“Non solo il sindaco ucciso ecco la lista dell’odio in tv”

“Truffatore maniaco, nemico del popolo, corrotto”. Pawel Adamovicz, il sindaco di Danzica pugnalato sul palco durante un concerto di beneficenza, veniva descritto quotidianamente dalla tv pubblica come un “cancro della Polonia e della sua democrazia”. Dall’ottobre 2017 al 13 gennaio scorso, giorno dell’omicidio, il giornalista Krzysztof Leski, di servizi contro il sindaco filo-europeo ai telegiornali governativi ne ha contati almeno cento alla Wiadomosci Tvp.

“Ma sono diverse centinaia, se si calcolano anche talk show, servizi radio, edizioni serali dei tg, programmi delle tv private: i membri del Pis, partito Legge e Giustizia, con la loro versione della realtà, sono ovunque. Tutti avevano alzato il tiro contro Adamowicz da quando aveva annunciato l’anno scorso di volersi ricandidare”. Intanto Piattaforma civica, partito del sindaco e del presidente europeo Tusk, annuncia formalmente il boicottaggio dei media filogovernativi polacchi. Jacek Kurski, direttore della Tvp, ribatte minacciando querela a tutti quelli come Leski che citano l’emittente come responsabile del clima di odio diffuso nel Paese. L’ossessione per la verità, Leski la coltiva dall’era della Cortina di ferro: “Lavoravo per la stampa clandestina quando c’erano i sovietici, numeravo gli attacchi personali già allora”. Ma rispetto all’era comunista la differenza è sostanziale: “I comunisti ignoravano l’opposizione, che ufficialmente non esisteva, la nominavano magari una volta ogni 7, 8 settimane, era relegata al silenzio. I media governativi odierni invece parlando dell’opposizione tutti i giorni, con un livello di odio che dall’epoca dei due blocchi è aumentato del 1000%. Ma hanno mantenuto la metodologia sovietica, quella che chiamo “propaganda dei successi” delle autorità, ripetono quanto il nostro governo sia perfetto 24 ore su 24 su tutti i canali”. L’odio ai microfoni delle tv, via etere e web. Questo processo ha avuto una genesi precisa e un’origine concreta in Polonia secondo Leski: “L’incidente aereo in Russia, a Smolensk, nel 2010, in cui perse la vita l’ex presidente Lech Kazynsky, insieme a 88 membri delle autorità del governo e dell’esercito polacco. Da allora le teorie complottiste, i cospirazionisti hanno cominciato ad apparire ovunque, dal 2010 il Pis ha cominciato ad aprire siti, impossessarsi dei media e così, a cascata, siamo arrivati fino a qui oggi”. Ira polacca con accento britannico di questo ex corrispondente della Bbc e Daily Telegraph. Ha la voce arrabbiata e triste al telefono: “Ho 60 anni, sono un pensionato, questo fa di me un pessimista. Presto questo omicidio verrà dimenticato, andrà peggio di prima. Adamowicz non era l’unico obiettivo: lo sono tutti i liberali, dal sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowki all’ex presidente Lech Walesa. L’Italia ora è il puppy, pupazzo preferito della tv pro-governativa polacca. Ho visto almeno 50 servizi sul vostro governo anti-migranti che lotta in nome del popolo italiano a Bruxelles. Salvini viene presentato come un combattente per il budget dello Stato”.

Lesky, che legge solo Gazeta Wyborzca e Polish newsweek, è consapevole che il problema dei media è endemico: “Non c’è una sola fonte di notizie che ritengo totalmente affidabile e non solo in Polonia. Siamo nell’era della post-verità e l’odio non è un problema polacco, ma europeo, americano, mondiale. Stiamo tutti andando nella stessa oscura direzione, il deterioramento è cominciato, quello che conoscevamo come giornalismo è finito. E non ne è solo responsabile l’odio e chi lo diffonde come i populisti: è la superficialità ad aver ucciso il giornalismo. Solo i giornalisti indipendenti con fonti indipendenti potranno salvarci, that’s it, è proprio tutto qui”.

Trump “sfiducia” Maduro

Precipita la situazione in Venezuela dove, dopo una notte di violenze e uccisioni, il leader dell’opposizione Juan Guaidó s’è autoproclamato presidente, prestando giuramento davanti a una folla di sostenitori a Caracas e invitando i militari “a ristabilire la Costituzione”.

Da Washington, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump getta benzina sul fuoco, riconoscendo Guaidó presidente e lanciando un appello a tutte le Capitali occidentali perché seguano il suo esempio e disconoscano il governo di Nicolas Maduro, presidente legittimo, appena insediatosi per un secondo mandato.

Acclamato da migliaia di oppositori del regime, Guaidó ha levato la mano destra affermando “d’assumere formalmente la responsabilità dell’esecutivo”. Guaidó intende “ottenere la fine dell’usurpazione, un governo di transizione e libere elezioni”. Dopo il suo giuramento, ha sollecitato tutti i manifestanti a giurare d’impegnarsi “a ristabilire la Costituzione in Venezuela”.

Il gesto di Guaidó, in una giornata di estrema tensione, fa piombare il Paese in una crisi istituzionale – con il rischio di scontri e violenze dal bilancio drammatico –. Il conflitto è aperto tra l’esecutivo di Maduro e il Parlamento. Guaidó, inoltre, ignora il parere della Corte Suprema, contraria all’autoproclamazione. Da Washington, in un rimbalzo di voci che pare proprio orchestrato, e che era pure stato anticipato, Trump afferma: “Il popolo del Venezuela ha coraggiosamente fatto sentire la propria voce contro Nicolas Maduro e il suo regime e ha chiesto libertà e rispetto della legge”. Il presidente Usa ritiene Guaidó presidente legittimo perché, “nel suo ruolo di presidente dell’Assemblea nazionale è l’unico a essere stato legittimamente eletto” – il voto presidenziale è contestato –. Il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, l’Osa, Luis Almagro, s’è subito accodato a Trump, riconoscendo con un tweet Guaidó ed esprimendogli sostegno e incoraggiamento.

Ancora prima dell’autoproclamazione di Guaidó, che è certamente destinata ad alzare il livello dello scontro, si moriva in strada in Venezuela, dove le manifestazioni di protesta contro Maduro stavano raggiungendo il loro acme: nella notte tra lunedì e martedì, le vittime sono stati almeno cinque, secondo fonti della Giustizia venezuelana; e ieri migliaia di persone sono confluite verso plaza Juan Pablo II, nel Comune di Chacao, epicentro della contestazione.

Quattro persone erano morte durante saccheggi all’alba nello Stato di Bolívar, a sud di Caracas, mentre la quinta era stata fulminata da un proiettile a Cata, quartiere di Caracas. La Ong Foro Penal Venezolano conta almeno 43 arresti e “diversi feriti” dall’inizio di settimana, nelle proteste succedutesi in varie località. Le tensioni e la violenza nel grande Stato sudamericano, tre volte l’Italia, meno di 31 milioni d’abitanti, un’enorme ricchezza petrolifera ed energetica, ma un profondo dissesto sociale ed economico, rischiano ora di degenerare in guerra civile. La protesta di ieri, oltre che a Caracas, s’è fatta sentire in altre città, a Barquisimeto, Maracaibo, Barinas e San Cristobal.

Il presidente Maduro, erede della tradizione chavista, ma dotato di meno carisma e di minore presa sulla popolazione del suo predecessore e mentore Hugo Chávez, s’è da poco re-insediato. Gli Stati Uniti e una dozzina di Paesi latino-americani giudicano illegittima l’elezione di Maduro, maturata in un clima d’intimidazione e di brogli; e, intanto, milioni di venezuelani patiscono le conseguenze di una crisi feroce che ha innescato migrazioni massicce verso il Brasile, la Colombia e l’Ecuador. Per Trump, Maduro è “un usurpatore”.

Ma l’autoproclamazione di Guaidó è oggetto di un contrasto tra la Corte suprema e il Parlamento. Proprio ieri, la sezione costituzionale del Tribunale supremo aveva ribadito che le iniziative adottate dall’Assemblea nazionale, controllata dall’opposizione, in contrasto con le prerogative del potere esecutivo presieduto da Maduro, “sono incostituzionali”. In particolare, il Tribunale sottolinea che l’Assemblea ha “usurpato” le prerogative del presidente della Repubblica per la gestione delle relazioni internazionali: un riferimento alla recente decisione del Parlamento di nominare un ambasciatore speciale presso l’Osa. La Corte chiede alla Procura di procedere “immediatamente” per “determinare le responsabilità delle violazioni della Costituzione”. Due giorni fa, la stessa sezione costituzionale del Tribunale supremo aveva dichiarato “nullo e privo di validità” il giuramento dei nuovi vertici dell’Assemblea e del suo presidente, Guaidó, il 5 gennaio.

Eni, il teste nigeriano. “Mai conosciuto ex manager Armanna”

Ha spiegato di non aver “mai conosciuto uomini dell’Eni”, e nemmeno l’ex dirigente del gruppo nell’area del Sahara, Vincenzo Armanna, un responsabile dell’apparato di sicurezza nigeriano sentito ieri come testimone nel processo milanese sul caso Eni Shell-Nigeria, con al centro una presunta corruzione internazionale per l’acquisizione del giacimento e che vede tra gli imputati Armanna, l’ad dell’Eni Claudio Descalzi e l’ex numero uno Paolo Scaroni.

In un verbale del 27 aprile 2016 in fase di indagini, Armanna aveva raccontato che “Victor (Nwafor, il responsabile sicurezza nigeriano, ndr) mi disse che 50 milioni in contanti, in banconote da l00 dollari, erano state portate al chairman di Eni. Per chairman, Victor intendeva il capo, cioè Scaroni”. A queste dichiarazioni, però, non sono mai stati trovati riscontri tanto che non se ne parla nell’imputazione a carico di Scaroni. Nelle imputazioni, invece, i pm hanno contestato come presunte “retrocessioni” di tangenti a manager italiani i 50 milioni di dollari che sarebbero stati consegnati “presso la casa di Roberto Casula” ad Abuja, e gli oltre 900 mila euro versati ad Armanna “su un conto corrente”.

“La mia ‘Stra-Maglie’ a carico nostro merita il bis”

Ci sono folgorazioni che restano per sempre nel cuore e nella pelle. Così, è per Francesca Reggiani l’incontro con l’immagine di Maria Giovanna Maglie. A breve la Maglie potrebbe tornare in video in coerenza al suo stile, ovvero in pompa magna, con una striscia quotidiana sui fatti del giorno dopo il Tg1 delle 20. Esattamente 27 anni fa, teneva banco come corrispondente dall’America nel Tg2 di Alberto La Volpe, e, racconta la Reggiani, non mancò di attrarre l’attenzione delle ragazze di Avanzi. “L’idea nacque all’istante a me e a Serena Dandini, all’indomani del celebre fuorionda di Blob in cui Maria Giovanna Maglie diceva testuale “adesso mi vedete così, ma se smetto di bere divento una tale STRAfiga…”.

L’autostima non le è mai mancata.

Me la ricordo come una delle imitazioni più facili, veniva quasi da sé. Una ammirevole naturalezza da parte del suo ego, a me bastava un trucco alla Joker, fondotinta bianco e ombretto nero, poi tutti gli impegnativi completi di alta moda.

È passata agli annali anche una sahariana leopardata, “presa da Armani Exchange a Broadway”.

Si era resa necessaria quando Bill Clinton varò l’operazione Restore Hope in Somalia, e la Maglie la seguì per la Rai. La mia versione esibiva una sahariana firmata con quattro tasche animalier, cinturone e cappellino coordinato: ‘Noi del Tg2 seguiremo i marines a vista, direttamente dalla spiaggia. Non da Mogadiscio, ma dall’Hilton Safari Hotel di Malindi: non confortevole, STRAconfortevole!’.

Cene STRAcostose, autisti, arredi, decori per il suo ufficio di corrispondenza. Le sue note spese sono rimaste leggendarie.

E non dimentichiamo i cocktail, quelli che le impedivano di diventare una bomba sexy. Ogni collegamento si concludeva con la ricetta del cocktail della settimana, dal Siad Barre al Gay After. Ogni volta nuovi ingredienti, ma con alcuni punti fissi. ‘Olivetta snocciolata? No!’ ‘A carico mio? No. A carico vostro!’.

Tipica grandeur STRAcraxiana. Alla fine scoppiò lo scandalo delle false fatture per decine di migliaia di dollari rimesse alla Rai. Questa però non era satira, era uno scandalo vero.

Certo, la Maglie incarnò alla grande l’immagine del giornalista privilegiato, il rappresentante di una casta che non solo non si vergognava dei suoi benefici, ma era orgoglioso di sbandierarli.

Strano che un simile personaggio venga rispolverato in pieno populismo galoppante.

Questo bisogna chiederlo a chi lo sta rispolverando.

Mai avuto reazioni da parte sua?

Reazioni dirette, mai. Qualcuno mi aveva detto che non gradiva le mie imitazioni, a differenza di tante altre che si divertivano un mondo come la Fumagalli Carulli o Mariolina Sattanino, quella che si collegava in preda alla malinconia, ma poi, appena sentiva il nome di D’Alema, s’illuminava d’immenso.

Adesso, pare grazie ai buoni uffici di Salvini, la Maglie potrebbe tornare dall’esilio.

In realtà non ha mai smesso di apparire come ospite nei talk show. La tentazione di imitarla non è mai passata, ma il buon gusto impone di imitare i personaggi solo quando sono all’apice del successo.

Se avrà una striscia quotidiana dopo il Tg1, potrebbe essere la morte sua.

Vedremo. Se, come spero, ci faranno rifare La Tv delle ragazze, la prenderemo in seria considerazione. La concorrenza di potenziali caricature è molto agguerrita, ma è giusto dare una seconda opportunità, nella satira c’è spazio per tutti. Tra l’altro bisogna farle i complimenti perché non è per niente cambiata, uguale a vent’anni fa.

“Se smettesse di bere…”.

Questo lo dice lei!

Consiglio di Stato, indagato il numero due “in pectore”

C’è un filone dell’inchiesta sul Consiglio di Stato tenuto riservatissimo, ma che rischia di diventare un terremoto: tra gli indagati infatti c’è un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Si tratta del presidente di Sezione Sergio Santoro, accusato dai pm romani di corruzione in atti giudiziari.

È una notizia che irrompe in un momento delicato: Santoro è tra i candidati a diventare presidente aggiunto, ossia il vice di Filippo Patroni Griffi. Domani si riunisce il plenum del Cpga, il Csm dei giudici amministrativi e il giudice sembra essere il favorito, nonostante abbia presentato ricorso contro la nomina di Patroni Griffi.

A Palazzo Spada dal 1981, Santoro è stato consigliere giuridico e Capo di Gabinetto in varie Amministrazioni dal 1983 al 2008, anche di Silvio Berlusconi, per “l’attività di monitoraggio e di trasparenza legislativa dell’azione di governo”.

Sul motivo della sua iscrizione nel registro degli indagati a Roma si tiene il massimo riserbo: nessuno, a parte i magistrati, conosce la contestazione. Tantomeno Santoro, che però ha ricevuto una proroga alle indagini qualche giorno fa.

Quello in cui è coinvolto è un nuovo capitolo della complessa indagine su una rete di avvocati in contatto con alcuni magistrati del Consiglio di Stato.

Nell’ambito di questa inchiesta, i pm hanno approfondito anche le parole di Piero Amara, in passato difensore anche dell’Eni, il quale ha fatto alcune rivelazioni, finite in verbali secretati. Da questo ed altri spunti investigativi sono partiti i diversi filoni. Oltre il consigliere Santoro, ci sono altri soggetti che nei giorni scorsi hanno ricevuto la proroga per le indagini. Tra questi c’è Filippo Paradiso: dipendente del Ministero dell’Interno, è anche vicepresidente nel Comitato esecutivo del Salone della Giustizia, che ogni anno organizza seminari e workshop su diversi temi e con ospiti importanti come la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, presente alla chiusura dell’ottava edizione dello scorso anno.

Paradiso, come riporta la proroga, è indagato per millantato credito. Anche in questo caso, è segreto il motivo dell’iscrizione.

Lo stesso vale per l’ex governatore della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo – accusato di corruzione in atti giudiziari e rivelazione di segreto d’ufficio – o dell’ex ministro, con il governo Berlusconi, Francesco Saverio Romano, indagato solo per rivelazione di segreto d’ufficio.

“Quello che dispiace – ha commentato il legale di Santoro, l’avvocato Pierluigi Mancuso – è constatare la spiacevole coincidenza tra la notifica della proroga, e la diffusione della notizia, e lo svolgimento del plenum del Consiglio di Stato, fissato per venerdì mattina e da cui sarebbe uscito Santoro presidente aggiunto”. In realtà la proroga è stata notificata a ben 31 indagati. Continua il legale Mancuso: “Il Presidente pone la massima fiducia nella magistratura. Peraltro conoscendo la serietà del pm Paolo Ielo, è sicuramente una disgraziata coincidenza temporale, ma certo rende la vicenda doppiamente amara. Infatti è evidente che la notizia crei già di per sé un danno rilevantissimo. Non conosciamo la contestazione ma sono certo che c’è qualcuno che ha calunniato Santoro, uomo onesto e magistrato inflessibile”.

Bari, psicosi contagio. La Procura sequestra la pianta sospetta

La tensione tra cittadini preoccupati, ricercatori e magistratura crea un clima che rallenta la ricerca della soluzione al problema Xylella: è questa la diagnosi che emerge da uno studio dell’Università Milano-Bicocca apparso nel dicembre scorso sulla rivista internazionale Phytopathology Review.

“I pericoli dell’elitarismo epistemico non sono meno gravi di quello populista” scrivono sociologi della scienza dell’università milanese. “È facile essere tentati dal pensare che in assenza dei movimenti di attivisti [in Puglia] avremmo potuto salvare milioni di ulivi”, aggiungono. Ma “la maggioranza degli attivisti con cui abbiamo parlato sono portatori di lodevoli idee politiche nei riguardi dei processi democratici in atto nelle società basate sulla conoscenza”. Il CoDiRO, concludono, non è soltanto un problema per gli alberi: dovrebbe essere studiato come una “socio-fitopatologia”, viste quante implicazioni ha anche per la qualità della democrazia sul territorio.

Gli autori evidenziano la spaccatura che si è creata tra cittadini, magistratura ed esperti. Le richieste di agricoltori e attivisti di analizzare tutte le possibili concause legate alla malattia CoDiRO restano inascoltate dal mondo scientifico e dalla politica europea, concentrati soltanto su Xylella. Chiedono chiarimenti su molti aspetti: dallo studio Silecc finanziato dalla Regione, è emerso che 40 piante (su 84) con grave disseccamento (su cui gli scienziati stanno testando trattamenti anti CoDiRO), avevano radici completamente marce. La questione solleva domande: quanti ulivi in Salento sono secchi per via delle radici marce?

Il problema è che in cinque anni di ricerche, una diagnosi completa della malattia CoDiRO non è mai stata tentata. Eppure, la stessa Società americana di Fitopatologia (Aps) sostiene che senza “qualunque misura di contenimento può rivelarsi spreco di tempo e denaro”.

Gli attivisti chiedono spiegazioni anche su 30 ulivi trovati positivi a Xylella nel 2015 nella zona di Torchiarolo, che a oggi non hanno mai sviluppato sintomi, sebbene gli esperti ritengano che una volta infettati, gli ulivi li sviluppino in un anno e mezzo. Nel 2015, il piano di Giuseppe Silletti, l’allora commissario straordinario per l’emergenza Xylella, prevedeva di tagliare ogni pianta infetta e tutte quelle nei quasi quattro ettari intorno, per un totale di un milione di ulivi. Il piano fu bloccato da un sequestro della Procura di Lecce nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria, non ancora conclusa, sulla gestione dell’emergenza Xylella. A distanza di quasi quattro anni, quei 30 ulivi infetti sono verdi.

Poi c’è la questione dell’avanzamento del batterio. Lo scorso 30 dicembre, il ritrovamento a Monopoli (a 40 chilometri da Bari, epicentro dell’olivicoltura intensiva) di un olivo infetto da Xylella è stato preso a riprova che il batterio si espande dal Salento verso nord. Come spiega al Fatto Gianluigi Cesari, segretario della task force anti Xylella della Regione Puglia “è la prima volta che si cerca Xylella in quella zona” dice, quindi “non c’è un termine di paragone per affermare che prima del 2018 non ci fosse”.

La scorsa settimana, la Procura di Bari ha messo sotto sequestro l’ulivo di Monopoli, con ipotesi di reato di diffusione intenzionale del batterio e di notizie tendenziose tali da poter turbare l’ordine pubblico, a carico di ignoti.

Xylella, guerra da 100 milioni

Si va verso un espianto di massa per gli ulivi salentini infetti da Xylella, il batterio ritenuto causa del CoDiRO, la sindrome del disseccamento rapido degli ulivi. Ma ci sono milioni di euro in arrivo per il grande affare dei reimpianti. Governo e Regione Puglia puntano su due varietà di ulivi ritenute resistenti a Xylella da reimpiantare in 23 mila ettari della zona infetta (Lecce). Il 19 gennaio, il ministro per le Politiche agricole Gian Marco Centinaio, leghista, ha annunciato un piano da 100 milioni di euro (70 dallo Stato, 30 dalla Regione Puglia) per espiantare tutti gli ulivi infetti e per impiantarne di nuovi. La prossima settimana sarà in Conferenza Stato-Regioni per l’approvazione. Altri fondi li potrebbe aggiungere l’Ue. “Per fermare Xylella, basta idee strane”, ha dichiarato Centinaio. Solo espianti, escludendo gli ulivi monumentali, e reimpianti di piantine di ulivo alte non più di 1 metro per tutta la provincia di Lecce, che entreranno in produzione tra 5 anni. Chi si oppone agli espianti, rischia fino a 5 anni di carcere. Lo prevede un emendamento Lega-M5S al decreto Semplificazioni. “È dittatura ecologica” dice al Fatto Saverio De Bonis del Gruppo misto.

RIMEDI ALTERNATIVI. Il piano non prevede il ricorso ai trattamenti anti-CoDiRO per salvare gli ulivi disseccati, nonostante siano finanziati dal 2015 dalla Regione Puglia: i ricercatori che ci lavorano affermano che questi metodi rigenerano gli alberi e permettono di evitare gli espianti, ma su social e giornali sono accusati di millantare rimedi non scientifici. “La Xylella avanza. E io grido la denuncia di tutti i santoni interessati solo a saccheggiare i fondi pubblici per improbabili rimedi miracolosi, come Scortichini e Sillec” ha scritto Fabiano Amati, consigliere Pd della Regione Puglia, sul suo blog. “Salentini, non siete soli in questa battaglia contro i falsificatori e la pseudoscienza incendiaria” ha proseguito su Facebook Enrico Bucci, membro della Commissione ricerca su Xylella dell’Accademia dei Lincei, la massima società culturale italiana. Marco Scortichini, dirigente al Consiglio per l’Agricoltura (Crea), ha testato un battericida già in commercio, brevetto israeliano, a base di rame e zinco su 40 ulivi infetti e sintomatici in Salento. I risultati sono stati pubblicati da una rivista scientifica nel 2018. C’è poi un secondo studio dell’Università di Bari e del Cnr di Perugia che stanno testando sette bio-fertilizzanti anti CoDiRO nell’ambito dello studio noto come “Silecc”, che terminerà tra un anno.

CONFLITTI D’INTERESSI. Nel dicembre 2017, l’Ue ha sdoganato i reimpianti di varietà resistenti al batterio per la zona infetta, prima vietati. La Regione ha autorizzato solo le varietà di ulivo Leccino e Favolosa (oltre a viti, agrumi e prunus). L’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e il Comitato Fitosanitario Nazionale (Cfn) hanno certificato che sono resistenti, sulla base del parere chiesto all’Istituto del Cnr per la Protezione Sostenibile delle Piante (Cnr-Ipsp) di Bari che le studia. L’Ipsp, un piccolo istituto di ricerca di Provincia, che grazie all’emergenza Xylella viene ora inondato di milioni, scrive che la concentrazione di Xylella all’interno di Leccino e Favolosa è da 10 a 100 volte inferiore a quella riscontrata in Ogliarola e Cellina, le varietà autoctone del Salento. Gli studi chiave che Ipsp cita per mostrare che si disseccano poco sono stati pubblicati su un giornale per agricoltori, l’Informatore Agrario. Ma annunciare risultati sui giornali, prima che sulle riviste scientifiche, non è trasparente e non garantisce che siano affidabili. I ricercatori, peraltro, scrivono che “non si hanno ancora a disposizione dati riferiti al lungo periodo, sia in termini di tenuta della resistenza nel tempo e sia in termini di produttività” delle due varietà. Nessuna garanzia, dunque, che il Piano funzionerà. “Ci sono stati chiesti i dati in nostro possesso e li abbiamo consegnati, integrandoli con considerazioni prudenziali”, spiega al Fatto Donato Boscia, responsabile di Ipsp Bari. “Per noi quei dati non rappresentano un traguardo, ma un incoraggiante punto di partenza”. Il Cnr è proprietario del brevetto della Favolosa, che scade tra 5 anni. Le royalty da una vendita massiccia di alberi oggi sarebbero ingenti. Solo 3 vivai – in Sicilia, Umbria e Puglia – hanno la licenza per coltivarla e venderla. Secondo Francesco Loreto, direttore del dipartimento di Scienze Bio-Agroalimentari del Cnr a cui fa capo l’Ipsp, il rischio è che “in Puglia arrivino varietà spacciate per Favolosa, non autentiche e non resistenti”. Aggiunge che il Cnr non è in conflitto di interessi per aver proposto proprio la Favolosa: “È stata brevettata per l’olivicoltura intensiva, non per la resistenza al batterio. Gli introiti dal brevetto (10% sul prezzo di ogni pianta) sarebbero investiti in ricerca su Xylella”. In uno sforzo senza precedenti, l’Ue ha investito oltre 30 milioni su due progetti di ricerca, entrambi coordinati dall’Ipsp che ha appena ricevuto, senza bando, 1,2 milioni di euro in 5 anni per il progetto ResiXo sulle piante resistenti, co-finanziato dal Cnr con altri 600 mila euro.

AEROSOL SALVA-ALBERI. Il protocollo Scortichini potrebbe invece scongiurare gli espianti. È un aerosol di zinco, rame e acido citrico che penetra nel sistema vascolare dell’ulivo (dove Xylella si riproduce e blocca il passaggio di acqua) riducendone la concentrazione, in media, di 1000 volte. Potrebbe arginare la diffusione dell’infezione: l’insetto che trasporta Xylella da un albero all’altro non riuscirebbe a prelevarne abbastanza da contaminare altre piante. Un uliveto gravemente disseccato, trattato con questo protocollo, nel 2018 è tornato a produrre 100 quintali di olive a ettaro. Con un costo minimo: 300 euro all’anno per ettaro. “Gli uliveti trattati appaiono come oasi verdeggianti circondati da alberi morti”, dice Scortichini.

Progetto SILECC. Se le altre cure anti CoDiRO del progetto Silecc funzionano si saprà tra oltre un anno. Un decreto dell’ex ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina del febbraio 2018 obbliga i ricercatori che si occupano di CoDiRO e Xylella a informare la Regione dei risultati dei loro esperimenti prima di chiunque altro. Ma se le ricerche vengono divulgate prima di essere sottoposte al vaglio delle riviste scientifiche, la pubblicazione viene respinta in automatico. Diventano carta straccia. A dicembre 2018, il consigliere pugliese Amati ha inviato la relazione ricevuta dai ricercatori a Enrico Bucci, il quale ha stroncato lo studio Silecc (non ancora concluso) in un articolo in Rete diffondendo i dati preliminari e mettendo così a rischio l’intero esperimento. Bucci partecipa alla Commissione ricerca su Xylella dell’Accademia dei Lincei, della quale non è membro, su invito di Giorgio Parisi, fisico alla Sapienza e presidente dell’Accademia. Ma non è un vero professore universitario, come viene definito nei documenti dell’Accademia. Ha una posizione non retribuita di professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia, nella biologia del cancro. Un titolo che non equivale a quello di professore universitario, né in Italia né negli Usa. È anche titolare di un’azienda di consulenze scientifiche. Su Xylella, “abbiamo incaricato il professor Bucci di fare analisi che richiedevano elevata competenza statistica” ha detto Parisi al Fatto, sebbene tra i membri dell’Accademia ci siano già statistici di fama. Né Bucci né Amati, né l’ex ministro Martina hanno risposto alla richiesta di chiarimenti.

Assurdo equiparare i membri di Gladio e la Resistenza

Imembri di Gladio erano “animati dallo stesso spirito di combattere per la liberazione della Patria”, dunque “sono senz’altro parificabili ai partigiani che hanno combattuto per la liberazione dell’Italia durante la Resistenza”. E il loro servizio va equiparato a quello prestato nelle Forze armate. Un’equiparazione solo morale e onorifica, senza effetti ai fini retributivi, previdenziali e assistenziali, ma comunque un riconoscimento ufficiale dello Stato a chi tra il 1956 e il 1991 ha militato nell’organizzazione segreta Gladio, cioè la pianificazione Stay behind in Italia. Lo chiede (di nuovo: non è la prima volta) un disegno di legge presentato in Senato dal capogruppo di Fratelli d’Italia Luca Ciriani insieme alla collega di partito Daniela Santanchè e altri.

Ma forse bisogna ricordare che cos’era Gladio. Non una struttura Nato, come viene erroneamente ripetuto, ma una pianificazione nata dall’accordo tra due servizi segreti, quello degli Stati Uniti, la Cia, e quello militare italiano, il Sifar (che poi cambia nome e diventa Sid e poi ancora Sismi). Dunque è una lacerazione all’architettura istituzionale, uno strappo alla Costituzione, un’entità sottratta al controllo del Parlamento e finanche del governo. Il suo compito ufficiale era quello di contrastare “dietro le linee” (Stay behind) una eventuale invasione dell’Italia da parte di truppe dei Paesi comunisti. Ma i documenti ufficiali di Gladio dimostrano che con il passare degli anni la resistenza al “nemico esterno” diventa un compito sempre più residuale, mentre come missione principale si afferma la “guerra non ortodossa” al comunismo, al Pci, ai sindacati, ai movimenti di sinistra. Tanto che la relazione finale su Gladio del presidente della Commissione stragi, Libero Gualtieri, si conclude affermando che la struttura ha una “illegittimità costituzionale progressiva”, che aumenta via via che gli anni passano, dalla sua fondazione fino allo scioglimento. La “guerra non ortodossa” nel nostro Paese viene combattuta con attentati, bombe, tentati golpe e vere stragi, da piazza Fontana alla stazione Bologna.

Gladio è direttamente coinvolta in azioni eversive? Non ci sono prove. La “strategia della tensione” ha anche altri protagonisti, organizzazioni e gruppi ancor più segreti e con compiti più cruenti e illegittimi, da utilizzare per le “azioni sporche” (i Nuclei Difesa dello Stato, il movimento Pace e Libertà, movimenti neofascisti come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, certamente coinvolti nelle stragi degli anni Settanta e certamente in contatto con i servizi segreti italiani). Eppure, anche a rimanere all’elenco dei soli 622 membri di Gladio rivelati da Giulio Andreotti nel 1991 (solo una piccola parte degli effettivi), si incontrano nomi da brivido. Ci sono quattro iscritti al Partito nazionale fascista, otto aderenti alla Repubblica sociale di Salò, un combattente della Decima Mas, nove iscritti al Msi. E poi neofascisti che hanno fatto la storia dell’eversione armata italiana: Gianni Nardi, Manlio Portolan, Enzo Maria Dantini, Marco Morin. E perfino Gianfranco Bertoli, il finto anarchico che nel 1973 ha eseguito la strage alla Questura di Milano.

La sentenza definitiva sulla strage di Peteano ha accertato infine che una parte dell’ordigno che nel 1972 uccide tre carabinieri e ne ferisce gravemente un quarto (l’“accendimiccia a strappo” M1 che fa esplodere la bomba) proviene dal “Nasco” 203 di Aurisina, uno dei depositi segreti delle armi di Gladio. Ci saranno stati anche sinceri patrioti, dentro l’organizzazione, ma siamo sicuri che sia una buona idea parificare tutti i suoi membri “ai partigiani che hanno combattuto per la liberazione dell’Italia durante la Resistenza”?

B., Renzi, Salvini e Di Maio: simili, ma non in tutto

“Come non rendersi conto che alcune prerogative usate per definire populisti Salvini e Di Maio hanno albergato, più o meno clandestinamente, in Berlusconi prima e in Renzi poi?”. Alcune anticipazioni di Ho imparato, il nuovo libro di Enrico Letta, offrono lo spunto per fare una panoramica dall’alto dello scenario politico attuale, sottraendo per un momento i leader dal loro corpo a corpo con la cronaca e tentando di vedere dove e come si trovino seduti nel salotto della Storia. L’ex presidente del Consiglio individua tre punti comuni che fanno da intersezione tra i quattro leader politici: 1) il “comune appello diretto al popolo”; 2) “l’idea che la propria ascesa segni l’anno zero”; 3) “la totale sovrapposizione tra la figura di leader e quella del proprio partito”.

Sul punto 1 non c’è obiezione che tenga: a partire dalle scelte linguistiche di Silvio Berlusconi che ruppe col politichese per dirottare su un linguaggio semplice che parlasse alla “gente”, farcito di aneddoti e barzellette, passando per i tweet compulsivi di Renzi, giovane rottamatore chino dinanzi all’altare della “disintermediazione”, nuova divinità celebrata da tutti i politici contemporanei, fino ad arrivare a Salvini e Di Maio, che dello stesso culto si sono fatti addirittura vestali, individuando nel cosiddetto popolo l’unico interlocutore a cui riferirsi, a costo di scavalcare ruoli istituzionali, convenzioni procedurali e qualsivoglia genere di corpo intermedio, l’obiettivo di stabilire una corsia preferenziale nella comunicazione con i cittadini-elettori è indubbiamente comune a tutti.

È sul punto 2 segnalato da Letta che iniziano i distinguo: se Berlusconi e Di Maio, accoppiata difficilmente proponibile in altre occasioni, condividono effettivamente un’ambizione palingenetica, incarnando entrambi il volto di una nuova Repubblica che nasce dal loro avvento, ed essendo entrambi partiti da posizioni estranee all’agone politico, i due Matteo sono degli abusivi dell’anno zero. Renzi era già stato presidente della provincia di Firenze e poi sindaco della sua città, da cui ha preso lo slancio per scalare un partito non solo già esistente ma già annaspante, l’ha sottoposto a un fuoco di fila di attacchi per rinnovarne la sostanza e guadagnarsi la fama d’innovatore, e ha finito col seppellirlo del tutto sotto il peso di dinamiche politiche che più vecchie non si poteva. E, dall’altra, Salvini si è inventato una verginità che nulla ha a che spartire con la sua storia ultraventennale tra le file della Lega (a sua volta il partito più anziano dell’attuale panorama politico, tre volte al governo nazionale e infinite volte in quelli locali di Regioni, province e comuni del Nord), andando a succhiare la linfa vitale di un Movimento effettivamente illibato dal punto di vista governativo.

Il contratto di governo, più di tutto il resto, ha la funzione di ricostruire l’imene della Lega, restituendole per osmosi quella purezza ormai consumata durante il ventennio trascorso al governo e all’opposizione accanto a Berlusconi: una nota di giallo è necessaria per ridare al verde la luminosità del colore appena passato; una ritinteggiata per cancellare le crepe e le chiazze di muffa accumulate dal ’94 in poi.

Il punto 3 invece, “la totale sovrapposizione tra la figura di leader e quella del proprio partito”, è l’unico a non corrispondere all’identikit è Di Maio: se Forza Italia esiste, superfluo dirlo, in funzione di Berlusconi, se il PdR era talmente renziano che è sparito il Pd ed è rimasta solo la R, se la Lega senza Salvini torna a essere una fusione tra metalli, i 5Stelle presentano una pluralità di leader eventuali, che corrisponde alla composizione eterogenea che è la sostanza stessa del Movimento e ne costituisce spesso la debolezza ma potenzialmente anche la vera forza: se non è Di Maio, è Di Battista; se non è Di Battista, è Fico; se non è Fico, è Conte; e se non è Conte, è Grillo, sempre a metà strada tra il dietro-le-quinte e il palcoscenico.

Attacca il reddito chi ignora la Carta

Che i nostri politici si siano sempre attivati poco per attuare la Costituzione è noto e tuttavia stupisce l’aggressività stizzosa contro un modesto tentativo di realizzarne una parte essenziale; e tanto più stupisce il silenzio, se non l’ostilità, di quella che dovrebbe essere la sinistra. Critiche e dileggio al reddito di cittadinanza, come da alcuni leghisti: “Fannulloni, seduti sul divano, sud d’Italia”; quasi che i poveri, tanto più se meridionali, lo siano per colpa loro; forse per questo la Confindustria teme che il reddito di cittadinanza sia un disincentivo al lavoro? E c’è chi, come Maria Elena Boschi del Pd e altri esponenti della sinistra che fu, parla allegramente di “vita in vacanza”.

Le reazioni sdegnate però confortano: l’umanità non è del tutto scomparsa. Ci saremmo aspettati, insieme a critiche costruttive, un sostegno efficace per rendere migliore la legge contro i tanti nemici di ogni misura sociale: restano invece isolate le voci di chi ammette almeno che “la finalità è giusta” e “chi è in difficoltà va aiutato” (Orlando): meno male, sono passati settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione col suo diritto a vivere dignitosamente!

La dignità della persona è al centro: i Costituenti volevano costruire una società umana in cui tutti potessero vivere dignitosamente, concorrere alle decisioni comuni, essere parte consapevole. Un grande Costituente, Costantino Mortati, ricordava che eliminare le pesanti fratture esistenti nel corpo sociale è essenziale per la democrazia. La stessa “governabilità”, più che da leggi elettorali distorsive della rappresentanza, è favorita dall’omogeneità sociale: e in vista di questa fu scritto l’articolo 3 che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione “di tutti” alla vita politica, economica e sociale.

Miseria, ignoranza, malattia sono gli ostacoli più gravi. Eppure, dopo settant’anni, i poveri assoluti sono oltre 5 milioni, l’ignoranza aumenta, l’istruzione è trascurata, la sanità a rischio. Apprendiamo ora dal Rapporto Oxfam che in Italia il 5% più ricco detiene la stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero della popolazione.

I tre primi articoli della Costituzione dettano un programma coerente: la sovranità “appartiene” al popolo, e non ad altri (articolo 1); i diritti inviolabili stanno insieme ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (articolo 2); oltre all’eguaglianza di fronte alla legge va realizzata l’eguaglianza sostanziale rimuovendo gli ostacoli di fatto (articolo 3). È un programma in gran parte ignorato. Ignorata è la solidarietà che (articolo 38) garantisce al cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi per vivere il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” e ai lavoratori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Il disoccupato dunque – se non lo è per sua volontà – avrebbe diritto non a elemosine, ma a mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, famiglia compresa. I resoconti delle sedute della terza Sottocommissione (10 e 11 settembre 1946) sono illuminanti: “Ogni essere che (…) si trovi nell’impossibilità di lavorare ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza”, Giuseppe Togni, Dc; “Lo Stato ha il compito di assicurare a tutti i cittadini il minimo necessario all’esistenza, in particolare dovrà provvedere all’esistenza di chi è disoccupato senza sua colpa e incapace di lavorare per età o invalidità”, Lina Merlin, socialista; l’assistenza “va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza”, Teresa Noce, comunista.

Ne uscì, alla fine, l’articolo 38, che fornisce una copertura completa: nel primo comma a chi sia inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, nel secondo al lavoratore involontariamente disoccupato, malato o infortunato o invalido.

A tutti, insomma, purché abbiano voglia di lavorare e non possano farlo.

Il principio di solidarietà, posto tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico insieme ai diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, è “riconosciuto e garantito dall’articolo 2 come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal costituente”, dice la Corte costituzionale (sentenze n. 409 del 1989 e n. 75 del 1992). Il sistema intero deve dunque conformarsi a quel principio, indissolubilmente legato alla dignità della persona, un valore costituzionale che appartiene a tutti senza distinzione alcuna: “A ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua dignità sia preservata” (sentenza n. 13/1994). Ma, senza il necessario per vivere (che i Costituenti volevano assicurare a tutti) possiamo dire che la dignità è preservata?