serie di ombre che dal campo si allungano al bilancio della società del patron Maurizio Pannella, presidente della Sèleco, marca di televisori già vista l’anno scorso come sponsor sulle maglie della Lazio di Claudio Lotito.

L’incubo del Pro Piacenza, seconda squadra del capoluogo emiliano, inizia quest’estate, quando il club, in buona salute, passa di mano. Pannella si presenta con grandi promesse, ma c’è un problema: la sua azienda è in crisi. Già a ottobre chiede il concordato preventivo, concesso a novembre. Viene da chiedersi perché una compagnia si imbarchi in un’avventura calcistica quando sa di essere in difficoltà: nella migliore delle ipotesi si tratta di un errore di valutazione. Ma non è l’unica cosa strana successa a Piacenza negli ultimi mesi.

È tutto nero su bianco in un esposto presentato in procura da Massimo Londrosi, ex direttore generale che ha documentato quanto accadeva in società. A partire dagli stipendi, che la nuova gestione ha pagato solo in parte, tanto che a lungo andare i giocatori sono entrati in sciopero e hanno ottenuto lo svincolo (ne sono rimasti una manciata in rosa). La proprietà, però, ha fatto di tutto per evitarlo: persino esibire le distinte di due presunti bonifici da 130 mila euro totali, della Sèleco, che non sono arrivati sul conto del club entro la scadenza; nell’esposto si mette in dubbio la veridicità dei documenti, “evidentemente artefatti”.

I soldi promessi non si sono visti. In compenso negli stessi giorni altri importi uscivano dalle casse. Il 26 ottobre, ad esempio, viene pagata una fattura di 3.600 euro allo studio notarile Paolo Farinaro per “il concordato del 22 ottobre”: il Pro Piacenza non ne ha mai chiesto uno, la data invece è la stessa della procedura fatta dalla Sèleco, liquidata però con i fondi della squadra. Ancora più misterioso il pagamento di 5 mila euro a tal Ciro Didone, nome sconosciuto ai dirigenti rossoneri ma noto alle cronache: nel 2004 lo si ritrova coinvolto in un’indagine della Guardia di finanza su un traffico di telefoni e televisori (conclusa con un patteggiamento a 3 anni e mezzo); più di recente risulta essere stato socio proprio di Pannella in una compagnia registrata in Inghilterra e sciolta nel 2014 (la Onemappy Trade Ltd).

Non si sa perché o con quali soldi il Pro Piacenza dovesse pagarlo. Dalla Sèleco, che avrebbe dovuto portare in dote 300 mila euro di sponsor, risultavano saldate appena due fatture da 10 mila euro. E proprio nel momento di bisogno sono state inspiegabilmente risolte altre due sponsorizzazioni (Business partner e Unet Energia italiana) da 120 e 200 mila euro. Invece sono stati utilizzati i contributi della Lega Pro e forse persino del Comune di Piacenza: per ristrutturare il centro sportivo, il club aveva stipulato un mutuo con il Credito sportivo, da rimborsare girando all’Istituto il contributo annuale del Comune; fino allo scorso dicembre, però, la banca lamentava il mancato versamento della cifra.

Il quadro è chiaro, anzi non lo è per nulla. L’unica cosa certa è che il Pro Piacenza pare ormai spacciato, anche se il presidente non si arrende. “Non ho mai seguito personalmente queste operazioni, sono pronto a rimettere in sesto squadra e società: abbiamo già risolto l’istanza di fallimento”, assicura Pannella. Neanche la sua Sèleco, però, se la passa bene: l’azienda ha chiuso il bilancio 2017 (bocciato dal collegio sindacale che ha riscontrato “gravi irregolarità”) con una perdita di oltre 7 milioni. Di sicuro non ha aiutato il contratto firmato con la Lazio a maggio 2017, quando la società si chiamava Twenty spa: 4 milioni a stagione, per un’azienda che a fine anno ne avrebbe fatturato appena uno e mezzo. Poteva permettersi di sponsorizzare una squadra di Serie A per una stagione, ma non è riuscita a tenerne in piedi una di Serie C per sei mesi.

Guerra dei diritti d’autore: Sky fa goal contro la Siae

Più che un tentativo di evadere la legge sul diritto d’autore, la decisione di Sky di ritardare il versamento di milioni di euro nelle casse della Siae va vista come una specie di manovra per rinegoziare il contratto. Una scelta che appare legittima, adottata anche alla luce della liberalizzazione del mercato e della pronuncia dell’AgCom, che ha accertato l’abuso della posizione dominante messo in atto dalla Società italiana degli autori ed editori ai danni degli altri competitor. Anche per questo motivo la scelta della Procura di Roma di chiedere l’archiviazione dell’indagine nei confronti di Andrea Zappia, allora amministratore delegato di Sky Italia, se confermata, è destinata ad avere un forte impatto nel mercato televisivo italiano in tema di diritti d’autore.

Andiamo con ordine. Era l’aprile del 2018 quando la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati dell’attuale chief executive Continental Europe di Sky aveva riacceso il confronto, combattuto anche in sede civile, tra il ramo italiano della società fondata dal magnate Rupert Murdoch e la Siae. In realtà la faccenda era sul tavolo del sostituto procuratore Vincenzo Barba già da tempo, da quando le dichiarazioni del direttore Siae Gaetano Blandini, lamentatosi pubblicamente dei mancati pagamenti dei diritti da parte di Sky, erano state racchiuse in un’informativa della Guardia di Finanza. Il fascicolo, che inizialmente non prevedeva reati e indagati, si era poi arricchito con il nome di Zappia e con un’accusa: mancato versamento dei diritti d’autore. Nel fascicolo è poi finita anche la denuncia della Siae.

La società si era detta danneggiata perché Sky, nel luglio 2017, non avrebbe immediatamente rinnovato il contratto continuando però a utilizzare i contenuti tutelati da Siae. Una faccenda simile riguardava anche una seconda società, di cui Zappia è presidente, che aveva risolto il contratto addirittura nel gennaio 2016. Da qui l’iscrizione nel registro degli indagati. Interrogato, l’ex ad di Sky ha poi spiegato le sue ragioni. Le memorie depositate dalle parti hanno consentito agli inquirenti di giungere a una conclusione: nelle azioni di Zappia non c’era un dolo intenzionale, al massimo un inadempimento contrattuale che deve interessare il tribunale civile. E quello di Milano ha poi riconosciuto il credito da 3 milioni vantato dall’ex monopolista del diritto d’autore.

Sul piano penale, invece, il pm ha sottolineato le mutate circostanze normative che rendono la scelta di Zappia non pretestuosa. E sicuramente non illegale, almeno secondo i magistrati. Insomma, visto che Sky doveva pagare anche altre società che tutelano il diritto di autore, voleva rinegoziare al ribasso il contratto con Siae. Del resto il 25 settembre 2018 l’AgCom, l’Autorità garante della Concorrenza, ha accertato che la Siae ha posto in essere un “abuso di posizione dominante”. E dopo un mese “il Tribunale di Roma ha sospeso il procedimento promosso nel 2014 da Siae, rimettendo gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea”, si leggeva in una nota divulgata dal competitor Soundreef. Sky infatti, nelle memorie depositate in procura, poneva il problema che l’ingresso nel mercato di nuovi competitor di Siae rendeva iniquo il precedente contratto siglato in una situazione di sostanziale monopolio. Questo avrebbe fatto slittare i tempi della firma. Tempi che, comunque, anche in altre occasioni sarebbero slittati. Comunque Sky ha pagato, anche se in ritardo. Da qui la richiesta di archiviazione che potrebbe far riflettere anche altri operatori televisivi chiamati al rinnovo dei contratti con la Siae.

Per il network però le battaglie legali non finiscono qui. La Rai infatti starebbe preparando una causa civile a Roma e un’altra davanti al Garante per le Comunicazioni. La tv di Stato infatti lamenta un mancato pagamento a fronte di servizi Rai trasmessi da Sky attraverso il suo decoder.

Mail Box

 

L’assoluta inadeguatezza del ministro Salvini

Gli oramai consueti toni di sfida di Salvini nei confronti dei giudici – in questo caso il Tribunale dei ministri, che ha chiesto al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per i fatti della nave Diciotti –, oltre a confermare la sua inadeguatezza a svolgere le funzioni di ministro, dimostrano ancora una volta la sua assoluta mancanza di senso istituzionale dal momento che non rispetta l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Probabilmente è anche colpevolmente ignaro che si è espresso con le stesse inquietanti modalità di Mussolini quando, nel gennaio del 1925, si assunse la responsabilità dell’assassinio Matteotti.

Dopo il fascismo si trasformò definitivamente in regime.

Loris Parpinel

 

Berlusconi: i nuovi parolai gli hanno rubato il posto

Berlusconi ha rotto gli indugi e torna nella mischia candidandosi alle prossime Europee. Si sente ancora indispensabile, insostituibile, un vecchio capobranco in grado di suggestionare gli elettori con la seduzione del leader carismatico. Ma è solo banale demagogia: accecato dal suo ego, non si è accorto di essere sgradito a gran parte dei suoi ormai ex elettori, già saliti frettolosamente sul carro del vincitore Salvini.

Patetico e privo di credibilità, l’ex Cavaliere è rimasto in mutande: nuovi protagonisti irrispettosi e narcisi, gli hanno rubato la scena e pure i voti. Capaci oratori parolai, sono quotidianamente impegnati a coltivare il proprio ego esercitando il consenso acquisito per fini personali, l’opportunismo e la demagogia sono la loro essenza.

Silvano Lorenzon

 

Non c’è democrazia “perfetta” e quella diretta non funziona

L’intervista a Piero Ignazi pubblicata sul vostro giornale mi ha dato da pensare. Qualcuno pensa che la democrazia sia un semplice ricambio di oligarchie, invece è alternanza di governo e rinnovamento delle classi dirigenti tramite elezioni. Così si permette a tutti, nel lungo periodo, di ricoprire un ruolo nella politica di un Paese. La democrazia perfetta non esiste, nemmeno quella diretta perché dà troppi problemi. Cento persone hanno cento modi diversi di vedere la stessa cosa, se le loro posizioni non sono riassunte da dei rappresentanti c’è il caos. La maggioranza dei cittadini non vuole vivere nella politica, ma vuole che ci sia qualcuno che si occupi dell’amministrazione.

G.C.

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo “Strasburgo condanna i 5 governi salva-Ilva”, pubblicato ieri sul Fatto quotidiano, tengo a rettificare quanto segue. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha sanzionato l’Italia perché “le misure stabilite dall’Autorizzazione Integrata Ambientale del 2012 non sono state attuate”. Voglio ricordare che fui io a rilasciare l’Autorizzazione per lo stabilimento Ilva di Taranto, il 26 ottobre 2012, imponendo all’azienda un piano di risanamento ambientale basato sulle migliori tecnologie disponibili (Bat), che doveva essere completato entro il 31.12.2015. Il presidente di Ilva, il prefetto Bruno Ferrante, aveva accettato tutte le condizioni imposte dall’Autorizzazione con investimenti a carico dell’azienda per circa 3 miliardi di euro. Per ragioni che ho ampiamente rappresentato nella mia audizione al Senato del 16 luglio 2013, il programma di risanamento avviato dall’azienda è stato bloccato nel giugno 2013 dalla decisione immotivata del governo Letta di commissariare l’azienda. Uno degli effetti del commissariamento è stato il rinvio dei termini del piano di risanamento prima al 2017 e poi al 2023. Se si fossero rispettati i tempi stabiliti dall’Autorizzazione del 2012, il risanamento ambientale sarebbe stato concluso da oltre 3 anni e certamente non dovremmo affrontare le conseguenza della decisione della Corte Europea e della procedura di infrazione aperta contro l’Italia. Per quanto riguarda le conseguenze della decisione della Corte di Strasburgo, mi auguro che nessuno voglia cogliere il pretesto per aprire una vertenza con Arcelor Mittal, che non è certo responsabile dei ritardi nel piano di risanamento ambientale. Piuttosto la decisione della Corte Edu andrebbe utilizzata come occasione per concordare con l’azienda l’introduzione di tecnologie innovative nel ciclo di produzione, come ad esempio l’utilizzazione del gas naturale per la produzione del “preridotto” e la sostituzione anche parziale del carbone, e anche l’impiego delle plastiche (prive di cloro) come agente riducente in parziale sostituzione del coke metallurgico analogamente a quanto Arcelor Mittal fa già nei suoi impianti in Germania.

Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente

 

L’ex ministro Corrado Clini ha ragione quando afferma che l’autorizzazione integrata ambientale del 2012 – che secondo la Corte europea non è stata rispettata – fu firmata da lui. E ha ragione quando afferma che quel provvedimento fissava al 2015 l’ultimazione dei lavori di ammodernamento. La sentenza della Corte però evidenziava che lo Stato non ha tutelato il diritto alla salute dei tarantini: quel provvedimento del ministro consentiva all’Ilva, in attesa di ammodernarsi, di continuare a produrre e quindi di continuare a inquinare. E quindi non tutelava la salute dei tarantini.

Fr. Ca.

Maurizio Landini. Il nuovo segretario riporterà finalmente la Cgil a sinistra?

 

Spero vivamente che la nomina di Landini a segretario generale della Cgil riporti il sindacato sulla via tracciata e perseguita dall’ultimo vero sindacalista di sinistra che l’ha guidato, Luciano Lama. Però il fatto che Landini abbia già annunciato una manifestazione per il 9 febbraio prossimo, contro l’attuale governo che ha varato ultimamente una legge che più di sinistra non si può, a favore di persone disoccupate, mi fa sorgere qualche dubbio sulla possibilità che la Cgil voglia ritornare a essere un vero sindacato di sinistra. Spero di sbagliarmi.

Francesco Forino

 

Caro Francesco, avendo seguito attentamente tutti i lavori del congresso Cgil non ho alcun dubbio che Maurizio Landini voglia un sindacato autenticamente di sinistra. I suoi riferimenti insistiti allo spirito originario delle Camere del lavoro, alla lezione di Giuseppe Di Vittorio, al ruolo centrale che i delegati di base devono avere nel sindacato, fino a richiami, che non si sentivano più da tempo, alla distinzione tra “sfruttati” e “sfruttatori” o parole d’ordine di un tempo ormai andato come “proletari di tutto il mondo unitevi” (eppure quanto mai attuali). Landini come leader sindacale costituisce un’evoluzione di sinistra della Cgil anche se poi dovrà dimostrare sul campo la praticabilità delle sue proposte. Lei dice di avere dei dubbi sulla manifestazione perché contesterebbe un governo che ha appena varato una legge “che più di sinistra non si può”. Condividiamo certamente il giudizio sull’utilità di misure come il reddito di cittadinanza – sia pure nella forma parziale varata dal governo – così come giusto era stato il cosiddetto decreto Dignità. E non sembra che il dito del sindacato sia puntato particolarmente su queste proposte, quanto sulla politica complessiva in particolare quella fiscale. Non a caso, a conclusione del congresso, Landini ha messo l’accento sull’altro volto del governo, la politica sui migranti, richiamandosi ai valori fondamentali della Costituzione e alla scelta antirazzista della Cgil. Il rapporto tra il sindacato di Landini e il governo attuale, soprattutto nella sua componente 5stelle, sarà tutto da verificare. Ma non si può certo definire “di sinistra” l’attuale governo e Landini, invece, si trova davanti al campo di macerie della sinistra tradizionale per cui cercherà anche di supplire a quel ruolo. Il suo protagonismo, in ogni caso, movimenterà la vita politica, tra l’altro con uno stile che preferisce stare al merito dei problemi, senza pregiudiziali, e questo credo sia la cosa interessante che ci consegna il congresso della Cgil.

Salvatore Cannavò

Da Bertolucci a Banfi, tu chiamali se vuoi “maestri”

Deve essere vero, Destra e Sinistra sono in via di rottamazione, ferrivecchi del Novecento, nell’era digitale vanno l’Alto e il Basso. Ma cos’è l’Alto, cos’è il Basso? Il direttore di Rai2 Carlo Freccero, nel rendere omaggio a Bernardo Bertolucci programmando Ultimo tango a Parigi, ha osservato come la scomparsa dell’ultimo rappresentante di una generazione di grandi registi sia passata in sordina. Regolare, il cinema d’autore vive un’eclissi globale: quasi scomparso dalle sale (anch’esse in via d’estinzione), la sua memoria può sopravvivere solo grazie alla Tv. Due giorni dopo, Luigi Di Maio ha presentato raggiante il nuovo membro del governo alla Commissione per l’Unesco: “Il maestro Lino Banfi sarà patrimonio dell’Unesco”. Massimo rispetto per Banfi, per la sua vantata assenza di lauree (così anche Briatore è contento), per il commissario Ettore Lo Gatto, per Oronzo Canà, per Peppino Patané, per il Cavalier Lanotte. Non parliamo poi di Nonno Libero, che Di Maio, abolita la povertà, vorrebbe lui pure patrimonio dell’umanità. È vero, dopo una certa età tutti diventiamo “maestri”. Tuttavia, c’è maestro e maestro. C’è il maestro Riccardo Muti. C’era una volta il maestro Alberto Manzi. E c’era il maestro Bernardo Bertolucci. Ora c’è il maestro Banfi, e tra un po’, dice Salvini, potrebbe toccare al maestro Jerry Calà. Dopo un quarto di secolo di assordante videocrazia, cos’è l’Alto, cos’è il Basso? Possibile che dalle provocazioni di Pasolini siamo passati alla Cuccarini?

Con Guaidó c’è l’élite, non il popolo

Vorrei sapere in nome di quale principio o norma di diritto internazionale uno Stato può intervenire militarmente, o minacciare di farlo, negli affari interni di un altro Stato sovrano regolarmente rappresentato all’Onu. Vorrei sapere in nome di quale principio o norma di diritto internazionale uno Stato può incitare le forze armate di un altro Stato a ribellarsi al proprio governo. Vorrei sapere in nome di quale principio o norma di diritto internazionale uno Stato può decidere chi sia il legittimo presidente di un altro Stato. Vorrei sapere in nome di quale principio o norma di diritto internazionale uno Stato può finanziare apertamente l’opposizione di un altro Stato (intendiamoci, questo avveniva, un tempo, anche in Italia: gli Stati Uniti finanziavano la Dc e il Psdi, l’Unione Sovietica il Pci, ma questo avveniva almeno a porte chiuse, anche se poi tutti lo sapevano). Vorrei sapere in nome di quale principio o norma di diritto internazionale un politico, sia pur un parlamentare, può autoproclamarsi presidente del proprio Paese solo perché a capo di una mobilitazione di 50, 60 o 80 mila persone. In democrazia, quella democrazia in nome della quale sempre ci rompono i coglioni, un capo di Stato o un premier è legittimato solo dal voto e 50 o 60 o 80 mila persone scese in piazza non possono solamente per questo rappresentare un Paese di 32 milioni di persone.

Tutto quello che abbiamo fin qui elencato vìola invece una norma di diritto internazionale, sottoscritta solennemente a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo, che sancisce il principio dell’“autodeterminazione dei popoli”. Una volta ancora gli Stati Uniti violano questo principio fondamentale, contro la volontà dell’Onu, come hanno fatto in Serbia nel 1999, in Iraq nel 2003, in Somalia nel 2006/2007, in Libia nel 2011 e in Siria nel 2012. A parte che i risultati di questi interventi americani sono sempre stati devastanti, bisognerebbe lasciare, sempre in forza del principio sancito a Helsinki, che sia la popolazione di un Paese a risolvere da sé e con le sue sole forze le proprie questioni interne. Nessuna dittatura – se questo è il problema – può resistere a lungo se non ha l’appoggio di una parte consistente della popolazione. Altrimenti cade. Invece con gli interventi americani, fossero presidenti Clinton o Bush figlio od Obama od ora, forse, Trump, guerre civili locali che sarebbero prima o poi finite con la vittoria di una o dell’altra parte si sono trasformate in guerre globali di cui non si intravede la fine.

Il governo russo ha affermato: “Le interferenze straniere costituiscono una sfacciata violazione delle norme basilari del diritto internazionale”. Menomale che esiste la Russia, ora ritornata potenza mondiale, a cercare di tenere a freno le violenze e le prepotenze americane. E viene quasi la nostalgia della vecchia Unione Sovietica quando in virtù dell’“equilibrio del terrore” nessuna delle due potenze allora egemoni, Stati Uniti e Russia appunto, poteva permettersi di andare oltre certi limiti o quando lo faceva, come fu per gli americani in Vietnam, ne usciva con le ossa rotte.

Infine una nota su Salvini. Costui vuole fare sempre il nerboruto e il fenomeno, cosa che finirà per perderlo, come ha perso Matteo Renzi, e ha dichiarato: “Basta con Maduro, prima se ne va e meglio è. È lui che ha affamato il popolo venezuelano”. Salvini ha avuto l’intuizione di affermare che ciò che si sta muovendo oggi in buona parte del mondo è una lotta dei popoli contro le élite. Ma non ha capito che in Venezuela è proprio il sedicente e autoproclamatosi presidente Juan Guaidó a rappresentare le élite, cioè quelle ricche famiglie venezuelane che han sempre odiato Chavez come oggi odiano Maduro, che han tentato di tagliar le loro lunghe unghie, mentre è Maduro a rappresentare il popolo.

La guerra mediatica della disinformatia intorno alla Consob

 

“Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto”

(Indro Montanelli)

 

C’è un aspetto mediatico, che è insieme politico e istituzionale, dietro la querelle sulla candidatura di Marcello Minenna alla presidenza della Consob, la Commissione nazionale per le società e la Borsa. E non riguarda la persona, le competenze e le qualità generalmente riconosciute a un valente economista come lui, laureato alla Bocconi e docente nella prestigiosa Università milanese, doctor di ricerca alla London School di Mathematical Finance e dal 2007 responsabile, per di più, dell’Ufficio analisi quantitative presso la medesima Consob. L’aspetto mediatico attiene piuttosto alla campagna di disinformazione messa in atto nel tentativo di contrastare questa designazione, nonostante l’intesa raggiunta sul suo nome tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E se i “dioscuri” della maggioranza di governo sono d’accordo, ma l’investitura tarda ormai da più di quattro mesi, allora è chiaro che la questione assume – appunto – una dimensione politica e istituzionale.

A chi spetta, in base alla legge, questa nomina? Al presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio dei ministri. Ma finora il presidente Mattarella non ha potuto nominare nessuno per la semplice ragione che il presidente Conte non ha proposto nessun nome. Dal 13 settembre, insomma, e cioè da quando s’è dimesso l’ex presidente Mario Nava in seguito alle polemiche sull’incompatibilità tra il “distacco” dagli uffici tecnici della Commissione europea e la guida della Consob, il vertice di un organismo così importante per la vita economica del Paese è vacante.

Per giustificare un tale ritardo, la disinformatia ha fatto circolare la voce di una perplessità del capo dello Stato nei confronti di Minenna, a causa della sua eccessiva indipendenza: proprio quella dote che in teoria sarebbe necessaria e indispensabile per presiedere un’Authority. Ma, attraverso i suoi portavoce giornalistici esterni, il Quirinale ha fatto smentire questa malevola supposizione. Poi sono stati imputati a Minenna, per la promozione da condirettore a direttore, i ricorsi presentati da 12 dirigenti interni contro di lui per presunti favoritismi. E infine, faute de mieux, è circolato il pettegolezzo su un “fidanzamento” di Minenna con la parlamentare del M5S, Carla Ruocco, presidente della Commissione finanze della Camera: una relazione che, anche se fosse vera e a quanto pare non lo è, non dovrebbe comunque scandalizzare un Parlamento affollato di coppie più o meno ufficiali. Per fortuna, nessuno ha tirato fuori finora il fatto che il candidato alla presidenza della Consob è meridionale, nato a Bari nel ’71. Forse anche per il motivo che questo sarebbe un titolo in più per assumere la presidenza di un’Authority economico-finanziaria che potrebbe contribuire magari a orientare e rilanciare gli investimenti pubblici e privati nel Mezzogiorno, nell’interesse di tutto il Paese. Ma si può stare sicuri che, in caso di una nomina di Minenna, qualcuno sarebbe pronto a eccepire che in Italia “comandano i terroni”. Perché mai, dunque, Conte non dovrebbe proporre a Mattarella un nome su cui la maggioranza che sostiene il suo governo ha già manifestato un accordo? Un candidato che vanta un curriculum più che rispettabile e veritiero; un economista autorevole e indipendente che proviene dall’interno della stessa Consob. Se il premier esitasse ancora, rischierebbe di accreditare retroattivamente la disinformatia e di avvalorare anche le voci secondo cui i suoi rapporti professionali pregressi sarebbero di ostacolo a questa designazione.

Calenda e orticelli (e la sinistra sparirà)

Il pregio del Manifesto di Calenda è aver aperto un dibattito; il difetto averlo impostato su presupposti confusi e discutibili. Un fronte indistinto – che lui definisce liberal-democratico – in una competizione proporzionale sarà facile bersaglio della propaganda gialloverde, facendo loro il regalo di trasformare le elezioni europee in un referendum sull’Europa.

Da giorni ripete “no a quelli LeU”, eppure tra i promotori c’è Enrico Rossi, fondatore di Mdp, che con altri ha dato vita a LeU. Sostiene poi che debba essere escluso chi cerca alleanze nazionali con Lega o M5S. LeU non ha questa intenzione, ma ritengo sia stato un errore politico grave non avviare dopo le elezioni un dialogo col M5S: per vedere le carte di un possibile bluff e per non consegnare larga parte di elettorato grillino alla Lega, come è avvenuto (stessa posizione di Martina, altro entusiasta firmatario). Vista la stima che nutro per Calenda voglio rassicurarlo: non aderirò al suo manifesto.

Nella carta dei valori di Liberi e Uguali c’è un concetto a me caro: cambiare il mondo, non aggiustarlo. È indubbio che il centrosinistra, in Italia come in Europa, abbia adottato ricette neoliberiste: in una spirale perversa la politica è stata sopraffatta dall’economia e questa, a sua volta, dalla finanza. Il risultato ci mostra cittadini indifesi di fronte alla ricchezza e al potere di pochi. Calenda denuncia le diseguaglianze e invoca nuove politiche per la crescita e lo sviluppo, ma avendo avuto ruoli importanti negli anni, dal sostegno all’agenda Monti ai successivi incarichi, l’autocritica non basta ad assegnare patenti di novità, eventualmente di trasformismo. Bastano gli esempi dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, l’acquiescenza ai diktat tecnocratici sull’austerità e il Jobs Act. Puntare poi, come si afferma nel manifesto, sugli Stati Uniti d’Europa significa puntare su un’Europa degli Stati nazionali.

La mia critica all’attuale assetto dell’eurozona parte da qui, da qui l’impegno per una radicale trasformazione dell’Unione, a partire dal modello intergovernativo e dalla revisione dei Trattati. Il primo obiettivo è un welfare comunitario: abbiamo la stessa moneta, regole e istituzioni comuni, dovremmo quindi prenderci cura insieme di chi rimane indietro, per affrontare le diseguaglianze ma soprattutto per redistribuire una ricchezza che tutti concorrono a produrre e di cui pochi godono. Occorre mettere in discussione anche l’assetto attuale delle famiglie europee, essere lievito in ciascuna di esse e coltivare l’ambizione di costruire un’unica sinistra, in Italia e in Europa.

Tra le sinistre c’è chi, da anni, si è uniformato alle ricette liberiste e alle politiche economiche di destra, e chi è rimasto legato alla sola testimonianza, con un impegno encomiabile sul piano personale ma non efficace su quello collettivo.

Come noto, nonostante il deludente risultato, continuo a credere che LeU debba trasformarsi in partito: una forza, indipendentemente dal nome, che abbia consapevolezza della complessità dei problemi e dirigenti non compromessi col passato. È fondamentale organizzare esperienze politiche e civili che mettono al centro della loro azione libertà e uguaglianza, ma tutto si ferma per tentazioni dirigistiche, personalismi, e tatticismi. Si diceva “ognuno guarda il proprio orticello”: ora molti si affannano a curare solo la piantina sul proprio balcone. Penso onestamente che la “nuova forza rosso verde” (il cui ideologo ha già firmato con Calenda) sia velleitaria; non di meno dubito che la sinistra possa risorgere grazie a un nuovo cartello elettorale affidato alla visibilità di singoli individui. Non c’è alcun progetto di lungo respiro, nessuna prospettiva che vada oltre le urne.

Nessuno dei dirigenti attuali, me compreso, è all’altezza di questo compito: non servono i più giovani di una vecchia generazione ma – indipendentemente dall’età – una nuova classe dirigente. Servono parole d’ordine chiare sulle quali fondare non solo un partito ma una comunità e la prospettiva di un Paese migliore per cui battersi: istruzione gratuita fino alla laurea; patrimoniale sui grandi redditi; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; investimenti pubblici per creare lavoro e trasformare in senso sostenibile il nostro modello economico; difesa dei diritti; salvare le persone: non accettare la politica degli accordi coi torturatori libici, garantire accoglienza e integrazione in Europa.

Non vedo altro orizzonte possibile: con meno di questo la sinistra nel nostro Paese è destinata a scomparire, avendo lavorato alacremente alla propria estinzione.

* Senatore di LeU ed ex presidente del Senato

Treofan, licenziati gli operai “traditi” da De Benedetti

Il ministero dello Sviluppo economico ha comunicato che la Treofan, azienda di Battiglia (Salerno) che produce da oltre 30 anni polipropilene biorientato per l’etichettatura dei prodotti alimentari di grandi colossi come Coca Cola e Heineken, ha avviato la procedura di licenziamento dei 78 dipendenti. Ma solo lo scorso ottobre, dopo averla acquistata per 500 mila euro, la nuova proprietà indiana – la Jindal Films Europe – aveva dato precise indicazione di garantire uno sviluppo attraverso l’impegno a finanziare fino al 31 dicembre 2019. Per oggi è prevista una manifestazione organizzata da tutte le sigle sindacali per scongiurare la chiusura di questo importante sito industriale: a rischio ci sono circa 160 posti di lavoro diretti e dell’indotto. I sindacati spiegano che “la mission di realizzare l’integrazione delle due società non è stata mai concordata e che l’azienda aveva già predeterminato la chiusura dell’unità produttiva italiana”. Durante il sit-in si pronuncerà anche il nome di chi ha venduto la fabbrica a chi adesso ha deciso di andare via: Carlo De Benedetti, proprietario del gruppo Espresso , che con diverse operazioni finanziarie e plusvalenze ha ceduto la società agli indiani.