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I Cinquestelle, i Gilet gialli e la perdita dell’innocenza

Non condivido quello che scrive Silvia Truzzi quando sostiene che l’alleanza con i Gilet gialli è “utopica” per il Movimento 5 Stelle. La bussola dei valori che la giornalista evoca è la stessa dei Cinquestelle, non certo quella del contratto di governo (che peraltro non ha tolto ai pentastellati nessuna innocenza come invece sostiene Marco Revelli).

Quest’ultimo, usando l’espressione “perdita dell’innocenza”, dà per scontata quella dei Gilet gialli anche se durante le manifestazioni ci sono stati degli episodi di violenza mentre boccia in anticipo i Cinquestelle. Io li giudicherò dai fatti a fine legislatura.
Adriana Rossi

Adriana, ma certo che li giudicheremo a lavoro fatto: in corso d’opera però diciamo anche quello che non ci piace (per esempio il decreto Sicurezza). Quanto alla perdita dell’innocenza temo sia fatale per chiunque arrivi al governo.
S. T.

 

Riforma Gelmini, paghiamo ancora le conseguenze

L’onorevole Gelmini ha dichiarato di aver migliorato la qualità del sistema scolastico introducendo il voto di condotta e il maestro unico (e aggiungo il grembiule). Le sue parole esprimono quello che la destra berlusconiana ritiene importante per la scuola.

Peccato che ha dimenticato di citare l’articolo della Costituzione sul rimuovere qualunque ostacolo alla formazione dell’uomo e del cittadino. Ma la strategia della dimenticanza ha il fine di nascondere le “brutture” compiute dall’allora ministro dell’Istruzione che hanno indebolito il sistema scolastico.

Nel periodo 2008-09 c’è stata una riduzione di risorse per la scuola in otto miliardi, sono sorte le classi “pollaio” che hanno permesso il taglio di oltre 80mila docenti, sono stati cancellati i moduli didattici e le compresenze utili per il recupero degli alunni più in difficoltà. Ne paghiamo ancora le conseguenze. La scuola italiana non è riuscita (e non riesce) a rispondere a tanti bisogni educativi grazie alle idee dell’onorevole Gelmini.

Gianfranco Scialpi

 

Sgombero del Cara, il ministro diffonde sempre la paura

Funzionava bene il Cara di Castelnuovo di Porto e addirittura integrava. Troppo per Salvini, nessuno può mettere in discussione il ritornello leghista “immigrato uguale pericolo”, altrimenti salta tutta la prossima campagna elettorale.

Così si chiude. Si mandano in fumo le amicizie, la scuola, l’apprendimento della lingua, le relazioni di fiducia, il calcio. Dalla ruspa non si salva niente.

“Chi ha diritto all’asilo – dice il ministro dell’Interno – sarà ospitato altrove mentre chi non ce l’ha, torni da dove è venuto”. Cioè non nel paese di origine, come vuol far credere, ma in mezzo a una strada o nelle stazioni. Il messaggio è sempre il solito: abbiate paura di tutti, odiate gli stranieri e votate me che vi proteggo. Parole al miele per le pance dei suoi elettori.

Massimo Marnetto

 

Da Dario Fo a Lino Banfi: tornate a essere quelli di prima

Mi rivolgo agli esponenti Cinquestelle da vostro convinto sostenitori (sino a oggi). Ammetto di non capire come sia stato possibile scegliere come rappresentante del nostro Paese all’Unesco Lino Banfi, un berlusconiano della prima ora. Già abbiamo dovuto ingoiare, grazie alla cecità del Partito democratico, lo sciroppo amaro dell’alleanza con un partito che raccoglie tutte le istanze più fasciste, razziste e omofobe dell’Italia.

Quando sentivo che la vicinanza era verso persone come Dario Fo, Stefano Rodotà, Milena Gabanelli, Gustavo Zagrebelsky o Gino Strada pensavo davvero che forse qualcosa stesse davvero cambiando.

Vi prego, tornate a essere quelli di prima. Non credo proprio che Fo avrebbe accettato in silenzio quello che Salvini sta facendo alle povere persone che scappano dalla morte e dalla fame. Per non dire di quello che sta facendo per peggiorare la qualità della vita di chi è già in Italia e dei richiedenti asilo. Restiamo umani.

Paolo Sanna

 

DIRITTO DI REPLICA

Vorrei portare all’attenzione della redazione del Fatto Quotidiano il mio disappunto rispetto al titolo dell’intervista da me rilasciata e pubblicata nell’edizione di ieri. Mentre il contenuto dell’intervista è stato correttamente riportato, ritengo invece che il titolo dell’articolo “La battaglia sul franco Cfa è una cosa di sinistra” non centri il punto delle questioni rilevanti da me affrontate e risulti semplicistico e fuorviante, prestandosi a facili strumentalizzazioni, così come il riferimento al termine “propaganda”, da me non utilizzato.
Yves Segnet

Nell’articolo “Maturità 2019, l’esame si sdoppia: seconda prova ‘mista’ e orale-quiz” del 19 gennaio scorso è stata erroneamente scritta la data sbagliata della simulazione nazionale della prima prova scritta dell’esame di Stato. La simulazione si terrà il 19 febbraio e non il 19 marzo come riportato. Ce ne scusiamo con i lettori.
FQ

Guido Rossa. Cosa manca alla memoria collettiva per fare pace con il passato

Gentile redazione, nel suo intervento di ieri a Genova per i 40 anni dall’assassinio di Guido Rossa, il presidente Mattarella ha detto che “i fantasmi del passato sono sempre in agguato”. Sarà che ho meno di 40 anni, e di quel tragico omicidio ho solo una pallida conoscenza, ma è possibile che l’Italia sia ancora così zavorrata e condizionata dal suo passato? Si volterà mai pagina in questo Paese? Si guarderà mai avanti anziché indietro?
Viola Preziosi

 

Gentile Viola, il riferimento ai “fantasmi del passato” è oggi più che mai giustificato. Mattarella, nel commemorare il quarantennale dell’assassinio di Guido Rossa per mano delle Brigate rosse, si riferiva evidentemente (anche) alla scritta “Guido Rossa infame” comparsa sui muri di Salita Santa Brigida a Genova (a pochi passi dal luogo dove nel 1976 furono assassinati il procuratore generale Francesco Coco e gli agenti di scorta Giovanni Santoro e Antioco Deiana). La tentazione di catalogare il fatto al ‘grottesco’ è forte, tuttavia la faccenda è troppo seria per essere svilita. Quindi – tralasciando la rabbia che è sempre una cattiva consigliera – il solo sentimento rimasto è quello della tristezza. Profonda tristezza, innanzitutto, per la mancanza di umanità di una mente capace – perfino dopo 40 anni – di sputare sulla memoria di un uomo, un padre, un marito, un sindacalista, un operaio comunista ucciso (ripetiamolo all’infinito: ucciso) per un atto di coscienza civile e di lungimiranza politica (la denuncia di un fiancheggiatore Br all’Italsider).

E poi profonda tristezza per la domanda che lei giustamente pone: “Si volterà mai pagina in questo Paese?”. La nota, purtroppo, è ancora dolente. Il vizio di adattare la storia alle nostre convinzioni è un vizio atavico. Come atavica è la mancanza di pietas (e di decenza) di chi ancora oggi pretende di “contestualizzare” la morte arbitrariamente inflitta. Personalmente ritengo che fino a quando non saremo d’accordo sul fatto che nulla – nella storia della nostra pur zoppicante democrazia – ha mai giustificato un tale picco di violenza (rossa o nera che fosse) non andremo lontano. Solo sulla base di questa premessa non negoziabile si potranno riconoscere e condividere tutte le sfumature di una stagione che è stata anche un dramma collettivo. Altrimenti continueremo a leggere “Guido Rossa infame” e dovremo ancora sopportare il Salvini di turno esibire l’“assassino comunista” come un trofeo di caccia. Ed entrambe le cose sono molto tristi.
Stefano Caselli

Sedici anni ai minori che pestarono a morte una guardia giurata

Una lapidenella piazza della stazione Piscinola, periferia nord di Napoli, ricorda Francesco Della Corte. Era una guardia giurata, un padre di due figli, un lavoratore onesto. Era in servizio davanti alla stazione della metro e fu massacrato senza un motivo, a bastonate, con un pezzo di legno, da tre minorenni, la sera del 3 marzo 2018. Morì dopo 12 giorni di agonia. Aveva solo 51 anni. Uno dei tre assassini, 16 anni, confessò che “aveva fumato diversi spinelli” e in preda all’euforia aveva proposto agli amici di andare a picchiare l’uomo. Così, per gioco. Poi provarono a strappargli la pistola, che la guardia giurata difese strenuamente. Infine buttarono il pezzo di legno, la gamba di un tavolo, in un cassonetto, e andarono al bar. Ieri si è concluso il processo e i responsabili dell’omicidio, tre ragazzi di 15, 16 e 17 anni, sono stati condannati a 16 anni e sei mesi ciascuno. Gli imputati, provenienti da famiglie umili del quartiere, hanno ottenuto uno sconto di pena grazie al rito abbreviato e alla concessione delle attenuanti generiche perché incensurati. Il pm aveva chiesto 18 anni di reclusione.

Omicidio al villaggio olimpico e aggressione a colpi di accetta. Si sospetta di un solo uomo

Aveva tentato di investirlo con la macchina vicino all’ex villaggio olimpico di Torino. Non riuscendoci, lo ha ammazzato sabato scorso colpendolo con un bilanciere da 50 kg nel suo letto al primo piano della palazzina arancione occupata da migranti africani. Lunedì è stato fermato a Rieti il 32enne nigeriano ritenuto responsabile dell’omicidio di un connazionale di 33 anni. Il suo nome è Michael Onoshorere Umoh, anche lui è un abitante di quegli edifici occupati da migranti dal 2013 e da allora al centro delle proteste degli abitanti del quartiere.

Il 32enne è stato preso dagli agenti della Squadra mobile di Torino insieme ai colleghi di Rieti. Era arrivato lì a bordo della Lancia Y bianca utilizzata per investire la sua vittima il 7 gennaio scorso, un’auto col parabrezza sfondato dopo l’investimento. I poliziotti hanno seguito le tracce lasciate dal suo telefonino. Dalle intercettazioni emerge anche la sua vicinanza alla mafia nigeriana: è in contatto gli “Eiye”, uno dei cult più importanti. Non è tutto. Lo stesso Umoh potrebbe essere l’autore del tentato omicidio commesso la mattina del 17 gennaio nel centro di Torino: un altro nigeriano di 33 anni, anche lui abitante delle palazzine occupate, era stato colpito alla testa con un accetta. La polizia sta ancora eseguendo delle verifiche.

Nel frattempo ieri la sindaca di Torino Chiara Appendino ha incontrato il ministro dell’Interno Matteo Salvini insieme al prefetto Claudio Palomba per discutere dell’ex villaggio olimpico. Il governo metterà a disposizione risorse speciali per i rimpatri volontari e per il rinnovo del protocollo per terminare entro un anno la liberazione di tutte le palazzine. “Vogliamo dare rapida soluzione a un problema che si trascina dal 2013”, hanno dichiarato Salvini e Appendino.

Città in rivolta contro insegnante violenta: rimossa la preside. Attesa la decisione sulla docente

Sospesa la preside. E presto (forse già in questi giorni) arriverà anche la decisione sulla docente “violenta” contro cui si erano sollevate la scuola e poi l’intero paesino di Trebisacce, in provincia di Cosenza. Alla fine hanno vinto i ragazzi: la protesta è stata ascoltata.

Il caso risale a metà novembre: il comportamento della professoressa Rosanna De Gaudio aveva mandato in subbuglio il liceo scientifico Galileo Galilei. Dai classici votacci e qualche parola decisamente di troppo (“Capre, ignoranti, vi prendo a calci in culo”, secondo la denuncia dei ragazzi) era nato un pandemonio che aveva paralizzato l’istituto e portato in piazza quasi duemila persone. La vicenda (raccontata dal Fatto quotidiano) era diventata un caso nazionale e anche grazie all’attenzione dei media si era attivata l’indagine degli ispettori ministeriali, che ha fatto il suo corso: come annunciato dal sindaco di Trebisacce, Franco Mundo, è stata sospesa la dirigente scolastica Maria Rosaria D’Alfonso, colpevole secondo gli studenti di aver protetto e riportato in classe la docente che era stata trasferita dalla vecchia preside.

“Avevamo mandato ripetute segnalazioni, finalmente siamo stati ascoltati”, commenta Antonello Ciminelli, sindaco del limitrofo Comune di Amendolara che aveva contribuito a sollevare il caso. “Questa non è la vittoria nostra ma delle istituzioni”. La preside D’Alfonso, sospesa fino a maggio, sarà sostituita dalla reggente Marilena Viggiano. Continua regolarmente a insegnare, invece, la docente contestata. Da allora gli episodi clamorosi di insulti e offese non si sono più ripetuti: “Solo perché non se lo può permettere, ma il clima in classe resta molto teso”, raccontano gli studenti. Pure su questo fronte, però, sono attesi sviluppi: a quanto filtra, anche il procedimento sul suo comportamento è stato ultimato. La sanzione alla preside è arrivata prima perché in capo a un diverso ufficio ma nei prossimi giorni si conoscerà la decisione sulla professoressa De Gaudio: possibile arrivi anche per lei la sospensione.

Abusi sessuali sulle attrici, archiviate le accuse a Brizzi: “Denunce vaghe e generiche”

“Temendo una sua reazione, decisi di assecondare la sua richiesta… mi spogliai, rimanendo in biancheria intima. Lui mi disse che avrei dovuto denudarmi completamente”. Era l’autunno del 2017 quando le parole di tre attrici erano rimbalzate da un servizio de Le Iene fino alla Procura di Roma, costando al regista Fausto Brizzi l’iscrizione nel registro degli indagati e la momentanea cancellazione della sua firma dal film che aveva girato: Poveri ma ricchissimi. Adesso però sono proprio quelle parole ad aver convinto il gip Alessandro Arturi ad archiviare il caso. Secondo il giudice infatti, “l’impianto narrativo articolato nell’atto di querela non consente di individuare, neppure in astratto, elementi fattuali qualificanti l’assunta violenza sessuale”.

Secondo la ricostruzione delle vittime, dopo averle invitate nel suo loft per un provino, Brizzi le avrebbe costrette a spogliarsi e a subire una violenza. E quando dall’altra parte dell’Oceano era esploso il caso di Harvey Weinstein, l’ex iena Dino Giarrusso (ora nello staff del sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti) le aveva intervistate. Quasi tutte erano a volto coperto. Tutte accusavano il regista di violenze. La faccenda non ha però trovato riscontro nelle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Maria Monteleone. Nel decreto il gip sottolineata la “vaghezza e genericità dell’apparato accusatorio”, mettendo in dubbio la “reale potenzialità costrittiva” di Brizzi: il “cambiamento del tono di voce e la maggiore risolutezza dimostrata dall’uomo” non bastano a “integrare un comportamento minaccioso in grado di intimidire, non già un’adolescente sprovveduta, ma una donna di trent’anni, con una solida esperienza di vita alle spalle”, che rischiava di perdere “un paio di centinaia di euro per due comparsate”.

Il San Giacomo in vendita a 61 milioni: meno della metà del valore commerciale

Questa volta lo vendono per davvero. Dopo aver cartolarizzato l’affitto, sborsato 2 milioni annui per il canone, fatto ristrutturazioni a sei zeri, sbarrato il portone per dieci anni e, finalmente, riacquisito i titoli, per l’ospedale San Giacomo di Roma, 32 mila metri quadri affacciati su via del Corso e sui quali gravano vincoli d’uso e storico-artistici, è l’ora dell’alienazione. La notizia è su Investinitaly, sito web dell’Ice, l’agenzia governativa che offre immobili pubblici e investimenti al mercato estero, mentre su quello della Regione Lazio, che lo vende, ancora non c’è. Prezzo: 61 milioni di euro, contro i 66 previsti dal Demanio (poi tornato indietro). La stima è di una società di consulenza privata che ipotizza la realizzazione di una casa di riposo, un centro fitness, spazi commerciali, servizi sanitari, ristorante e parcheggi. Il nulla osta di Soprintendenza e ministero dei Beni culturali è arrivato.

L’Agenzia delle Entrate, per la zona del San Giacomo (piazza del Popolo, piazza di Spagna) valuta un prezzo tra i sei e gli ottomila euro al metro quadro per le abitazioni e cinquemila per immobili commerciali di qualità scadente (la chiusura decennale non ha giovato alla struttura). Qui sarebbero 1.900 euro. Però per Alessandra Sartore, assessore a Bilancio e Demanio della Regione, non è così, perché alla stima vanno aggiunti altri quaranta milioni per il progetto di ristrutturazione, che pure è “meramente ricognitivo” e quindi ancora in forse. Peraltro gli atti non ne parlano e non sono compresi nelle quote fondiarie. I 61 milioni infatti sono divisi in due parti: un 30% (17 milioni circa) è già stato versato alla Regione dalla Invimit Spa, società del ministero dello Sviluppo economico a cui il bene è stato ceduto, mentre il restante 70% è stato ripartito in quote da immettere sul mercato. Per saperne di più, la Regione ha suggerito al Fatto di rivolgersi all’Invimit, a cui abbiamo chiesto dei 40 milioni fantasma e la sorte del 30% rimasto fuori dalle quote. Nessuna risposta, come per l’obbligo della destinazione d’uso per gli acquirenti privati. L’assessore assicura che il nosocomio verrà “riconsegnato ai cittadini con una finalità socio-sanitaria in senso ampio”, ma per i dettagli rimanda alla società. Che non risponde neanche alla domanda più importante, ovvero se i servizi “in senso ampio” saranno a pagamento o in convenzione.

L’ospedale fu donato alla città nel Rinascimento dal cardinale Antonio Salviati col vincolo ospedaliero (e pubblico) di cura della persona, pena il ritorno alla famiglia. Oliva Salviati, ultima discendente, ha fatto ricorso al Tar contro la chiusura dell’ospedale e due giorni fa ha impugnato la sentenza negativa di primo grado. Un problema per la Regione, che nell’atto di vendita sperava nel passaggio in giudicato della sentenza. La Salviati non lo rivuole indietro, desidera solo il rispetto del vincolo anche perché negli atti della Regione si legge: “Alienazione di fabbricati ad uso abitativo”. In caso di vendita annuncia una causa civile. “All’epoca del suo premierato – ricorda Salviati – Berlusconi disse che voleva farci un residence per i deputati, oggi si parla di centri fitness, ristoranti. Dei malati si sono scordati tutti”.

La maledizione di Fyre: mai fidarsi degli influencer

Quando frequentavo le scuole medie, un insegnante particolarmente creativo decise di inculcarci il concetto di “fatica uguale risultati”, invitandoci a occuparci di qualcosa da settembre a maggio, con continuità, per poi osservare tutti insieme i risultati. C’è chi disse “scrivo un libro in questi mesi”, chi “io prendo un gattino e lo cresco”, chi giurò “imparerò a pattinare” e così via. Io che avevo un piccolo giardino, promisi “a giugno vi mostrerò il mio orto”. Feci comprare dei semi a mia madre, poi pensai ad altro. Tutti i mesi, per pigrizia, rimandavo la semina. Poi seminai e mi scordai di annaffiare. Poi il freddo uccise le prime piantine. Poi mi dimenticai di nuovo. Ad aprile, il mio orto, non esisteva, ma io ero convinta che in un mese avrei avuto piante alte come lampioni. Nel frattempo a scuola garantivo che avrebbero visto un capolavoro di botanica da far impallidire l’Amazzonia.

A due giorni dalla visita della classe nel mio orto, c’erano sei piantine sbilenche e un paio di fusti secchi dall’aria post atomica. Realizzai che avevo mentito per mesi convincendo pure me stessa delle scemenze che raccontavo e che la figura di merda era catastrofica e ineluttabile. E così fu.

Non ho più pensato a quella menzogna irrecuperabile e alla vergogna annunciata per 30 anni circa, finché non ho visto Fyre, il nuovo documentario di Netflix diretto da Chris Smith e co-prodotto da Vice Studios. Fyre è, sulla carta, la storia del più grande festival della storia che non c’è mai stato, ma è soprattutto, per chi lo guarda, un costante richiamo a quella sensazione di impreparazione e inadeguatezza che abbiamo provato una volta nella vita di fronte a impegni non mantenuti con totale incoscienza. Guardi Fyre e ti senti in ritardo su tutto. Su un lavoro da consegnare, su una telefonata da fare, su una bolletta da pagare. Sulla vita.

È la storia surreale di Billy McFarland, un giovane imprenditore con tratti di genialità e mitomania che decide di organizzare un gigantesco Festival musicale in stile Coachella ma versione lusso, su un’isola delle Bahamas appartenuta a Pablo Escobar, isola che dice di aver acquistato per 8 milioni di dollari. Per alcuni mesi promuove l’evento su Instagram invitando top model e influencer quali Emily Ratajkowski (25 milioni di follower) e Kendall Jenner (120 milioni di follower) sull’isola, per realizzare video promozionali e creare il brand “Fyre Festival”. Le modelle rilanciano l’evento sui loro account (pare che la Jenner abbia ricevuto 250.000 euro per un singolo post).

I video, tra tuffi in acque cristalline e chiappe sode di ragazze bellissime, diventano virali, l’attesa si fa spasmodica. La campagna coordinata di social influencer è così efficace che in sole 48 ore viene venduto il 95% dei biglietti a un prezzo base di 5.000 euro per arrivare a quello da 250.000 per il noleggio di uno yacht.

Billy (aiutato dai soci) continua a invitare modelle e a postare foto di spiagge e tramonti alimentando attesa e aspettative, mostra gli schizzi delle tende lussuose e delle ville sul mare in cui i partecipanti alloggeranno, va in tv a fare promozione, promette esibizioni musicali di artisti quali i Blink 182 e sorride sempre con quel suo sorriso stampato e innaturale da manifesto elettorale.

Nel frattempo rimanda le decisioni importanti, non avvia la macchina dell’organizzazione, sottovaluta le difficoltà nel mettere in piedi un festival su un’isola con 8.000 partecipanti previsti e, soprattutto, si rivela essere un immenso cazzone avariato. (cit.). E questo – il momento in cui capisci in quali casini si sta ficcando il Fabrizio Corona della storia – è il momento del documentario in cui ho cominciato a pensare al mio orto. Al pomodoro piantato troppo tardi, alle piante di fave che si erano seccate. Ho provato la stessa ansia, la stessa angoscia,
la stessa vergogna.

La situazione precipita velocemente. Il nuovo proprietario dell’isola di Escobar si tira indietro, niente festival. Billy trova una nuova isola, Great Exuma, ma lì l’unica area disponibile per il Festival è una specie di cantiere tra due canali poco invitanti. Più che le Bahamas sembrano l’ex acciaieria Falk. I soldi finiscono presto. La data si avvicina. Le tende acquistate non sono da Mille e una notte, ma quelle degli sfollati post uragano a New Orleans. Non ce ne sono abbastanza, 350 persone non avranno un posto in cui dormire. E in cui fare pipì e lavarsi, visto che mancano bagni, docce, energia elettrica. Billy rinuncia al catering con il sushi, ma ormai non ha più denaro neppure per i tramezzini. Non viene pagato neppure il fornitore dell’acqua, per cui a questo punto, uno degli organizzatori (gay), racconta con sincerità un aneddoto esilarante: Billy lo chiama disperato e gli spiega che il fornitore d’acqua, in cambio di un suo servizietto orale, sarebbe disposto a cedere senza pagamenti anticipati. Lo implora di fare questo sacrificio. “Sono un professionista in questo settore da decenni e mi sento chiedere un pompino per salvare un Festival dal disastro. Mi sono lavato, ho sciacquato la bocca col collutorio e sono andato”, racconta divertito.

La sera prima dell’evento, quando gli organizzatori piangono (davvero) per lo sconforto e pensano che il peggio che possa ancora capitare è che cominci a piovere, piove. Le tende da terremotati si allagano, i materassi si bagnano, l’area diventa una distesa di fango. Alla fine, il disastro si consumerà.

L’arrivo degli influencer e dei partecipanti è una scena tra l’apocalittico e l’esilarante. Assalti alle tende, il catering che consiste in due fette di pane con una sottiletta, le valigie smarrite in un tendone, persone che vagano come spettri, furti di materassi asciutti da tende più fortunate e infine l’inevitabile: concerti annullati, festival annullato, il ministero del Turismo delle Bahamas che si scusa, Kendall Jenner che fa sparire il post su instagram e inevitabilmente, il rovescio della medaglia: la foto di un bikini su Instagram aveva sancito l’inizio di tutto, la foto delle due fette di pane con la sottiletta postate su Instagram da un influencer che era lì (e che diventa virale), ne sancisce la fine.

La reputazione social del- l’evento è a pezzi. Le manovalanze, i fornitori, le tasse doganali, i proprietari di case e tutto il resto non verranno pagati. Billy scappa, verrà arrestato dopo poco, sarà processato per frode, verrà seppellito da richieste di risarcimenti (26 milioni di dollari).

Vi garantisco che arrivati alla fine di questa storia assurda, chiunque guardi questo documentario, avrà un unico istinto: onorare le sue scadenze. Perché è un documentario sul fallimento di un Festival per colpa di un truffatore mitomane, ma finisci per sentirti tu quello che non ha montato le tende. E io, in memoria del mio orto, ho innaffiato perfino le mie piante finte.

“Giustizia, verità e bugie” con Davigo, Di Matteo e Lodato

“Verità, mezze verità e bugie nella giustizia, nella politica e nell’informazione”. Di questo, nel dibattito organizzato dal Centro Culturale Protestante di Torino, discuteranno Nino Di Matteo, sostituto procuratore della Dna e pm del processo sulla Trattativa Stato-mafia, Piercamillo Davigo, ex presidente della II Sezione Penale presso la Corte di Cassazione, ora Consigliere del Csm e Saverio Lodato, scrittore e giornalista.

”Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” recita il Vangelo di Giovanni, anche se il riferimento è alla verità rivelata in Cristo. Da questo, si legge nel comunicato, che si ”ritiene eticamente doveroso, anzi irrinunciabile, parlare con gli uomini e con le donne del nostro tempo, delle verità secolari che li riguardano e le riguardano.

La tavola rotonda introdotta dal Pastore valdese Paolo Ribet, vicepresidente del Centro culturale Protestante e moderata da Avernino Di Croce, presidente delle Chiese Battiste in Piemonte, si terrà giovedì 31 gennaio dalle 17.30 alle 20.30 presso il centro congressi dell’unione industriale di Torino, via Vela 17.

’Ndrine in Valle: Aosta provincia della Calabria

In Valle d’Aosta, la più piccola regione a Statuto speciale d’Italia, anche la ’ndrangheta non era esente da particolarità. Non solo esisteva una “locale”, struttura criminale classica della malavita calabrese, ma i suoi componenti – individuati in esponenti delle ’ndrine dei Di Donato, dei Nirta, dei Mammoliti e dei Raso, della provincia di Reggio Calabria – vantavano “un rapporto significativo con esponenti del mondo politico” della Vallée, che in parte dovevano “la loro elezione al contributo fornito” dall’organizzazione e, in cambio, offrivano informazioni riservate sull’attività amministrativa, contribuendo a rafforzarne il radicamento.

Così, secondo le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Torino iniziate nel dicembre 2014 e coordinate dai pm Anna Maria Loreto e Stefano Castellani, i boss avevano infiltrato l’estremità nord-ovest della Repubblica. Una terra di confine con 120 mila abitanti scossa ieri dall’ennesimo terremoto giudiziario di una serie che sembra non aver fine. Una valle “maledetta”, come nella Bibbia era maledetta la valle di Geenna (da cui prende origine il nome dell’operazione) in cui venivano fatti sacrifici umani in onore di Moloch. Nove gli arrestati, tra i quali spiccano il consigliere regionale Marco Sorbara, quello del comune di Aosta Nicola Prettico – entrambi dell’Union Valdôtaine – e Monica Carcea, assessore alle finanze a Saint- Pierre, non lontano dal capoluogo. Mentre Sorbara e Carcea sono indagati di concorso esterno in associazione a delinquere per i loro aiuti alla locale, gli inquirenti ritengono che Prettico sia un affiliato alla ’ndrangheta che con i voti raccolti dall’organizzazione è riuscito a entrare in comune alle amministrative del 2015. In quell’occasione sarebbe avvenuto un tentato voto di scambio: uno dei presunti boss, Antonio Raso, aveva offerto il suo appoggio all’attuale sindaco di Aosta Fulvio Centoz, che però aveva rifiutato.

Tra i sette presunti promotori della “locale” valdostana al centro dell’“Operazione Geenna”, condotta dai carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale e del Gruppo Aosta, la figura di rilievo viene considerata Bruno Nirta, fratello di Giuseppe, pluripregiudicato assassinato in Spagna il 10 giugno 2017. Nomi noti da anni al centro di indagini sul traffico di droga e legati a quei Nirta di San Luca (dove Bruno è stato arrestato dai “Cacciatori di Calabria”) protagonisti della strage di Duisburg. I militari li tenevano d’occhio da tempo ed erano arrivati a documentare i rapporti con l’imprenditore alimentare Gerardo Cuomo, protagonista di un’altra inchiesta recente della Procura di Milano che ha fatto finire ai domiciliari l’ex procuratore capo di Aosta facente funzione Pasquale Longarini. I due Nirta volevano sfruttare il “Caseificio Valdostano” di Cuomo come copertura per i loro traffici di cocaina dalla Spagna.

Gli altri fermati sono il capo locale Marco Di Donato insieme al fratello Roberto, Alessandro Giachino, Francesco Mammoliti e infine Raso, ritenuto uno dei “promotori”. Due di loro gestivano un bar e un ristorante in cui avvenivano incontri tra i capi e loro sodali. Per gli inquirenti il “core business” del sodalizio includeva, oltre agli appalti e agli affidamenti ottenuti grazie alla vicinanza con gli amministratori, le estorsioni (nel campo dell’edilizia privata) e il traffico di cocaina. In questo filone, altri sette arresti sono stati eseguiti in Piemonte, tra i quali quello dell’avvocato Carlo Maria Romeo, indagato di concorso esterno in associazione mafiosa e altri reati. L’avvocato avrebbe fatto da tramite in uno scambio di mezzo chilo di “neve” tra Bruno Nirta e un suo cliente, Bruno Trunfio, ex assessore del Comune di Chivasso (Torino) condannato per associazione mafiosa nel processo “Minotauro”.

I tentacoli di questa locale di ’ndrangheta ad Aosta arrivavano anche alle logge massoniche aostane: Raso, massone, e Prettica, aspirante “grembiulino”, volevano così aumentare il loro potere, portare nuovi affiliati e così dare una parvenza di legittimità ai loro intrecci, spiega un investigatore.