I Centri per l’impiego. In attesa del Reddito

 

Roma – Nell’ente più grande d’Europa

Oltre 500 persone al giorno, un terzo sono stranieri Le aziende chiedono solo precari

Il centro per l’impiego di Roma Cinecittà, con i suoi tre piani, è il più grande d’Europa. Decine di persone con il numero in mano guardano lo schermo in attesa di essere chiamate. Sono lì per iniziare la ricerca del lavoro, o almeno ottenere il timbro pubblico che attesti il loro “stato di disoccupazione”. Sono utenti difficili da collocare, spesso poco formati e con difficili situazioni familiari. Ogni giorno ne passano tra i 500 e i 600. Uno su tre è straniero, percentuale che supera il 50% tra chi prende il Reddito d’inclusione (Rei). Lo tsunami atteso in vista del reddito di cittadinanza, è in realtà già in atto da tempo e gli 85 operatori del centro faticano a gestirlo. Questo è uno dei periodi più ingolfati perché sta per scadere il bando per il collocamento dei disabili, e c’è una lunga fila per le candidature. Nel 2018 il centro ha trovato lavoro a 180 di loro (le imprese con oltre 15 addetti sono obbligate ad averne almeno uno in organico). Sulle bacheche sono affissi circa 30 annunci di lavoro, quasi tutti per impieghi a termine. Un’azienda cerca 300 impiegati di call center, un’altra vuole 80 animatori turistici. In totale sono circa 400 posti offerti, pochi per il centro di una Capitale europea. “Bisogna far sì che le aziende abbiano convenienza a comunicare i posti vacanti – spiega Marco Noccioli, direttore Lavoro della Regione Lazio –. Ma l’urgenza è un’altra: i centri devono smettere di essere un ufficio burocratico e diventare agenzie pubbliche. Il rafforzamento promesso dovrà riguardare le sedi, il personale e le infrastrutture tecnologiche. Le strutture dei 35 centri laziali vanno adeguate; per legge, le sedi devono essere messe a disposizione dal Comune”. I dipendenti dei Cpi laziali sono 550, ma ne servirebbero il doppio. A breve stanno per passare alla Regione circa 150 rinforzi di Capitale Lavoro, la società gestita dalla Città metropolitana. “Il personale resta insufficiente e gli attuali dipendenti dei Cpi non hanno ricevuto una compiuta formazione dalle province”, conclude Noccioli. Il Lazio, tra l’altro, sarà la terza Regione con più percettori di reddito di cittadinanza.

 

Reggio Calabria – Record di disoccupati

Poche offerte e tutto in bacheca Solo lo 0,05% trova lavoro: “Sono iscritto da oltre 12 anni…”

“Sono venuto qui per capire se è tutto in regola col libretto di lavoro e se manca qualcosa per chiedere il reddito di cittadinanza. Non ci credo molto, ma le abbiamo provate tutte e facciamo anche questa”. Ha più di 30 anni Roberto e sta entrando nel Centro per l’impiego di Reggio Calabria, una delle città col tasso di disoccupazione più alto d’Italia. “Non sono mai stato assunto – dice –. Fino a poco tempo fa lavoravo in un negozio in nero e per poche centinaia di euro al mese. Sono iscritto da quando avevo 18 anni e non sono mai stato chiamato”. La sua domanda si aggiungerà a quella di altri 900 nuclei familiari che al Comune hanno chiesto il reddito di inclusione. Le pratiche sono state trasmesse al Centro per l’impiego che già deve gestire un elenco di oltre 40 mila disoccupati. Sono solo gli iscritti a cui vanno aggiunte migliaia di persone per le quali rivolgersi all’ufficio di collocamento è una perdita di tempo. Non hanno tutti i torti e, per rendersi conto, basta fare due chiacchiere con uno dei 48 dipendenti che ci spiega perché il Centro non funziona: da una piattaforma che non consente di incrociare “la domanda con l’offerta di lavoro” al fatto che molte aziende “non si rivolgono a noi quando devono assumere”. “Ad esempio – dice un altro dipendente – se un bar cerca un gelataio, io non so quanti disoccupati che sanno fare il gelato ci sono nel raggio di 20 km. Ci limitiamo a mettere un annuncio in bacheca”. E ora col reddito di cittadinanza, che cambia? “Non abbiamo avuto nessuna comunicazione dalla Regione. Non capiamo perché, a poche settimane dall’entrata in vigore, ancora non si pensa alla formazione e all’aggiornamento dei dipendenti che dovranno utilizzare una piattaforma nuova”. Nel 2018, su oltre 40 mila disoccupati “ufficiali”, appena 20 (“ma solo perché rientravano nelle categorie svantaggiate” ci spiegano) sono stato assunti attraverso il Centro per l’impiego: lo 0,05% degli iscritti. Se questi sono i numeri e se questa è l’offerta di lavoro, ogni 2000 disoccupati che percepiranno il reddito di cittadinanza, ci sarà un assunto.

 

Bari – Due redditi di povertà e risorse scarse

8 operatori per 320 mila abitanti “Non ci sono spazi per i navigator E i Centri non dialogano fra loro”

“Un modulo per il Reddito di dignità e uno per il Reddito di cittadinanza”. Ha più di 20 anni ed è disoccupato da sempre. Enrico è in fila da più di mezzora nel Centro per l’impiego di Bari in via Devitofrancesco, l’unico nel capoluogo per un bacino di 320 mila abitanti. Il governatore Emiliano prima e Di Maio dopo, hanno dato un gran da fare agli 8 dipendenti del Centro barese che dovranno dare informazioni. Sono le 8 e c’è già la ressa per prendere il numero e fare la fila. La maggior parte è qui per ritirare certificati di disoccupazione o per ricevere un sussidio, dalla Naspi al Reddito di dignità (Red), quest’ultimo introdotto dal governatore pugliese nel 2016. Da aprile, ci sarà il Reddito di cittadinanza. Al primo piano la responsabile sbatte la porta e non risponde a nessuna domanda. “Meglio se non parlo”, borbotta. Che ci siano preoccupazioni per la gestione del Rdc è cosa evidente. La Puglia è la quinta Regione per potenziali beneficiari del Rdc, ma ci sono solo 8 dipendenti nel Centro di Bari. In tutta la Puglia 391. “Ce ne vogliono almeno il doppio. Servono professionalità mature per creare un nuovo rapporto con le imprese e disposti a spostarsi sul territorio”, spiega l’assessore regionale al lavoro Sebastiano Leo: “Ma per i corsi di formazione ci vuole tempo”. E non solo: “È impensabile andare avanti senza una banca dati in cui tutti i Centri per l’impiego italiani utilizzino gli stessi criteri di codificazione, in modo da trasmettersi le informazioni”. Infine, per l’assessore mancano gli spazi giusti per i navigator. Tutte problematiche queste, che lo scorso 21 gennaio, gli assessori regionali di tutta Italia hanno esposto al vicepremier Luigi Di Maio. “Abbiamo chiesto un tavolo urgente per affrontare le criticità della misura, affinché lo strumento del Rdc possa funzionare e non diventi una misura di mero assistenzialismo”. Nello stanzone al piano terra di via Devitofrancesco passano oltre duemila disoccupati al mese. E poi c’è una Babele di numeri. Otto dipendenti, due redditi di povertà possibili e solo 68 cittadini che hanno trovato lavoro. In un anno.

Lavoro, meno posti precari, ma gli stabili non decollano

Dopo il cauto ottimismo diffuso con i dati di Istat e Veneto Lavoro, ieri è arrivata la doccia fredda dell’Inps: l’esordio del decreto Dignità non ha dato i risultati sperati. A novembre, primo mese di operatività della stretta sui contratti a termine, non sono aumentate né le assunzioni a tempo indeterminato né le stabilizzazioni dei precari. Sono solo diminuiti i nuovi rapporti a tempo determinato, senza una crescita dei posti di lavoro più tutelati a fare da contraltare, complici i cattivi dati sull’economia italiana. Le tabelle dell’istituto di previdenza dicono che in quel mese abbiamo avuto 88,5 mila nuovi contratti permanenti, diminuiti rispetto ai 114 mila di ottobre e vicini agli 86 mila di novembre 2017. Poco meno di 44 mila le stabilizzazioni, mentre a ottobre erano state quasi 55 mila. Essendo diminuite le cessazioni (licenziamenti e dimissioni) i contratti a tempo indeterminato segnano comunque saldo positivo. I nuovi contratti a scadenza, invece, sono passati dai 310 mila di ottobre, mese in cui era ancora possibile rinnovarli con le vecchie regole meno severe, ai 216 mila di novembre (un anno prima erano stati ben 266 mila).

Le teorie No vax approdano alla Camera

Alla fine, la conferenza della discordia è andata in scena: gli anti vax sono approdati nella solenne cornice di Montecitorio, nella sala stampa della Camera. A portarceli è stata un’eletta dei Cinque Stelle, la veneta Sara Cunial.

Ignorando le prese di distanza di praticamente tutto il Movimento – dalla ministra della Salute Giulia Grillo al capogruppo Francesco D’Uva – Cunial ha fatto da garante al Corvelva, un comitato veneto che dichiara una missione: combattere l’obbligo di vaccinazione e promuovere la “libera scelta”. Sul sito del coordinamento, d’altro canto, si raccolgono articoli e opinioni sul fatto che alcuni vaccini “uccidono le persone” e ci sono “prove scientifiche al di là di ogni dubbio”.

Nella conferenza di Montecitorio non si è arrivati a sostenere tanto, ma ci si è limitati, per così dire, a mostrare i risultati dello studio condotto da una consulente scientifica del comitato, la farmacologa Loretta Bolgan. La quale ha analizzato la composizione di quattro vaccini comunemente somministrati sulla popolazione e ha scoperto – sostiene – che la loro composizione “non è pulita”. Ovvero che nei loro principi attivi sono presenti “contaminazioni e alterazioni” – tra le altre anche tracce di dna di scimmia – che ne mettono in dubbio efficacia e sicurezza.

Gli argomenti in verità non sono nuovi, e sono stati già ampiamente confutati dall’Aifa, l’agenzia del farmaco. Anche perché – come riconosce la stessa Bolgan – le analisi in questione sono state effettuate con “procedure non validate dalle industrie farmaceutiche”.

Fatto sta che i No vax in un certo senso ce l’hanno fatta: malgrado le proteste di praticamente tutto l’arco costituzionale, sono riusciti a varcare, insieme alle loro teorie, lo stipite del Parlamento italiano. Per l’imbarazzo soprattutto dei Cinque Stelle, che si sono affannati a negare il sostegno all’iniziativa. Sara Cunial, in compenso, non pare scossa. “Non mi sento fuori dal Movimento – dice –. Fico e D’Uva prendono le distanze? Bene, ma come vede noi siamo qui, la conferenza è stata autorizzata”. E la firma di Beppe Grillo al manifesto di Roberto Burioni? Risposta laconica: “Ognuno fa quello che gli pare”.

In sala ci sono alcuni attivisti del comitato veneto: vengono dal suo collegio, sono i suoi elettori. Tra di loro anche il presidente di Corvelva, Ferdinando Donolato. Ragiona in termini molto concreti: “Le nostre posizioni sui vaccini sono condivise da mezzo milione di persone. Solo in Veneto siamo 6mila. Facciamo una scommessa? Se i 5Stelle non ci ascoltano, nella nostra Regione non eleggeranno più nemmeno un consigliere”.

La prima mossa di Landini: “In piazza contro il razzismo”

Ora che è ufficialmente segretario, eletto con il 92% dei voti, a Landini tornerà in mente quando ha pensato di “giocarsela” per la segreteria. A un don Luigi Ciotti che gli chiedeva cosa potesse succedere, rispose: “Solo un miracolo può portarmi alla guida della Cgil”. Quando Susanna Camuso ha avanzato la sua candidatura, a don Ciotti non sembrò vero di poterlo richiamare: “Vedi che i miracoli esistono?”.

Grandi aspettative circolavano su questa elezione e con il discorso con cui ieri Landini ha debuttato come segretario, ha cercato di non deluderle. Soprattutto nelle conclusioni, dicendosi “innamorato della Cgil”: “Voglio bene alle persone che per vivere devono lavorare e non posso accettare una società che sfrutta la persone”. Questo immaginario rappresenta e motiva. E questa sarà la sua forza, almeno agli inizi.

In un intervento di 40 minuti, Landini ha così indicato alcune solide “bussole” che lo guideranno nel nuovo incarico: la prima è costruire davvero la rappresentanza dei lavoratori sulla quale si è rivolto direttamente al governo perché faccia approvare la legge. “Se siete capaci di governare voi governate, ma lasciate ai lavoratori il diritto di scegliersi i propri rappresentanti sui posti di lavoro”. Poi, proponendo la sperimentazione più difficile, un nuovo tipo di contratto che permetta a tutti quelli che lavorano fianco a fianco, stabili o precari, di avere gli stessi diritti: “Il sindacato confederale deve mescolarsi”. Se davvero si garantissero pari diritti nel disarticolato mondo del lavoro si produrrebbe una novità di rilievo.

Terzo punto, la sfida a Cisl e Uil per costruire “un nuovo sindacato unitario”. Una idea impraticabile per i più ma che Landini propone con forza immaginando una nuova fase storica per il sindacato (e tornando di fatto a prima della Seconda guerra mondiale).

Ma il punto cruciale è ovviamente il governo. E qui il neo-segretario ha scelto di alzare il tiro: “Occorre contrastare le scelte sbagliate che il governo sta mettendo in campo. Il 9 febbraio dobbiamo riempire la piazza”, ha detto alzando la voce. “Il governo del cambiamento non sta cambiando un bel niente, la manovra è miope e recessiva e non assume la centralità del lavoro. Non si cambia un Paese senza il contributo del mondo del lavoro”. Poi, con l’occhio rivolto a Matteo Salvini, l’affondo sul tema nevralgico degli immigrati: “Abbiamo bisogno di un’altra Europa e nuove politiche europee. Ma non facciamoci abbindolare che siamo invasi dagli stranieri: sono di più i giovani che se ne vanno. I problemi non si risolvono inventandosi il nemico straniero di turno”. La Cgil – insiste – è basata sui valori della Costituzioni ed è “antifascista e antirazzista: è venuto il momento della militanza attiva”. In conferenza stampa sarà ancora più esplicito: “Le scelte del decreto Salvini sono inaccettabili. Prima vengono le persone. Il 9 febbraio, per quel che ci riguarda, la manifestazione ha al centro i principi della Costituzione, dell’accoglienza e dell’antirazzismo e quelli che hanno a cuore quei valori sono caldamente invitati a partecipare”.

Buona parte dell’intervento, però, è stata dedicata al dibattito interno, facendo sfoggio di grande tensione unitaria. Ha presentato all’assemblea la candidatura dei due vicesegretari, lo sfidante Vincenzo Colla e Gianna Fracassi (come riportato ieri dal Fatto) presentandoli per quello che sono: “Il primo dà seguito alla soluzione unitaria del congresso, la seconda invece dà visibilità alla rappresentanza di genere”. Dopo l’elezione, ha poi fatto approvare la nuova segreteria che ricalca la precedente tranne i due nuovi ingressi: Emilio Miceli, in rappresentanza dell’area Colla e Ivana Galli, segretaria del Flai.

Non è passata l’idea di mantenere un ruolo in segreteria per Susanna Camusso, forse proprio quello di vicesegretario. Un modo per valorizzare l’alleanza tra i due e per “risarcire” Camusso della sconfitta subita, per soli due voti, nella corsa al sindacato internazionale. La proposta, fatta in mattinata da Landini a Colla, ha fatto riemergere forti tensioni rendendo la giornata molto nervosa. Anche per questo Landini ha martellato duro sul tema dell’unità, dicendo francamente al gruppo dirigente che se ora ci si definisse “landiniani, collaniani o camussiani, saremmo di fronte a una malattia da curare”.

Poi, al momento della sua acclamazione, ha tenuto a chiamare Camusso sul palco per un riconoscimento pubblico e un abbraccio non formale. E oggi annuncerà il suo incarico di “rappresentante” della Cgil all’estero.

Xylella, carcere se non si bruciano gli ulivi Grillo: “Da horror”

Abbattimentodegli alberi infetti dal virus Xylella fastidiosa o carcere da uno a cinque anni: è scritto nell’emendamento al decreto Semplificazione approvato da Lega e Movimento 5 stelle ieri al Senato in materia di misure fitosanitarie ufficiali o derivanti da provvedimenti di emergenza. Roba da film horror, si legge sul blog di Grillo, che descrive così la modifica al decreto legge: “Entrano nel tuo terreno senza avvisare. Motosega alla mano abbattono i tuoi alberi. Poi spargono pesticidi”. Il senatore pentastellato Lello Ciampolillo posta sui social uno degli articoli “incriminati”: “Questo emendamento prevede l’eradicazione di milioni di ulivi, in gran parte nemmeno affetti da Xylella. È un provvedimento violento, inutile e ipocrita”. Angelo Bonelli dei Verdi accusa i Cinque Stelle di aver tradito i compagni di tante battaglie ambientaliste: “Quelli che protestavano contro l’eradicazione degli ulivi dopo essere diventati parlamentari chiedono il carcere contro quelli che fino a pochi mesi fa manifestavano insieme a loro” e parla di “un ennesimo salto carpiato del M5s”. La deputata di Forza Italia Vincenza Labriola: “Sulla xylella si è perso tempo prezioso, hanno sprecato sette mesi”.

Conte a Merkel: “M5S giù, si chiedono quali temi possono aiutarci”

Un fuorionda trasmesso ieri sera da Piazza Pulita, su La7, e ‘rubato’ al premier Giuseppe Conte a Davos, per il World Economic Forum 2019: è uno scambio con la cancelliera tedesca Angela Merkel durante il quale, secondo il labiale, Conte spiega alla leader tedesca la situazione politica in Italia. Le racconta delle elezioni imminenti e dei sondaggi che riguardano il M5S. Il giornalista di La7, Salvatore Giulisano, è con un altro giornalista (del Corriere.it) e riprende con lo smartphone. La situazione è informale, una pausa caffè durante i lavori. Il premier Conte, a un certo punto, chiede ai due giornalisti di smettere di riprendere perché deve parlare con la cancelliera.
Gulisano continua a riprendere e riesce così a intercettare uno scambio tra i due, tradotto: “I sondaggi vanno giù per i Cinque Stelle – dice il premier Conte a Merkel – mentre Salvini è al 35-36 per cento. Il Movimento Cinque Stelle è in sofferenza, sono molto preoccupati, loro scendono a 27-26%, quindi si chiedono quali sono i temi che ci possono aiutare in campagna elettorale”.

“Trivelle, cambieremo lo Sblocca-Italia. E a Taranto l’immunità dei vertici finirà”

Mercoledì mattina ha precisato che non avrebbe firmato più neanche un atto per trivellare. Oggi, il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, si dice soddisfatto dell’accordo raggiunto sulle trivelle. E parla anche di Ilva.

Ministro, l’accordo la soddisfa?

La mediazione raggiunta consente una moratoria di 18 mesi rispetto alle nuove prospezioni. Bene. Per me, però, è solo il punto di partenza: in questi 18 mesi si dovrà modificare l’articolo 38 dello Sblocca Italia che definisce le trivellazioni strategiche. Va invertito il paradigma: vanno velocizzate e rese facilmente autorizzabili le rinnovabili. Questa moratoria è una giusta transizione, però deve essere al servizio di un punto d’arrivo altrimenti è tempo perso.

Aumentano le royalties per le compagnie petrolifere.

Di 25 volte. Ottimo. Ma quei soldi vanno usati per miglioramenti ambientali. Non è che, perché si paga di più, allora si ha diritto a inquinare di più. È solo un adeguamento economico ai vantaggi eccessivi per le compagnie petrolifere: 7 miliardi di ricavi a fronte di royalties per 400 milioni.

Cosa farete in 18 mesi?

Ci sono 70-75 piattaforme in mare. Quando arriva il loro fine vita? Chi le smonta, quando, come? Abbiamo poi 450 pozzi solo. E va trovata una soluzione al fatto che finora il 93 per cento del profitto è andato fuori dall’Italia.

Si rischiano però di perdere molti posti di lavoro…

Molti grandi economisti affermano che per ogni posto di lavoro perso nel fossile, a parità di spesa, se ne potrebbero creare 10 nelle energie rinnovabili. Si perdono 20 mila posti? Ce ne saranno 200 mila nuovi. E, anche se così non fosse, quelle 20 mila persone non saranno lasciate senza lavoro, nessuno deve rimanere indietro, si apriranno tavoli di concertazione al Mise e al Lavoro.

Anche l’industria ci perde…

L’Irena, l’Agenzia mondiale per le energie rinnovabili che dal 1 maggio sarà diretta da un italiano, il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Francesco La Camera, scrive che nei prossimi cinque anni gli investimenti per le rinnovabili aumenteranno del 30% a livello mondiale. Il trend economico e il profitto vanno in quella direzione. Nessuno produce auto elettriche per perderci ma perché c’è un mercato.

Mercoledì il suo aut aut sembrava un avvertimento.

Vanno distinti atti giuridici e impegni politici: l’emendamento Trivelle è un atto giuridico e se i 18 mesi sono intesi come ho detto, allora va bene. Sull’impegno politico, invece, sarà per me un problema se invece non dovesse accadere. Su questi temi, il ministero dell’Ambiente è il front office: incontra scienziati, altri ministri, direttori generali. Inoltre, è stato presentato come il primo ministero del M5S. Significa che l’ambiente è al centro dell’azione di governo e che quindi la mia azione deve riportare l’ambiente al centro di qualsiasi decisione che “superi” il ministero.

Ieri Strasburgo ha condannato l’Italia per non aver tutelato la salute a Taranto.

La sentenza, che va rispettata, si riferisce a una situazione ante ArcelorMittal. Lo dico perché ArcelorMittal ha firmato un contratto vincolante che è stato molto arricchito a livello ambientale con il nuovo governo. È controllato ogni settimana da Ispra. Mi aspetto che si chiuda con la copertura dei parchi minerari già quest’anno.

E l’immunità penale garantita ai gestori dell’impianto?

Taranto fa parte di un sito di interesse nazionale che va oltre l’Ilva. Abbiamo un commissario di governo, ci sono report in corso, stiamo già facendo bonifiche nell’area. La strategia combina i due elementi. È prevista una “legge Taranto” che riguarderà tutto il territorio e sarà presentata dal Mise. Con Di Maio abbiamo chiesto di prevedere ed esplicitare la fine dell’immunità penale per i commissari e quindi per i proprietari. Immunità che ha una scadenza perché legata all’attuazione del piano ambientale. Ci lavorano gli uffici legislativi e l’Avvocatura di Stato.

La Corte europea stronca i 5 governi dei 12 “Salva-Ilva”

“Le misure raccomandate dal 2012 nel quadro dell’Autorizzazione integrata ambientale per migliorare l’impatto dell’impianto non sono state realizzate; questo fallimento è stato causa di procedimenti di infrazione dinanzi alle autorità dell’Ue”. Un bocciatura in piena regola quella sancita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano sulla gestione dell’emergenza Ilva.

Una stangata per i governi che fra il 2010 e il 2018 hanno tentato a colpi di decreti legge di trovare una soluzione al nodo salute-lavoro che affligge i tarantini. E che rimette in discussione una partita che sembrava chiusa con l’ingresso di Arcelor Mittal, il colosso che pochi mesi fa ha rilevato l’azienda dall’amministrazione straordinaria. La decisione dei giudici, che hanno accolto i due ricorsi presentati dai cittadini di Taranto dichiarando la violazione di due articoli della Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’uomo, potrebbe infatti addirittura mettere a rischio l’accordo tra il governo e i nuovi proprietari della fabbrica. Uno dei primi rilievi della Corte europea riguarda l’immunità penale concessa dal governo Gentiloni attraverso l’allora ministro Carlo Calenda ai vertici della fabbrica.

Problema: se l’Italia dovesse avviare azioni per cancellare il salvacondotto a Mittal, rischierebbe di violare i termini del contratto firmato e subire la richiesta di un maxi-risarcimento. La sentenza non è definitiva e toccherà all’attuale esecutivo decidere come muoversi: potrebbe impugnare la sentenza dinanzi alla “grande Camera” della Corte, ma politicamente vorrebbe dire difendere l’operato dei governi, da Berlusconi, Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi, contro i quali sia Luigi Di Maio che Matteo Salvini si sono sempre scagliati.

Perché è proprio contro quei decreti che i giudici di Strasburgo puntano il dito: “Il governo – si legge nella sentenza – è più volte intervenuto con misure urgenti per assicurare la continuazione dell’attività produttiva nonostante la constatazione, da parte delle competenti autorità giudiziarie, dell’esistenza di seri rischi per la salute e l’ambiente”. E l’elenco dei decreti “salva Ilva” dal 2010 è lungo. Il primo arriva nell’estate 2010 quando in piena emergenza benzo(a)pirene il ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, Stefania Prestigiacomo, autorizza l’innalzamento dei limiti di emissione per questo inquinante cancerogeno nelle città con più di 150 mila abitanti. Nel 2012, quando la Procura chiede e ottiene il sequestro degli impianti, in mano alla famiglia Riva, che generano “malattia e morte”, il nuovo ministro, Corrado Clini, vara un provvedimento che consente all’Ilva di produrre indisturbata per i successivi 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti.

Anche l’esecutivo guidato da Enrico Letta continuerà sul sentiero della decretazione d’urgenza, nominando pure commissario straordinario Enrico Bondi, l’uomo che pochi mesi prima era stato scelto dai Riva come amministratore delegato dell’Ilva. Con l’arrivo di Renzi la musica non cambia, anzi: un nuovo decreto allunga i tempi di adeguamento all’Aia e l’Ilva può continuare a inquinare senza che la procura possa intervenire. A giugno 2015, nell’Altoforno 2 muore, ucciso da un getto di lava, l’operaio 35enne Alessandro Morricella: la Procura sequestra l’impianto perché privo dei dispositivi di sicurezza. Eppure il governo Renzi interviene ancora sbloccando l’altoforno, nel silenzio dei sindacati. L’elenco prosegue fino alla cessione di Ilva ad Arcelor Mittal, nonostante gli esperti nominati dai commissari avessero giudicato l’offerta del rivale Jindal più conveniente.

Oggi il verdetto della Corte europea chiarisce che lo Stato non ha tutelato il diritto alla salute dei cittadini e “la procedura per raggiungere gli obiettivi di risanamento è estremamente lenta” e persiste “una situazione di inquinamento che minaccia la salute” di “tutta la popolazione”. Che, a distanza di oltre sei anni dal sequestro, è “privata delle informazioni sullo stato di avanzamento del risanamento”.

C’è l’accordo sul petrolio La Lega alza il tiro su Tav

Alla fine, in serata, l’emendamento sulle trivelle al decreto Semplificazione, frutto del travagliato accordo con Lega e M5S arrivato invece nella notte precedente, è stato approvato. Un accordo giudicato positivo dai grillini perché per la prima volta da decenni si aumentano i canoni per le concessioni di 25 volte (si passa dai circa 59 euro a chilometro quadrato per la coltivazione a 1.480 euro) e si bloccano tutti i permessi di prospezione e le nuove concessioni per 18 mesi, durante i quali si dovrà stabilire un piano che indichi in quali aree si può trivellare e in quali no con una “intesa forte tra Stato e Conferenza unificata (Regioni, Province, Enti locali) per l’approvazione del decreto di previsione del Piano”.

Meno positivo, secondo alcuni ambientalisti, perché esclude dalla moratoria le proroghe delle concessioni in corso e i procedimenti amministrativi per le nuove concessioni che siano pendenti quando entra in vigore la legge. “In questo modo la totalità delle concessioni anche quelle a oggi ancora non autorizzate potranno in futuro ottenere il titolo a estrarre petrolio”, spiega il leader dei Verdi, Angelo Bonelli.

“Ci sono diversi problemi giuridici che l’emendamento pone – spiega invece su Facebook il costituzionalista Enzo Di Salvatore, dei No Triv –. Come il fatto che i provvedimenti di sospensione dei permessi già rilasciati verranno quasi certamente impugnati dalle società petrolifere dinanzi al Tar per lesione del legittimo affidamento. E ci sono pure questioni assai discutibili, come ad esempio la conferma di ciò che Monti ha voluto nel 2012, e cioè la proroga automatica delle concessioni già scadute: con buona pace dei cittadini lucani, che si vedranno prorogare l’estrazione in Val d’Agri per altri dieci anni”. L’emendamento è poi a termine. “Trascorsi i 18 mesi – spiega ancora Di Salvatore – non ci potrà essere un altro piano. E lo stesso accadrà se, approvato il piano, per qualsiasi motivo un giudice amministrativo dovesse bocciarlo. I termini saranno spirati e la legge sarà morta. E tutto tornerà come prima. Come se l’emendamento non fosse stato mai approvato”. Legambiente, invece, alza il tiro: “È stato fatto un buon primo passo ma ora servono tre cose: la legge per vietare l’uso di airgun, una legge per togliere i 16 miliardi di euro di sussidi ambientalmente dannosi alle fonti fossili; mettere un punto fermo alle nuove attività di trivellazione, perché tra 18 mesi e un giorno continueranno”, dice il presidente Stefano Ciafani.

Di sicuro è stato approvato un testo di forte compromesso che, rispetto alle iniziali intenzioni dei Cinque Stelle – cambiate a ogni riedizione – è indebolito. Si prospettavano tre anni di sospensione, un aumento delle royalties di 35 volte, blocco totale su tutto e, in alcune proposte, anche il divieto dell’uso della tecnica dell’airgun che – spiega il ministro dell’Ambiente Sergio Costa al Fatto – è sotto analisi dei tecnici, da Cnr a Ispra, che dovranno relazionare sulla sua reale pericolosità. Ma va riconosciuto comunque che in una prospettiva futura trivellare costerà molto di più e sarà molto più difficile e controllato.

Per questo, mentre i Cinque Stelle festeggiavano la loro vittoria, il vicepremier della Lega Matteo Salvini – che già si era messo di traverso su un primo accordo trovato sulle trivelle – ieri ha ben pensato di smarcarsi e di fare la voce grossa per ribadire il peso del Carroccio alzando il tiro sul Tav: “Va fatto – ha detto al programma Povera Patria, che sarà in onda stasera su Rai2 in seconda serata – costa più non farlo che farlo, spero arrivi questo benedetto studio costi-benefici di cui io non ho visto neanche una pagina”.

 In mare dal 14 al 26 agosto 2018, i tredici giorni dell’odissea

La vicenda della nave ‘Ubaldo Diciotti’ inizia il 14 agosto, quando nel centro operativo del Comando della Capitaneria di Porto di Roma giunge la comunicazione dell’avvistamento in mare di un barcone con numerosi migranti. Il giorno seguente sono i “migranti stessi”, tramite “telefono satellitare Thuraya”, a chiedere soccorso. Le autorità italiane che fino a quel momento avevano monitorato la situazione, attendendo l’intervento di Malta e decidono di procedere al salvataggio dei 190 naufraghi (143 uomini, 10 donne e 37 minori). Nei giorni successivi inizia un braccio di ferro con le autorità maltesi che non concedono nessun porto per lo sbarco. La Diciotti resta al largo di Lampedusa per altri due giorni, finché il 20 agosto il governo italiano decide di far rientrare la nave al porto di Catania, vietando però lo sbarco. Lo stallo crea disagi a bordo. Le operatrici di InterSos raccontano i malumori dei migranti, che non capiscono il perché siano bloccati sulla nave. Nei giorni successivi arriva l’ispezione del Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e quello di diversi rappresentanti politici. I migranti alloggiano sul ponte, coprendosi la notte con le coperte termiche, di giorno restano sotto il sole cocente. Il 22 agosto interviene il Tribunale per i minori di Catania, spingendo il ministro Salvini a far scendere 29 minori non accompagnati. Tre giorni dopo ne scendono altri sei, che necessitano urgenti cure mediche. Sullo sfondo resta il braccio di ferro tra il governo gialloverde e l’Unione europea, mentre il 25 agosto centinaia di persone manifestano nel porto etneo chiedendo la liberazione dei migranti “ostaggi” delle autorità italiane. Dopo lunghe ed estenuanti trattative con Strasburgo, l’Albania, l’Irlanda e la Conferenza Episcopale Italiana decidono di farsi carico dei migranti della Diciotti. Il ministro Salvini acconsente allo sbarco, avvenuto nelle prime ore del 26 agosto, con i migranti trasferiti all’hotspot di Messina per le identificazioni.