Marcello Foa sarà presidente anche di Raicom, mentre Monica Maggioni sarà amministratore delegato. Queste le nomine che saranno proposte oggi in un Cda Rai che si annuncia molto intenso. Raicom è la consociata che si occupa di contratti e convenzioni. Per esempio, gestisce la vendita dei diritti televisivi all’estero. Un posto di potere che avrà nell’ex presidente Maggioni la sua nuova guida. A quanto si apprende, il canale in inglese fortemente voluto dalla giornalista potrebbe finire sotto questa struttura. Maggioni prenderà il posto di Gian Paolo Tagliavia, che potrebbe finire a Rai Pubblicità, al posto di Antonio Marano. Altre nomine in arrivo oggi sono quelle dei vicedirettori di Raisport. Saranno Enrico Varriale, Bruno Gentili, Marco Civoli, Gianni Cerqueti e Raimondo Maurizi. Tra gli ex senza occupazione, Andrea Fabiano potrebbe andare alla sezione digital (Raiplay), Andrea Montanari diventerebbe corrispondente da Parigi e Nicoletta Manzione da Bruxelles. Altra novità: la direzione di Radio1 viene separata da quella del Giornale radio. Finora erano una cosa sola. A Viale Mazzini nascerà una nuova poltrona, quella del direttore del Gr.
Indagine sulla Sinistra “scomparsa”
Esiste ancora la sinistra in Italia? E se sì, dove è andata a nascondersi? Parte da questa domanda, all’apparenza piuttosto retorica dopo le elezioni del 4 marzo, C’ero una volta… la Sinistra, il nuovo programma realizzato da Loft Produzioni, in onda da oggi su www.iloft.it e app Loft, la piattaforma tv della Società Editoriale Il Fatto (Seif).
Nessuna sfera di cristallo, nessun ennesimo esercizio di fantapolitica oggi più in voga del fantacalcio, nessun banco degli imputati, nessuna arena, nessun pubblico plaudente. Per capire se la sinistra ha un futuro forse è il caso di farla stendere sul lettino dello psicanalista, volgere lo sguardo al passato e riavvolgere il film degli ultimi 35 anni, quelli che hanno visto la lenta ma inesorabile disgregazione del più forte partito comunista dell’Occidente. Con questo spirito Silvia Truzzi e Antonio Padellaro incontrano a cadenza settimanale quattro leader storici della sinistra italiana (Achille Occhetto, Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani) in un salotto dall’atmosfera vintage, arredato con le memorabilia della lotta di classe che fu; i ritratti di Gramsci e Che Guevara, il busto di Lenin, il pugno chiuso, le note di Bandiera rossa e dell’Internazionale…
Partenza obbligata, l’incontro con Achille Occhetto, il segretario di Botteghe Oscure che con la svolta della Bolognina e il successivo congresso nazionale di Rimini (1991) decise di cambiare nome e simbolo del Pci. Per la sinistra italiana, un autentico big bang: lotta, governo, le sirene del neoliberismo, la nostalgia della rivoluzione… tante anime mai più ricomposte daranno vita a una serie di scissioni a catena, di cui a tutt’oggi non si vede la fine. Con Occhetto, che ha appena pubblicato un saggio dal titolo La lunga eclissi della sinistra (Marsilio), si affronta anche il tema della “gioiosa macchina da guerra” che nel ’94 perse i pezzi scontrandosi con il debuttante Berlusconi.
Non mancheranno i retroscena: con Occhetto e con i tre successivi ospiti, lo storico segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema, unico ex comunista a diventare presidente del Consiglio, e Pier Luigi Bersani, tuttora eletto alla Camera nelle liste di Liberi e Uguali, si parlerà anche di correnti, complotti, tradimenti, malattie croniche della sinistra connesse alla attuale carenza di leadership.
Nato da un’idea di Alessandro Garramone e Antonio Padellaro, scritto da Matteo Billi con la collaborazione di Simone Rota, Silvia Truzzi e dall’autore di questo articolo, C’ero una volta – la Sinistra ha il taglio di un “anti talk show”, un’analisi da camera in cui si cerca di separare gli idoli infranti dagli ideali ancora vivi.
Cos’è la destra, cos’è la sinistra? cantava Giorgio Gaber, quando era ancora possibile cantarci su. Oggi non è più così. Sempre più spesso ci si chiede se sinistra e destra, affermatesi nel Novecento come ferree linee guida, esistano ancora nella società liquida, e soprattutto quanti elettori continuino a credere nella loro vitalità. Una forte domanda di sinistra c’è ancora, è l’opinione di Padellaro, a mancare sono le risposte. Per quattro settimane su Loft ci si interrogherà su quelle domande, e su quali risposte.
Il saggio Cottarelli e il livido dello spread
Come i lettori sanno, noi abbiamo una cotta per Cottarelli, che assumiamo ogni domenica sera dopo i pasti chéz
Fazio e talvolta anche al martedì, quando vogliamo strafare.
L’altra sera Cottarelli era da Floris e mentre parlava non potevamo non notare un dettaglio nel volto solitamente ieratico, come intagliato nel legno, dell’economista del nostro cuore: sulla fronte, in alto a destra, aveva una specie di livido, una macchia che non ricordavamo avesse e che come in un racconto di Edgar Allan Poe costituiva un vortice magnetico in grado di attirare tutta la nostra attenzione.
Come si sa, Cottarelli non è lì per sé ma è in missione per conto di Dio, come John Belushi; perciò Mattarella lo scelse come capo del mai nato “governo neutrale” che avrebbe dovuto domare lo spread, generando con ciò un’impennata dello spread che sarebbe stata compatibile con un golpe militare.
Da allora, il Direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici va in giro a spiegare agli italiani che gran cazzata abbiano fatto a non votare i partiti graditi alla Bce e al Fmi. Domanda di Floris: “Secondo il Fmi siamo causa di una probabile crisi internazionale”. Cottarelli è perentorio: “Se lo spread dovesse salire a 400, 500, è chiaro che ci va di mezzo il mondo”. E sempre quel neo, quel chiodo fisso in fronte, simile all’uzzolo tirtaico degli antichi o al punctum emotivo di Roland Barthes. Altra domanda: “Quali sarebbero le conseguenze di una crisi?”. Cottarelli: “La mia preoccupazione è sempre quella: lo spread comincia a salire e il meccanismo si avvita”. In altri tempi quelli come Cottarelli si sarebbero chiamati gufi, prima ancora Cassandre; per noi quella lividura è l’inequivocabile bernoccolo del saggio che sbatte la testa sempre addosso allo spigolo dell’evidenza: gli elettori causano lo spread; lo spread è incompatibile con la democrazia; gli elettori sono incompatibili con la democrazia.
I nove terroristi italiani che Parigi non consegna
Quarant’anni dopo. L’Italia torna a parlare di terrorismo nei discorsi del presidente Sergio Mattarella che a Genova ha ricordato il sacrificio di Guido Rossa davanti agli operai della sua fabbrica. Torna, dopo il rientro di Cesare Battisti, il tema dell’estradizione degli ex terroristi latitanti: “Una definitiva chiusura di quella pagina – ha detto Mattarella – richiede che sia resa compiuta giustizia, con ogni atto utile affinché rendano testimonianza e scontino la pena quanti si sono macchiati di gravi reati e si sono sottratti con la fuga alla sua esecuzione”. Ma questo aumenta la tensione Italia-Francia.
Dice Matteo Salvini: “Se Macron vuole dare segnali di buona volontà, ci sono nomi e cognomi di terroristi italiani in Francia di cui chiederemo l’estradizione”. Il ministro dell’Interno sollecita la consegna dei latitanti per terrorismo. Ieri è arrivata una risposta della ministra della Giustizia francese, Nicole Belloubet: “Non ho ancora” ricevuto richieste di estradizione, ha detto, “è un dossier su cui non ho ancora lavorato. Ce ne occuperemo con la massima attenzione”. Immediata la replica del ministero della Giustizia italiano: “Alla Francia sono state trasmesse richieste di estradizione per tutti i latitanti localizzati nel Paese. Non risponde al vero quanto dichiarato dalla ministra. Già nella seconda metà degli anni 80 – si legge in una nota – l’Italia ha presentato domande di estradizione, su cui le autorità francesi non si sono ancora pronunciate. Richieste reiterate nell’ottobre del 2002 (dopo che Parigi consegnò l’ex brigatista Paolo Persichetti, ndr), tuttora pendenti. Non vanno in prescrizione”. I nomi sono “nelle banche dati di Schengen e la ‘Red Notice’ dell’Interpol equivale a una richiesta di arresto provvisorio”.
Nel fascicolo 2 dell’elenco “Ricercati in campo internazionale” del ministero, dedicato al “terrorismo nazionale” vi sono i nomi dei presunti latitanti in Francia: 14 tra cui Narciso Manenti, ex militante di Guerriglia proletaria e gli ex brigatisti rossi Enrico Villimburgo, Marina Petrella, Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti, Roberta Cappelli. La lista è stata riaggiornata nel 2002; due anni dopo è stato arrestato in Francia anche Battisti, che però poi è stato liberato ed è fuggito in Brasile. Per gli ex br Sergio Tornaghi e Paolo Ceriani Sebregondi le richieste italiane sono state rigettate, per Marina Petrella è stata accolta nel 2008 e poi sospesa per motivi di salute. Le pene di Giorgieri e Vendetti sono prescritte, altre si prescriveranno presto ma restano altre otto-nove richieste su cui Parigi non si è pronunciata. I rapporti tra gli uffici tecnici dei due ministeri della Giustizia sono continui, anche nelle ultime settimane hanno esaminato posizioni di ex terroristi, quindi la ministra Belloubet non sembra molto informata. Si informerà.
E l’Italia ricorda di nuovo il terrorismo nella fabbrica dove lavorava il sindacalista comunista Guido Rossa: erano le 6.35 del 24 gennaio 1979 quando fu ucciso sotto casa. La sua morte costrinse l’Italia a prendere posizione. Duecentocinquantamila persone riempirono piazza De Ferrari a Genova. Arrivò il presidente Sandro Pertini che volle parlare con gli scaricatori del porto: “Non vi parla il presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”.
Mattarella ieri ha ribadito: “La democrazia si impose con il contributo fondamentale del movimento dei lavoratori, che seppe, sull’esempio di Guido Rossa, rinsaldare le proprie fila e sfidare l’eversione”. Eppure i fantasmi restano. Ieri in Salita Santa Brigida – dove nel 1976 furono uccisi il procuratore di Genova Francesco Coco e gli uomini della scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana – è comparsa una scritta: “Guido Rossa infame”. Si inneggia a brigatisti morti: da Mara Cagol a Gianfranzo Zoja. Gli autori potrebbero essere legati a quest’ultimo.
Autostrade, favore ai concessionari: rinvio obbligo di gara
Slitta al 31 dicembre 2019 l’obbligo per i concessionari pubblici di mettere a gara gli appalti di lavori, servizi o forniture di importo superiore ai 150mila euro. Lo prevede un emendamento presentato dai senatori del gruppo Autonomie al dl Semplificazioni e approvato dalle commissioni Lavori pubblici e Affari costituzionali al Senato. L’obbligo sarebbe scattato ad aprile, cioè a 24 mesi dall’entrata in vigore dal Codice dei contratti pubblici. Che, in vigore dal 2016, ha introdotto un limite ai lavori che i concessionari, inclusi quelli autostradali, possono eseguire con società in house o con quelle direttamente o indirettamente controllate. I titolari di concessioni autostradali devono, infatti, mettere a gara il 60% dei loro appalti superiori ai 150mila euro. “Quelli che dovevano stracciare le concessioni ad Autostrade (Aspi), hanno deciso di fargli un bel regalo”, ha commentato il Pd. Intanto a Genova sono in arrivo 115 milioni di euro che Autostrade ha stanziato per l’acquisto delle nuove case degli sfollati del ponte Morandi. “Cominceremo i pagamenti nel giro di due giorni dall’arrivo”, ha detto il commissario Bucci. Per le somme di demolizione e ricostruzione del ponte Aspi ha tempo fino al 31 gennaio”.
Un milione di firme per i beni comuni
Fra qualche settimana, come ai tempi del referendum sull’acqua pubblica, ricompariranno nelle strade e nelle piazze italiane i banchetti (banchini come dicono in Toscana) per la raccolta delle firme. In alcuni di essi, i militanti raccoglieranno quelle per i partiti che, non essendo rappresentati al Parlamento europeo, devono raggiungere un certo numero circoscrizione per circoscrizione. In altri banchetti (o forse anche in alcuni di quelli dei partiti) si raccoglieranno le firme per la legge di iniziativa popolare Rodotà che, dopo 10 anni di lotte prova a portare alla discussione parlamentare il testo del disegno di legge delega della Commissione ministeriale che Stefano Rodotà presiedette nel 2007/2008. Aria, acqua, territorio, fauna e flora selvatica, ghiacciai e nevi perenni, beni culturali e molte altre cose ancora devono essere disciplinati dal codice civile con la garanzia di essere curati, fuori dalla logica estrattiva del mercato, nell’interesse delle generazioni future. L’iniziativa è partita da un gruppo di giuristi, stretti collaboratori del grande civilista, costituzionalista e uomo politico scomparso. Costituitosi a fine novembre e rapidamente allargatosi, il Comitato Rodotà (che sabato scorso ha tenuto alla Casa internazionale della donna a Roma una prima partecipatissima assemblea) si è prefisso l’ambizioso compito di raccogliere un milione di firme in sei mesi per introdurre – primi al mondo, ma con dieci anni di ritardo rispetto alla redazione del ddl Rodotà mai discusso dal Parlamento – i beni comuni e i diritti delle generazioni future nel cuore di un codice civile. Di firme ne basterebbero venti volte meno, ma la decisione di puntare in alto deriva dall’ importanza fondamentale di dare forza politica vera ad un’istanza ecologista che non può più attendere.
Per motivare la firma, ai banchetti verranno anche offerte – anche qui una primizia giuridica a livello internazionale – quote di comproprietà di azionariato popolare da 1 euro, per dar vita alla prima società cooperativa di mutuo soccorso fra generazioni presenti e future che mira a generare e destinare un significativo capitale per costituire una piattaforma stabile per l’esercizio della democrazia diretta (referendum, iniziativa popolare, petizione), dell’azione giudiziaria (difesa sociale, ricorsi ambientalisti, attacchi di costituzionalità) e della alfabetizzazione ecologica in difesa dei beni comuni. Ciascun sottoscrittore di una quota da 1 euro riceverà un gettone (uno solo) che consentirà la partecipazione all’azionariato popolare e soprattutto l’esercizio di un voto garantito dalla tecnologia blockchain per definire a quali battaglie di civiltà ecologica si debba partecipare tutti insieme destinandovi capitale. L’esperienza del referendum sull’acqua e delle tantissime battaglie per territorio, ambiente, beni comuni e servizi pubblici (tutti ambiti normati dalla proposta della Commissione Rodotà fin dal 2008) ci hanno insegnato quanto essenziale sia una buona organizzazione istituzionale per non ripartire sempre da zero nel resistere contro il tradimento delle vittorie ottenute; soprattutto quanto ogni realtà si senta sola e disorientata, debole e impotente, proprio perché non conosce davvero l’esistenza di tutte le altre. Il Comitato Rodotà ha per questo deciso di creare – con un atto di autonomia popolare costituente a diritto invariato, ossia senza aspettare che se ne occupino dall’alto le istituzioni – una infrastruttura stabile e solida per la democrazia diretta che supplementi, creando un luogo diverso di esercizio del potere politico del popolo, quella rappresentativa (elezioni e partiti) ormai controllata in tutto il mondo da interessi privati organizzati e oligarchici. Mettendo al centro di un intelligente e nuovo disegno istituzionale l’interesse delle persone, dell’ecologia e del futuro, si potrà finalmente invertire la rotta rispondendo all’ultima chiamata. Ora tutto sta nel far sapere a cittadini stanchi di essere ingannati che con 1 euro e una firma per i beni comuni, si può sperare di ripartire insieme.
Lite tra ministeri sulle scorie. “Vadano all’estero”, “Assurdo”
AAA cimitero per le scorie italiane cercasi. Anche in Siberia. L’altro giorno al ministero per Affari europei, guidato da Paolo Savona, si sono incontrati i vertici tecnici dei ministeri dello Sviluppo, dell’Ambiente, dei Beni culturali e dell’Economia per decidere cosa fare del pattume atomico. Una grana per i governi da 30 anni e un bel grattacapo anche per l’esecutivo gialloverde in cui le posizioni restano distanti. Ma dalle parti del ministero dello Sviluppo la soluzione è presto detta: portare le scorie all’estero.
Ma il niet del ministero dell’Ambiente è fermo: il piano di gestione, approntato seguendo le indicazioni dell’Euratom (l’agenzia europea del nucleare), e che ruota attorno alla realizzazione di un deposito nazionale dove conservare in sicurezza i rifiuti, è ormai pronto. E per il direttore generale, Mariano Grillo “risponde ad un obbligo morale verso le generazioni future”. Insomma: basta perdere altro tempo con soluzioni estemporanee senza una minima analisi costi-benefici. Mentre i ritardi già accumulati rischiano di trasformare in multe salate le due procedure di infrazione già aperte contro l’Italia dalla Commissione europea. Ma il sottosegretario al Mise, Davide Crippa (M5S) non ci sente, forte dell’appoggio del sottosegretario Luciano Barra Caracciolo che Savona ha voluto con sé prendendolo dal Consiglio di Stato. E che ha messo agli atti una soluzione destinata a scontentare tutti: “Qualora a cagione dell’esportazione dovesse residuare una sottoutilizzazione del deposito nazionale, potrebbe esserci una convenienza economica a ricevere, dietro corrispettivo, rifiuti dall’estero”.
Ma dove potrebbero finire i nostri rifiuti atomici? L’elenco è lungo anche se non è noto quali contatti siano stati già avviati: in pole position la Russia, dove sono in costruzione tre depositi di superficie (a Ozersk, Seversk, Sosnovy Bor) per la sistemazione dei materiali di media e bassa attività. Un altro, più piccolo, è in esercizio a Novouralsk. Nel Paese sono in corso studi di fattibilità nella regione di Krasnoyarsk in Siberia per la realizzazione di un deposito per rifiuti ad alta attività, i più pericolosi. Insomma, affidando le nostre scorie a Putin prenderemmo due piccioni con una fava. Chissà che ne pensano il ministro degli Esteri e quello della Difesa.
E che dire della Slovacchia? A Mochovce è pronto un impianto, mentre bisognerà aspettare per il deposito geologico a cui il governo di Bratislava pensa dal 2012. E con l’ungherese Victor Orban niente? Certo che sì: in località Bàtaapàti sorge un deposito di superficie attivo dal 2008, dove si lavora per la costruzione di un settore per stipare le scorie più scomode in profondità. Ai tifosi dell’asse di Visegrad di casa nostra brilleranno ancora gli occhi con l’opzione Repubblica ceca, in campo con l’impianto di Dukovany. E poi c’è la Romania con i siti di Saligny e Baita Bihor. Fanno gola le sei formazioni geologiche dove si pensa di realizzare un deposito profondo: tra il Mar Nero e il Danubio. Poi c’è Radaiana in Bulgaria, mentre la Slovenia offre due siti a Vrbina Krsko e Brinje. Nella lista c’è pure l’impianto di Ignalina in Lituania. Forse solo a titolo di esercizio teorico, nell’elenco dei potenziali siti a cui accollare i rifiuti nucleari italiani, il Mise ha incluso anche cinque depositi negli Stati Uniti. C’è poi il famoso impianto di El Cabril in Spagna. E ancora: Himdalen in Norvegia, Forsmark in Svezia e Drigg nel Regno Unito. Come pure il sito di Dessel in Belgio, ancora in costruzione come quello di Konrad in Germania. O il sito dell’Aube in Francia: basterà chiedere a Macron. In teoria la Germania potrebbe pure farsi carico dei nostri rifiuti ad alta attività se venisse costruito per tempo un deposito di profondità in un’antica miniera della Bassa Sassonia. Dulcis in fundo la Svizzera, dove è allo studio un deposito sotterraneo per tutti i tipi di rifiuti materiali. A un tiro di schioppo dall’Italia.
L’ineffabile Sibilia si suicida sui social
Pur essendocircondato da uno staff di esperti dell’informazione e della comunicazione degno di un presidente di un piccolo Stato europeo, in grado di dargli qualche dritta sull’uso intelligente dei social, qualche volta il sottosegretario M5S all’Interno Carlo Sibilia preferisce fare da solo. Il risultato è il suicidio perfetto di ieri sulla pagina ufficiale Facebook, che fa impallidire persino certe improvvide uscite sull’allunaggio o sul sindaco di Riace. In un colpo solo, Sibilia è riuscito a resuscitare l’appeal di Matteo Renzi e a contribuire alla derisione della nomina dimaiana di Lino Banfi all’Unesco. Convinto che il popolo della Rete sarebbe andato in tutt’altra direzione, Sibilia aveva lanciato un sondaggio Banfi-renzi (sì, con la minuscola, ndr) così presentato: “Lino Banfi alla commissione Unesco in un’Italia con il reddito di cittadinanza o Renzi presidente del Consiglio? Con uno sapete già come è finita…”. Ma è finito male anche il sondaggio, stravinto da ‘renzi minuscolo’ con l’88% (71.000 votanti circa alle 19 di ieri, ndr). Vi risparmiamo il delirio di sfottò e di insulti lanciati contro il sottosegretario irpino. Che spiega il tutto gridando al complotto del Pd: “Ha trovato l’Unità per questo sondaggio… l’unica cosa che riescono a vincere quando si vota”. E faccine che ridono. Come noi quando leggiamo Sibilia.
“Grazie Salvini”: i Bossi non pagheranno nulla
“Grazie a Matteo Salvini e grazie alla Lega”: così ha reagito Renzo Bossi detto il Trota. Lui e il padre Umberto sono usciti dal processo di Milano sui fondi della Lega spesi per fini personali e non di partito: sentenza di “non doversi procedere”, per mancanza della querela da parte del Carroccio. L’ha pronunciata la Corte d’appello di Milano, che ha condannato soltanto Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega, a 1 anno e 8 mesi.
I due Bossi e Belsito erano accusati di appropriazione indebita, per aver usato soldi pubblici per scopi personali: 2,4 milioni Belsito, 208 mila euro Umberto (per cure mediche, ristrutturazione della casa di Gemonio, multe, abbigliamento, gioielli…) e 145 mila il figlio Renzo (per multe, assicurazione auto, acquisto di una “laurea” in Albania…). In primo grado erano arrivate condanne a 2 anni e 6 mesi per Belsito, 2 anni e 3 mesi per Umberto, 1 anno e 6 mesi per Renzo. Ma nel 2017 una legge (Gentiloni-Orlando) voluta dal Pd ha reso l’appropriazione indebita perseguibile solo se chi è danneggiato presenta querela: in questo caso, la Lega, che invece con un accurato lavoro di chirurgia giuridica ha querelato soltanto Belsito e soltanto per i capi d’imputazione di cui doveva rispondere da solo, senza coinvolgimenti dei Bossi. Risultato: prosciolti i Bossi, condannato Belsito, che ha reagito così: “Sono rimasto con il cerino in mano. Pago lo scotto di essere stato il tesoriere che ha eseguito gli ordini. Paga l’esecutore, ma non il mandante”.
Aggiunge il suo difensore, l’avvocato Silvio Romanelli: “Belsito, prima di andarsene, ha lasciato nelle casse della Lega la bellezza di 49 milioni di euro. Non era impegnato a sottrarre fondi, come vorrebbero i giudici, ma aveva fatto dei buoni investimenti”. È guardacaso la stessa cifra dei soldi pubblici che i giudici di Genova, in un altro processo (da cui Bossi, condannato in appello, si salverà comunque per la prescrizione in arrivo), hanno stabilito essere stata incassata dalla Lega in modo illegittimo. Sono i soldi spariti sotto la gestione di Roberto Maroni prima e di Matteo Salvini poi, i 49 milioni di cui i magistrati chiedono la restituzione (a rate), dopo aver provato a rintracciarli in giro per il mondo. Resta la gratitudine del figlio di Bossi: “Da sette anni vengo a tutte le udienze, porto documenti che dimostrano che queste spese le ho pagate io e non è mai stato dimostrato che le abbia pagate la Lega. Siamo arrivati a oggi e va bene così”.
“Su Tav e trivelle non si cede. È l’identità del Movimento”
Muro sulle trivelle e sul Tav. “I temi ambientali sono la nostra identità” giura Max Bugani, uno dei quattro soci dell’associazione Rousseau, quella di Davide Casaleggio. Un veterano del M5S, che il patto di governo con la Lega lo giustifica così: “Era necessario perché avevano fatto una legge elettorale per non farci governare da soli”.
Come sta il M5S? A guardare i sondaggi maluccio, no?
Dopo 13 anni siamo come maratoneti, abbiamo fiato e resistenza. Il nostro obiettivo è cambiare la società, e va oltre i sondaggi.
Però avete accelerato sul reddito di cittadinanza perché le Europee saranno fondamentali per voi.
Questo voto sarà fondamentale innanzitutto per cambiare l’Europa. Dopodiché il reddito andava fatto il prima possibile perché in tanti non mettono assieme il pranzo con la cena.
Però al Nord la misura non piace per nulla. Pagherete dazio sopra Roma, no?
Il reddito renderà più forti e meno ricattabili anche i lavoratori del Nord.
È critica anche la Lega, con cui ora litigate sul no alle trivelle: un vostro pilastro.
Noi e il Carroccio siamo diversi, è evidente. Ci sono temi che ci differenziano, e che ci portano a dei legittimi confronti. Ma per noi l’ambiente resta un punto fondante, e su questo ci scontreremo con chiunque ceda ancora all’influenza di certi costruttori e certi imprenditori.
Il ministro dell’Ambiente Costa è stato netto: “Non firmo il via libera alle trivelle, piuttosto mi sfiducino”.
Costa ha una storia che parla chiaro. È stato scelto per dare una svolta. E porta avanti la nostra battaglia che vuole difendere l’ambiente e l’occupazione: investire nelle energie rinnovabili moltiplica per dieci i posti di lavoro.
Quindi non cederete?
È un tema identitario.
E una grana: come il Tav.
Non si può pensare a un’infrastruttura di quelle dimensioni, inutile e costosa, quando anche al Nord abbiamo una carenza di collegamenti via ferro e un parco macchine vecchio.
In diversi, Lega compresa, propongono un mini-Tav.
Non ne capisco la logica. Pensi ai pendolari ammassati sui treni nelle regioni del Nord: chiedono infrastrutture di base, che darebbero anche posti di lavoro. Serve questo, non bucare una montagna.
E sull’immigrazione, cosa serve? Le scene dei migranti che devono lasciare il Cara di Castelnuovo di Porto sono strazianti. E nascono del dl Sicurezza che avete votato.
Su Castelnuovo bisognava intervenire perché eravamo davanti a una situazione irregolare, sui cui è intervenuta anche l’Autorità anticorruzione. La struttura ospitava mille persone anche se poteva tenerne circa 600. Dopodiché in questi anni c’è stata grande ipocrisia.
I migranti lasciano il Cara per un vostro decreto.
È un provvedimento netto, con cui si abbandona una politica buonista che alla fine lasciava tante persone per strada. Però le persone che ne hanno diritto verranno ricollocate da Castelnuovo in altri centri. Nessuno rimarrà per strada.
State schiacciandovi sul Salvini dei porti chiusi.
Il problema non lo risolvi con i porti aperti o chiusi. E ogni persona in mare va salvata. Ma morivano in tantissimi anche con gli scali spalancati e le Ong ovunque. Piuttosto bisogna cambiare politiche a livello internazionale.
La vostra base è delusa per le vostre rinunce, come sul Tap. E molti contestano l’accordo con la Lega. O no?
Non eravamo mai stati al governo, è normale che ci siano scosse di assestamento. Ma senza il contratto di governo l’alternativa sarebbe stata rimanere a casa a urlare davanti alla tv, con il 33 per cento.
La Cgil ha scelto Maurizio Landini come segretario: si può dialogare?
Lo spero, il M5S parla con tutti. Ma se la Cgil non vedesse i benefici del reddito o del dl Dignità potrebbe venire il dubbio che non agisca da sindacato ma per altri interessi.
Alla festa per il reddito a Roma, Grillo non c’era. E sembrava dimenticato da tutti.
Aveva mal di schiena. Ma Beppe è sempre con noi.