I ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile, Enrico Giovannini, e dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, hanno deciso: stop alle automobili nuove con motore a combustione interna entro il 2035, mentre per i furgoni la deadline è il 2040. È la determinazione a cui si è arrivati al termine della quarta riunione del Comitato interministeriale per la Transizione ecologica (Cite). Un passo verso il taglio delle emissioni inquinanti nel percorso delle politiche nazionali contro il riscaldamento globale in linea con le indicazioni dell’Ue che chiede di tagliare i gas serra del 55% entro il 2030. L’Italia così segue quanto già fatto da diversi Paesi membri, tra cui Spagna e Francia, una spinta verso la produzione di veicoli a zero emissioni. “Per i costruttori di nicchia, misure specifiche potranno essere valutate con la Commissione europea”, fa sapere il Mite. Un riferimento che potrebbe essere una salvaguardia per il distretto dell’auto di Modena e Bologna, dove producono Ferrari e Lamborghini.
Lobby, c’è l’intesa: la legge va in aula, ma perde pezzi
Arriverà in aula alla Camera il 20 dicembre come testo “largamente condiviso”, che tradotto significa: dopo estenuanti compromessi. Ma ci arriverà e questo è considerato un grande traguardo per una legge che per la prima volta in Italia disciplinerà le attività di lobbying. L’aspetto positivo è che la norma è attesa da almeno trent’anni, con decine di tentativi di farle superare lo scoglio delle Commissioni. Stavolta ci si è riusciti, il testo ha unificato le proposte del M5s, del Pd e anche di Italia Viva ed è sopravvissuto allo sgambetto dell’asse centrodestra-renziani in Commissione Affari costituzionali, seppur molto annacquato rispetto alle intenzioni originarie. E un altro pezzo è saltato per permettere di superare l’impasse.
La legge ha due obiettivi: rendere più trasparente il processo che porta i decisori politici a fare determinate scelte, facendo emergere le eventuali “influenze” ricevute, e legittimare il lavoro di chi svolge attività di lobby permettendo a tutti di avere pari accesso. Si prevede così l’istituzione di un registro pubblico in seno all’Antitrust dove i lobbisti dovranno inserire i propri dati e le “categorie di decisori pubblici” a cui sono interessati. Dovranno indicare pure i dati di chi gli ha dato l’incarico insieme alle risorse “umane ed economiche” impiegate. Il lobbista deve poi aggiornare l’agenda degli incontri con i decisori politici entro sette giorni indicando il luogo, come e da chi è stato chiesto, l’argomento trattato e i soggetti che vi hanno partecipato. Inoltre dovrà fornire documentazione, proposte, ricerche, analisi. Sono previste la stesura di un codice deontologico e la formazione di un Comitato i sorveglianza che valuterà le richieste di rimozione delle informazioni dal Registro, vigilerà sul suo aggiornamento e redigerà una relazione annuale sull’attività dei lobbisti.
Dicevamo che la legge di fatto estende e regola le attività dei lobbisti, dando facoltà a chi si iscrive al registro di di incontrare parlamentari e membri del governo per far ascoltare le proprie richieste ed esporre le proprie analisi così come di accedere liberamente alle sedi istituzionali, ad esempio le Camere del Parlamento. I decisori pubblici, da parte loro, possono indire “consultazioni” aperte agli iscritti nel registro su temi per i quali volessero ricevere diversi punti di vista. Sono previste anche sanzioni: dall’ammonizione alla cancellazione dal Registro, fino al pagamento di una cifra tra i 5mila e i 15mila euro.
Infine, i limiti alle cosiddette porte girevoli: la norma prevede che i parlamentari non possano iscriversi al registro durante il loro mandato e lo stesso vale per i membri del Governo, i presidenti, gli assessori e i consiglieri regionali, i presidenti e i consiglieri delle province e delle città metropolitane, i sindaci, gli assessori e i consiglieri comunali dei comuni capoluogo, i presidenti e gli assessori dei municipi o delle circoscrizioni dei comuni capoluogo, i presidenti e i componenti delle autorità indipendenti, gli organi di vertice degli enti pubblici statali, i titolari degli incarichi di vertice di enti territoriali ed enti pubblici.
Non potrà iscriversi per un anno dopo la fine del proprio mandato solo chi ha svolto incarichi nel governo nazionale e regionale. Inizialmente la norma prevedeva lo stesso limite anche per i parlamentari, ma proprio sulle “revolving doors” ci sono stati i maggiori compromessi. Prima è saltato il limite agli “onorevoli”, poi il Centrodestra e Italia Viva hanno deposto le armi solo una volta ottenuto la cancellazione dell’anno di stop anche per chi ha amministrato enti pubblici economici e società partecipate dello Stato o enti che abbiano ricevuto finanziamenti pubblici come prima forma di ricavi. Esclusi dall’obbligo di iscrizione nel Registro anche sindacati e associazioni datoriali, Confindustria inclusa.
Landini a Letta&C.: “È stupito chi non sa in quale Paese vive”
Non essendoci quasi opposizione al governo, era fatale che lo sciopero generale dichiarato da Cgil e Uil per il 16 dicembre (Authority permettendo) esponesse i due sindacati al fuoco di sbarramento di gran parte di politica e media. Eppure la realtà continua a bussare alla porta di chi non vuol vedere come vive un pezzo del Paese: ieri uno sciopero del mondo della scuola – pur non partecipatissimo (circa il 7%, pari comunque ad alcune decine di migliaia di persone, secondo i dati ufficiali) – è avvenuto mentre l’Unione degli studenti denunciava la chiusura di decine di scuole per “freddo”; quello di giovedì prossimo accoglierà probabilmente anche una delegazione della Caterpillar di Jesi, che sempre ieri ha annunciato la procedura di licenziamento collettivo per 270 lavoratori (a non parlare dell’indotto).
Se non altro, però, Maurizio Landini pare essersi tolto i guanti. A fronte dello “stupore” del ministro del Lavoro, Andrea Orlando e della “sorpresa” del segretario dem Enrico Letta riguardo allo sciopero di giovedì, il segretario della Cgil non è stato conciliante: “Io sono stupito dello stupore perché, se ci si stupisce, evidentemente non si capisce la realtà dove si vive: c’è una situazione di malessere che è sotto gli occhi di tutti e, se le forze politiche non capiscono e succede che il 50% dei cittadini non va a votare, deve suonare un campanello d’allarme”. Parole pronunciate, simbolicamente, a margine di una conferenza stampa dell’Alleanza contro la povertà sul reddito di cittadinanza e che seguono le timide aperture di credito dei 5Stelle ai due sindacati nell’occhio del ciclone: “Non demonizzo l’esercizio del diritto allo sciopero, che è costituzionalmente tutelato, ma mi auguro che si riesca a trovare una finestra di dialogo proficua”, ha sostenuto Giuseppe Conte.
Se questi sono i giallorosa, dall’altra parte dello spettro politico s’è praticamente aperta la “caccia ai rossi”. Per Matteo Salvini (Lega) lo sciopero generale è “folle, assurdo”: “Landini si è montato la testa e non vuole bene all’Italia”. Antonio Tajani (FI) chiede “la revoca” della mobilitazione: “Un errore” che mette a rischio “la ripresa economica”. Antonio Librandi (Iv) lo definisce “una pura follia a danno degli interessi del Paese”. Pure Carlo Bonomi ieri, al convegno degli industriali siciliani, era triste perché costretto “a prendere atto, con grande amarezza, del fatto che solo una parte del sindacato ha accolto l’appello a un confronto concreto” (la Cisl, ndr). Il presidente di Confindustria si rammarica: “Lo sciopero è un problema per l’Italia” perché “in una diatriba tra una parte del sindacato e il governo chi viene penalizzato è il lavoro”. Fortuna che c’è il sciur padrun: “Come sempre c’è qualcuno che scenderà in piazza e gli imprenditori andranno in fabbrica per mandare avanti l’Italia”. Anche su questo il leader della Cgil non è stato diplomatico: “Credo che Bonomi non debba scioperare, a lui non lo abbiamo chiesto. Capisco che a chi ci rimette una giornata, perché scioperare costa, stiamo chiedendo un sacrificio. Lo so che costa e non so se Bonomi se ne rende conto, perché credo che in vita sua uno sciopero non lo abbia mai fatto, non ha mai avuto il problema di doversi battere per migliorare la condizione sua e degli altri, perché lo sciopero è anche un atto di solidarietà”. Infine una stilettata alla Cisl: “Se scendono in piazza il 18 vuol dire che anche per loro le cose non vanno bene. Lo sciopero nostro e della Uil sostiene la piattaforma unitaria che, insieme anche con la Cisl, avevamo presentato al governo: andiamo in piazza per sostenere le richieste che anche loro hanno fatto insieme a noi”.
“Bisogna ascoltare i sindacati su pensioni e lavoro precario”
Il governo Draghi sembra una nave che pende verso destra. Ma il ministro dell’Agricoltura, il 5Stelle Stefano Patuanelli, giura di no: “Il premier ascolta tutti e poi decide: è l’unico modo per governare questa maggioranza”.
Cgil e Uil sono additate come irresponsabili perché hanno organizzato uno sciopero generale. Non è un bruto segnale?
Lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito, e questo credo che sia il giusto modo di porsi. Dopodiché vanno ascoltate tutte le ragioni, quelle dei sindacati, quelle dei datori di lavoro e quelle dei cittadini. Decidere tocca alla politica, però la critica al metodo va presa in considerazione, e alcune richieste dei sindacati vanno comprese e ascoltate. Credo sia giusto chiedersi quale sarà il futuro dei giovani per quanto riguarda le pensioni. E un discorso su un maggiore incentivo al lavoro stabile va fatto.
Chi critica il governo è tacciato di remare contro.
Non credo che faccia bene a un Paese ridurre la politica e il confronto a un rumore di fondo. Ma non penso che questo esecutivo voglia farlo.
Perché questa insofferenza per i sindacati?
Fatico a trovare una ragione.
La riforma del Fisco darà di più alle fasce medio-alte che ai poveri. È un fatto, no?
Non sono d’accordo, sulla riforma si è raggiunto un buon equilibrio. Sostenere il ceto medio che rischia di scivolare verso la povertà andava fatto. Dopodiché abbiamo varato l’assegno unico che tutela le fasce di reddito più basse e incrementa di oltre 6 miliardi la spesa storica per le famiglie.
Ma il contributo di solidarietà non è passato. Anche voi 5Stelle vi siete divisi.
Non è vero, la discussione tra noi è stata serena e abbiamo deciso tutti assieme. Draghi aveva proposto di posporre di un anno la parte della riforma che tocca la fascia sopra i 75mila euro, così da aiutare le persone più in difficoltà mettendo più risorse per le bollette. Ma centrodestra e Iv non erano d’accordo.
Lo vede che i poveri sono stati penalizzati?
No, sotto i 15mila euro tra no tax area e detrazioni l’imposta progressiva è molto bassa.
Che fine ha fatto il decreto anti-delocalizzazioni?
Mi auguro che arrivi presto in Cdm, perché se ne parlava già da quando ero ministro al Mise. Non si possono aprire ogni volta tavoli di crisi con multinazionali che se ne vanno dove la manodopera costa meno.
Se Draghi si sposta da Palazzo Chigi al Colle la maggioranza rischia: lo dicono sia Letta che Conte.
Le motivazioni per cui è nato questo governo ci sono ancora tutte: l’emergenza per la pandemia c’è ancora e il Pnrr va ancora attuato a pieno. Per guidare questa maggioranza ci vuole una persona autorevole come Draghi, e questo governo deve continuare anche dopo le votazioni per il Colle.
Ma con Draghi eletto alla prima chiama i 5Stelle eviterebbero di frantumarsi nel voto segreto, no?
I 5Stelle nei momenti importanti sono sempre stati compatti, e con i se e i ma non si fa la storia. L’iniziativa di Conte di interloquire con tutti i partiti per individuare un profilo istituzionale è la strada per evitare una serie infinita di votazioni.
Conte potrebbe evitare di riservare continui elogi a Berlusconi.
Non mi sembra che gli abbia riservato elogi eccessivi. Gli ha dato atto di essere stato un protagonista, che continua ad avere centralità. Ma ha anche detto che non sarà mai il nostro candidato.
Mi dice una cosa buona fatta dal Caimano?
Quanto fatto col Milan, Gullit e Van Basten.
Lei è stato il primo 5Stelle a parlare di una donna al Quirinale. Ma è un identikit senza nome, o no?
Un nome in testa ce l’ho, ma non lo dirò neanche sotto tortura.
La voterebbe Marta Cartabia, la ministra della controriforma sulla Giustizia?
Qualsiasi risposta sarebbe strumentalizzata, quindi non rispondo.
Alessandro Di Battista ripete che voi 5Stelle state perdendo l’anima.
Penso che abbia torto: io sono nel M5S dal 2005, quando c’erano solo gli Amici di Beppe Grillo, ho fatto il capogruppo e il ministro e non credo di aver perso l’anima. Stare fuori è molto più semplice, invece governando si “rischia” anche di migliorare la vita della gente come col Reddito di cittadinanza e il Superbonus.
Piantatela e lavorate
Col voto degli iscritti che ha approvato, alla media del 90%, la squadra di Conte, si chiude la (troppo) lunga transizione fra vecchio e nuovo M5S, iniziata il 28 febbraio all’hotel Forum con la proposta di Grillo e degli altri big all’ex premier di rifondare i 5Stelle, interrotta il 24 giugno dalla retromarcia del fondatore, ripresa l’11 luglio con l’accordo Beppe-Giuseppe sul nuovo statuto, plebiscitata il 6 agosto dagl’iscritti col 93% al nuovo presidente, battezzata a settembre dai bagni di folla, funestata il 3-4 ottobre dal pessimo risultato alle Comunali e ora completata con l’organigramma. La nuova squadra dovrà mettersi al lavoro ventre a terra per organizzare e radicare un movimento perlopiù virtuale. E ci riuscirà se smetterà di parlare di regole e polemiche interne, inevitabili nella fase di passaggio, ma alla lunga insopportabili. Quando una forza politica passa più tempo a guardarsi l’ombelico e a parlare di sé, la gente scappa. Il voto bulgaro di ieri, come quello – molto meno scontato – sul 2 per mille, dovrebbe insegnare agli eterni mugugnisti che non c’è spazio per contestare o insidiare questa leadership: la base si fida di Conte, approva a prescindere le sue scelte e non considera alternative. Si mettano il cuore in pace e lavorino con lui, dicendogli in faccia quel che non va ed evitando complottini e congiurette da asilo Mariuccia.
Ma il calo di partecipazione (solo il 20%) al voto di ieri è un monito anche per Conte. Ognuno ha i suoi modi e lui – come ha detto Grillo, una volta tanto non a sproposito – è “un gentleman più adatto ai penultimatum che agli ultimatum”. Non riuscirebbe a parlar male di Belzebù, anzi ci troverebbe qualcosa di buono: dunque nessuno pretende che definisca B. psiconano o puttaniere. Ma dire che “ha fatto molte cose buone” (per poi indicarne una sola) o tributare “rispetto al netto del conflitto d’interessi” a un pregiudicato che la Cassazione indica come frodatore fiscale e finanziatore della mafia è molto meno del minimo sindacale, specie per il leader 5S. In politica, dopo le buone prove da premier, Conte non ha nulla da imparare da Grillo (che deve farsi perdonare la resa senza condizioni a Draghi). Ma in comunicazione sì: non per passare al turpiloquio, ma per dare più concretezza e nettezza al suo linguaggio. A volte parla chiaro: specie quando lo attaccano e nelle emergenze (con Salvini in Senato, con Merkel e Rutte sul Recovery, poi sul Covid, sui Benetton, sulla Cartabia, sugli assalti al Rdc, al cashback e al superbonus). Altre si perde in fumisterie avvocatesi, come sul fisco per ricchi e lo sciopero. Basta guardarsi intorno: milioni di elettori esclusi da tutto attendono scelte e parole chiare per decidere se tornare a votare. E per chi.
Crisi del chip, vera mancanza o grave errore di valutazione?
Si è sottolineato più volte come la carenza di semiconduttori abbia messo a dura prova l’industria automobilistica globale, costringendo a chiusure degli impianti produttivi e a scelte difficili sui modelli a cui dare la priorità data l’esiguità delle forniture. Che rimarrà tale anche per tutto il 2022, stando alle previsioni degli analisti. C’è però chi non ci sta, come il numero uno di Stellantis, Carlos Tavares, che in settimana ha tuonato: “La crisi dei microchip ha frantumato i rapporti tra le case automobilistiche e i loro fornitori. Noi dovevamo essere protetti da questa situazione. E allora la domanda è: cosa stanno facendo i supplier di alto livello per assicurarsi che una cosa del genere non accada più?”.
Domanda legittima da parte di chi rischia di perdere, come ha fatto sapere il gruppo Stellantis, la produzione di 1,4 milioni di auto quest’anno.
Tuttavia, c’è da considerare anche un altro aspetto. In una ricerca effettuata dalla società di consulenza Bain&Company, appare chiaro come l’industria automotive non sia tra i principali “clienti” dei maggiori produttori mondiali di semiconduttori, acquistando a prezzi bassi. E che nei mesi della pandemia gli ordini di parecchie case automobilistiche si siano ridimensionati per la riduzione della domanda dovuta all’emergenza sanitaria, favorendo la “redistribuzione” dei chip verso altri settori come ad esempio quello dei device elettronici. Che la crisi di approvvigionamento non sia anche frutto di errori di valutazione?
Stellantis, 30 miliardi di buoni motivi
“Con il passaggio alle nuove piattaforme costruttive STLA di taglia piccola, media e grande stiamo lavorando affinché entro il 2030 tutti i nostri modelli venduti in Europa siano elettrici”. Le parole dell’amministratore delegato di Peugeot Linda Jackson, intervistata da Automotive News, confermano senza ombra di dubbio il commitment del costruttore francese: entro il 2030 il marchio del Leone venderà solo modelli ad alimentazione 100% elettrica , almeno nel Vecchio continente.
Mentre l’azienda provvederà a “mantenere l’offerta di vetture con motori a combustione per i clienti degli altri mercati” extra-europei, soprattutto quelli che non saranno ancora pronti per la rivoluzione delle batterie. Una strategia di elettrificazione che segue tappe prestabilite e che, nelle tempistiche, non si discosta molto da quella annunciata in precedenza da altri marchi confluiti nel gruppo Stellantis: infatti DS passerà al full-electric già nel 2024, Alfa Romeo nel 2027 e Opel nel 2028.
Per l’inizio della prossima decade, il sodalizio franco-italo-americano dell’auto vorrebbe che i veicoli elettrici e ibridi costituissero il 70 per cento delle vendite europee (e oltre il 40% negli Stati Uniti). Peugeot, in particolare, ha già una gamma elettrificata (ovvero costituita da modelli elettrici o ibridi) al 70%, e lo sarà completamente entro il 2024. Attualmente, l’offerta a batteria include la e-208 e la sport utility compatta e-2008, le versioni ibride ricaricabili di 308 (nel 2023 esordirà pure quella a batteria) e 3008 – la nuova generazione del suv sarà proposta anche in edizione 100% elettrica e costruita nello storico stabilimento di Sochaux – più alcuni veicoli commerciali.
Del resto, il piano di Stellantis riguardo all’elettrificazione è chiaro: investimenti per 30 miliardi di euro da qui al 2025 per ingegnerizzare nuove piattaforme elettriche, sviluppare tecnologie e inaugurare fabbriche di batterie. Nell’attesa che la domanda di auto a batteria cresca.
Toyota punta tutto sulla rivoluzione “green” entro il 2035
“Dal 2030, ci aspettiamo un’ulteriore accelerazione della domanda di veicoli a zero emissioni allo scarico e Toyota sarà pronta a raggiungere il 100% di riduzione di CO2 in tutti i nuovi veicoli entro il 2035 in Europa occidentale”. Parola di Matt Harrison, presidente e Ceo di Toyota Motor Europe. Una prospettiva vincolata a una condizione, “che entro tale data siano disponibili infrastrutture sufficienti per la ricarica elettrica e per il rifornimento di idrogeno, oltre all’aumento di capacità di energia rinnovabile che sarà richiesto”.
Il colosso nipponico intende accelerare sull’elettrificazione della sua gamma e, al contempo, offrire un ventaglio diversificato di soluzioni propulsive a basso impatto ambientale. Toyota si è impegnata a lanciare un numero crescente di veicoli alimentati a batteria, di cui il primo è la bZ4X, suv elettrico. Entro il 2030, il costruttore prevede un mix di vendita di auto elettriche di almeno il 50% in Europa occidentale.
Nondimeno, la marca conferma il suo approccio olistico al tema della decarbonizzazione. “Sebbene Toyota si impegni a rendere disponibili ai clienti milioni di veicoli elettrici a batteria, il modo per ridurre al massimo le emissioni nette di carbonio a livello globale è quello di utilizzare tutte le soluzioni elettrificate, nella giusta proporzione”, spiega Gill Pratt, Chief Scientist di Toyota. L’elenco comprende “veicoli ibridi elettrici, ibridi elettrici plug-in, elettrici a idrogeno”, studiati “per rispondere al meglio ai vincoli infrastrutturali e alle necessità dei clienti in ogni area geografica”. La multinazionale giapponese, poi, investirà nella ricerca e sviluppo di batterie 11,5 miliardi di euro.
Spazio anche all’idrogeno, a cominciare dal sistema di celle a combustibile della berlina Mirai, riprogettato in moduli più compatti e leggeri. Gli stessi che, da gennaio 2022, saranno prodotti pure in Europa. Per la multinazionale giapponese “l’espansione di un’economia europea dell’idrogeno sarà un elemento chiave per raggiungere l’obiettivo del Green Deal di azzerare entro il 2050 le emissioni colpevoli del riscaldamento globale”. Idrogeno da usare anche come carburante nei propulsori termici, come sul prototipo della GR Yaris, che “offre emissioni quasi nulle pur mantenendo le sensazioni acustiche e sensoriali tipiche dei motori a combustione”. E nel 2022 esordiranno l’inedita Corolla Cross e la Yaris GR Sport: la prima è un suv ibrido lungo 4,46 metri, che si colloca tra la C-HR e il Rav4. La seconda una Yaris Hybrid con sospensioni ottimizzate e animo sportivo. Dulcis in fundo la GR86, coupé a motore anteriore, trazione posteriore e alto tasso di emozionalità: sotto al cofano pulsa un “boxer” da 2,4 litri che eroga 234 cavalli.
Addio Lina “metallurgica”. Prima regista donna agli Oscar
Siamo stati primi, grazie a lei. Sarebbero arrivate Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, che vinse nel 2010 con The Hurt Locker, Greta Gerwig, e l’anno scorso Emerald Fennell e Chloé Zhao, trionfatrice con Nomadland. Ma la numero uno è stata lei, Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, per tutti Lina Wertmüller.
È morta ieri a novantatré anni, da recordman, anzi, recordwoman mondiale: la prima donna a essere nominata all’Oscar quale migliore regista. Correva l’anno 1977, e Pasqualino Settebellezze agli Academy Awards conquistava altre tre nomination: sceneggiatura originale, della stessa Wertmüller, film straniero e Giancarlo Giannini attore protagonista. Bei tempi, siglati dal ritorno al futuro del 27 ottobre 2019: rimasta digiuna di statuette, Lina venne ricompensata con quella onoraria. Custodita dalla figlia Maria Zulima, accompagnata da Sophia Loren con cui nel 1978 fece – prendete un bel respiro – Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, tradotta da Isabella Rossellini (alla vista del suo abito viola Lina fece le corna…), sul palco dell’Hollywood & Highland Center incassò gli applausi di Leonardo DiCaprio e Quentin Tarantino, e come d’abitudine non le mandò a dire: “Si dovrebbe chiamare con un nome femminile. È una cosa gravissima che si chiami Oscar, si dovrebbe chiamare Anna, non so… Comunque, pazienza, pazienza”. Virtù che in realtà Wertmüller non ebbe sul set come nella vita, anteponendo la passione e “l’incoscienza, una buona consigliera”: donna regista in un mondo di uomini cineasti, fu capace di “scardinare con coraggio – la motivazione dell’Academy – le regole politiche e sociali attraverso la sua arma prediletta: la cinepresa”. Dietro gli occhiali bianchi, il documentario dedicatole dall’assistente Valerio Ruiz, c’era una “donna straordinaria e di un’intelligenza rara”, davanti i suoi film che – parola della Loren – “erano già dei capolavori e si sapeva sarebbero diventati dei classici”. I titoli lunghi, anzi, i più lunghi hanno aiutato: programmatici, Questa volta parliamo di uomini (1965); icastici, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972); inesorabili, Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973); a due piazze, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978); destinati, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974); ostinati, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983); ancora metallici, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1996); à la carte, l’ultimo Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004). Le battute, anche, adiuvarono, con il prediletto Giannini che nell’azzurro mare d’agosto apostrofava Mariangela Melato “brutta bottana industriale socialdemocratica!”: oggi è irriferibile in pubblico e certamente sanzionabile in sceneggiatura, allora Lina non se ne curò, provocatoria non per partito preso, ma per irredimibile vocazione. Al femminismo preferì la settima arte, alla parità di genere la competizione unisex: “Per me un artista non si può considerare in base al genere. Un artista è un artista, gareggia in una categoria a parte. Mi dà fastidio – confessava a Ruiz – quando la politica di genere vorrebbe che si producessero più film di registe donne per il solo fatto che sono donne. Lo trovo sminuente, come a voler mettere una quota rosa. Non si può fare questo lavoro perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento”. Confidando fosse Tutto a posto e niente in ordine, prima film (1974) e poi autobiografia, Lina ha fatto di commedia analisi sociopolitica, guardandosi bene da sopracciglia e ditini alzati: indole scugnizza e attitudine gaudente, non ha mai voluto dimostrare, bensì mostrare. Nord e Sud, padroni e proletari, sopra tutto, uomini e donne, la (ri)conciliazione degli opposti ha modulato un corpus di incontri-scontri, incidenti e incidenze, ovvero Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti (1985).
Aiuto di Fellini su La dolce vita e 8 ½, esordì nel 1963 con I basilischi, e cinque anni più tardi firmò sotto maschio pseudonimo (Nathan Witch) un western all’italiana, The Belle Star Story – Il mio corpo per un poker. Fu una luce per le donne, e ne è certa Marina Cicogna: “Non ci sarà più una come lei, così ironica, a modo suo in ordine, con le idee chiare, anche un po’ troppo chiare”. Ne produsse Film d’amore e d’anarchia, e non filò liscia: “Più testona dopo il successo di Mimì, Lina pretese che ciascuna prostituta parlasse un dialetto diverso: al doppiaggio fu uno stillicidio, alla fine sembrava quasi un film straniero, e il pubblico non lo premiò”. Non dev’esser stato un problema, per la Wertmüller, giacché “l’insuccesso, paradossalmente, l’ho vissuto meglio del successo. Mi ha spinto a fare di più e a capire che l’Italia era l’unico posto dove volessi lavorare”.
Messina Denaro e Graviano: i segreti dell’incontro romano
Non lo vede nessuno. In mezzo alla folla che da via della Stamperia scorre in direzione della Fontana di Trevi nessuno può accorgersi di quel giovane magro e distinto. Indossa una camicia su misura, i pantaloni Versace, al collo ha un foulard di marca: un turista come gli altri, in uno dei luoghi più frequentati del mondo. Quello, però, non è un turista e non è lì per una gita. È quasi all’incrocio con via del Lavatore quando dà un’occhiata all’orologio che porta al polso, un Rolex Daytona d’oro e d’acciaio: l’appuntamento era per le 15, ma lui è un po’ in anticipo. Si guarda intorno, osserva le vetrine degli esclusivi negozi di abbigliamento, quindi si ferma davanti alla fontana più famosa d’Italia. Febbraio sta finendo ed è pure spuntato il sole: l’uomo indossa un paio di occhiali scuri, i Rayban a goccia che tanto andavano di moda in quel 1992. Ha voglia di fumare una sigaretta: dalla tasca estrae un pacchetto di Merit, ne prende una e l’accende. È a quel punto che si sente chiamare: “Paolo, Paolo”. Quello, però, non è il suo vero nome. Ecco perché Matteo Messina Denaro impiega un paio di secondi prima di voltarsi. Quando lo fa, Giuseppe Graviano gli sta sorridendo.
Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da sabato 11 dicembre, si è messo sulle tracce dell’ultimo superlatitante di Cosa Nostra: in un approfondito ritratto di 20 pagine che ha ricostruito il passato, il periodo di formazione criminale fatto di lusso e violenza, il rapporto profondo che lo unisce a Graviano, gli antichi legami familiari che lo collegano ai Cuntrera e Caruana, i potentissimi narcotrafficanti che avevano la loro base in Venezuela. E poi il ruolo fondamentale giocato nelle stragi, poco prima di cominciare una lunga latitanza.
A ogni blitz, a ogni operazione, a ogni sequestro, i giornali scrivono che il cerchio intorno all’ultimo latitante di Cosa Nostra si stringe sempre di più. Ma il centro di quel cerchio rimane sempre, inesorabilmente, vuoto.
Nessuno ancora lo sa, ma all’epoca di quell’incontro alla Fontana di Trevi è appena cominciata la stagione stragista di Cosa Nostra. Di lì a poco cadranno uno dopo l’altro nemici storici della mafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche amici che avevano tradito come Salvo Lima, il viceré di Giulio Andreotti in Sicilia. Ma ancora è presto. In quel tardo inverno del 1992 il Paese è più interessato alle notizie di politica: da lì a poche settimane si tornerà a votare, e per la prima volta sulla scheda non ci sarà il simbolo del Partito comunista, che si è trasformato nel Pds. Negli stessi giorni a Milano viene arrestato Mario Chiesa, il “mariuolo” piazzato dai socialisti a dirigere il Pio Albergo Trivulzio. Sembra un caso isolato e invece sta scoppiando Tangentopoli.
Qualcosa si muove pure in Sicilia. Qualcosa di terribile. Poche settimane prima, il 30 gennaio, la Corte di Cassazione ha messo il bollo sugli ergastoli del Maxiprocesso: per i mafiosi condannati vuol dire il carcere a vita. Non era mai successo: dopo mezzo secolo di efficienza, la macchina dell’impunità mafiosa si è inceppata. E il capo dei capi è imbufalito. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Riina riunisce tutti i suoi generali e ordina: “Dobbiamo toglierci i sassolini dalle scarpe”. Vuol dire che devono morire i magistrati, ma pure i politici incapaci di aggiustare le sentenze.
Lo Stato ha deciso di fare guerra alla mafia creando la Superprocura? E Riina risponde creando la “Supercosa”: sono uomini scelti, fedeli soltanto a lui, incaricati di missioni delicate e segretissime.
È per questo motivo che quel giorno Messina Denaro incontra Graviano alla Fontana di Trevi. È il prologo delle stragi, ed è lì che bisogna tornare per cercare di capire chi è davvero Messina Denaro. Chi è stato, che cosa è diventato, come è riuscito a diventare un fantasma. Il fantasma della Repubblica. Anzi, per essere precisi, della Seconda Repubblica.
Matteo non si trova. Come fa? Come ci riesce? Nell’epoca degli smartphone e della geolocalizzazione, del tracciamento quasi integrale della vita di ognuno di noi, come può uno degli uomini più ricercati al mondo continuare a rimanere invisibile?
Secondo qualcuno perché ha un grande potere, quello del ricatto: era lui il “gioiello” di Riina ed è a lui che sono finiti i documenti che erano custoditi nell’ultimo covo dello zio Totò, quello che i carabinieri non sono andati a perquisire dopo l’arresto del capo dei capi. E poi c’è anche un altro motivo. “È protetto da una rete massonica”, racconta chi gli ha dato la caccia per anni.