Sea Watch, la storia si ripete ancora: il Viminale non autorizza lo sbarco

Niente autorizzazione allo sbarco per la Sea Watch. Nel giorno in cui Matteo Salvini viene formalmente accusato dal Tribunale dei ministri di sequestro di persona, per aver “negato” – dal 17 al 24 agosto scorso – lo sbarco della Diciotti, la storia si ripete. È il braccio di ferro del Viminale. Uno strappo che si consuma anche con la giustizia – “sarò un sequestratore”, annuncia il ministro, “anche nei prossimi mesi” – commentando le notizie del Tribunale dei ministri. Al Fattorisulta che la Sea Watch ha chiesto il Pos – place of safety – a Libia, Italia e Malta. E nessuno ha ancora risposto.

Al netto di una sola differenza – il Diciotti era un pattugliatore della Guardia Costiera italiana, la Sea Watch la nave di una Ong – la situazione è specularmente opposta a quella dell’agosto scorso. in quel momento il barcone era in acque maltesi, e l’Italia chiedeva l’intervento di La Valletta, oggi la Sea Watch è in acque italiane. E la situazione in mare peggiora.

In mare un sorriso è apparso sul volto degli otto ragazzini quando un capodoglio ieri ha affiancato la nave che da giorni cerca un porto dove far sbarcare i 47 migranti salvati al largo di Tripoli. Ma i bollettini meteo hanno riportato l’equipaggio alla realtà, costringendoli a confrontarsi con il ciclone Mediterraneo, la previsione di onde alte sette metri, vento gelido e pioggia.

Era il 19 gennaio scorso quando la Sea Watch, a 50 miglia dalle coste libiche, aveva potuto solo osservare la solitudine delle due scialuppe di salvataggio che vagavano in mare. Il giorno prima erano annegate 117 persone. Per loro, la Sea Watch non era riuscita ad arrivare in tempo, ma poi s’è imbattuta in un’altra imbarcazione in avaria 47 migranti, donne, uomini e bambini. Il 22 gennaio la nave dell’Ong s’è diretta a Lampedusa. “Cercavamo riparo dal maltempo, ma Lampedusa è troppo piccola e bassa per offrire riparo”, spiega l’inviato di Carta Bianca (Rai3) Giuseppe Borello, unico giornalista italiano a bordo. “Nel frattempo sono state inviate richieste per trovare un porto sicuro”. Malta avrebbe addirittura negato il transito e la possibilità di ripararsi nelle acque territoriali. Ieri sera, superate le acque di Siracusa la Sea Watch s’è diretta prima verso lo Stretto di Messina per poi invertire la rotta: per attraversare lo Stretto occorre una comunicazione ufficiale ed entrare in acque territoriali italiane. “Nessuno sbarcherà in Italia. Pronti a mandare medicine, viveri e ciò che dovesse servire ma i porti italiani sono e resteranno chiusi”, ha avvisato il leader della Lega Salvini vedendo nel tragitto della nave “una provocazione”. Anche il Ministro Luigi Di Maio ha assicurato “supporto medico e sanitario”, invitando però la Ong “a puntare la prua verso Marsiglia”.

Nel frattempo 20 organizzazioni umanitarie hanno chiesto “che la legge sia rispettata e che queste persone vengano fatte sbarcare in un porto sicuro”. E dopo il primo cittadino di Palermo Leoluca Orlando, anche il sindaco di Siracusa, Francesco Italia, ha dato il via libera all’accoglienza, predisponendo la macchina dei soccorsi.

Ha anche contattato il ministero sollecitando Salvini “a voler consentire l’attracco di tale nave nel Porto di Siracusa”. “Le condizioni a bordo sono difficili – dicono al Fatto dalla Sea Watch – i migranti sono traumatizzati e raccontano le torture subìte in Libia. Molti di loro dormono all’aperto perché non c’è posto per tutti sottocoperta. E il tempo peggiora”.

“Processate Salvini. Chiuse i porti per scelta politica”

Sequestro di persona aggravato: la Sezione dei reati ministeriali del Tribunale di Catania chiede di poter procedere nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Salvini. L’accusa: ha “abusato dei suoi poteri” e ha “privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti nel porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso Ubaldo Diciotti”. Il pattugliatore della Guardia Costiera ormeggiò nel porto etneo tra il 20 e il 25 agosto 2018 prima di ottenere l’autorizzazione allo sbarco – il “Pos”, acronimo di place of safety – dal Viminale.

Il collegio – composto dai giudici Nicola La Mantia, Sandra Levanti e Paolo Corda – che “l’omessa indicazione del Pos da parte del Dipartimento per le Libertà civili e per l’Immigrazione, dietro precise direttive del ministro dell’Interno”, avrebbe determinato “una situazione di costrizione a bordo delle persone soccorse fino alle prime ore del 26 agosto”. Una decisione, scrivono i giudici, che avrebbe provocato “la conseguente apprezzabile limitazione della libertà di movimento dei migranti”, avendo protratto “la permanenza dei migranti per cinque giorni a bordo di una nave ormeggiata sotto il sole in piena estate, dopo aver già affrontato un estenuante viaggio durato numerosi giorni.

“La necessità di dormire sul ponte della nave – continua il Tribunale dei ministri – le condizioni di salute precarie di numerosi migranti, la presenza a bordo di donne e bambini, costituiscono circostanze che manifestano le condizioni di assoluto disagio psico-fisico”, che erano “assolutamente note al ministro, costantemente informato della situazione dalla ‘catena di comando’ che faceva a lui riferimento”.

Nessuna scelta politica, continua il tribunale, giustifica il comportamento di Salvini: “Va ribadito che questo tribunale non intende censurare un ‘atto politico’, bensì lo strumentale e illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa”, quella del “dipartimento per le autorità civile, che costituisce un’articolazione del ministero dell’Interno presieduto dal senatore Matteo Salvini, essendo l’intera vicenda caratterizzata da un’evidente presa di posizione di quest’ultimo, che ha bloccato e influenzato l’iter della procedura amministrativa”. Il tribunale esclude quindi la scriminante delle “ragioni politiche”. E ancora: “La decisione del ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica – estranea alla procedura amministrativa prescritta per il rilascio del Pos – di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli stati membri”. E qui il tribunale chiarisce ulteriormente: “Il ministro ha agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio di potere conferitogli dalla legge, in quanto le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro”.

Nelle 53 pagine firmate dal collegio di giudici, infine, anche la segnalazione di una ritrattazione “sospetta” da parte di due prefetti. I giudici nel loro supplemento di indagine approfondiscono un elemento: a quando risale la richiesta ufficiale del Pos da parte della Diciotti. Perché è da quel momento che deve risalire la consumazione del reato. La Diciotti chiede il Pos tre volte: il 15, il 17 e il 24 agosto. La prima richiesta è ritenuta “anomala”, poiché preventiva, in quanto doveva ancora partire il soccorso vero e proprio. Quindi non va presa in considerazione. La seconda, quella del 17, secondo il tribunale dei ministri è invece già una richiesta “formale”. “Il 17 agosto – sostiene il tribunale – non v’erano ragioni ostative allo sbarco, bensì la volontà politica di portare all’attenzione dell’Europa il “caso Diciotti … Salvini ha ritenuto di dare seguito a un proprio convincimento politico, che ha costituito uno dei cardini della sua campagna elettorale quale leader della Lega”.

A confermare che la richiesta del 17 fosse formale erano stati, dinanzi ai pm di Agrigento, scrive il tribunale, “tutti i protagonisti della vicenda in possesso di specifiche competenze”. Il tribunale cita il contrammiraglio Sergio Liardo, il prefetto Gerarda Maria Pantalone, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, e il suo vice, il prefetto Bruno Corda. Ascoltati dal Tribunale dei ministri, Pantalone e Corda cambiano versione: la prima sostiene di non aver considerato quella del 17 una richiesta di Pos, il secondo la definisce “anomala”. Il tribunale definisce “sospette” le “rettifiche” dei due prefetti. E sul fatto che a decidere tutto fosse Salvini non ha dubbi. E per dimostrarlo cita le parole dello stesso Corda:

“Ho più volte sollecitato il prefetto Piantedosi, che in un paio di occasioni mi ha detto di attendere perché questa era l’indicazione di Salvini”.

L’alleato nei guai: ora M5S dovrà decidere chi salvare

La linea va definita il più presto possibile. Perché la decisione che si prenderà sulle sorti giudiziarie di Matteo Salvini è per tutti “uno snodo fondamentale” per il proseguimento della legislatura. Come voteranno i 5 Stelle sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del capo della Lega recapitata dalla procura di Catania che gli contesta l’accusa gravissima di sequestro aggravato dei profughi della nave Diciotti? Per ora le bocche sono cucite, ma da quel poco che trapela si sta verificando ogni ipotesi. E ogni ipotesi è politicamente impervia, persino quella di un’astensione tecnica.

Il confronto è aperto: le ragioni politiche per negare il via libera ai magistrati sono evidenti a tutti. Come pure è evidente che dire sì all’autorizzazione a procedere affinché Salvini possa difendersi nel processo non equivarrebbe a smentire la linea della fermezza rispetto agli sbarchi che è comune in seno al governo. Lo ha ricordato giusto ieri Luigi Di Maio sul caso della nave Ong Sea Watch, in rotta verso la Sicilia. “La nave, qualora ne avesse bisogno, avrà supporto medico e sanitario. Ma invito a puntare la prua verso Marsiglia, anziché aspettare inutilmente nelle acque italiane per giorni” ha commentato, come a suggerire che i 5 Stelle restano sulla stessa lunghezza d’onda di Salvini. Che sulla faccenda contestata dai magistrati di Catania rischia una pena che va da 3 a 15 anni: insomma rischia grosso da un punto di vista giudiziario, che però potrebbe fruttargli un enorme vantaggio in termini di consensi in vista delle Europee di maggio.

A rischiare l’osso politicamente sono invece i 5 Stelle. Che appena avuta notizia dell’indagine avevano sperato fosse lo stesso Salvini a cacciarli d’impiccio rinunciando all’immunità. E invece no. Quasi a volere stanare l’alleato di governo, il capo del Carroccio ha detto chiaramente: “Ora la parola passa al Senato e ai senatori che dovranno dire sì o no, libero o innocente, a processo o no. Sono sicuro del voto dei senatori della Lega. Vedremo come voteranno tutti gli altri, se ci sarà una maggioranza in Senato”. Una maggioranza disponibile a salvarlo dalle aule di giustizia è probabile che alla fine ci sarà: Forza Italia e Fratelli d’Italia da sempre per la linea della fermezza sui migranti, sembrano pronti a dare man forte. E forse anche il Pd che finora in Giunta per le autorizzazioni a procedere a Palazzo Madama ha sempre votato col centrodestra. Facendo finire in minoranza i 5 Stelle in maniera sistematica.

Ma ora la questione attiene alla tenuta stessa della maggioranza gialloverde e l’occasione è ghiotta un po’ per tutti. Superate le fibrillazioni sull’affare delle trivelle su cui si è faticato parecchio per trovare un compromesso onorevole, sono già alle viste nuove tensioni sulla legittima difesa che per un errore tecnico scoperto solo alla Camera dovrà tornare alla Palazzo Madama. Tanto per alimentare i sospetti di un boicottaggio del M5S. Salvini ha rilanciato subito sul Tav “che va fatto”. Una serie di tornanti pericolosi che avranno uno snodo fondamentale a Palazzo Madama.

Dove la Giunta entro 30 giorni è chiamata a decidere se l’inquisito Salvini “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” e preliminarmente se si tratti di un reato di natura ministeriale. Con tre esiti possibili: può convenire sul riconoscimento della natura ministeriale e tuttavia negare l’autorizzazione; oppure concedere l’autorizzazione a procedere con rimessione degli atti al Tribunale dei ministri; o disconoscere la natura ministeriale del reato e disporre la restituzioni degli atti all’autorità giudiziaria affinché il procedimento prosegua nelle forme ordinarie. Una tris in ogni caso micidiale.

Comunisti col Rolex

Essendo poco pratici del ramo, prendiamo ogni giorno diligenti appunti su caratteristiche e requisiti della sinistra italiana in piena riscossa contro il governo destrorso che stanzia 7 miliardi per i poveri e 3 miliardi per i pensionati. Una sinistra che, secondo Romano Prodi, sarebbe “senza idee e senza leader”. Invece ne ha fin troppi, da vendere.

La sinistra è il compagno Luigi Marattin, capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera, che difende la Francia dalle “bufale” e dalle “cialtronate” dei terribili sovranisti sul franco coloniale Cfa che contribuisce col cambio fisso, i ricatti commerciali e le truppe di occupazione al rigoglioso benessere di ben 14 Paesi africani.

La sinistra è il compagno Pd tutto che chiama “alleata” e “amica” la Francia del compagno Macron che protegge decine di nostri assassini latitanti; chiude i porti e le frontiere ai migranti; incrimina chi assiste donne straniere incinte; deporta migliaia di rifugiati oltre i nostri confini violando la sovranità italiana a Bardonecchia e Claviere.

La sinistra sono Cgil, Cisl e Uil che annunciano la mobilitazione generale contro la manovra del governo che destina quasi 10 miliardi per la povera gente.

La sinistra è il compagno Matteo Renzi che, a bordo di un motoscafo proletario a Venezia, deride i 5 milioni di poveri in attesa del reddito di cittadinanza (“assistenzialismo”, “baciamano istituzionalizzato”, “sussidio a chi vuole starsene sul divano”), in perfetta sintonia col compagno François Hollande che – come rivelò la sua ex fidanzata Valerie Trierweiler – chiamava simpaticamente i poveri “gli sdentati”.

La sinistra è la compagna Maria Elena Boschi che, reduce dal Capodanno a Marrakech e dalla cena con Salvini da 6 mila euro a tavolo, scambia lo Stato sociale per il gruppo musicale arrivato secondo a Sanremo e se la ride alle spalle dei poveri che aspettano il reddito (“Una vita in vacanza”, ahah).

La sinistra è il compagno Sandro Gozi del Pd che lancia l’idea di un bel referendum per abrogare il reddito di cittadinanza (“È l’occasione per una grande mobilitazione civica. Sono disposto a metterci subito la faccia contro questo obbrobrio”), subito raccolta dai compagni Vittorio Feltri, Pietro Senaldi, Giorgia Meloni e Mara Carfagna.

La sinistra è il compagno Paolo Gentiloni che, perse le elezioni, da premier dimissionario in carica per gli affari correnti, pensò bene di piazzare un decretino che depenalizza l’appropriazione indebita in mancanza di querela.

Così ora vanno in fumo il processo al cognato di Renzi e ai di lui fratelli per gli ammanchi milionari all’Unicef (che non li ha querelati) e il processo a Bossi padre&figlio per una parte dei 49 milioni rubati dalla Lega (che non li ha querelati).

La sinistra è il compagno Bobo Giachetti che chiama i compagni di LeU “scappati da casa”, ma “punta ai voti di Forza Italia e di LeU”.

La sinistra sono i senatori del Pd che votano con Lega e FI per salvare dai processi quattro colleghi, fra cui Maurizio Gasparri (FI) che diede del pregiudicato a Roberto Saviano e Cinzia Bonfrisco (Lega) imputata per corruzione e associazione per delinquere.

La sinistra sono i deputati del Pd che l’altroieri, sempre in coro con i forzisti, hanno zittito al grido di “buffone! buffone! vergogna! vergogna! chiedi scusa! vai in Procura!” il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, reo di profanare l’Aula parlando addirittura di corruzione, sortendo sui colleghi lo stesso effetto dell’aglio sui vampiri con spericolate affermazioni del tipo: “La corruzione non necessita di essere raccontata o dimostrata con i dati, perché in Italia si vede a occhio nudo: ogni volta che una catastrofe naturale provoca danni devastanti perché le opere pubbliche sono state mal costruite o risparmiando sui materiali; ogni volta che un giovane italiano è costretto a espatriare perché per trovare lavoro o vincere un concorso bisogna spesso ungere le ruote giuste…”. Alla fine il presidente Roberto Fico, sopraffatto dalla gazzarra, era costretto a sospendere la seduta, perché dal vocabolario della nuova sinistra la parola corruzione è bandita.

La sinistra sono i compagni che hanno sempre chiamato “lager” i Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo) e ora strillano perché viene chiuso uno dei più scandalosi: quello di Castelnuovo di Porto, eredità di Mafia Capitale, mezzo abusivo e senza neppure un contratto regolare di affitto secondo l’Anac, mal gestito e in pessime condizioni igieniche, contro cui aveva condotto un’inchiesta molto documentata il manifesto e che già Minniti voleva chiudere due anni fa. A quando una bella manifestazione in difesa del Cara di Mineo?

La sinistra è il Pd che, con Renzi, la Cirinnà, la Fedeli, la Garavini e il giovane astro nascente Pier Ferdinando Casini, si appella al governo insieme a Lega, FI e Fd’I affinché si schieri subito, senza se e senza ma, dalla parte del “mondo libero”: che poi sarebbe il golpista Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente del Venezuela, al posto del titolare eletto Nicolás Maduro, con la benedizione di Trump.

La sinistra è il compagno redivivo Giuliano Pisapia, “partito comunista ma mai arrivato” (da Comunisti col Rolex di J-Ax e Fedez) che, mentre firma l’appello del compagno Calenda, riceve nella sua modesta magione milanese la visita dei ladri che gli portano via l’argent de poche: 300 mila euro in gioielli e orologi.

Ora, stabilito finalmente che cos’è la sinistra, rimane da capire cosa sia la destra e cosa le resti da fare, casomai avanzasse qualcosa, per non restare disoccupata.

Tirate giù la maschera: la Fondazione Dalí contro “La casa di carta”

“Stiamo procedendo a regolarizzare gli usi del diritto di immagine di Salvador Dalí”. Con questo breve comunicato la Fondazione Gala-Salvador Dalí – fondata dallo stesso pittore nel 1983 con l’obiettivo di promuovere e difendere la sua eredità e la sua immagine – ha fatto sapere di aver messo sotto la lente d’ingrandimento La casa di carta, la serie tv i cui ladri utilizzano maschere con l’aspetto, i baffi e gli occhi sporgenti del pittore surrealista. Nel mirino ci sono anche tutte le maschere utilizzate per Carnevale o per Holloween. La fondazione di Figueres (Girona), pur ricordando di aver “assegnato la gestione dei diritti esclusivamente allo Stato spagnolo”, osserva che “non è solo un problema economico. Qualsiasi persona che desideri esercitare o sfruttare uno di questi diritti deve avere l’autorizzazione preventiva della fondazione”.

Giorgio Gaber avrebbe 80 anni, ma neppure adesso lo capirebbero

Domani Giorgio Gaber compirebbe 80 anni. Se n’è andato molto prima, per l’esattezza il Primo Gennaio 2003, ed è verosimile che manchi più lui a noi di quanto a lui manchiamo noi. E questo mondo, che gli faceva sempre più male. Quello che hanno lasciato lui e il suo inseparabile pard Sandro Luporini, senza il quale non sarebbe mai esistito il Gaber migliore (cioè quello teatrale che va dal 1970 al 2000), è smisurato. Fortunato chi ancora non lo conosce appieno. E son tanti, perché il cognome “Gaber” lo conoscono quasi tutti ma il suo repertorio molto meno. Inevitabile: Giorgio detestava il mondo discografico e, dopo il 1970, in tivù c’è andato due o tre volte e solo da amici veri (Gianni Minà, Adriano Celentano). Così, anche chi dice di amare Gaber, alla fine o conosce quello “minore” – benché comunque notevole – dei Sessanta, oppure si è fermato giusto al mantra frainteso “Libertà è partecipazione”. Una frasetta che, per ammissione di Gaber e Luporini, ebbe così tanto successo da risultare antipatica e aliena anzitutto agli autori stessi. I più giovani citano poi “Destra/sinistra”, null’altro che un divertissement che la coppia scrisse – negli anni finali – con impegno minimo.

Se non altro, è la conferma di come anche solo le cose più piccole di Gaber-Luporini brillino oltremodo. Giorgio Gaber è stato corpo teatrale perfetto, genio libero, cane sciolto anarcoide e più ancora appartenenza. Un fratello maggiore a cui aggrapparsi quando ti accorgevi d’essere nient’altro che gabbiano ipotetico: solo, “strano” e smarrito. Per conoscerlo, e occorre conoscerlo, servono tempo e pazienza. Bisogna rintanarsi nelle proprie stanze curiali, possibilmente al buio, e stordirsi anzitutto con gli spettacoli di teatro-canzone dei Settanta. “Libertà obbligatoria” e “Polli di allevamento” su tutti. Gaber e Luporini erano (sono) avanti di decenni, e come tutti i precursori non sono stati capiti da tutti. Ovviamente a capirli di meno è stato la sinistra, che per un po’ ha trattato Giorgio come un compagno un po’ irrequieto salvo poi abbandonarlo prima (e bastonarlo poi) quando Gaber ne smascherò tutte le ipocrisie e miserie. Lo fece già in “Quando è moda è moda”, anno 1979, musiche di Franco Battiato e Giusto Pio, e in quella invettiva sideralmente geniale c’era già tutto lo schifo colpevole sinistrorso. Per questo, a crivellarlo, in prima fila c’era sempre L’Unità, sul finire dei Settanta con Michele Serra (che pure gli voleva bene) e a fine Novanta con un articolo abietto del latinista Luca Canali. Gaber conosceva l’alto e il basso, un minuto ridevi come mai prima e quello dopo piangevi a dirotto. A teatro, ma pure a cena con lui, non ti sentivi mai solo. E se ti sentivi “diverso”, era una diversità bella: perfino necessaria. Urticante per indole e mai per moda, le sue opere sono piene di spigoli che ti costringono a pensare. Diffidate di chi lo ricorda come un artista rassicurante e trasversale: non lo era e non lo voleva essere.

Sul palco si sentiva a casa: viveva a teatro, macinava date ed era rigorosissimo. La sua presenza scenica ogni volta esplodeva, quasi a dispetto di quel fisico allampanato e fragile. Chiedersi cosa direbbe oggi se fosse ancora tra noi non ha senso: molto semplicemente ci farebbe il culo, come e più di sempre. Se siete arrabbiati ascoltate “Io se fossi Dio”, se credete d’esser innamorati rispolverate “Chiedo scusa di Maria”. E se vi sentite soli sdoganate “Qualcuno era comunista”. Giorgio Gaber era bellissimo. E manca, a me ma non credo proprio solo a me, come il pane. O piuttosto come l’aria. Auguri, Signor G.

Il marchio ai nuovi proprietari: il Salone del Libro riparte oggi

Con l’assegnazione oggi del marchio della manifestazione a “Torino, la città del libro”, la nuova associazione dei fornitori e creditori che se lo è aggiudicato all’asta il 24 dicembre scorso grazie alle banche che hanno versato 600 mila euro (400 mila dalla Compagnia di San Paolo, 200 mila dalla Fondazione Crt), il Salone del Libro può ripartire. Il direttore Nicola Lagioia, gli enti pubblici (Comune di Torino e Regione Piemonte) che coordineranno la parte culturale, attraverso la Fondazione Circolo dei Lettori, e la società dei creditori cui sarà affidata la gestione commerciale, possono cominciare pertanto a mettere a punto la trentaduesima edizione della kermesse, in programma al Lingotto Fiere dal 9 al 13 maggio. Lo faranno sfruttando anche l’assenza per il 2019 della rassegna milanese di Tempo di Libri, che l’Aie, l’Associazione italiana editori, ha deciso di sospendere per un anno.

Il nuovo inizio di Librolandia non si presenta facile. Anche perché, soprattutto a livello mediatico, incombono i fantasmi dell’organismo che gestiva l’evento, la Fondazione per il libro, la musica e la cultura, ora in liquidazione e sommersa da una decina di milioni di euro di debiti. Dopo la chiusura delle indagini della Procura della Repubblica di Torino sulle presunte malversazioni della Fondazione per il libro, che ha portato a indagare 29 persone, tra le quali l’ex sindaco del Pd, Piero Fassino, i giornali si sono scatenati nella ricostruzione di fatti e misfatti. E sono arrivati a paragonare i guai degli ex amministratori di Librolandia a quelli di Giuliano Soria, il padre padrone del Premio Grinzane Cavour che è stato condannato a oltre sei anni di carcere con sentenza definitiva della Cassazione. Le vicende sono diverse. E se pure i guai appartengono al passato, ciò non toglie che la macchina del nuovo Salone del Libro debba affrontare diversi ostacoli, a partire da una prevedibile riduzione dei costi. Il direttore Nicola Lagioia ne è consapevole. Già il 24 dicembre, quando è stato assegnato il marchio all’asta, ha ammesso: “Siamo molto in ritardo, ma stiamo lavorando senza tregua per recuperare. Stiamo lavorando perché il Salone del Libro sia uno dei più importanti contenitori culturali del Paese”. E ha aggiunto: “Bruceremo le tappe e riusciremo a fare la consueta conferenza stampa di presentazione già a febbraio. Ma questo è un auspicio, non una promessa”. In ogni caso, come ama ripetere Lagioia, ora si ha “la certezza che questo enorme patrimonio resterà a Torino”. Sarà comunque una fiera senza i grandi editori in cabina di regia, visto che l’Aie, che li rappresenta, è rimasta trincerata sul fronte di Tempo di Libri, anche se con un anno sabbatico di mezzo. Questo non significa che le major dell’editoria nazionale non parteciperanno alla trentaduesima avventura di Librolandia; come l’anno scorso, avranno i loro stand nell’ex fabbrica Fiat del Lingotto. Gli editori piccoli e medi, invece, sono presenti nel comitato d’indirizzo del Salone torinese con l’Adei, l’Associazione degli editori indipendenti guidata da Marco Zapparoli (di Marcos y Marcos). I piccoli coraggiosi capitani del libro italiano temono che, visti i tempi difficili, possano aumentare i costi del cosiddetto plateatico, ovvero lo spazio espositivo. Così i loro rappresentanti hanno messo subito le proverbiali mani avanti, ricordando che la “sostenibilità del Salone è legata al suo costo di partecipazione per migliaia di piccoli editori italiani. C’è di mezzo l’anima stessa del Salone, che sono i piccoli editori”.

Lagioia spera di presentare entro qualche settimana, forse a febbraio, un primo abbozzo del programma. Nel frattempo, in attesa che si esaurisca la scorpacciata mediatica sui travagli giudiziari e finanziari della vecchia Fondazione, il Movimento 5 Stelle, non coinvolto con la giunta comunale torinese di Chiara Appendino nelle vicende di ieri, puntualizza che “per anni si è fatto finta di niente, lasciando debiti e istituzioni fragili”. Pur senza volere mettere sullo stesso piano il crollo del Premio Grinzane Cavour e i debiti del Salone del Libro, è da notare che a governare allora, in entrambi casi, si erano alternati e appaiati, al Comune di Torino e alla Regione Piemonte, centrosinistra e centrodestra.

E a Genova arrivò l’ora del primo detective gay

Da martedì sarà in libreria “Nuvole barocche”, il giallo di Antonio Paolacci e Paola Ronco, ambientato a Genova e con protagonista Paolo Nigra: un poliziotto omosessuale. Gli autori ci raccontano qui la genesi dell’opera e del personaggio.

Noi a Genova ci siamo arrivati da “foresti”, come dicono qui, ma ormai ci sentiamo parte del suo centro storico. Ogni giorno attraversiamo i suoi vicoli spettacolari, contraddittori, pieni di persone di ogni colore, estrazione ed età, che sono per noi un’autentica fucina di personaggi e situazioni, uno scenario ideale per ambientarci romanzi, film o serie tv.

La prima scintilla che ha fatto nascere Nuvole barocche è stata l’idea di creare un investigatore con una precisa caratteristica: il fatto di essere una delle moltissime persone che vengono osteggiate, giudicate e spesso ancora discriminate da una parte della nostra società. Così è nato il vicequestore aggiunto Paolo Nigra, un poliziotto omosessuale, un uomo che ha combattuto le sue battaglie e le ha vinte.

È un protagonista con molte caratteristiche tipiche dell’investigatore tradizionale, come lo sguardo lucido, la capacità deduttiva, collaboratori fedeli e affezionati. In più, possiede l’intelligenza di chi osserva da outsider il contesto in cui si muove.

Fin da subito avevamo ben chiaro come disegnarlo. Noi siamo nati entrambi a metà degli anni Settanta, e per almeno i primi quindici anni della nostra vita abbiamo assistito a una rappresentazione univoca e macchiettistica del “personaggio gay”. Un profluvio di “maschere”, mai persone, di volta in volta giovani sopra le righe, con l’orecchino d’ordinanza o la sciarpetta, o ammiccanti signori maturi. Poi, per fortuna, abbiamo notato un’inversione di tendenza, grazie in parte a molte serie tv non italiane: personaggi finalmente più credibili, più vivi e meno monodimensionali. Su questa nuova ondata, abbiamo ideato il nostro protagonista dopo una lunga fase di documentazione, in cui abbiamo avuto modo di parlare con alcuni degli iscritti a Polis Aperta, associazione di appartenenti Lgbt alle forze armate e alle forze dell’ordine.

Paolo Nigra fa parte della Squadra Mobile di Genova. Veste casual e fuma sigarette arrotolate a mano; beve Ti’ Punch, tipico cocktail dei Caraibi; ama i Subsonica e pratica arti marziali; è silenzioso, imperscrutabile, a disagio quando deve esprimere i propri sentimenti. Ha deciso da tempo di smettere di nascondere la propria omosessualità, e affronta con fermezza le offese e l’aperta avversione di alcuni colleghi.

Il suo compagno Rocco è un attore che, dopo anni di teatro, viene scritturato come protagonista di una serie televisiva nazionalpopolare. A differenza di Nigra non ha mai fatto coming out, preoccupato che la cosa possa procurargli problemi d’ingaggio. Questo crea una situazione di disagio e conflitto per entrambi, destinata ad accentuarsi con il successo della serie tv, che ironicamente vede Rocco nei panni di un eroico e fascinoso commissario.

Naturalmente questa coppia non è, né mai potrebbe essere, rappresentante di un mondo. Li sentiamo, e abbiamo cercato di rappresentarli, entrambi vivi, complessi, esistenti a modo loro, non certo esempi o emblemi di qualche categoria. Noi vediamo Nigra come un’anomalia né più né meno degli altri personaggi della serie, inclusi i suoi colleghi. Ma sappiamo che è anche un uomo gay che si muove nel contesto di una questura italiana all’alba del terzo millennio e, come tale, impone e permette di far nascere conflitti, sviluppare tematiche, illuminare angoli bui. In questo, la scelta di muoverci all’interno del genere giallo ci permette di guardare da vicino alcune pieghe della società, lasciandoci liberi di farlo con un registro leggero, usando l’ironia come arma per affrontare vicende anche cupe.

Il caso che inaugura la serie, in Nuvole barocche, è anche il primo con una vittima di omicidio presumibilmente omofobico che Nigra abbia mai incontrato nella sua carriera. Oltre alle inevitabili ripercussioni emotive su di lui, è un caso che ci permette uno sguardo sulle intolleranze e i pregiudizi presenti in ogni strato della società e che, purtroppo, possono arrivare fino alla violenza criminale. In Italia, vale la pena ricordarlo, secondo Gay Help Line, il numero verde contro l’omotransfobia, vengono riportati in media 50 casi di discriminazione omofobica al giorno, e 400 casi di gravi maltrattamenti familiari segnalati ogni anno, quasi tutti con vittime minorenni.

Gilet gialli, lista pronta per le Europee. In testa Ingrid

È ufficiale: alle elezioni europee di maggio correranno anche i Gilet gialli. La capolista del movimento contro le politiche del presidente Emmanuel Macron sarà Ingrid Levavasseur, infermiera trentunenne che sin dall’inizio è stata uno dei volti più moderati e combattivi del movimento.

“Il movimento sociale di cittadini nato nel nostro Paese il 17 novembre 2018 fa trasparire la necessità di trasformare la collera in un progetto politico umano, capace di fornire risposte ai francesi, che sostengono il movimento da mesi”, si legge nel comunicato del nuovo partito che punta dritto al Parlamento di Strasburgo.

Secondo informazioni circolate sui social i candidati di quella che dovrebbe chiamarsi Lista unitaria e popolare saranno circa 80 di cui dieci scelti e già selezionati. Hayc Shahinyan, fondatore di “Gilet gialli, il movimento” ha spiegato di aver lavorato perché “la lista fosse composta da gente che sin dall’inizio ha partecipato alla mobilitazione sulle rotatorie e non dai tecnocrati”, sottolineando che non “nulla meglio delle Europee ci consentirà di promuovere le nostre rivendicazioni”. L’idea è quella di “costruire una lista che unisca i cittadini e mostri che siamo indipendenti”. Quanto al programma, Shahinyan ha detto che “è in fase di creazione”.

L’infermiera dell’Eure, che alle scorse elezioni presidenziali votò per il presidente Emmanuel Macron ed è tra le figure più moderate del movimento, lontana dalle posizioni dei falchi Eric Drouet e Maxime Nicolle diventa così capolista dei Gilet gialli in Europa.

Vargas Llosa lascia il club della penna

“L’indipendentismo catalano gode di tutti i diritti democratici per esprimere le proprie ragioni con l’appoggio di giornali, radio, tv a diffusione nazionale con la più ampia libertà”. Con queste parole il Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa, da sempre critico nei confronti del movimento indipendentista catalano ha motivato le sue dimissioni dal Pen, l’Organizzazione internazionale di scrittori per la libertà, dopo che in un comunicato questa aveva chiesto la scarcerazione dei due leader dell’indipendentismo catalano Jordi Cuixart y Jordi Sànchez, in carcere per sedizione, riferendosi a loro come scrittori “privati della libertà di espressione”. “Chi si trova in prigione o in fuga e che sta per essere giudicato dal Tribunale Supremo spagnolo – ha spiegato riferendosi al processo che inizierà il 5 febbraio – si trova lì non per le idee in cui crede e che difende, ma per essere stato parte attiva nel tentato colpo di Stato che, contro i dettami della Costituzione e delle leggi che regolano la democrazia spagnola, ebbe la pretesa di mettere in atto un’arbitraria secessione. Nessun paese democratico avrebbe potuto accettare una simile rottura dell’unità territoriale che dura da cinque secoli”, ha sottolineato il premio Nobel peruviano.

Ciò che l’autore de La città e i cani critica nella dura lettera inviata alla presidente internazionale dell’Organizzazione Jennifer Clement è soprattutto la perdita di credibilità che “un’organizzazione con credenziali limpide come il Pen nella sua lotta in difesa dei diritti umani e della libertà d’espressione faccia sue le bugie della sede catalana, organo militante dell’indipendentismo di Catalogna, impegnato in una campagna internazionale di mistificazione della verità e che – a giudicare dal comunicato – ha sorpreso molte sedi del Pen, tra cui quelle dell’America Latina, presentando la Spagna come un paese che calpesta la libertà d’espressione e mette in galera scrittori critici e dissidenti”. Per il presidente emerito che è stato a capo dell’Organizzazione dal 1977 al 1980, dunque, non bisognava “abbandonare la tradizionale neutralità politica di fronte alla lotta politica interna e dare un appoggio morale e incostituzionale a un movimento razzista e suprematista come il movimento indipendentista catalano”.

Secondo lo scrittore che ora vive a Londra, “questo costituisce il tradimento dello statuto del Pen internazionale e nessuno scrittore genuinamente democratico dovrebbe permetterlo”. Alla lettera di Mario Vargas Llosa ha fatto eco un altro comunicato, quello dell’Associazione degli scrittori di Spagna (Ace), che considera una “falsificazione della realtà” la campagna del Pen e chiede all’Organizzazione di “rettificare le affermazioni. La Spagna è una democrazia europea perfettamente consolidata – scrive l’Ace – rispettata dall’Unione europea e meglio del Consiglio d’Europa, nella quale la libertà d’espressione è protetta dai tribunali e gli eccessi governativi – qualora si verifichino – così come succede in qualsiasi altro paese, vengono corretti”. Per gli scrittori la mossa del Pen “rivela o una grande ignoranza della situazione o una chiara volontà di allinearsi alle posizioni di chi nell’ultimo anno ha messo a rischio reiteratamente la Costituzione”. Cuixart y Sànchez, infatti, “dalla prigione continuano a esprimersi liberamente, ricevono visite, rilasciano interviste e parlano ai media”.