Bob Wilson si è dato al melodramma: “Le scuole di musica andrebbero bruciate”

Iniziamo bene: il teatro e l’opera italiani sono in buona salute e di qualità, secondo lei? “No, non lo sono. Penso che le scuole siano terribili. Come la televisione: un pensiero istantaneo, messaggi istantanei. Non c’è formazione per una profonda spiritualità. Le scuole hanno dimenticato la tecnica: la loro preoccupazione è avere risposte ogni dieci secondi, o anche meno. Ma si dovrebbe pensare con il corpo, non solo con la testa. La mente è un muscolo. Dobbiamo bruciare le scuole italiane di teatro e musica e ricominciare”.

Robert Wilson è in Italia per il suo nuovo allestimento del Trovatore di Giuseppe Verdi, diretto da Pinchas Steinberg, che martedì ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna (repliche fino al 29 gennaio; la recita di domani sarà trasmessa in diretta streaming sul canale Youtube del teatro).

Disinteressato allo psicologismo, il regista firma anche qui un allestimento di impeccabile architettura luminosa: “Sin da bambino ho sempre pensato in astratto, in numeri, che poi sono l’ossatura della pièce. La psicologia è superflua; quello che mi sta a cuore è la sensazione dello scheletro, dell’impalcatura… Non sto cercando di imbellettare Verdi, ma di presentarlo per quello che è: non è un libro da colorare che posso scarabocchiare dappertutto. Il suo è un mondo sfaccettato, un prisma complesso e allo stesso tempo semplice. Gli italiani sono molto pratici, hanno i piedi per terra. E come loro Verdi”.

Come giudica, da texano, l’America di Trump? “È una disgrazia per il nostro Paese: un bugiardo, un bullo, non paga le tasse, non sa lavorare in squadra. L’America sarà ‘first’ solo quando comprenderemo l’importanza della comunità mondiale. Questo è ciò che ha reso l’America ‘great’. Lavoro a livello internazionale e disprezzo la sua assoluta mancanza di comprensione umana e compassione”.

 

Murray ritrova la coppola, gli zombie e i morti viventi

A 16 anni dal film cult Lost in Translation, Sofia Coppola tornerà a dirigere Bill Murray in On the Rocks, il suo ottavo lungometraggio, prodotto da A24 per Apple al via in primavera, che racconterà le vicende di una ragazza-madre (l’attrice e modella Rashida Jones, vista in Zoe di Drake Doremus) che riallaccia i rapporti con suo padre, donnaiolo irriducibile (Murray), coinvolgendolo in un’avventura nella New York di oggi. Il comico e la regista si erano già ritrovati nel 2015 per girare A Very Murray Christmas, uno speciale natalizio di Netflix, in chiave di commedia musicale, teso a omaggiare i tradizionali spettacoli di varietà delle emittenti tv nelle festività di fine anno. Attualmente impegnato in Francia sul set del nuovo film di Wes Anderson, Murray apparirà anche in Zombieland 2 (nonostante risultasse morto nel prototipo), sempre accanto a Jess Eisenberg, Emma Stone e Woody Harrelson e sarà alle prese con i morti viventi anche per conto di Jim Jarmush, da lui ritrovato nella commedia con zombie The Dead Don’t Die girata nei mesi scorsi a Upstate, New York, insieme a Steve Buscemi, Adam Driver, Tilda Swinton e Tom Waits.

Marco Tullio Giordana sta ultimando con il giornalista Lirio Abbate la sceneggiatura di un nuovo film, un action thriller che aspira a indagare la corruzione in Italia e che verrà realizzato nei prossimi mesi da Fulvio e Federica Lucisano per la IIF.

Mario Martone ha ultimato per la Indigo Film le riprese della trasposizione cinematografica de Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo, puntando su un cast formato quasi interamente dagli interpreti dello spettacolo teatrale da lui diretto l’anno scorso e che vede in azione, tra gli altri, Francesco Di Leva, Roberto De Francesco, Massimiliano Gallo e Adriano Pantaleo.

L’Italia corrotta grida vendetta

C’è del marcio in Italia: la corte di un duca corrotto e lubrico, con stuolo di figli corrotti e lubrichi, con codazzo di figliastri corrotti e lubrichi, che se la fanno con la duchessa, corrotta e lubrica. Un ensemble che grida vendetta, ed ecco apparecchiata La tragedia del vendicatore. Scritta da Thomas Middleton – Shakespeare suo contemporaneo – nel 1606, la pièce è diretta dal regista, già Leone d’Oro, Declan Donnellan con un cast e una produzione (Piccolo ed Ert) italiani.

La trama, loschissima e truculenta, non disdegna la farsa: Vindice – nomen omen, come quasi tutti gli altri personaggi – intende vendicare, dopo nove anni, la morte di Gloriana, sua (ex) promessa sposa, assassinata dal duca perché non gli si è concessa. Per farlo, si camuffa da ruffiano ed entra nelle grazie, e nel letto, del primogenito di corte, tal Lussurioso, che intanto smania per deflorare Castiza. Altro flirt è quello della duchessa con Spurio, il figlio bastardo, mentre un terzo rampollo, Junior, finisce in carcere con l’accusa di stupro; seguono i piani degli ultimi due eredi, Ambizioso e Supervacuo, per impossessarsi del trono.

“All’epoca l’Italia – spiega il regista – era un luogo proibito. L’Europa cattolica rappresentava per i protestanti un altrove, latore di un’ideologia perniciosa”. Interessante, dunque, che l’allestimento sia stato affidato a un inglese, che contempla con occhio sornione le disgrazie e il malaffare altrui, cioè nostro, a parte qualche citazione pittorica, di Tiziano come di Piero della Francesca, francamente spiazzanti, se non incomprensibili, per lo spettatore italiano.

L’allestimento è rock’n’roll, grazie anche alle scene e ai costumi di Nick Ormerod, alle musiche di Gianluca Misiti e alle luci di Claudio De Pace: è splatter sì, ma patinato; colorato sì, ma plastico; sparato sì, ma con garbo e stile e humour; peccato per le lungaggini della trama e qualche scivolone macabro come le torture al duca in presa diretta.

Eppure, quel che più impressiona non sono teschi, sangue, incesti, stupri, mercimoni, pedofilia, omicidi, fratricidi, puttanieri; quel che più impressiona è il determinismo di questo pezzo di mondo (“Sono così immerso nella voglia che non ho scelta”), il marxismo scaduto a cinismo (“La virtù non riempie il piatto né paga le medicine”). Qui nessuno è libero, sono tutti prigionieri, anche della virtù o dell’ossessione della vendetta: “Noi siamo il nostro stesso nemico”.

Il cast è eccellente; in particolare il Lussurioso di Ivan Alovisio, il Vindice di Fausto Cabra e la duchessa/madre di Pia Lanciotti: straordinaria “quota rosa” che surclassa i virili umori. In sottofondo riverbera l’eco del presente, del popolo contro le élite, dell’onestà che “non va più di moda”: “Perché uno lavora e paga le tasse per lasciarle a chi non sa cos’è la decenza?”. Ma è l’animo umano che non è al passo coi tempi, la politica c’entra fino a certo punto. Come nel cartone Inside Out , i protagonisti sono i sentimenti: cupi, viscerali, tossici, pur in una allure fumettosa e grottesca. Perciò l’Italia non è davvero l’Italia: è solo il sud dell’anima, quella più vicina all’intestino.

La tragedia del vendicatore, Declan Donnellan – Roma, Teatro Argentina, fino al 3 febbraio; Pordenone, Teatro Verdi, 7 e 8 febbraio

 

“La favorita” è una serpe in seno alla regina

Deformare per informare. Perché la Storia non è fatta solo di libri ma (soprattutto) di derive e follie umane con un unico obiettivo: la conquista del potere. E allora eccola strisciare claudicante verso il trono la bulimica sovrana, malaticcia e ambigua, senza figli ma circondata da decine di conigli. Una Maestà poco maestosa era Anna Stuart, prima regina del Regno Unito di Gran Bretagna dal 1702 al 1714, inadeguata a governare e per questo “governata” da due cortigiane perfide e seducenti, agguerrite sfidanti a diventar di lei La favorita.

Si chiamavano Lady Marlborough e Lady Masham, entrambe di origini umili ma tanto abili ad arrampicarsi sopra e sotto le sontuose vesti della “adorata” sovrana vampirizzandone ogni possibile goccia vitale. Il trittico femmineo si ama e si odia, s’insegue e si spia, sorride mentre si accoltella di veleno mortale.

Il greco Yorgos Lanthimos (prestato ancora alla lingua inglese ma finalmente regista di una sceneggiatura non propria – firmata infatti da Deborah Davis & Tony McNamara – e gioiosamente si sente) è vero pasionario di bestiari sull’umana specie e per questo trova con The Favourite (da noi La favorita) il territorio più fertile per esprimere l’assoluta ferocia del proprio cinema, applicato a un barocco dove l’eccesso esprime intimità e la finzione dà senso alla realtà.

Perché tutto ciò che prende spazio in questo film magniloquente, grandioso e ipnotico non è mai ornamento bensì sostanza: ogni elemento, dal minimo dettaglio al più ricco dei salotti di corte, sta a significare il paradosso assoluto fra il peso del Potere e la fragilità umana incaricata a gestirlo. Naturale benché doloroso è quindi scoprire che sotto gli sfarzosi mantelli di Queen Anne disegnati dalla geniale Sandy Powell vi è il nulla, o quasi: un corpo semiparalizzato dalla gotta, una freak dolente e morente.

Quanto diventa necessario, quasi doveroso, per Lanthimos deridere con cinismo la maschera di una sovrana che recita un soggetto che non comprende, invece così chiaro alle due serpi che la circuiscono, sorta di Übermensch al femminile in cui l’esser donna assorbe e mescola insieme femminilità e mascolinità. Ecco perché nel film la presenza degli uomini si riduce a inetti cicisbei incipriati: nella Domina con i suoi vizi e virtù vi è la complessità del genere umano, nel bene e nel male.

L’opera a oggi migliore del cineasta ellenico viaggia con 10 candidature pesanti ai prossimi Oscar: con Sua Maestà Olivia Colman “favorita” di nome e di fatto alla vittoria da protagonista, accompagnata dalle splendide supporting Emma Stone e Rachel Weisz. Ritmo furibondo, emozioni infernali, umorismo d’irriverenza estrema (quanto Jonathan Swift e Alexander Pope s’innervano fra le pieghe testuali…) e bellezza mozzafiato: La favorita è un film da gustare fino all’ultimo sospiro.

Da Boccaccio a Twain: i libri diventano ‘claque’

Chiunque operi già o ambisca a lavorare all’interno di quella che una volta veniva definita industria culturale (dunque redattori, uffici stampa, giornalisti, editor… insomma, tutti), deve assolutamente leggere La claque del libro di Ambrogio Borsani (Neri Pozza, pp. 187, euro 16). E non perché contenga delle soluzioni per affrontare la crisi dell’editoria, quanto piuttosto perché la sua ricostruzione puntuale e intelligente sulla storia della pubblicità editoriale da Gutenberg ai nostri giorni (su cui non trattiene giudizi netti) offre degli strumenti di lettura sulla deriva del mercato del libro.

A illuminare la strada di Borsani, Gerard Genette e la definizione di epitesto tratta da quel monumento della critica letteraria che è Soglie: “È epitesto qualsiasi elemento paratestuale che non si trovi annesso al testo nello stesso volume, ma che circoli in qualche modo in libertà, in uno spazio fisico e sociale virtualmente illimitato”.

Nella pratica editoriale, è la comunicazione pubblicitaria attorno al libro, fascetta esclusa. Borsani sa che “per cercare le origini della pubblicità del libro bisogna risalire alla nascita della carta stampata”. Si inizia da Gutenberg, o meglio, dal suo collaboratore Peter Schoeffer. Borsani lo definisce il primo “comunicatore” e ha ragione: dopo una disputa legale che, insieme a Jacob Fust, lo vede causare la bancarotta di Gutenberg i due fondano una nuova stamperia con la tecnica dei caratteri mobili a Magonza.

Nel 1469 Schoeffer è il primo a concepire l’idea di riprodurre materiali pubblicitari stampati per sostenere i libri: stese una lista di diciannove testi a cui premetteva: “Chi vuole procurarsi gli scritti sottoelencati, corretti con grande diligenza e così stampati con i tipi di Magonza, e con cura anche in seguito, venga a casa mia a vederli”. Tali volantini, distribuiti ai clienti o affissi, precisa Borsani “costituiscono non solo la prima pubblicità del libro, ma la prima forma di pubblicità stampata in assoluto”.

Ma anche nel mondo editoriale – così come insegnano le pubblicità di alcuni detersivi che, si sa!, lavano meglio ed eliminano più batteri “rispetto ai normali detersivi” – alcuni tomi dicono di più e meglio dei “normali libri”. È quello che scrive Denis Diderot nel 1751. Dopo essere uscito di prigione solo per aver messo in discussione l’esistenza di Dio chiedendo come fosse un cieco di poterlo toccare per potervi credere (insomma, una bazzecola per l’epoca), nel rimettersi al lavoro all’Encyclopédie ha un’idea: crea e distribuisce un testo in cui non soltanto annuncia l’unicità del progetto “Nessuno sinora aveva concepito un’opera tanto vasta” (35 volumi), ma la raffronta alle opere concorrenti già in commercio, la Ciclopedia, dizionario universale dei mestieri e delle scienze di Ephraim Chambers, che accusa di possedere “una moltitudine prodigiosa di lacune”. Nasce la pubblicità comparativa.

Procedendo così, “la pubblicità stava conquistando i muri” scrive Borsani, e nell’800 ricopre le strade delle città, tanto che a Londra un decreto della Polizia Metropolitana del 1837 proibisce l’affissione di manifesti sulle proprietà private. Nulla, però, vieta di attaccarseli sul corpo – nascono gli uomini sandwich – o di inventarsi i carri con torrette di annunci mobili. Media, questi, tutt’oggi esistenti. Anche nell’Italia dell’epoca gli editori utilizzano l’affissione, come testimoniano i poster per un’edizione popolare de Il Decamerone di Boccaccio edizione del 1882.

Il libro di Borsani non racconta solo l’ingresso della pubblicità nell’editoria, ma anche il rovescio, gli scrittori nella pubblicità: Mark Twain fu testimonial per il tabacco Prince Albert, Hemingway e Steinbeck per il whisky Ballantine, Mario Soldati per il Marsala Florio fino a Bret Easton Ellis che nel 2015 posa con la sua macchina da scrivere per Luxottica.

Borsani analizza anche il mondo dei social che “sono tutto e il contrario di tutto” e degli influencer (lui preferisce “persuasori”, i quali devono tutto ad André Breton che in viaggio per New York scopre i versi di Aimé Cesaire e, definendolo “il più grande monumento lirico di questo tempo”, gli regala il successo), che vengono poi contattati dagli editori perché scrivano quelli che definisce “libroidi”.

Che qui si sia interrotto uno sposalizio sano tra libri e pubblicità, e alterato l’equilibrio delle parti tra valore letterario e marketing? Borsani non risponde direttamente a queste domande, tuttavia il suo luminoso testo suggerisce come conoscere il passato sia il solo dispositivo per correggere il presente.

Il Pd sconfessa la Cgil

Anche sul VenezuelaMatteo Salvini si trova a suo agio più con il Pd che con l’alleato M5S. Il leader della Lega, infatti, ieri ha preso decisamente parte per il “popolo” contro il presidente venezuelano allineandosi coerentemente con i suoi riferimenti internazionali, come Donald Trump e Jair Bolsonaro. Diversa però la posizione del presidente del Consiglio: “Seguo gli sviluppi in Venezuela”, scrive Conte su Twitter. Siamo vicini al popolo venezuelano e al fianco della collettività italiana nel Paese. Auspico un percorso democratico che rispetti libertà di espressione e volontà popolare”. Ancora più distante da Salvini, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano: “Il principio di non ingerenza è sacro. Qualsiasi sia la nostra visione delle cose, di Maduro, del chavismo, cambiamento in Venezuela deve avvenire in un contesto politico, democratico e non violento”. Di Stefano ne approfitta per attaccare Emmanuel Macron, schieratosi senza esitazioni contro Maduro e con Trump, ma anche con le posizioni di Salvini. Un ginepraio internazionale di cui è difficile trovare un filo coerente. Il Pd, invece, ha colto l’occasione di un ordine del giorno approvato dal congresso Cgil per lanciarsi contro il sindacato. Il documento, pur senza schierarsi con Maduro, si è pronunciato sia contro le “ingerenze straniere” che contro l’autoproclamazione di Juan Guaidó. Concludendo, però, con un invito a rispettare “lo Stato di diritto”. Il testo è stato preso di mira su Twitte dai renziani del Pd: “È un dolore leggere queste parole – scrive la senatrice Teresa Bellanova – non posso credere che l’organizzazione di Di Vittorio, Lama e Trentin possa essersi schierata con Erdogan e i suoi fratelli” (riferimento a Maduro, ndr). Poi anche Anna Ascani, Ivan Scalfarotto e altri. A tarda sera è l’appena eletto segretario Landini a rispondere netto: “Non stiamo con Maduro ma l’intervento esterno è una lesione democratica”.

Il tic degl’imperialisti: disarcionare Maduro nuova farsa di Trump

L’avevamo scritto sul Fatto del 15 agosto 2017: “Il prossimo obiettivo è Nicolàs Maduro”. Ieri, dopo che il leader dell’opposizione parlamentare venezuelana Juan Guaidó si era autoproclamato presidente del Paese, Donald Trump è subito intervenuto non solo incoraggiando l’opposizione ma pronunciando la sinistra frase “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Il che significa: intervento militare. Del resto erano mesi che altri importanti esponenti del governo americano, da Mike Pompeo a James Mattis, auspicavano un intervento armato in Venezuela in nome dei “diritti umani”, che in quel Paese sarebbero violati, e sobillando le forze armate venezuelane perché si ribellassero a Maduro. Quando sento parlare di “diritti umani” metto, metaforicamente, mano alla pistola. Perché, come la storia recente insegna, vuol dire che si sta per aggredire qualcuno.

Il metodo per eliminare leader sgraditi all’Impero americano, in genere socialisti, come per esempio Slobodan Milosevic, è sempre lo stesso, con qualche variante: prima si comminano sanzioni al Paese indesiderato, lo si strangola economicamente, nasce così uno scontento popolare e con esso un’opposizione che, sempre incoraggiata da fuori, si dà a manifestazioni più o meno violente. Prima di quelli degli ultimi giorni gli scontri fra sostenitori dell’opposizione e sostenitori di Maduro avevano causato in tutto 147 morti, equamente divisi fra le due fazioni. Si badi bene: non erano stati scontri con polizia o esercito, ma scontri fra fazioni politiche opposte. La reazione del governo venezuelano non deve essere poi, a differenza di quello che avviene nelle dittature propriamente dette o mascherate come quella di Putin in Russia, così truce se il leader dell’opposizione Juan Guaidó, sequestrato qualche giorno fa mentre era in auto con la moglie, dai servizi segreti, è stato liberato dopo poche ore e il governo ha affermato che “è stata un’iniziativa non autorizzata” e che punirà i responsabili. Maduro è stato rieletto per la seconda volta a maggio del 2018, col 70% dei consensi, e si è reinsediato due settimane fa.

L’opposizione sostiene che si sia trattato di elezioni taroccate, perché in lizza non c’erano validi oppositori di Maduro, perché si sospetta di gravi brogli e perché sarebbero stati violati alcuni articoli della Costituzione venezuelana che danno potere di intervento al presidente dell’Assemblea nazionale, il Parlamento, “in caso di necessità e vuoto di potere”. Che ci sia un vuoto di potere in Venezuela ci par dubbio, quello che è vero è che Maduro ha svuotato il Parlamento delle sue funzioni. Se di golpe si tratta è un golpe istituzionale (alla Napolitano), non un golpe con le armi. Il golpe con le armi, cioè un golpe propriamente detto, lo ha realizzato Abd al-Fattah al-Sisi rovesciando nel luglio 2013 il governo dei Fratelli Musulmani, usciti vincitore, con tutti i crismi della legalità, dalle prime elezioni libere in Egitto, mettendo in galera, non per due ore ma a vita, il presidente legittimamente eletto Mohamed Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli, assassinando in varie riprese 2.500 oppositori (ma potrebbero essere molti di più) e facendone sparire altrettanti. Eppure nella cosiddetta comunità internazionale, una gran parte della quale ora si scandalizza e si scaglia contro Maduro definendolo “un usurpatore”, non si levò una sola protesta.

Il fatto è che quello di Maduro è un socialismo, un socialismo largamente imperfetto, ma un socialismo, che ha due obiettivi di fondo: il tentativo di una maggior perequazione sociale in un Paese dove un migliaio di famiglie detiene la maggior parte della ricchezza e tutto il resto della popolazione vive in povertà, e il tentativo di prendere le distanze dall’inquietante vicino americano. È la cosiddetta ‘linea bolivariana’, che fu ripresa da Chavez, il predecessore di Maduro, e di cui Maduro è il continuatore. Linea che per parecchi anni ha avuto un certo successo coinvolgendo molti altri Paesi sudamericani. Ma ora la situazione è cambiata. Perché molti di questi Paesi, a eccezione della Bolivia, del Messico e dell’Ecuador, sono governati dalle destre e in qualche caso da destre estreme, vedi Bolsonaro. Se una previsione l’avevo azzeccata, un’altra l’ho sbagliata. Avevo scritto che con Trump non ci sarebbero più state guerre ideologiche, ma solo economiche. A quanto pare – speriamo di sbagliarci e che The Donald torni sui suoi passi – non è così.

Due osservazioni per finire. Fa ridere, fa ridere amaro, che gli Stati Uniti si scaglino contro la presunta ‘dittatura’ di Maduro quando per decenni hanno sostenuto i più feroci e sanguinari dittatori sudamericani, da Noriega a Somoza a Batista a Pinochet. Certi esponenti europei, da Tusk a Tajani, hanno affermato che in Venezuela alcuni oppositori sono in galera, sono quindi “prigionieri politici”, una situazione inaccettabile. Ma in Spagna Puigdemont, che dopo un referendum si era proclamato presidente della Catalogna, senza che ci fosse stata alcuna violenza da parte dell’Indipendentismo catalano, è stato costretto all’esilio, mentre altri esponenti del governo catalano, sono in galera da più di un anno con l’accusa di “sedizione”. Questi sì veri detenuti politici nel mezzo della democratica Europa.

Due pesi e due misure. Come al solito, come sempre. Maduro è un golpista, Al Sisi no, gli oppositori di Maduro, dopo manifestazioni violente, sono “detenuti politici”, Junqueras e gli altri, dopo un referendum, e senza violenze, sì. Ma ora, per usare un linguaggio feltriano, ci siamo rotti i coglioni. Saremo probabilmente i soli, in un panorama occidentale tutto allineato all’imperialismo americano, che in Sudamerica si riassume con la frase di Henry Kissinger dedicata al Brasile, definito “satellite privilegiato degli Usa”, a difendere Maduro e quel che resta del socialismo, che non è il comunismo, internazionale.

L’America Latina s’è destra

Dieci anni fa, il volto del Sudamerica era composto dai tratti indio di Evo Morales, quelli meticci di Hugo Chávez, quelli europei di Lula, tutti incorniciati dalla barba di Fidel Castro. E grande era il seguito delle loro figure dall’altra parte dell’Atlantico settentrionale. L’alba del 2019 sorge su un continente che ha cambiato completamente indirizzo politico e ideologico: il presidente indigeno è ancora in sella in Bolivia, ma la sua aura di sinistra si è molto appannata – offuscata anche dal presidente-contadino uruguaiano “Pepe” Mujica – i due giganti dell’America meridionale sono in mano a un liberista moderato (l’argentino Macrì) e a un iper-populista (il brasiliano Bolsonaro) e i due rivoluzionari “caraibici” Chávez-Castro, deceduti, sopravvivono abbracciati nell’immaginario, sempre meno collettivo, antiamericano.

La crisi venezuelana rappresenta solo l’ultimo atto della disgregazione del modello populista e progressista, che ha provocato politicamente una svolta verso un ritorno del liberalismo che ha investito gran parte dei Paesi del continente. Le ragioni del cambio, per fortuna avvenuto finora attraverso lo strumento elettorale, sono molteplici e differenti per ogni Paese, ma hanno due caratteristiche comuni: la concezione di “potere eterno” che ha ridotto in alcuni casi le garanzie democratiche e conseguentemente l’estrema corruzione che ha portato, complice anche la crisi mondiale, a un aumento della povertà. Nel 2003, l’elezione del sindacalista Lula costituì l’atto più significativo della svolta progressista sudamericana.

Chi pensava in un principio di “cubanizzazione” del Brasile venne presto smentito dai fatti, visto che “l’eterno perdente” (Lula era stato sconfitto in tutte le elezioni cui aveva partecipato) si rivelò un conciliatore di grande spessore politico puntando alla partecipazione di tutti i settori della società verso un cambio che, complice anche la situazione internazionale e la scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, portò non solo nel giro di pochi anni il Paese tra le principali potenze economiche mondiali ma ridusse notevolmente la povertà: dopo l’India, il Brasile è la nazione dove si è registrata per anni la percentuale più alta di incremento dalle classi meno abbienti a quelle medie.

Scaduto il mandato, nel 2011 venne rimpiazzato dalla sua delfina politica nel PT (Partido do trabalhadores) Dilma Rouseff che purtroppo ha smentito le aspettattive. Lo scandalo del Lava jato, che ha coinvolto lo stesso Lula, la mutata situazione internazionale e l’insicurezza nel Paese l’hanno portata a decisioni che hanno trascinato il Brasile in una crisi totale, culminata con la destituzione di Rousseff e l’assunzione prima di Temer e successivamente del “duro” Bolsonaro eletto nell’autuno scorso ed entrato in carica il 1° gennaio.

Caso simile quello dell’Argentina, dove dopo la crisi del dicembre del 2001, nel 2003 assume la carica di presidente il peronista Nestor Kirchner. La soluzione dei problemi del debito del Paese con il Fmi fatta dal suo predecessore Eduardo Duhalde e il contemporaneo rincaro della soia, di cui l’Argentina è tra i principali produttori, nel mercato mondiale provocano anche qui un certo benessere ma anche la mancanza di uno sviluppo, dovuto principalmente all’utilizzo dei giganteschi introiti statali in una corruzione mai registrata nella storia (calcolata in 35 miliardi di euro dall’Università di Buenos Aires) del Paese e nella creazione di piani sociali concepiti come intercambio politico, fatti continuati anche durante la presidenza di sua moglie, Cristina Fernandez de Kirchner. Nel 2015 il liberale Mauricio Macri vince le elezioni, ma sia a causa della pesante situazione economica ereditata, sia per incapacità del suo governo, la situazione non migliora e le elezioni di quest’anno si svolgeranno in una Argentina con un’inflazione vicina al 50%.

Da sottolineare che nei casi di Cile e Uruguay, la grande tradizione democratica promuove da sempre un’alternanza di potere, sebbene la socialista Bachelet abbia perso le elezioni a causa della corruzione e la conduzione di Mujica in Uruguay non abbia brillato soprattutto a causa dell’incapacità dei suoi governi nelle scelte economiche del Paese.

Per un pugno di libri, quel vintage che piace

Quanto è stato profetico Ray Bradbury in Fahrenheit 451? Quasi settant’anni dopo, i libri rischiano davvero, se non il rogo, l’oblio? Certo, la fantascienza di ieri non è mai stata tanto vicina alla cronaca di oggi. Se parliamo di reti generaliste, la sparizione è un dato di fatto; l’unico libro di cui si parla è l’ultimo di Bruno Vespa; gli scrittori o svelano una vena buffonesca (vedi Mauro Corona), o sono disc jockey mancati (vedi Fabio Volo), o sono aspiranti popstar (vedi Saviano), oppure ciccia. Scelta impeccabile, dunque, inaugurare con il capolavoro di Bradbury la ventesima stagione di Per un pugno di libri (Rai3, il sabato alle 18). Questa pacata resilienza ha radici profonde; parliamo del programma più novecentesco della nostra Tv, due squadre di studenti liceali che si scontrano come nel vecchio, pedagogico Chissà chi lo sa, una serie di giochi e prove vintage, tra quiz a tema ed enigmistica, dove c’è perfino la storica campanella del Musichiere, una conduttrice smaliziata come Geppi Cucciari (che potrebbe anche non sentirsi obbligata a fare battute ogni volta che parla) e un autentico professore-dinosauro orgogliosamente trincerato dietro la cattedra, Piero Dorfles, impegnato a mostrare che i libri sono come gli uomini: per amarli bisogna distinguere i buoni dai cattivi. Lunga vita a Per un pugno di libri: è un piccolo miracolo che si conservi uguale a se stesso anche se leggere non aiuta a diventare famosi, ma – direbbe Marzullo – soltanto a vivere meglio.

Il partito cattolico è un rischio troppo grosso per la Chiesa

Ogni tanto ritorna. È lo spettro del cattolicesimo politico, il sogno (o l’incubo) della nuova Dc, di un nuovo partito dei cattolici italiani. In questi giorni ne hanno parlato, a più riprese, il carismatico prete bolognese don Giovanni Nicolini, il professor Zamagni e molti altri. Per avere una forza reale un partito del genere dovrebbe però godere del sostegno dell’intera istituzione religiosa e delle gerarchie che la controllano. Ma i capi del cattolicesimo la nascita di un simile partito non potranno mai sostenerla, per due ragioni. La prima è che la genesi di una nuova Dc certificherebbe lo stato comatoso nel quale si trova il laicato cattolico nel nostro Paese. L’avanzata del processo di secolarizzazione ha svuotato parrocchie e oratori e ridotto la rete delle associazioni e dei gruppi cattolici a un insieme di sigle dietro le quali si annida un numero di effettivi ridotto all’osso. La crisi dei corpi intermedi ha colpito anche la Chiesa cattolica.

Inoltre la nascitura creatura politica si collocherebbe all’opposizione e a sinistra, dal momento che invocherebbe una completa inversione di rotta rispetto alle scelte governative su immigrazione e diritti sociali. Ma una parte consistente di opinione pubblica e di elettorato collocata su quel versante assegna un valore non trascurabile alla laicità e non sosterrebbe un’iniziativa dal tono confessionale. Insomma, il neo partito cattolico rischierebbe di raccogliere alle elezioni una percentuale di voti simile a quella di un partitino del centrosinistra, di LeU o della Lista Bonino. Con effetti disastrosi facili da immaginare per l’intera istituzione religiosa.

C’è tuttavia un secondo motivo ancora più importante per il quale la gerarchia non incoraggerà mai l’iniziativa di far nascere una forza politica cattolica. Un simile partito sarebbe inevitabilmente partigiano ed escluderebbe un numero amplissimo di cattolici conservatori (i tanti praticanti che votano per Salvini e in generale per la destra). Le conseguenze negative sarebbero immediate, con l’innesco di tensioni laceranti nella comunità ecclesiale, nelle parrocchie e tra i fedeli. Un partito cattolico non può e non potrà mai che essere, come fu la Dc, un partito di centro che non escluda nessuno, cioè una forza politica che ospiti, in forma moderata, tutte le opinioni politiche, nella possa, potenzialmente, identificarsi la totalità del mondo cattolico. Ciò è avvenuto sinora solo una volta, in una congiuntura storica unica e irripetibile, dopo la fine del fascismo, dinanzi alla minaccia comunista e in un Paese ancora profondamente religioso.

L’unità dei fedeli è, per la gerarchia, il bene più prezioso, la premessa della fedeltà di tutti i laici al corpo sacerdotale, ai vescovi e al pontefice. La Chiesa non sarà mai disposta a metterla a rischio per avvalorare le ambizioni politiche di qualche volenteroso intellettuale.

È vero che la situazione politica attuale rimane, per la Chiesa, di difficile gestione, essendo venuti a mancare quelli che per anni, dopo il 1994, sono stati i suoi interlocutori abituali, primo tra tutti Silvio Berlusconi. Ma è altrettanto certo che la solidarietà con i migranti non vale tutto quello che la Chiesa rischierebbe di perdere schierandosi all’opposizione del governo gialloverde. In fondo, il nuovo esecutivo non ha messo a repentaglio i privilegi economici e giuridici di cui gode la Chiesa, né minacciato di varare leggi che allarghino pericolosamente (per la Chiesa) i confini della libertà individuale e dei diritti civili. Quella bolognese di Zamagni e don Nicolini rimarrà perciò una delle tante iniziative politico-culturali locali dal destino incerto. Per ora, almeno su questo versante, Salvini e Di Maio possono dormire sonni tranquilli.