Potrebbe dover lasciare il posto di procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Maurizio Romanelli, il primo della Dna a essere nominato dal Csm, nel 2016, dopo la modifica della normativa. Fino a quel momento era “aggiunto” a Milano. Ieri, la Quinta commissione del Csm, presieduta da Gianluigi Morlini, a maggioranza, ha deciso di proporre al plenum di ottemperare alla sentenza del Consiglio di Stato che per la seconda volta, il 4 gennaio, ha accolto il ricorso di Maria Vittoria De Simone, lunga esperienza come pm in Dna, prima a Bologna e Napoli. A favore della De Simone hanno votato i togati Morlini (Unicost) e Lepre (Mi), i laici Gigliotti (M5S) e Basile (Lega). Per Romanelli, invece, i togati Davigo (Aei) e Mario Suriano (Area). Non ancora fissato il plenum che, per la legge dei numeri, appare scontato a favore di De Simone. La prima sentenza di annullamento del Cds e l’indicazione al Csm di una nuova comparazione dei due profili risale ad aprile. Aveva pure messo in rilievo che in merito a indagini sulla criminalità organizzata, Romanelli se ne era occupato dal 1992 al 2000, a differenza della De Simone con più anni di esperienza. Quanto alla riconferma di Romanelli da parte del Csm, nell’ultima sentenza di questo mese il Cds ha parlato di “elusione” rispetto a quanto chiesto da Palazzo Spada. Scrive la Quinta sezione presieduta da Giuseppe Severini, estensore Fabio Franconiero: il Csm “si è limitato in via ricognitiva a elencare le attività rispettivamente svolte nel settore dai due magistrati. Ma di esse poi non ha fatto ragione effettiva e riscontrabile di ponderazione e selezione comparativa, se non quanto al secondario aspetto del carattere internazionale delle indagini”, ovvero le lodi ricevute da Romanelli “dagli Usa” per le sue indagini sul terrorismo internazionale. Ma, scrive ancora il Cds, De Simone ha esperienza in quell’ambito anche come coordinatrice in Dna, quindi la sua esperienza “appare più ampia”.
“Il Csm renda pubblici i redditi dei magistrati”
Si fa presto a dire trasparenza. Sarà una faticaccia per il Consiglio superiore della magistratura adeguare le regole che riguardano le dichiarazioni patrimoniali delle toghe agli standard richiesti dal gruppo di Stati contro la corruzione (Greco). Che ha bacchettato pesantemente l’Italia sulla raccolta delle informazioni relative ai redditi dei magistrati e dei loro congiunti, ritenute strumento importante di prevenzione e di individuazione dei conflitti di interessi. Un paio di anni fa, l’organismo internazionale aveva addirittura sollecitato il Csm affinché procedesse a una verifica approfondita sul merito delle informazioni in questione, arrivando a chiederne persino la pubblicazione, come già avviene per i parlamentari, in base al principio che la limitazione del controllo pubblico priva “di una visione olistica dei potenziali rischi di conflitti di interessi e delle sfide insite nella professione”. Ma al ministero della Giustizia nessuno sa precisamente in quale cantina di quali uffici giudiziari queste dichiarazioni, obbligatorie dal 1997, erano finite ad ammuffire. Altro che pubblicità e sanzioni disciplinari per chi avesse omesso di presentarle. E figurarsi i controlli.
Ora si è almeno deciso che vengano spedite al Csm affinché le raccolga tutte. E proprio in questa direzione sta lavorando la IV commissione di Palazzo dei Marescialli: forse non basterà a evitare altri scandali come quelli, dolorosissimi per l’intera categoria, che hanno coinvolto nel tempo alcuni magistrati.
Quel che è certo è che qualcosa di più si poteva fare. Anche perché proprio nella risoluzione che ora si intende riscrivere era stata stabilita l’esenzione dall’obbligo di pubblicità su beni e redditi, a fronte della vigilanza dell’organo di autogoverno. Chiamato a valutare “la posizione economica e il tenore di vita” dei magistrati “anche al fine di verificare la correttezza del loro operato”. Poi però è mancato pure quello.
“Una volta raccolte queste informazioni verranno custodite nel fascicolo personale del singolo magistrato, in un luogo sicuro, cioè una sottosezione riservata”, spiega Antonio Lepre, presidente della IV commissione al Csm. Che sottolinea come “in termini di trasparenza la creazione di un’anagrafe patrimoniale centralizzata è già un enorme passo avanti che consentirà all’organo di autogoverno di accedere a queste informazioni ogni volta che ce ne sarà bisogno. Come ad esempio in sede di valutazioni di incompatibilità, laddove si riscontrassero intestazioni indirette. Ma resta il fatto – chiarisce Lepre – che il Csm non è un superpoliziotto preposto agli accertamenti patrimoniali”.
Il collaboratore di Salvini finisce sotto inchiesta
Un collaboratore di Matteo Salvini è indagato in un filone della mega-inchiesta romana su un presunto giro di sentenze comprate anche al Consiglio di Stato. Si tratta di Filippo Paradiso, classe 1966, pugliese che in passato ha prestato servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi, come con Berlusconi. Ora lavora al ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, il capo di gabinetto di Matteo Salvini.
Paradiso viene tirato in ballo in questa indagine dall’avvocato Giuseppe Calafiore, che è stato molto vicino all’ex legale dell’Eni, Piero Amara: entrambi hanno fatto rivelazioni, alcune secretate, che hanno dato spunto a diversi filoni di indagine.
Su Paradiso, Calafiore racconta – ma per averlo saputo de relato – di somme di denaro che gli sarebbero state versate da Amara. Ovviamente sono affermazioni che devono essere riscontrare dai magistrati, anche perché finora non ci sono prove di passaggi di denaro, né Amara ha confermato la circostanza. Intanto, i pm cercano di ricostruire il nesso tra Paradiso e Amara: il sospetto – anche questo da verificare – è che il primo potrebbe essere stato utile al legale per i suoi rapporti con il mondo della politica e magari della magistratura. Contattato dal Fatto, Paradiso ha spiegato di non aver “avuto mai rapporti personali” con Calafiore, mentre conferma di conoscere Amara, con il quale dice di avere “rapporti di cordialità”. Ma, continua Paradiso, “escludo nel modo più assoluto di aver ricevuto delle somme denaro. Devo ritenere che nemmeno la Procura dia credito a tali affermazioni, se effettivamente rese, infatti non mi viene contestata la corruzione”. Nella richiesta di proroga delle indagini si fa riferimento al millantato credito, senza però svelare altri elementi della contestazione. “Ho massima fiducia nella giustizia – ha concluso Paradiso – e confido che le indagini dimostreranno la mia assoluta estraneità”.
Oltre la vicenda che riguarda il collaboratore del Viminale, ci sono altri filoni di questa inchiesta tenuti segreti. Come quello in cui è indagato il presidente della Sesta sezione del Consiglio di Stato, Sergio Santoro. È accusato di corruzione in atti giudiziari, ma solo i pm ne conoscono il motivo.
A Palazzo Spada ieri, nei corridoi, non si è parlato d’altro che della nuova tegola giudiziaria che ha coinvolto un consigliere, per di più destinato a diventare il presidente aggiunto, il vice di Filippo Patroni Griffi, proprio oggi. Ormai sembrava fatta, finalmente Santoro aveva in pugno la nomina sfuggitagli, così come quella di presidente, negli ultimi anni, tanto da aver fatto ricorso, e perso, contro l’ex presidente Alessandro Pajno e contro l’allora vice Patroni Griffi. Invece, l’aria che tira, per evidenti motivi di opportunità, è che oggi il plenum del Cpga (il Csm del Consiglio di Stato) deciderà un provvidenziale rinvio, in attesa di una risposta ufficiale della Procura di Roma, che nulla aveva comunicato ai vertici del Consiglio di Stato, per il segreto di indagine. Ieri, infatti, dopo gli articoli di stampa, da Palazzo Spada è partita una lettera al procuratore Giuseppe Pignatone per la conferma del procedimento e anche per avere qualche elemento in più, in modo da poter valutare un’eventuale azione disciplinare, anche se il meccanismo è molto farraginoso, come denunciato dall’ex presidente Pajno.
Nei corridoi, la domanda sotto voce che si sono posti alcuni consiglieri è: perché Santoro, non appena appreso di essere indagato, non ha informato almeno la presidenza? In questo modo- riflettono alcuni- avrebbe tutelato l’istituzione. L’imbarazzo palpabile di ieri era in particolare dei membri della Quarta commissione, presieduta da Oberdan Forlenza che, del tutto ignari dell’accusa (tutta da dimostrare) a carico di Santoro, lo hanno proposto all’unanimità presidente aggiunto, facendo prevalere il requisito di anzianità di ruolo rispetto ai colleghi Giuseppe Severini e Franco Frattini. Durante la seduta, però, l’argomento non è stato neppure sfiorato. A presiedere il plenum di oggi sarà, come era già previsto, Maurizio Leo, vicepresidente, mentre Patroni Griffi aveva già deciso di astenersi perché contro la sua nomina a presidente c’è un ricorso proprio di Santoro.
“C’è uno scontro tra élite: una è sociale, l’altra politica”
Si fa presto a dire élite. Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere della Sera, comincia con una precisazione: “Non possiamo parlare genericamente di élite. Oggi c’è un forte scontro tra élite sociale ed élite politica, intesa come élite di governo. Fino alle ultime elezioni coincidevano: in sostanza l’élite sociale italiana si riconosceva – e continua a farlo – nel centrosinistra”.
Cosa che spiega l’attuale disorientamento di molti intellettuali e commentatori.
Si sono ritrovati ad aver a che a fare con una nuova classe politica, dalle idee confuse e nello stesso tempo contraddittorie, per via delle due anime del governo: non soltanto erano nuovi, ma anche nuovi tra di loro diversi. Quest’insieme di fattori ha determinato un forte sconcerto da parte della classe dirigente italiana.
Secondo Alessandro Baricco invece si è rotto un patto tra chi veniva governato e chi governava. Non ci si affida e non ci si fida più.
Credo che ‘rottura di un patto’ sia un’espressione più che altro letteraria. Il fatto è che fino a qualche anno fa le economie dei Paesi occidentali segnavano indici positivi, i redditi e il Prodotto interno lordo crescevano: questa è la sostanza del patto keynesiano, cioè la sostanza delle democrazie dell’Europa occidentale fondate sull’idea che ogni anno si stava un po’ meglio. Non è più accaduto e con il passare degli anni la situazione si è deteriorata. Io non credo che ci sia stato un venir meno da parte di qualcuno al patto. È cambiato anche il profilo del capitalismo: basta pensare alla crescita del comparto finanziario al processo di deindustrializzazione che ha subìto il Paese. Sono venute meno le condizioni strutturali di fondo che nel Secondo Novecento hanno permesso uno sviluppo tranquillo della democrazia in Europa.
Miopia dei governanti?
Quel che stava succedendo, secondo me, era da tempo abbastanza chiaro se non a tutti almeno a molti. Ma nessuno è stato capace, per mancanza di idee, di progetti di visione, e aggiungo di coraggio, di correre ai ripari. Ma le classi dirigenti avrebbero proprio questo compito: averlo fallito non è cosa da poco. Per questo i cittadini hanno cominciato a interrogarsi sulle capacità e sulla legittimazione della classe dirigente: che ci stanno a fare se non sono in grado di dare risposte e trovare soluzioni? In che senso dirigono?
Sul Corriere lei ha scritto: forse è troppo parlare di ribellione delle masse, ma stiamo all’occhio. In Francia invece è esplosa una ribellione che non sembra voler finire.
In Italia il sistema politico è più fragile e instabile. L’elezione presidenziale in Francia dà al capo dello Stato un grandissimo potere e una forte stabilità: è un potere assai poco contendibile. Per questo la protesta imbocca più facilmente la via della rivolta. Qui invece è possibile in quattro e quattr’otto diventare segretario di un partito – vedi Renzi – o addirittura fondarne uno come Grillo e vincere le elezioni.
Anche Macron ha fondato un partito.
Vero, ma la sua ascesa presenta molti punti oscuri. Per due volte i maggiori candidati alla presidenza sono stati eliminati in maniera singolare un anno prima del voto: Strauss-Kahn e Fillon. Come mai questi scandali sono usciti alla vigilia delle elezioni, facendo vincere un candidato che altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta?
Macron è un po’ The Manchiurian candidate?
Fin dal primo momento mi è sembrato un candidato costruito, ideologicamente eterodiretto. Lui non era affatto nuovo della politica, è stato ministro tecnico di Hollande, è un uomo della grande finanza. Entrato in gara, il suo obiettivo era arrivare al ballottaggio con Marine Le Pen, perché con quel sistema elettorale chiunque avrebbe vinto contro di lei.
Che pensa delle parole di Juncker sulla Grecia?
Non è solo Juncker a dover fare autocritica: mentre in Grecia la gente era costretta a rovistare nei cassonetti dell’immondizia, i leader dei Paesi europei che facevano? Un popolo intero è stato messo in ginocchio, gli ospedali non avevano i farmaci per i bambini. Se una cosa del genere succede ad Haiti per un terremoto l’Europa si mobilita, manda la Croce Rossa. I greci sono stati completamente abbandonati: ma dov’erano i capi di Stato, i capi dei partiti di sinistra? Le colpe di Juncker sono quelle di tutti gli altri.
A proposito di sinistra: Gad Lerner fa risalire la rottura della connessione sentimentale alla crisi Fiat del 1980. Da allora i leader della sinistra si sono occupati più dei padroni che degli operai.
Di operai, per la verità, mi sembra che ne sono rimasti pochini. Il Pd ha perso il Sud, dove amministrava quasi tutte le regioni. Ma lì i voti non li ha persi certo per gli operai, che non ci sono. Ha influito di più l’adesione della sinistra all’ideologia liberista di Bruxelles. Questo è capitato perché non potevano più essere comunisti, non volevano diventare social-democratici e così sono diventati liberali nel modo più acritico. Molto ispirati, credo, da Giorgio Napolitano, che per anni è stato il capo della delegazione a Bruxelles e aveva un rapporto personale con i rappresentanti delle istituzioni Ue. L’europeismo è diventato egemone a sinistra a causa degli ex comunisti che non potevano più essere tali. Si sono trovati nudi di fronte alla Storia. E convinti del fatto che la socialdemocrazia è il peggio del peggio, il partito è diventato appunto ‘democratico’. E per essere democratici nell’Europa della fine del Novecento bisognava aderire alle politiche europeiste e liberiste.
Si può accorciare questa distanza tra popolo ed élite?
Se il reddito di cittadinanza si dimostra efficace e non faranno disastri, i 5Stelle governeranno l’Italia per i prossimi 15 anni: e così tutta l’élite diventerà grillina. A quel punto diremo che si è ricomposto il dissidio tra élite e popolo. Anche sul concetto di popolo bisogna essere chiari: il popolo non esiste più. Ci sono cinque milioni di poveri forse neppure altrettanti operai e sopra di loro una galassia di ceto medio che va dai piccoli artigiani ai grandi professionisti. La maggioranza degli italiani sta in questa forbice. È buffo che si parli di populismo quando manca, e non solo in Italia, il popolo.
Spieghiamolo meglio.
C’è una crisi della democrazia che significa crisi di fiducia nei meccanismi della democrazia. Una malattia che, tanto per fare un esempio, non si debella abolendo il vincolo di mandato.
Draghi: “I governi Ue sono liberi di criticarci e noi di non ascoltare”
Mario Draghicontinua nel complesso percorso che, tra un colpo al cerchio e uno alla botte, porterà la Bce a varare una nuova tornata di aste di liquidità (Tltro) a buon mercato per le banche. Non a tutti la cosa piacerà, ma Draghi (che parlava d’altro) ieri ha spiegato ai cronisti il suo modo di vedere le polemiche politiche: “Ricordo che in alcune occasioni ci sono stati diversi governi che hanno attaccato la supervisione della Bce, in alcuni casi la politica monetaria è stata criticata da politici di spicco. È comprensibile che ci siano politici che protestano, ma è anche comprensibile che la Bce non li ascolti”. Per il resto, il governatore ha tenuto un basso profilo: l’economia “è più debole del previsto”, “i rischi per le prospettive economiche si sono mossi verso il basso”, anche se Francoforte non vede “rischi di recessione”. In ogni caso, dice Draghi, “è ancora necessario un significativo stimolo monetario (…) per sostenere l’inflazione” che “rallenterà” nei prossimi mesi. E qui tutti hanno pensato sì ai tassi bassi, ma anche alle aste Tltro: sono state citate da “diversi” membri del Board, ha detto Draghi, ma “nessuna decisione è stata presa”. E nessuno se l’aspettava: più probabile arrivi a marzo.
Spese legali, nei guai i vertici Consip
I vertici, passati e presenti, e i sindaci revisori di Consip finiscono nei guai per gli incarichi legali affidati a quattro avvocati esterni, tra cui Alberto Bianchi, già presidente della fondazione Open, l’ex cassaforte politica di Matteo Renzi, che lo ha nominato nel cda di Enel (riconfermato da Gentiloni) e a cui non viene contestato nulla. Si tratta di consulenze affidate in maniera illegittima, commettendo, secondo i magistrati contabili, un danno erariale.
Ora si capisce perché il governo gialloverde ha inserito in legge di Bilancio un comma anodino che impone alla centrale acquisti della Pubblica amministrazione di non ricorre più a legali esterni per le controversie, ma di servirsi solo dell’Avvocatura dello Stato.
Finora Consip ha speso una cifra ingente per farsi difendere da avvocati di grido, spesso in rapporti con la politica. Una scelta finita al centro di un’indagine della Corte dei conti, anticipata da Il Tempo: il pm contabile Massimo Lasalvia ha notificato l’invito a dedurre, una sorta di chiusura indagine, a diversi manager e sindaci della società controllata dal Tesoro. Tra i destinatari figurano, tra gli altri, gli ex ad Luigi Marroni – teste chiave dell’inchiesta Consip per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per favoreggiamento tra gli altri anche dell’ex ministro Luca Lotti (Pd) – e Domenico Casalino. Ma nel mirino dei magistrati ci è finito anche l’attuale amministratore delegato Cristiano Cannarsa (nominato dal governo Gentiloni) e i sindaci revisori Alessandra Dal Verme, alto dirigente del Tesoro e cognata di Gentiloni, Luigi Spampinato e Jacopo Lisi. La procura contabile del Lazio gli contesta in totale un danno erariale da 4,3 milioni. L’accusa, in sostanza, è di aver assegnato gli incarichi senza aver prima verificato se all’interno della società vi fossero risorse idonee a svolgerli – visto che esiste una divisione Legale con 49 dipendenti – e senza una procedura selettiva per garantire “trasparenza, imparzialità ed economicità della scelta”.
Gli avvocati (non oggetto di contestazioni) più gettonati in Consip nel biennio 2015-2017 sono stati quattro. Oltre Bianchi che ha ottenuto 50 incarichi fatturati per un totale di 526 mila euro (420 mila quelli finora saldati), c’è l’avvocato Angelo Clarizia, docente all’Università Sapienza di Roma e in buoni rapporti con il ministro degli Esteri Angelino Alfano: per lui compensi fatturati e pagati per 1,78 milioni. E ancora Claudio De Portu (308 mila euro) e Andrea Guarino (1,77 milioni). Secondo i pm contabili, i vertici di Consip “erano ben consapevoli delle irregolarità in cui erano incorsi nella scelta di natura esclusivamente fiduciaria dei legali esterni cui affidare gli incarichi”, peraltro limitati nel 90% dei casi a soli 5 legali, visto che in più riunioni del Cda era emerso il problema.
Boom di tessere per +Europa: gli ex dc spingono Della Vedova
Più Europa, checché se ne pensi, è per così dire un ristorante in un punto di passaggio: alle Europee, complice lo sfaldamento del Pd e la polarizzazione indotta dal governo gialloverde, rischia seriamente di aumentare i suoi (pochi) voti e superare la soglia di sbarramento del 4%. Per questo è interessante il congresso fondativo che si apre oggi a Milano e, per questo, per la prima volta nelle assise di una formazione della “galassia radicale” si vede agire l’abbozzo di un apparato partitico basato sul controllo degli iscritti con le relative accuse ai “signori delle tessere” che poi sarebbero Bruno Tabacci e il neo-arrivato Fabrizio Ferrandelli da Palermo.
Andiamo con ordine. Da oggi inizia la tre giorni da cui uscirà il nuovo partito con l’elezione degli organi interni e del primo segretario. Le liste presentate per l’Assemblea sono 10, i candidati alla massima carica 3 dopo l’esclusione della “sovranista” Paolo Renata Radaelli, aspirante “piùeuropeista” che sembra però provenire da un’area culturale più vicina ad Almirante (e oggi a Salvini) che a Spinelli: come che sia, Radaelli è stata esclusa dopo l’annullamento della sua iscrizione, avvenuta in blocco con altre e attraverso un solo pagamento.
La lista che la sosteneva, però è ancora in corsa, intitolata allo slogan renziano “Europa sì, ma non così” e qualcosa peserà nel congresso: se non un tentato dirottamento almeno una presa in giro, come quella più scoperta della lista congressuale “+Europa shitposting”, che “sostiene l’idea di un mondo nel quale le coppie transessuali con bambini acquistati su Amazon possano difendere liberamente i propri campi di papaveri da oppio con dei fucili d’assalto M4”.
A segretario si candidano Benedetto Della Vedova, finora coordinatore, l’ex europarlamentare Marco Cappato e il deputato Alessandro Fusacchia. I favoriti sono i primi due, ma in realtà è difficile capire cosa succederà all’hotel Marriott: era previsto che si arrivasse al congresso con meno di duemila iscritti, invece in pochi giorni hanno superato quota 5.000, complice l’adesione alla causa europeista del movimento siciliano I Coraggiosi, cioè del già citato Ferrandelli, classe 1980, ex consigliere comunale a Palermo con Italia dei Valori, poi candidato della sinistra arcobaleno, del Pd, di Forza Italia… Ferrandelli, annunciato a Milano con 200 seguaci, guida la lista congressuale “Stiamo uniti in Europa” in cui non mancano i molti ex democristiani di Centro democratico, uno dei soggetti fondatori di +Europa, da Bruno Tabacci in giù.
Questo bizzarro agglomerato sostiene la candidatura di Della Vedova insieme alle liste “Italia europea” e “Partito dell’orgoglio europeista”, rassemblement di tecnici a vario grado di conservatorismo (Giuliano Cazzola, Ernesto Auci, eccetera). Questa composita area congressuale sogna, in sostanza, un partito capace di egemonizzare il centrosinistra costruendosi come forza di governo.
Certe pratiche della fu “partitocrazia” non potevano passare sotto silenzio in zona radicale. La lista “Europa futura” (Riccardo Magi, Luigi Manconi e altri) mercoledì ha scritto parole assai dure sull’andazzo congressuale citando due recenti “fatti politici rilevanti”: l’accordo tra Ferrandelli, Tabacci e Della Vedova e “un improvviso e inaspettato incremento delle iscrizioni, più che raddoppiate in due settimane, e riconducibili a territori dove i risultati elettorali di +Europa sono stati fra i peggiori”.
Semplicemente, è la tesi, così non si può tenere un congresso democratico, sede di una discussione che dia un indirizzo politico collettivo al nuovo soggetto: “Ci sono molte istanze che possono unire oggi chi non ritiene che +Europa debba essere schiacciata dai campioni delle tessere”. Per fare questo però – è la proposta condivisa con la lista “Lsd” che sostiene Cappato – bisogna fare della tre giorni che parte oggi solo un “primo atto” congressuale: lasciare la possibilità a tutti gli iscritti presenti di parlare (se ne aspettano quasi 1.500), ma rinviare l’elezione di segretario, assemblea e Direzione a “una sessione successiva”.
Difficile che si arrivi a uno stop (la proposta è già stata respinta in Consiglio), il treno è già partito e a fine maggio ci sono le Europee, alle quali il partito di Emma Bonino (e di Bruno Tabacci) dovrà decidere come presentarsi: una nebulosa in cui si agita il listone proposto da Carlo Calenda, il rapporto abbozzato in questi mesi coi Verdi, quello competitivo col Pd post-renziano. Tutti temi su cui, alla fine, potrebbero decidere le nuove tessere o, meglio, i relativi signori.
Il Consiglio d’Europa striglia l’Italia: “Politici razzisti”
Dopo l’Onu anche il Consiglio d’Europa critica l’Italia alludendo a un’emergenza razzismo. L’Assemblea Parlamentare dell’organismo internazionale con sede a Strasburgo ha pubblicato i risultati del suo monitoraggio sul nostro paese. E nel documento si definisce “preoccupata dall’aumento degli atteggiamenti razzisti, della xenofobia e delle posizioni anti Rom nel discorso pubblico, in particolare sui media e su Internet, e dall’aumento dei discorsi d’odio da parte dei politici”. Un testo che non cita personalmente Matteo Salvini ma che si riferisce in modo chiaro all’attività e alla comunicazione politica del ministro dell’Interno. La delegazione italiana, bipartisan, ha tentato di apportare delle modifiche al testo con degli emendamenti, ma sono stati tutti respinti. Nella relazione si esprime anche preoccupazione per la politica di chiusura dei porti ai migranti. E si scrive esplicitamente che il governo italiano è formato da un movimento di estrema destra, la Lega, e uno anti sistema, i Cinque Stelle. II Carroccio ha subito replicato: il testo “è scandaloso e inaccettabile”.
Rai, alla pubblicità l’ex Mediaset Tagliavia
Un proliferare di nuove poltrone (cinque) e doppi incarichi. Con Monica Maggioni che va a Raicom e l’ex Publitalia Paolo Tagliavia a Rai Pubblicità. Mentre Marcello Foa e i consiglieri di maggioranza raddoppiano gli incarichi. Il cda andato in scena ieri in Rai è di quelli pesanti. In sette ore di riunione, infatti, Fabrizio Salini ha presentato il suo piano industriale 2019-2021. Una “rivoluzione” a cui lavora da sei mesi. Che mette il digital, il web e il coordinamento tra le reti al centro della sua azione. E crea due nuove strutture: Rai Format, che avrà l’obiettivo di studiare nuovi format televisivi così da ridurre gli acquisti di programmi esterni, e Rai Doc, dove si produrranno documentari, settore in grande ascesa a livello internazionale.
Ma partiamo dalle nomine. Come già annunciato, Maggioni diventa ad di Raicom, la consociata che vende all’estero i diritti dei programmi. Un ruolo di grande potere che l’ex presidente è riuscita a ottenere a patto di mantenere sotto questa struttura la realizzazione del canale in inglese, il progetto a cui Maggioni sta lavorando già da mesi. Per lei, dunque, partita vinta. Presidente di Raicom sarà invece Marcello Foa, che si attribuisce quest’altra carica, annunciando però che rinuncerà al compenso aggiuntivo di 40 mila euro. Doppi incarichi che riguardano anche altri consiglieri. Beatrice Coletti e Giampaolo Rossi entreranno nel cda di Rai Pubblicità e Igor De Biasio in quello di Raicom, rinunciando tutti al compenso (20 mila euro). Scelta criticata da Rita Borioni. “Sono fortemente contraria a questi doppi incarichi. E nessuno ha chiarito quali siano stati i criteri di autoselezione”, afferma la consigliera di area Pd.
Altra nomina importante è quella di Gian Paolo Tagliavia a Rai Pubblicità, mentre l’attuale ad Antonio Marano (manager di lungo corso, un tempo punto di riferimento della Lega in Rai) passa alla presidenza. Tagliavia nasce come uomo Mediaset: inizia la sua carriera in Publitalia, dove resta tre anni prima di passare, nel 1999, a Mtv pubblicità. Ed è qui che conosce Antonio Campo Dall’Orto, che nel 2015 lo porta in Rai, affidandogli il settore digital. Dove Tagliavia lavora bene: è lui a creare Raiplay, uno dei maggiori successi di Viale Mazzini degli ultimi anni.
Ora toccherà a lui risollevare gli introiti pubblicitari, che nel 2018 hanno registrano un meno 2,6% (630 milioni il fatturato). Per finire, sono stati nominati i vicedirettori di Raisport (Enrico Varriale, Marco Civoli, Raimondo Maurizi, Gianni Cerqueti, Bruno Gentili e Alessandra Di Stefano) e di Rai Parlamento (new entry è Iman Sabbah, confermati Fulvio Meconi, Susanna Petruni e Alfonso Samengo). Ma torniamo al piano industriale. Che, oltre a Rai Format e Rai Doc, prevede altre due strutture. La prima sarà una direzione di distribuzione, ovvero un soggetto che agirà al di sopra delle reti per meglio distribuire i programmi Rai su canali e palinsesti.
Altra novità è la creazione di una direzione web: il sito Internet verrà potenziato e scorporato da Rainews, diventando testata a sé. Ed è qui che Salini vorrebbe Milena Gabanelli, con cui un dialogo è in corso. Altro scorporo e nascitura testata sarà quella del Giornale Radio, che verrà diviso da Radiouno. Cosa che sta sollevando proteste. “Lo scorporo del Gr da Radiouno è una pericolosa scelleratezza che vedrà la nostra opposizione”, fa sapere il cdr del Giornale Radio. Insomma, tutto il contrario del piano di Luigi Gubitosi, che accorpava redazioni e tagliava direttori. Qui, invece, le poltrone aumentano.
Consob, Conte non decide ma ora l’interim traballa
Per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte la vicenda della presidenza della Consob si è fatta ieri più complessa dopo un’imbarazzante audizione parlamentare della presidente facente funzioni. Anna Genovese ha eluso le domande sulle incompatibilità ipotizzate dai parlamentari. L’autorità che vigila sui mercati finanziari è senza presidente dal 13 settembre scorso, quando si dimise Mario Nava, ed è guidata da 134 giorni dalla Genovese, la più anziana dei quattro commissari rimasti. I due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno da tempo indicato la candidatura di Marcello Minenna, dirigente Consob che nel 2016 ha fatto per due mesi l’assessore al Bilancio al Comune di Roma. Da mesi però Conte nicchia, spiegando il suo attendismo con dubbi del Quirinale su Minenna.
Tocca al premier indicare il nome da portare alla firma del presidente della Repubblica. Ma in questi mesi Conte non ha mai tirato fuori un nome alternativo. Al contrario, ha manifestato un esplicito gradimento per l’interim di Genovese. Nella conferenza stampa di fine anno, il 28 dicembre scorso, ha detto: “Mi rincuora ci siano commissari con un profilo di competenza ben riconosciuto, quindi non è compromessa la funzionalità della Consob”. Due giorni fa, rispondendo a un’interrogazione della deputata Pd Silvia Fregolent – renziana, prima firmataria della mozione parlamentare che chiedeva la giubilazione del governatore di Bankitalia Visco – ha usato quasi le stesse parole, calibrate da bravo avvocato: per la Consob priva di presidente “non risulta in effetti, alcuna compromissione delle pertinenti attività”. Non c’è alcun termine perentorio per la nomina del nuovo presidente. E stando a quanto scrive il premier nulla sembra impedire che Genovese resti alla guida della Consob ancora per qualche anno.
E qui però, come suol dirsi, il problema diventa politico, forse anche istituzionale. Già due interrogazioni, una del M5S e una più recente di Fratelli d’Italia, hanno posto il problema delle presunte incompatibilità di Genovese, che fino alla nomina a commissario Consob ha svolto la sua attività nello studio legale di Andrea Zoppini, uno dei più rinomati e attivi nell’assistenza alle aziende alle prese con la Consob. Per esempio ha assistito in passato davanti alla Consob Vittorio Malacalza, oggi primo azionista di Carige, la banca genovese che il governo Conte sta cercando di salvare. Il 2 gennaio, quando Carige è stata commissariata dalla Bce, la presidente facente funzioni della Consob ha dovuto valutare la decisione di sospendere il titolo in Borsa.
Ieri mattina in Parlamento, chiamata a rispondere proprio sulla vicenda Carige, la Genovese è stata affrontata da Andrea De Bertoldi, senatore di FdI: “Ci risulta che lei abbia collaborato con studi legali che possono avere rapporti con imprese interessate al lavoro che voi andate svolgendo”. Il deputato di Leu Luca Pastorino è stato più esplicito: “Le chiediamo di chiarire se ha dichiarato i suoi trascorsi con lo studio Zoppini”. Il curriculum pubblicato sul sito della Consob riporta che “dal 1992 è abilitata all’esercizio della professione forense”, ma non fa alcun riferimento a questa attività di avvocato né presso lo studio Zoppini né presso lo studio fiorentino di Umberto Tombari, lo stesso dove ha mosso i primi passi da giovane avvocata Maria Elena Boschi.
La risposta di Genovese ai parlamentari è stata gelida: “All’atto del mio insediamento ho dichiarato di non versare in alcuna delle situazioni di incompatibilità”. E la leader di Fdi Giorgia Meloni ha così chiosato via Twitter: “Il governo ‘decisionista’ da settembre non è riuscito a nominare il presidente della Consob e cioè l’autorità incaricata di vigilare sulle società quotate e quindi di proteggere risparmiatori e investitori. Vi sembra normale?”.