“Sì, no, vedremo…” Il rebus dei partiti sul voto in Giunta

Sì, no, forse. Sfogliano la margherita i senatori di tutti i partiti, quando è ancora possibile coglierli alla sprovvista chiedendo loro cosa voterebbero sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini. Qualcuno nicchia, in attesa di indicazioni dal capogruppo, qualcun altro ha già scelto.

L’attenzione è soprattutto sui Cinque Stelle. In Giunta per le elezioni al Senato c’è Mario Michele Giarrusso: “Al momento non so ancora dire cosa voterò. Di certo nessuno nel Movimento andrà per conto suo, avremo una posizione unitaria, anche se si tratta di un caso molto peculiare”. Ben più deciso Gianluigi Paragone: “Salvini farà di tutto per farsi processare, perché avrà solo da guadagnarci. Da parte nostra, non abbiamo mai impedito alla giustizia di processare i parlamentari”. Un via libera all’autorizzazione, secondo Paragone, non metterebbe in crisi il governo: “Non ci sarà nessun aut aut della Lega, di questo ne sono sicuro”.

Fa parte dei possibilisti, invece, Emanuele Dessì, che ammette esistano posizioni discordanti: “Col gruppo ci sentiremo domani (oggi, ndr), ci sono idee diverse. O si prende una decisione tutti insieme o c’è libertà di scelta, ma credo che il Movimento alla fine avrà una sua linea”. Decisivi potrebbero essere i voti dei dissidenti dei 5 Stelle. Ieri Paola Nugnes, intervistata dal Corriere, ha garantito il suo voto favorevole all’autorizzazione, così come Elena Fattori.

Con le “ribelli” potrebbe votare compatto, per una volta, il Pd. Il giudizio però resta sospeso ancora per qualche ora, come spiega il membro della Giunta Giuseppe Cucca: “Dovremmo vederci lunedì per discutere e avere il tempo di leggere le carte”. All’attesa partecipa anche Luciano D’Alfonso, che assicura di “avere già una posizione”, tenuta però nel riserbo fino al vertice di settimana prossima.

Ha già deciso, invece, Matteo Richetti: “Non vedo gli estremi per negare l’autorizzazione, anche se, da persone serie, studieremo i fascicoli. Poi sulla questione c’è una strumentalizzazione tale che potrebbe essere lo stesso Salvini a non chiedere lo scudo”. Qualunque cosa decida il ministro, anche secondo Monica Cirinnà il Pd dovrà tirare dritto: “A noi non converrà votargli contro a ridosso delle Europee, ma credo ci siano gli aspetti penali per procedere e voterò perché venga processato”.

Per il Sì ci saranno poi i voti della sinistra nel gruppo misto, rappresentata da Piero Grasso e dalla capogruppo Loredana De Petris: “Non ci dobbiamo far spaventare dalla propaganda di Salvini e bisogna coglierlo in contraddizione se, a differenza di quanto ha dichiarato, si farà salvare”.

Di tutt’altro tenore i commenti da Forza Italia, come rivendica Licia Ronzulli: “Siamo garantisti e certi che la Giunta valuterà correttamente. Chi governa lo decidono le urne, non i tribunali”. Così anche Gaetano Quagliariello, secondo cui, al netto delle carte, “il pregiudizio è negativo rispetto all’autorizzazione a procedere”. Verso il No anche Luigi Vitali (“Aspetto i fascicoli, ma oggi la mia posizione è di negare l’autorizzazione”) e Andrea Cangini: “Non mi piace come Salvini fa il ministro, ma penso si sia mosso in un perimetro politico consentito”.

Parole all’unisono con Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia (“I principali sostenitori di Salvini sono quei magistrati che lo hanno indagato”) e che sono miele per il Carroccio. Ieri dal fronte Lega ha parlato per tutti la ministra Giulia Bongiorno: “Quella di Salvini è stata una scelta politica. I diritti umani sono inviolabili, ma un governo ha il dovere di farsi carico di regolare alcuni fenomeni”. Senato permettendo.

Sbagliato contestare le idee politiche

Il provvedimento che i giudici del Tribunale dei ministri di Catania hanno scritto è ispirato al senso di umanità e io sono d’accordo, tranne che nel passaggio in cui accennano a una continuità tra le promesse fatte durante la campagna elettorale dal Salvini in corsa e l’azione di governo del Salvini ministro.

A pagina 27 si legge: “(…) dietro l’attendismo (…) non vi fossero ‘ragioni tecniche’ ostative allo sbarco, bensì la volontà politica del Sen. Matteo Salvini di portare all’attenzione dell’Unione europea il ‘caso Diciotti’ (…) il Sen. Matteo Salvini, nella sua qualità di ministro dell’Interno, pur rimanendo inalterata la misura amministrativa per il rilascio del POS – il luogo sicuro – prevista dalla direttiva 009/15 SOP, ha ritenuto di dare seguito a un proprio convincimento politico, che aveva costituito uno dei cardini della sua campagna elettorale”.

È un’affermazione incidentale non coerente con il quadro rigoroso del provvedimento e che darà sicuramente voce alle anime più maliziose. Invece il messaggio che vuole lanciare il Tribunale è chiaro: i diritti umani vanno sempre rispettati perché sono inderogabili. Non possono essere compressi o violati per nessun motivo.

I magistrati si sono trovati davanti a due nette alternative: dire che era un fatto esclusivamente politico o, pure in presenza di un contesto politico, non venire meno al sindacato dell’autorità giudiziaria che ritiene i diritti umani incomprimibili.

Avevano un grande nodo da sciogliere e hanno deciso di ricordare che i politici al governo non possono sentirsi liberi di fare tutto perché legittimati dal voto del popolo, ma anche loro devono tenere conto dei limiti a cui vanno incontro e tra questi la dignità inviolabile della persona umana. Ma questo non è un giudizio di merito sulla linea stabilita dal governo sull’immigrazione né su Salvini, sbaglia chi dà una lettura politica. I giudici siciliani sono pienamente in linea con altre sentenze della Corte costituzionale, ma è anche l’orientamento diffuso nella stragrande maggioranza dei Paesi europei: la tutela dei diritti umani va al primo posto. E i magistrati sono in linea con il resto d’Europa anche dal punto di vista metodologico, che consiste nel mettere a confronto due posizioni che in astratto meritano entrambi tutela, poi si sceglie quella preminente.

I giudici di Catania hanno seguito il loro metodo giuridico: sono partiti dal loro assunto base, i diritti, hanno osservato che c’è stata una violazione e da qui hanno visto l’abuso. Non si può rovesciare l’ordine, partendo dal fatto che puniscono l’abuso per la violazione dei diritti, per strumentalizzare politicamente questa vicenda.

Il Tribunale dovrebbe aver ricostruito così quanto è successo nell’agosto scorso con la nave Diciotti con il suo carico di quasi 200 persone: la catena di comando, i sottoposti che prendono ordini da Salvini magari avevano paura di prendere una decisione che potesse sconfessare la linea politica del ministro.

Avranno pensato che il Viminale non volesse farli attraccare, si sono fatti interpreti del pensiero del ministero.

(testo raccolto da Lorenzo Cipolla)

I giudici hanno sconfessato la procura

Come è noto, 177 migranti furono costretti nell’agosto 2018 a rimanere per molti giorni sulla nave della Guardia costiera “Diciotti”, attraccata nel porto di Catania, a seguito dell’ordine impartito dal ministro dell’Interno Salvini che vietò loro di scendere prima che l’Europa non avesse deciso di distribuirli nei Paesi membri.

Il procuratore della Repubblica di Agrigento ravvisò nel comportamento del ministro il reato di sequestro di persona aggravato. Gli atti vennero inviati alla procura di Catania per l’inoltro al Tribunale dei ministri territorialmente competente che ieri ha chiesto al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro. Il Tribunale dei ministri ha ritenuto che “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”.

La decisione del Tribunale dei ministri sconfessa la richiesta di archiviazione del procuratore di Catania secondo cui il ritardo nello sbarco era “giustificato dalla scelta politica, non sindacabile dal giudice penale per la separazione dei poteri, di chiedere in sede europea la distribuzione dei migranti (e il 24 agosto si è riunita la Commissione europea) in un caso in cui secondo la ‘convenzione Sar’ sarebbe toccato a Malta indicare il porto sicuro”.

Per rendersi conto della erroneità della richiesta della Procura basta richiamare le norme che regolano il procedimento a carico dei ministri. È previsto, infatti, (art. 6 L. Cost. 1/1989) che il procuratore della Repubblica competente, al quale vanno inviate tutte le notizie di reato concernenti i delitti di cui all’art. 96 Cost. – omessa ogni indagine – trasmetta, con le sue richieste, entro 15 giorni, tali notizie al Tribunale dei ministri dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché possano presentare memorie o chiedere di essere ascoltati.Il collegio, entro novanta giorni dal ricevimento degli atti, compiute indagini preliminari e sentito il pubblico ministero, può disporre l’archiviazione con decreto non impugnabile. In caso diverso, il collegio, sentito il pm, se non ritiene che si debba disporre l’archiviazione, trasmette gli atti con relazione motivata al procuratore della Repubblica per la loro rimessione alla camera di appartenenza.

Alla stregua di tali disposizioni, appare, quindi, evidente l’anomalia del provvedimento del procuratore Zuccaro che, fin dall’inizio, richiese l’archiviazione laddove avrebbe ben potuto aspettare l’esito di indagini (eventualmente) disposte dal Tribunale (o da egli stesso richieste) ed esprimere il proprio parere quando il collegio – prima di adottare il provvedimento di archiviazione o richiesta di autorizzazione – lo avesse “sentito”. In ogni caso, la richiesta di autorizzazione non poteva essere fondata (e giustificata) sulla valutazione di “una scelta politica” del ministro, valutazione che spetta esclusivamente alla camera di appartenenza che nega l’autorizzazione a procedere ove reputi, con decisione insindacabile, che l’inquisito “abbia agito per la tutela nell’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” (art. 9 comma 3).

I 5Stelle al martire Salvini: “Vuole il processo? L’avrà”

Sanno che qualunque decisione per loro sarà un danno. E che a guadagnarci sarà sempre Matteo Salvini: l’alleato di governo che è anche il loro unico, vero avversario, per il quale la richiesta di rinvio a giudizio del Tribunale dei ministri di Catania per il caso della nave Diciotti “è una manna dal cielo, su cui baserà la campagna elettorale”. E non a caso, ieri, il vicepremier ha offerto il petto ai giudici, dicendosi pronto al processo. Mentre la ministra del Carroccio Giulia Bongiorno preannunciava il suo no in Giunta.

Una mossa a tenaglia, contro quei Cinque Stelle che hanno letto il gioco. E che anche per questo vanno dritti verso il sì al rinvio a giudizio del ministro dell’Interno. Tanto che in serata una fonte di governo lo dice dritto: “Salvini vuole farsi processare? Bene, è quello che avrebbe fatto il M5S”. Ergo, siamo pronti a darglielo, il processo. Perché ai piani alti sentono di dover difendere un loro comandamento, quello in base al quale non ci si può sottrarre ai tribunali, mai. E poi perché il no, proprio alla luce dei codici fondanti del Movimento, sarebbe come gettare un ordigno dentro il gruppo del Senato, già molto agitato. “Rischieremmo di non reggere in aula”, ammettono dai piani alti. E allora si va corre verso il sì. Scelta comunque gravosa, perché il M5S dovrà far processare un ministro di cui ha condiviso la linea. Con il Carroccio che potrebbe puntare il dito contro la mancata solidarietà del contraente di governo. Lasciando montare la marea social contro il “tradimento”. Tradotto, comunque andrà sarà una rogna.

Una verità evidente anche ai 5Stelle: “Salvini era in difficoltà, invece adesso potrà fare il martire perseguitato dai giudici”. E la controprova sarebbero le dichiarazioni di ieri del ministro: “Avrei voglia di andare fino in fondo e di essere convocato a Catania. Poi però il Senato è sovrano e deciderà. Ma io non ho bisogno di protezione: altri chiedevano l’immunità perché rubavano, io invece ho applicato la legge da ministro”. Insomma, la guerra permanente con il tribunale può essere benzina per la Lega che corre verso le urne di maggio. Anche perché la vicenda potrebbe dilatarsi per settimane. Con la Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama che si riunirà mercoledì sul caso del senatore Salvini, e il calcio d’inizio sarà la relazione del presidente della Giunta, il forzista Maurizio Gasparri.

Poi il leghista avrà alcuni giorni per inviare una memoria scritta, a meno che non decida di presentarsi davanti ai senatori (può fare entrambe le cose). “Non abbiamo ancora deciso” dicono dal Carroccio. Dove quasi tifano affinché i tempi si allunghino: perché la Giunta dovrebbe decidere entro 30 giorni, ma il termine è prorogabile. Poi toccherà all’aula, che dovrà dire la parola definitiva entro un mese dalla deliberazione della Giunta. Chiudendo una partita che ieri ha provocato l’imbarazzo degli eletti del M5S, in attesa di una indicazione dall’alto. E con lo stesso Luigi Di Maio che in una diretta su Facebook ha parlato solo di trivelle. Mentre la dissidente Elena Fattori pungeva: “Un tempo avremmo votato sicuramente sì, oggi chissà…”. Ma nel Movimento sanno dei rischi dell’aula, che deciderà a maggioranza assoluta e con voto segreto. Quindi ecco perché sono pronti al sì. E a confermarlo durante Accordi & Disaccordi ieri è stato il senatore Gianluigi Paragone: “Credo che Salvini abbia già deciso di non sottrarsi al processo, quindi il problema non esiste. Noi non abbiamo mai negato alla giustizia un ministro o un parlamentare, quindi andiamo in linea”.

Invece Salvini insiste sulla Torino-Lione: “La prossima settimana sarò a Chiomonte (la località dove c’è il cantiere del Tav, ndr) a ribadire che i numeri in mio possesso dicono che l’opera va completata e che sono maggiori i costi nel sospenderla”. Ed è il milionesimo dito nell’occhio degli alleati. Che però sul Tav non possono cedere. Così il ministro dei Trasporti grillino, Danilo Toninelli, ci mette la gamba: “La più grande opera è evitare che ci siano altri morti per incidenti causati dalla cattiva manutenzione, mi avrebbe fatto molto piacere vedere Salvini qui con me a ricordare tre morti di Stato a Pioltello (teatro di una tragedia ferroviaria, ndr)”.

E il vicecapogruppo del Movimento alla Camera, Francesco Silvestri, rilancia: “Sul Tav, Salvini parla di futuro, ma per darne uno al Paese servono soldi, e spendere 20 miliardi per iniziare la Torino-Lione vuol dire buttarli. Ed è il contrario di quanto vogliono anche tanti elettori della Lega, ne siamo convinti”.

Il giudicimputato

Se la magistratura italiana non fosse indipendente da ogni altro potere e obbligata a procedere su ogni notizia di reato, sorgerebbe il sospetto che la Procura di Agrigento e il Tribunale dei ministri di Catania siano telecomandati da Matteo Salvini. Il quale, in due rari momenti di difficoltà, ha trovato nei due suddetti uffici giudiziari una sponda preziosa per recitare la parte che più gli è consona: quella di San Matteo Martire e Patrono degli Italiani. La prima volta fu ad agosto quando, dopo aver inchiodato per cinque giorni nel porto di Catania la nave Diciotti con 177 migranti appena salvati dal naufragio e aver giurato che mai e poi mai li avrebbe fatti scendere, ne autorizzò lo sbarco: mentre cercava qualche scusa per giustificare la retromarcia agli occhi dei fan più trinariciuti, lo salvò il procuratore Patronaggio indagandolo per sequestro di persona e altri gravi reati. Così indossò la felpa della vittima e tutti parlarono d’altro. L’altro giorno, a corto di argomenti propagandistici e coi primi sondaggi in calo, non gli è parso vero di vedersi recapitare la busta gialla da Catania. E di inscenare la diretta Facebook per appuntarsi al petto quell’accusa, che aveva a lungo cercato e che temeva sfumata, come una medaglia.

Qualche sciocco la paragona alle tante di B. Invece è l’opposto: B. negava i suoi reati, tutti infamanti, con balle tragicomiche (la nipote di Mubarak) e invocava il Tribunale dei ministri per costringere i giudici a chiedere l’autorizzazione e il Senato a negarla. Salvini rivendica il suo reato, per lui tutt’altro che infamante, e non si perderebbe il processo per nessuna ragione al mondo. Già si vede alla sbarra a offrire il petto alle toghe che gli contestano quel che s’è sempre vantato di fare: i porti chiusi allo straniero invasore (intanto i mini-sbarchi continuano lontano dai riflettori). Una pacchia: comunque vada, avrà un monumento equestre, un piedistallo, un’aureola e tanti voti assicurati. Se il Senato negherà l’autorizzazione, lui dirà: “Visto? Ho agito nell’interesse della Nazione”. Se il Senato la darà, magari coi voti leghisti: “Visto? Non mi nascondo dietro l’immunità”. Se sarà assolto: “Visto? Mi hanno perseguitato”. Se sarà condannato: “Visto? Mi vogliono in galera perché difendo gl’italiani”. Fin qui l’aspetto politico-mediatico del caso. Poi c’è quello giuridico, che deve seguire i binari naturali. È giusto che il Parlamento autorizzi i giudici a procedere, anche se stavolta non deve regalare o negare immunità, ma valutare l’eventuale tutela di “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o “un preminente interesse pubblico”.

Nessun politico è legibus solutus. E spetta alla magistratura stabilire, una volta per tutte, se sia reato salvare migranti dal naufragio e poi imporre all’Ue di condividerne l’accoglienza. Perché questo accadde con la Diciotti e poi con altre navi delle Ong. E su questo concordano il Tribunale dei ministri e Salvini. I giudici parlano di “una situazione di costrizione a bordo delle persone soccorse fino alle prime ore del 26 agosto” con “conseguente limitazione della libertà dei migranti per 5 giorni, fino all’ordine di sbarco… per la volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra gli Stati membri”. Parole che il vicepremier sottoscriverebbe, perché fotografano quanto accade spesso al largo delle nostre coste. Resta da capire se tutto ciò sia un sequestro di persona. E qui i giuristi si dividono.

C’è chi si limita a citare l’art. 605 del Codice penale che punisce “Chiunque priva taluno della libertà personale” senza tanti distinguo, e un bel po’ di convenzioni e trattati internazionali. E chi dubita dell’applicabilità di quel reato al caso specifico: dire a qualcuno “tu in casa mia non entri” non significa sequestrarlo; una nave della Marina militare non è un carcere, altrimenti i marinai che vi trascorrono la vita sarebbero prigionieri; nemmeno dopo lo sbarco in Italia i richiedenti asilo sono liberi di muoversi, ma devono restare negli appositi centri di accoglienza in attesa che le loro domande siano esaminate; se un altro Paese (tipo Malta, che al solito se ne lavò le mani) avesse consentito loro lo sbarco, nessuno avrebbe impedito loro di scendere; comunque sulla Diciotti erano saliti spontaneamente e con gioia, essendo stati appena salvati dal naufragio del barcone pericolante dove si erano imbarcati in Libia; in ogni caso i bambini e i malati scesero subito e gli altri lo fecero dopo cinque giorni; e “gli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro” citati dal Tribunale non sembrano essere stati violati: il soccorso era stato prestato proprio dalla Diciotti che, diversamente dal barcone affondato, era già essa stessa un “luogo sicuro” (paradossalmente, se i 177 non l’avessero incontrata, sarebbero affogati e nessuno oggi sarebbe accusato di averli sequestrati). Poi c’è il rebus dell’elemento soggettivo, del dolo, del movente: per condannare il vicepremier, i giudici dovrebbero dimostrare che agì per privare i migranti della loro libertà (per 5 giorni e poi non più) e non – come ammette lo stesso Tribunale – per piegare gli Stati Ue ad accoglierne un po’ per uno. Ultimo paradosso: il primo a temere la condanna di Salvini è proprio il procuratore Patronaggio che lo indagò. Il quale, mentre la Diciotti era bloccata nel porto, salì a bordo per alcuni rilievi e ne discese senza prendere provvedimenti: se davvero si stava consumando un sequestro di persona, era suo preciso dovere farlo cessare ordinando lo sbarco. Art. 40 comma 2 del Codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Guerra e fascismo, la storia è (anche) una questione di virilità frustrate

Il fumetto italiano spesso pecca di poca ambizione: storielle autobiografiche nascoste dietro disegni accattivanti, tentativi malriusciti di imitare i comics americani, o umorismo disimpegnato. Francesco Memo e Barbara Borlini, “coppia affiatata nell’arte e nella vita” (ci informa l’editore) hanno appena pubblicato per Tunué un corposo volume di 328 pagine che di ambizioni ne ha invece parecchie: La vita che desideri. In un formato orizzontale e in una bicromia che crea l’effetto di guardare vecchie foto trovate in un baule, questi due autori – fumettisti per passione sul web, ben accolti anche nelle loro esperienze cartacee – si propongono nientemeno che scandagliare la natura profonda degli eventi di inizio secolo, la Prima guerra mondiale, il fascismo, la resistenza e la guerra civile. Francesco Memo e Barbara Borlini scelgono di raccontare la storia d’Italia come una storia di uomini, un costante confronto di virilità, un codice unico che spiega l’interventismo suicida, le dinamiche della trincea, le divise balilla. Attraverso le generazioni, in eleganti tavole orizzontali che scontano ancora qualche influenza di troppo del fumetto manga, seguiamo questi ragazzi tormentati che vedono nella competizione e nella violenza l’unica strada per diventare uomini. E invece è soltanto nelle brevi e clandestine deroghe a questo machismo di facciata che si conservano ancora sprazzi di umanità, come in un amore clandestino e impossibile sul fondo di una trincea tra un soldato italiano e un disertore austriaco che in patria aveva una sua celebrità, ma solo quando si vestiva da donna nei locali. Il restante eccesso di virilità inutilmente esibita – per quanto raccontato senza aggettivi, senza moralismi – appare un ridicolo orpello di cui anche oggi fatichiamo a liberarci.

La vita che desideri Francesco Memo e Barbara Borlini Pagine: 330 Prezzo: 29 Editore: Tunué

Peluche, foto e alberi per raccontare la shoah

Tre libri (Mondadori) per non dimenticare la tragedia dell’Olocausto: Otto, La guerra di Catherine e L’albero della memoria. Il primo ha il pregio di parlare ai più piccoli. L’autore, Tomi Ungerer, scrive l’autobiografia di un orsacchiotto: Otto, il peluche del piccolo David e dell’amico Oskar, è destinato a separarsi dai suoi amici a causa della guerra. Ma non per sempre. Ormai anziani, dopo essere scampati ai campi di concentramento e al peggio, David e Oskar ritrovano il loro orsacchiotto da un rigattiere.

La guerra di Catherine di Julia Billet e Claire Fauvel è, invece, un libro a fumetti (vincitore del premio Andersen 2018): racconta di una giovane studentessa ebrea che ama guardare il mondo attraverso la sua Rolleiflex. Con lo scoppio del conflitto è destinata a cambiare nome e, aiutata da una rete di partigiani, a nascondersi in luoghi diversi immortalati attraverso le sue fotografie.

Infine, L’albero della memoria di Anna e Michele Sarfatti con le illustrazioni di Giulia Orecchia narra la storia di Sami Finzi, un bambino ebreo che diventa ragazzo durante la Shoah: un libro per comprendere le leggi razziali, la persecuzione e la storia della Seconda guerra mondiale.

 

Il presidio sentimentale di Mannelli

Per uno di quegli equivoci estetici in grado di offuscare gli orizzonti culturali di un popolo, come pur ben motiva il filosofo Herbet Marcuse nell’epocale saggio Eros e civilità (in cui spiega l’aberrazione etica che è stata la sostituzione del principio del piacere con il principio di realtà), il nudo è sempre considerato scandaloso. Se poi è un nudo di donna concepito da un uomo, il maschilismo è irrimediabilmente dietro l’angolo. In completo disaccordo si situa la personale di Riccardo Mannelli Ammazzami – Tre donne, tre stanze, in una casa vuota (a cura di Francesco Paolo Del Re e Sabino de Nichilo), che inaugurerà domani 26 gennaio negli spazi espositivi romani di “Casa Vuota”.

Come già avverte il titolo, Mannelli racconta a proprio modo il femminicidio – parola che detesta sia per il contenuto sia perché “è cacofonica” sostiene –, cioè al rovescio. Se le vittime del femminicidio divengono tali per il rifiuto di appartenere a un maschio, che non potendole avere le uccide, le donne ritratte da Mannelli si offrono in una posa alla Courbet (che cita molto L’Origine del mondo) ma soprattutto esse “sono consenzienti”, precisa. E ciò perché l’artista vuole indagare e testimoniare il desiderio delle donne, e tiene a ricordare agli uomini che il sesso deve essere un piacere per entrambi e una vibrazione reciproca.

Il particolare allestimento prevede in chiave situazionista che nelle tre stanze di Casa Vuota – lì dove i soggetti hanno posato e sono stati raffigurati – vi siano altrettanti quadri. “È una sorta di presidio sentimentale, fatto di stati d’animo esposti, sguardi fisici, carne disarmata e disarmante”, illustra Mannelli, che punta molto sulla naturalità dell’immagine poiché “la naturalità può addomesticare la bestia che incombe. E sospendere il crimine”.

Raffigurate in matite vivide e realistiche, e con dei vezzi di tratteggio quasi alla Egon Schiele, “non sono modelle, ma donne comunissime” commenta Mannelli, “di tutte le età”. Il nudo, dunque, è uno strumento di racconto antropologico. Da anni, ormai, Mannelli procede con un gesto artistico di denuncia contro la violenza sulle donne, e la presente mostra riporta soltanto una piccola parte della collezione di nudi di donne comuni dal suo più vasto progetto artistico. Sembra quasi che, con originalità e un particolare tratto, l’artista stia organizzando una sorta di esercito femminile che alla fine trionferà nell’atavica – e ricordiamocelo, anche giocosa – battaglia dei sessi.

A. M. F.

Ammazzami – Tre donne, tre stanze, in una casa vuota Roma, via Maia 12, int. 4A. Da domani

Tornano “les italiens” di Pandiani, perfetti per curare gli impulsi contro la Francia

Le coincidenze esistono e in questi tempi di rinnovato sentimento antifrancese, grazie alla premiata coppia Dibba & Di Maio, esce in libreria l’ultimo capitolo della fortunata serie di Enrico Pandiani sui flic nostrani impegnati sul suolo parigino. Ovvero les italiens capitanati dal fascinoso Pierre Mordenti, che finalmente ha trovato pace, amore e serenità con la bella Tristane, nientemeno che figlia del suo granitico capo Le Normand (me lei, del papà, lo ha saputo solo dopo trent’anni). “Era stato il commissario capo Bruno Pennacino ad avere l’idea di mettere insieme una squadra di italiani, anni prima, perché pensava che fossimo più inclini a sfumare le regole e meno disposti a lasciarci mettere i piedi in testa”. Appunto.

L’incipit del mistero esplode all’improvviso in una calda notte d’agosto. Mordenti e Tristane sono a cena da Servandoni e Karima. Servandoni è un collega “fratello” di Pierre. I due sono quasi ubriachia, a tavola, e giù in strada c’è lo schianto di un incidente. Un agguato, per la precisione. Un’auto ha speronato un furgone. Due persone armate scaricano una cassa e rapiscono una donna. Qualche minuto dopo, a bordo del furgone, i due flic trovano un cadavere. Un inglese, appassionato d’arte. L’intrigo coinvolge misteriosi cinesi (Servizi segreti?) e faccendieri esperti di capolavori da museo e per Mordenti non sarà facile avere “una visione d’insieme”. Perdipiù il morale è un po’ triste per via del trasloco della polizia giudiziaria dal mitico 36 del Quai des Orfèvres. Pandiani sforna un altro poliziesco pirotecnico. E stavolta, Mordenti incrocia pure Zara Bosdaves, la detective italiana di un’altra serie dello scrittore.

 

 

Rachel Cusk e le vite che non sono la sua

Uscito a fine 2018, e subito acclamato come “libro dell’anno” da prestigiose riviste librarie, Resoconto di Rachel Cusk è “il primo volume di un trittico in corso di pubblicazione per Einaudi Stile Libero”, così da aletta di copertina. Attenzione: “volume”, non “romanzo” né “racconto”, perché l’opera è appunto un tentativo di fuga dall’etichette letterarie par excellence, ma lasciamo alle prestigiose riviste librarie il dibattito sulla morte del romanzo, sulla rifondazione del romanzo, sulla metamorfosi del romanzo eccetera.

Canadese di stanza a Londra, Cusk racconta – o meglio rendiconta – una sua trasferta estiva ad Atene per tenere un corso di scrittura creativa: l’autrice, e narratrice, scompare infatti dietro il Resoconto, quasi un registratore, un amplificatore degli umori altrui. Ecco il vicino di poltrona in aereo, protagonista anche di viaggi in barca e maldestri tentativi d’approccio; ecco l’amico e collega Ryan, il fantasma di Clelia, che le ha prestato la casa, le chiacchiere fumose di Paniotis e Angeliki sulle femministe polacche. Ecco la seduttiva Elena, la disturbata Anne, gli alunni del corso di scrittura, tra cui una Cassandra stizzita che lascia l’aula anzitempo…

Le persone, gli incontri, persino gli scontri, sono tutti mirabilmente pensosi, intelligenti, sofisticati: c’è qualcosa di artefatto, di affettato, di sintetizzato in laboratorio nella prosa adamantina di Cusk. C’è qualcosa di snobistico e di compiaciuto, proprio laddove da lei si apprende che “non avevo più alcun interesse per la letteratura come forma di snobismo o addirittura di autodefinizione”. O forse è la precisione a irritare, la crudeltà dell’esattezza, la giustezza, la contezza, la puntualità della forma – ché già solo a nominarle vengono i nervi, come di fronte a una poesia riuscita.

Anche il set è impeccabile, nella sua sporcizia, afa, caoticità, ma se Atene e il mare sono lo sfondo, il fondo è, al solito, l’amore, filtrato dalle storie degli altri, dai ricordi degli altri: “Stavo cominciando a vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”, prosegue la voce dimessa nella sua prosa azzimata. Perciò i refusi dell’edizione italiana risultano ancor più sciatti: un “aldilà” anziché “al di là”; i “parenti” anziché le pareti; i punti che saltano a fine capoverso…

Notevole, della voce narrante, lo stupore quasi infantile, come di chi scopre il mondo per la prima volta, come di chi è sopravvissuto a un dolore innominabile e perciò non sa far altro che ricominciare ogni volta daccapo, come di chi ha perso qualcosa, ma non ricorda più cosa, o chi: così “l’unica speranza di trovare chicchessia è restare dove sei, nel luogo stabilito”.

Il meccanismo del resoconto si trasforma, ovviamente, in gioco metaletterario: Cusk non si sottrae alla “pericolosa tendenza a romanzare le esperienze” e detesta, pur dissimulando, “una vita senza intreccio” e “quelli che non sembrano neppure persone, altro che personaggi”. Il gioco è veramente sottile e perfido, e infatti a condurlo è (la finta) Faye, non (la vera) Rachel, e alla fine “è il romanzo che ci contagia, così che ci aspettiamo dalla vita ciò che abbiamo imparato ad aspettarci dai libri”: una sublime, crudele, snobistica presa in giro.

Cam. Ta.