Dalle ceneri tiepide dei suoi ricorrenti fallimenti, rinasce – periodicamente – l’Araba Fenice del ‘quick fix’: l’idea, l’illusione, di risolvere tutti i mali della governance mondiale con una sola mossa, far entrare la Germania fra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu con (o meglio senza) diritto di veto.
Non accadrà stavolta come non è accaduto in passato, neppure quando la Francia non era la sola a vedere bene questa soluzione. Per Parigi, è un modo facile e indolore di dimostrare amicizia a Berlino: francesi e tedeschi affermano un comune obiettivo, ben sapendo che non lo conseguiranno. Se entra la Germania nel club dei “permanenti”, allora vuole entrare il Giappone, che ha l’appoggio degli Usa ed è la Germania d’Asia: una grande economia politicamente e militarmente “mortificata” dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. E poi lo pretendono India e Brasile e Sud Africa, in nome proprio e degli equilibri geografici; e altri Paesi s’accodano.
Va avanti così dalla fine della Guerra Fredda. Le Nazioni Unite hanno un’architettura istituzionale che discende direttamente dall’esito della guerra: nel Consiglio di Sicurezza, composto da 15 Paesi, siedono in modo permanente, e hanno diritto di veto, le 5 potenze vincitrici, che sono pure le cinque potenze nucleari “legittime”, Stati Uniti, Russia (come erede dell’Urss), Cina, Gran Bretagna e Francia.
Fra le critiche mosse a questa “squadra”, c’è che l’Europa è sovra-rappresentata: con la Germania, lo sarebbe ancora di più. Gli altri 10 ruotano: ogni anno ne vengono eletti cinque per un biennio, uno dell’Occidente, uno del fu blocco comunista, un africano, un asiatico e un latino-americano. Nel tempo, il numero dei Paesi Onu è cresciuto: dai 50 iniziali ai 193 attuali. La composizione del Consiglio di Sicurezza, dunque, appare a molti inadeguata, a partire dall’anacronistica divisione tra Paesi occidentali e del blocco comunista.
Negli ultimi 25 anni, sono state fatte numerose proposte di riforma: l’Italia ne è stata propugnatrice o partecipe. Fra le tante: abolizione del diritto di veto; ampliamento dei membri permanenti a 6 o a 7, cioè ‘quick fix’ con l’ingresso della Germania ed eventualmente del Giappone; allargamento da 15 a 20 dei membri del Consiglio di Sicurezza con più Paesi “rotanti”; creazione di una fascia di membri semi-permanenti – una decina – che si alternano più frequentemente degli altri.
Questa è la formula che pareva avere più chances di successo. Ma, quando si trattava di delimitare la fascia, i pretendenti erano sempre più dei posti: Germania e Italia; Giappone e Corea del Sud, ma anche inevitabilmente India e quindi Pakistan e Indonesia; Sud Africa e un Paese dell’Islam, l’Arabia Saudita o l’Egitto; Brasile, ma anche Argentina e Messico; e poi Canada e Australia; e, a quel punto, chi li tiene Turchia e Iran e magari Nigeria?
In questo infruttuoso esercizio diplomatico, si sono formate alleanze e cordate, rinsaldate e poi rotte amicizie. E tutto è rimasto com’era, magari “arcaico” e poco efficiente, ma almeno esistente. L’Italia, poi, nell’attuale sistema sa farsi valere: con la Germania e il Giappone, è uno dei Paesi che ha fatto più bienni. L’ultimo, quello 2017-18, l’ha però dovuto spartire con l’Olanda, perché l’Assemblea generale non riusciva a esprimere una maggioranza né per Roma né per l’Aja. Dal 1° gennaio, è subentrata la Germania. Prove generali di permanenza prolungata? Nessuno ci crede.