Indagine su frodi del suo gruppo, Trump chiamato a testimoniare

The Donald pensa alle strategie politiche per tornare in pista alle prossime elezioni presidenziali contro Joe Biden, ma nel frattempo deve fare i conti con i suoi guai giudiziari. Letitia James, procuratrice generale di New York, ha chiesto che il tycoon ed esponente dei Repubblicani testimoni sotto giuramento il 7 gennaio nella sua indagine civile sulle presunte frodi della società dell’ex presidente. L’inchiesta è parallela al procedimento penale di cui si occupa il procuratore di Manhattan, Cyrus Vance. Non è detto che Trump sarà costretto a presentarsi: i suoi avvocati potrebbero giocare la carta della rivalità politica dato che proprio James fino a pochi giorni fa aspirava a diventare governatrice dello Stato con i Democratici. James però ha ritirato la candidatura. Altro pericolo per i legali di Trump, è che le sue dichiarazioni possano poi rinforzare l’inchiesta penale.

Assange e l’estradizione in Usa. Londra decide il suo destino

Jiulian Assange sarà spedito negli Stati Uniti per rispondere della divulgazione dei file top secret che contenevano anche le prove dei crimini di guerra da parte degli Usa in Afghanistan e Iraq? I sostenitori del leader di Wikileaks ovviamente sperano di no. La decisione potrebbe arrivare stamane, a meno di intoppi dell’ultima ora. Washington non nasconde che vuole a tutti i costi portare in America l’attivista che gli sfugge da anni; prima asserragliato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, poi preso in custodia dalle autorità inglesi e rinchiuso nel carcere di Belmarsh, Assange ha comunque evitato l’estradizione. Il Dipartimento di Stato lo accusa di spionaggio e non gli perdona la diffusione di documenti segreti, inclusi file del Pentagono relativi alle uccisioni di civili da parte delle truppe americane. Tristemente celebre il video dell’equipaggio di un elicottero da combattimento che falcia alcuni civili tra i commenti divertiti dei militari. A decidere sarà la Corte d’appello di Londra dopo che il processo d’appello, concluso a ottobre, era avvenuto su ricorso delle autorità americane in opposizione al no all’estradizione del gennaio scorso pronunciato da una giudice londinese. La tesi della Corte, supportata da alcune perizie mediche, era che vi fosse uno stato di salute assolutamente precario da parte di Assange, che non sarebbe stato in grado di sopportare il trasferimento negli Stati Uniti e il regime carcerario che Washington prevede per lui, con una pena fino a 175 anni in uno degli istituti più duri in regime di massima sicurezza, che tra i suoi ospiti ha criminali come El Chapo Guzman, capo del cartello del narcotraffico messicano. Assange, per le sue condizioni, poteva anche essere a rischio della vita. Gli Stati Uniti non concordano e danno assicurazioni: se Assange sarà estradato gli saranno garantiti i diritti di un trattamento equo, non sarà rinchiuso a Florence e se condannato potrà scontare la pena in Australia, suo paese d’origine. L’attivista è stato incriminato nel 2019 per violazione dell’Espionage Act e a suo carico ci sono 17 capi d’accusa. I file furono ottenuti da Wikileaks grazie alla collaborazione di Chelsea Manning, che all’epoca dei fatti era ancora nell’esercito americano.

Berlino punisce ancora chi voleva morto Hitler

Ieri è cominciato l’ultimo capitolo della battaglia legale per la restituzione dei terreni che la Germania nazista sottrasse a un aristocratico. Il principe Federico Solms-Baruth III è stato uno dei più grandi proprietari terrieri del Paese. Nel suo castello si riunirono gli ufficiali che pianificarono l’attentato ad Adolf Hitler nel 1944. Solms-Baruth venne arrestato e torturato. Dopo nove mesi venne liberato, Heinrich Himmler lo risparmiò, ma volle in cambio gli oltre 13mila ettari di terre e castelli del principe. Agli inizi degli anni 90 il figlio di Solms-Baruth ha intentato una causa contro lo Stato tedesco e nel 2003 una parte dei terreni, poco meno di un terzo, sono tornati nelle mani della famiglia. Alla morte del figlio la causa è stata presa in mano dal nipote del congiurato, l’attuale principe Solms-Baruth V: “Dopo di me, se giustizia non sarà fatta, la passerò alle prossime generazioni”.

Il 20 luglio 1944, il colonnello Claus von Stauffenberg portò una bomba nella ‘Tana del Lupo’ in Polonia, uno dei quartieri generali del Führer. L’ordigno esplose, ma l’attentato fallì. Hitler si salvò. I militari congiurati fecero ugualmente partire il piano Valchiria, da cui prende il nome il film del 2008 in cui Tom Cruise interpreta il colonnello Von Stauffenberg. La risposta della Gestapo fu violentissima. Vennero arrestate 7000 persone, 5000 furono fucilate. Federico Solms-Baruth III era uno dei fermati dalle SS. “Mio padre non ha mai dimenticato – racconta il nipote ed erede Solms-Baruth V – quando vennero a prendere il nonno, dopo l’attentato fallito: mesi di torture, unghie strappate per carpire confessioni, nella casa degli orrori in Prinz Albrecht Strasse a Berlino. Alla fine gli offrirono, prendere o lasciare, di firmare la cessione di tutto, in cambio della vita della sua famiglia”.

I terreni degli aristocratici si trovano in Brandeburgo, in quella che fu la Ddr. Con la caduta del Muro e la riunificazione del Paese i nobili decisero di intentare causa per la restituzione.

La risposta delle autorità è stata che le terre erano state confiscate non dai nazisti, bensì dallo Stato socialista per un programma di riforma terriera. Quindi la riconsegna non è possibile. Negli ultimi anni lo storico inglese Nigel West ha incrociato i documenti di sir Anthony Beevor e quelli dell’ex spia Otto John che in Germania lavorava per l’MI6 inglese. John svolse un ruolo attivo nell’attentato alla Tana del Lupo e nei suoi scritti, conservati dall’intelligence britannica, conferma che il quartiere generale dove venne messo a punto il piano Valchiria si trovava nel retro del castello di Solms-Baruth.

Con queste informazioni il nipote del principe chiede indietro allo Stato di Brandeburgo proprietà per un valore di 10 milioni di euro. Solms-Baruth V non vuole “nulla che sia stato poi acquistato da privati cittadini in buona fede, solo quanto ora è in mano allo Stato tedesco. Me lo fece promettere mio padre morendo. Ma non per denaro, per giustizia storica”.

La questione però è spinosa. Se i terreni venissero restituiti si creerebbe un precedente giuridico al quale si potrebbero appellare migliaia, forse decine di migliaia di famiglie, molte ebraiche, espropriate di tutto alla fine della Seconda guerra mondiale. E alle quali non fu restituito nulla. La responsabilità è addossata alla divisione del Paese tra Est e Ovest. La legge attuale non prevede una riassegnazione di beni se questi sono passati nella gestione della Repubblica Democratica Tedesca.

Ai metalmeccanici solo briciole: così Sánchez li ha traditi

La collera è dilagata nei cantieri navali della Baia di Cadice. La rabbia dei metalmeccanici per nove giorni ha infiammato l’Andalusia. Picchetti, barricate e fiamme degli operai hanno ricevuto poche risposte dal quel lontano governo socialista del presidente Pedro Sánchez, da cui si sentono abbandonati, ma molte, e violente, dalla Policia National che ha schierato, per reprimere le marce, blindati e perfino un carro armato nel quartiere operaio di Puerto Real. “La huelga indefinida”, “lo sciopero senza fine”, dichiarato a novembre scorso, però adesso è terminato da quando le aziende hanno accettato di sedersi ai tavoli dei negoziati con i rappresentanti dei sindacati andalusi. Quello che la stampa spagnola ha definito il “15-M del metallo”, acronimo di quei giovani indignados che nel 2011 riempirono le piazze del Paese, ha portato forse a una vittoria di Pirro, ma si tratta comunque di una vittoria.

Dopo giorni di scontri sulle barricate, sono cominciati quelli ai tavoli delle trattative dove, dopo maratone di compromessi e rinunce, i sindacati Ugt e Ccoo non hanno abbandonato un punto imprescindibile per i metalmeccanici di Cadice: l’adeguamento degli stipendi al costo della vita e all’inflazione, una problematica spesso volutamente obliata dai colletti bianchi di Madrid, dove sono siti i quartieri generali delle aziende. Il fuoco dei metalmeccanici è servito: i nuovi contratti, validi fino al 2023 ma con clausola di proroga di altri due anni, prevedono un aumento del 4% del salario dal prossimo anno, ma, se dovesse continuare ad aumentare il costo della vita, meccanismi di compensazione permetteranno di rinegoziare ulteriormente gli stipendi.

Reyes Marot, silenziosa ministra dell’industria, ha partecipato alle mediazioni. Ha fatto un passo indietro, ma solo uno, la Femca, Federazione degli imprenditori metalmeccanici, che negli ultimi due anni aveva solo proposto tagli di salari, personale e prometteva aumenti che cominciavano solo per zero virgola. Adesso, ogni tre mesi, una commissione creata ad hoc veglierà sullo stato dell’arte dei cantieri, rispetto dei nuovi termini contrattuali, pagamento di arretrati e straordinari, nonostante il vero, tragico problema del settore siano quelle truppe di migliaia di interinali e precari che ogni giorno affollano la baia dove ci sono anche gli stabilimenti di proprietà del patron del Real Madrin, Florentino Perez. Un compromesso fatto di spiccioli e ribassi. Quelle dei metalmeccanici andalusi sono vite da meno di cinque euro l’ora: questa è la paga che riceve un operaio specializzato – ed è uno meglio retribuito di altri colleghi – tra i cantieri che producono almeno l’11% del Pil regionale.

Tra piattaforme e gru, scheletri di navi e carcasse di barche, le divise blu, gli impiegati dell’Ispettorato del Lavoro, non li hanno mai visti. “Il potere di fare quello che vogliono ce l’hanno solo i datori di lavoro”. Acuerdo de migajas, “accordo di briciole” è come hanno definito i nuovi contratti stilati, occhi negli occhi con gli azionisti, i due sindacati di minoranza, Cgt e Ctm, rimasti fuori dalle trattative. Hanno chiesto agli operai di continuare a scioperare, rimanendo però inascoltati e privi di quella maggioranza necessaria per il fermo della catena produttiva. Mentre tacciavano i gruppi di maggioranza di essere “aristocrazia operaia”, il movimento stesso ha rischiato la spaccatura e lo squilibrio dei suoi rapporti di forza.

Nella striscia di terra dove in migliaia hanno lottato, molti altri hanno già abbandonato speranza di un futuro migliore e abitazioni: Cadice vanta un primato triste, da quando è diventata la città spagnola che ha perso più abitanti dall’inizio del secolo. Oltre 23mila persone sono andate via, il 16% della popolazione totale. Qui, una dopo l’altra, tra gli ‘80 e i ‘90, hanno chiuso i cancelli e fermato le catene di montaggio tutte le più grosse fabbriche, dalla Airbus alla Ford. L’epoca era quella del governo di Felipe Gonzalez, una squadra socialista proprio come quella odierna del presidente Sánchez, il Psoe, che governa in coalizione con quegli “imborghesiti”, dicono i metalmeccanici, di Podemos. Il fumo della protesta dei cantieri durata dal 16 al 25 novembre ha raggiunto la Capitale, dove la questione dei diritti lavorativi e della povertà degli spagnoli sono tornati ad essere dibattuti, ma non risolti. Che però la baia mantenga accesa la sua fiamma rivoluzionaria lo dimostra l’elezione del sindaco Jose Maria Gonzalez, che tutti chiamano solo “Kichi”.

L’ex insegnante di storia e musicista, insieme alla maggior parte dei suoi concittadini, si è unito alle proteste dei metalmeccanici: “Doveva andare a fuoco Cadice per attirare l’attenzione di Madrid”. Preoccupato che la protesta possa estendersi molto oltre la baia, il governo centrale teme che manifestazioni possano cominciare in tutta la terra andalusa, pesantemente colpita dalla crisi del settore turistico generata dalla pandemia. Dopo il lungo novembre della baia dei fuochi e delle barricate di Cadice, intanto è tornato il silenzio.

La nostra petizione “Anche il gatto vuole firmare contro il Caimano”

 

Cara redazione, la vera vergogna, non è che B., auto-candidatosi al Quirinale, abbia il sostegno della sua ciurma di mozzi, ma che autorevoli (!!!) “propagatori di notizie” non solo non ne prendano le dovute distanze, ma anzi, furenti e feroci, attacchino il Fatto.

Ho firmato la vostra petizione con la soddisfazione di aver sostenuto una causa importante: impedire, se si riuscirà, l’evento più nefasto della storia repubblicana. Se avesse potuto, anche Mirtillo (il mio gatto, qui accanto in foto), avrebbe firmato.

Susanna Di Ronzo

 

Gentile “Fatto Quotidiano”, apprezzo molto l’iniziativa della petizione a sfavore della candidatura di B. al Quirinale. Condivido pienamente le notizie pubblicate sul personaggio. Considero vergognoso e oltraggioso per tutti gli italiani il solo fatto di presentare la candidatura del Caimano alla massima carica del Paese. Tra le tante notizie che riguardano il personaggio, vi ricordo solo come egli si impadronì della tenuta di Arcore. Conobbi personalmente il proprietario, il marchese Camillo Casati, alla fine degli anni Sessanta all’Ippodromo di Tor di Valle. Lui era un grande appassionato di cavalli. Possedeva una scuderia di cavalli al trotto intestata alla moglie Anna, bellissima donna. lo registravo le scommesse al “picchetto” con l’allibratore. Camillo veniva a giocare da noi puntando solitamente 30.000 lire su uno dei suoi cavalli, guidati principalmente dal driver Gioacchino Ossani. AII’epoca fece enorme scalpore l’omicidio-suicidio commessi da Camillo, che uccise Anna e il suo amante a colpi di fucile per poi rivolgere l’arma contro se stesso.

Camillo lasciò come unica erede una bambina, a cui, in mancanza di parenti a cui affidarla, il Tribunale nominò un tutore. E indovinate chi era? L’avvocato Cesare Previti! II quale sottopose “l’affare” della tenuta di Arcore a prezzo “stracciato” al suo amico e benefattore B.

Dopo qualche anno B. abolì le stalle della scuderia Casati che erano all’interno della tenuta di Arcore per trasformarle in mini appartamenti. In uno di questi fu ospitato Vittorio Mangano, il quale doveva figurare come stalliere. Solo che le stalle non c’erano più né tantomeno i cavalli.

Un abbraccio, con simpatia.

Remo Barbato

MailBox

 

Per il Tg5, Conte sarebbe stato silurato da Renzi

L’altro giorno ho acceso la tv e si apre il telegiornale di Canale 5, con la notizia: “Conte silurato da Renzi e Calenda”. Ma veramente? La candidatura di Giuseppe Conte sarebbe stata silurata dai due tizi? Mi sembrava di aver capito che era stata proposta da Letta e, pur ringraziando, era stata rifiutata. O sbaglio? Hanno davvero paura di quel gran signore!

Antonio Cariati

Caro Antonio, ovviamente è andata come scrive lei. Ma cosa le faceva pensare che il Tg5 avrebbe dato una notizia vera?

M. Trav.

 

L’oligarchia vuole il bis di Mattarella

Leggendo la cronaca della prima alla Scala, sono rimasto colpito dai cinque minuti di applausi al nostro presidente. Mattarella è certamente un galantuomo, soprattutto se pensiamo a chi potrebbe arrivare dopo di lui, ma questo applauso proveniva in sostanza dall’oligarchia industriale e politica del Paese. Anche il “bis bis” ripetuto, l’ho letto più che altro come una paura di perdere Draghi a Palazzo Chigi, più che un desiderio di vedere un prolungamento del settennato. All’oligarchia presente alla Scala interessa molto di più Draghi e la sua politica (di destra), che Mattarella al Quirinale.

Giovanni Frulloni

 

Soltanto le pensioni non sono aumentate

L’Italia, dopo mesi di governo collegiale, ora grazie a Draghi ha anche un governo “rafforzato”. Certamente il premier passerà alla storia come un presidente “rafforzato”. Intanto i pensionati chiedono anche loro una pensione “rafforzata”, visto che sono ferme da anni nonostante le richieste degli interessati e dei sindacati. Un augurio “rafforzato” al presidente Draghi, anche per un buon Natale.

Mario De Florio

 

Quand’è stato abolito il diritto allo sciopero?

Da quando Landini ha finalmente annunciato lo sciopero, diritto di qualsiasi sindacato in tutto il mondo escludendo le dittature, è iniziato un lamento generale nei giornali e nelle televisioni. Ci si domanda angosciati se la gente capirà questo fatto, unico al mondo, dove un sindacato annuncia uno sciopero, invece di chiedersi come mai siamo arrivati a un impoverimento di una buona parte della popolazione, dovuto al continuo aumento dei prezzi e delle tariffe energetiche. Nel mentre, stipendi e pensioni restano al palo, e a pagare le imposte sui redditi sono sempre gli stessi, ossia i più poveri. Ma forse, in questo paese alla rovescia, è normale così.

Giulio

 

Felice per Zaki libero, ma avanti su Regeni

Sono naturalmente felicissima, come tutti gli italiani, del rilascio di Patrick Zaki. Devo però due fare due appunti: 1) trattasi purtroppo di un rilascio, non di una liberazione definitiva, e mi suona di cattivo auspicio il trionfalismo con cui si celebra il successo delle iniziative diplomatiche italiane: un processo attende il giovane Zaki sotto quel regime; 2) non penso certo di essere una fine interprete nel ritenere evidente che la mossa del governo egiziano tende a distogliere l’attenzione dalla scandalosa vicenda di Giulio Regeni: una vicenda che il nostro governo sembra ingoiare con la resistenza dello stomaco di uno struzzo.

Susanna De Simone

 

Non sembra esserci via d’uscita allo sfascio

È sotto gli occhi di tutti lo sfascio istituzionale. Evaporato il Parlamento, stracciata la Carta, silenziata la Magistratura, trasformate a suon di milioni stampa e tv nel megafono della voce del padrone, questo governo di impostori, eterodiretto, in un viluppo diabolico, da un ciarpame di sedicenti virologi, dalla stampa medesima e da chissà quali altri poteri, sta procedendo a tamburo battente alla chiusura degli spazi di libertà e alla negazione del libero arbitrio di quei cittadini che esercitano legittimamente il loro pacifico dissenso, come mai era accaduto in passato. Nessuna pandemia, e a maggior ragione una pandemia dello 0,2% di letalità, può sconvolgere a tal punto la vita sociale. Lo ha ben detto Giorgio Agamben (una delle poche voci coraggiose di questa Italietta di codardi prezzolati) in una recente audizione in Commissione Affari costituzionali del Senato. Se la storia, maestra di vita, avesse mai avuto scolari, ora la stragrande maggioranza della popolazione dovrebbe essere vivamente allarmata.

Amalia Tognotti

L’opinionista Omicron

È il momento della Omicron. La variante, e di conseguenza l’opinionista Omicron. Non so se avete notato che le variazioni valgono sia per il Covid, sia per i talk show, luoghi di massimo contagio mediatico. In origine abbiamo avuto la variante e l’opinionista Alfa, spavaldo e assertivo (come il Virologo Zero, il professor Burioni da Fazio: “Da noi la pandemia non arriverà mai”). Poi è arrivata la variante inglese, e con lei l’opinionista fumo di Londra, più infettivo (almeno uno per salotto), più pessimista e più incazzoso. Dopo l’estate diventano dominanti la variante e l’opinionista Delta, ancora più aggressivi (almeno due per salotto) e di ampia gamma: c’è il modello catastrofista (contro la settima ondata ci vorrà la nona dose), ma anche il modello negazionista (il virus lo ha prodotto la Spectre, Barbara Broccoli ha le prove, e visto che James Bond è morto dobbiamo difenderci da soli).

Ed eccoci al momento Omicron. Come l’omonima variante, l’opinionista Omicron non spara frescacce peggiori degli altri, ha solo una maggiore capacità di contagio (almeno tre per salotto), specialmente tra gli assertori del no: No Pass, No Vax, ma anche No No Vax, No No No Pass eccetera eccetera. L’importante è essere contro qualcosa, questa è la richiesta dello share fin dai tempi del Processo del lunedì, ci fosse ancora Biscardi invocherebbe il moviolone per vedere se la variante Omicron era in fuorigioco. Più sei contro, più ti contagi sui social. E se ti va di culo, ti invitano anche in tv; tendi la mano a Giletti, e lui si prende subito il braccio (purché sia di silicone). Ci si chiede se la variante Omicron buchi o no il vaccino. Di sicuro, l’opinionista Omicron buca senza problemi i talk. Ci si chiede anche se sia il caso di invitare i negazionisti più agguerriti, e qui conviene tenere a mente il principio di Arthur Bloch: “Non discutere mai con un idiota: qualcuno potrebbe non vedere la differenza”. Nel dubbio, noi vorremmo vedere almeno il Green Pass.

L’importanza della carota in un freddo giorno di neve

Poiché la principale attività nelle mie giornate è quella di fare il portaborse di mia moglie quando l’accompagno per spese, occupo il tempo dell’attesa ascoltando le chiacchiere che rimbalzano tra negoziante e cliente mentre la bilancia pesa, il coltello taglia, la cassa tintinna: confermo, ne sopravvivono ancora alcune che all’apertura del cassetto fanno quel bel suono. Così mentre sono nel negozio ortofrutticolo di Clarinetta Venegoni ascolto resoconti sulle stranezze di certe richieste che alcuni clienti, specie foresti, le rivolgono. Non c’è alcuna polemica in ciò poiché nella fattispecie l’attore in gioco è indigeno e nonno, poco uso ad andare per negozi se non per questioni eccezionali come quella che segue. Poiché il meteo ha previsto neve confortato in ciò da analogo parere di meteo Suisse, e se lo dice la Svizzera andiamo sul sicuro, il nonno di cui sopra è entrato nel suo negozio con l’intenzione di acquistare una, dicesi una, carota. Lo stupore della Clarinetta è subito rientrato, tant’è che non ha preteso soldi, quando il nonno ha spiegato che l’ortaggio sarebbe servito a simulare il naso del pupazzo di neve che aveva intenzione di allestire coi suoi nipoti, rinverdendo così anche i suoi ricordi infantili. Ora, come da previsione la neve è arrivata. Non certo in quantità tale da metterci in all’erta, ma sufficiente per assemblare un pupazzetto che tutto sommato avrebbe potuto fare la sua bella figura se non si fosse presentato agli occhi del mondo privo di naso. E già, perché mentre nonno e nipoti, quasi che il tempo avesse cancellato le differenze d’età, sembravano quasi fare a gara nel compattare la neve, la figlia di tanto nonno li osservava dalla finestra di casa allegramente pensando a quanto poco serva per far felici gli esseri umani quale che sia l’età. Ma altrettanto allegramente sgranocchiando quell’unica carota che aveva reperito nel frigorifero di casa, senza immaginare che stava compiendo un atto che non sembra esagerato definire di puro cannibalismo.

Il “Financial Times” sa che è Draghi ad ambire al Colle?

Ci sono poteri strutturati che hanno un modo elegante per inviare dei message in a bottle. Uno di questi è il Financial Times che si preoccupa calorosamente dei destini e della stabilità della Repubblica italiana che si approssima a rieleggere il capo dello Stato. Nel pezzo di qualche giorno fa a firma di Silvia Sciorilli Borrelli, ormai volto noto di Otto e mezzo su La7 e dell’editor europeo Ben Hill, si dà conto delle turbolenze che la candidatura in pectore dell’attuale presidente del Consiglio a capo dello Stato creerebbe nel sistema istituzionale italiano.

L’osservazione sarebbe ben riposta se si limitasse a questa constatazione. Ma per fare questo basterebbe una breve in cronaca, non certo un editoriale del giornale. Anche perché l’articolo, dopo aver constatato la turbolenza, si sofferma sulla ola che la Scala ha riservato a Sergio Mattarella con quei sei minuti di applausi e le ostentate richieste di “bis”, prima ancora che lo spettacolo andasse in scena (ma erano ovviamente rivolte a Mattarella medesimo). Nello stile anglosassone, che il foglio salmonato di Londra richiede, Sciorilli Borrelli sembra mimare la richiesta ripetuta degli editorialisti nostrani, Stefano Folli su Repubblica in testa, che dopo quegli applausi sono tornati a sottolineare di nuovo quanto sarebbe bello, fico assai che Mattarella rimanesse. Come se chilometri di interpretazione della carta costituzionale potessero essere sbianchettati da un po’ di élite padana, esibizionista e glamour, chiamata improvvidamente a rappresentare il popolo italiano. Segno dei tempi.

Ma il pezzo del Financial Times va segnalato soprattutto per quello che dice dopo. In 10 mesi, da quando “ha preso il timone”, Draghi ha fatto molto, “ma molto rimane da fare”. Il premier deve vedersela con la riforma fiscale – cui ha messo mano ricavandone uno sciopero generale –, la riforma del mercato del lavoro, il nodo pensioni senza contare l’immancabile attuazione del Next generation Eu. Che fai, sembra dire il Ft, ci lasci così? “Draghi è il garante per gli italiani e l’Unione europea che almeno una parte di queste riforme vedranno la luce” è il giudizio affidato a Lorenzo Codogno, fondatore di Lc Macro Advisor, giudizio che il Ft fa proprio.

Insomma, il mondo della finanza europea, meglio, anglosassone, quella che conta davvero e che ha un peso internazionale, preferirebbe che il “timoniere” del whatever it takes pilotasse la macchina Italia piuttosto che osservarla dal Quirinale. E lascia sempre un certo stupore constatare che un grande giornale internazionale, così prestigioso, debba intervenire sulle scelte che un Paese si appresta a fare. Anche perché, per come sono fatte la politica e la stampa italiane, prima o poi si alzerà qualcuno che ci dirà che siccome gli smoking della Scala si sono scaldati e la nostra valente Sciorilli Borrelli ha sentenziato, Mattarella deve restare al suo posto. Ma a parte le osservazioni ironiche, il punto è che Mario Draghi vuole davvero andare al Quirinale. Questo si vocifera nelle redazioni, trapela da Palazzo Chigi, a questo servono consultazioni più o meno riservate, che vanno avanti da giorni. Il presidente del Consiglio ha in mente proprio di affrontare la turbolenza inevitabile costringendo la Repubblica all’ennesimo surplus di stress e improvvisazione (dopo la rielezione di Giorgio Napolitano, l’inedita elezione di un presidente del Consiglio in carica). La notizia così sembra essere la divergenza tra il Financial Times, che aveva ospitato l’importante articolo del marzo 2020 sulla necessità di indebitarsi per far fronte al Covid, e il beniamino delle banche e della finanza mondiale. “Resta al timone”, dice quello. Spero proprio di no, sembra rispondere il nostro premier. Chissà se anche questa volta sarà whatever it takes.

 

Caro Gualtieri, cultura e arte sembrano scomparse da Roma

Roberto Gualtieri e la cultura a Roma: un tema che va e viene. La partenza non era stata folgorante: sull’abusato tema “i beni culturali sono il nostro tesoro”, l’allora candidato sindaco del Pd aveva detto che “l’assessore alla Cultura di Roma è come il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita”. Una battuta un po’ trionfalistica come quelle di Renzi, e perfino azzardata.

Gli storici antichi spesso inseriscono, all’inizio della narrazione di grandi imprese, un “incidente” che assorbe in sé ogni negatività e apre la strada a percorsi positivi: per esempio, all’inizio della storia della conquista della Dacia – raffigurata nel lungo fregio della colonna Traiana – c’è un personaggio che, al cospetto dell’imperatore, cade rovinosamente da un mulo: poi la campagna sarà dura ma vittoriosa. Speriamo che anche il cammino di Gualtieri, dopo l’“incidente” di luglio, abbia cambiato passo e proceda spedito. Anzi, più che sperarlo abbiamo cominciato a constatarlo: in primo luogo è stato eletto. Ma già in precedenza aveva messo a punto un programma convincente (tanto da riscuotere la calorosa approvazione di un grande archeologo come Andrea Carandini), in cui i Beni culturali della Capitale trovavano il giusto spazio. Stimolante soprattutto l’idea di istituire il Museo della città di Roma, da realizzare nel grande edificio di via dei Cerchi che si affaccia sul Circo Massimo. Non una rassegna di capolavori, che ovviamente restano nei musei già esistenti, ma un centro di orientamento con apparati illustrativi di vario tipo: fra l’altro, gli innumerevoli calchi e modellini del Museo della Civiltà Romana all’Eur, notevolissimo patrimonio didattico da tempo non visitabile. Altra idea molto apprezzata anche da Carandini era quella di un “Policlinico” del paesaggio e del patrimonio culturale: struttura di raccordo e coordinamento per soprintendenze, parchi, musei, università. Ora, però, dopo l’elezione, il progetto non sembra riapparire: è vero che è presto, è vero che il Sindaco è impegnato nella costruzione del “suo” Campidoglio, è vero che gli assessorati (compreso appunto quello alla Cultura, affidato a uno studioso e politico di spessore come Miguel Gotor) sono ancora in una fase di faticosa organizzazione, ma è anche vero che di molti programmi si è ovviamente già riparlato, e che quindi anche al Museo di Roma e al “Policlinico” si sarebbe potuto dedicare una qualche attenzione.

Lo scorso 19 novembre, in un’Assemblea capitolina durata 9 ore e dedicata alle linee programmatiche, si sono definiti tre grandi obiettivi: tornare a far funzionare la città, tornare a creare lavoro di buona qualità, ricucire fratture sociali e territoriali; e anche tre tendenze strategiche: sostenibilità ambientale, innovazione e digitalizzazione, inclusione e coesione sociale. Lì e altrove, si sono riproposti vecchi problemi che si trasformano in rinnovati obiettivi: pulizia, strade, trasporti. In un paio di casi si è scesi nel dettaglio: contrastare CasaPound; estendere le aree di parcheggio a pagamento. Insomma, grandi obiettivi (talvolta vaghi) e interventi puntuali (talvolta troppo). Ma, ancora, i beni culturali stentano a riapparire.

Egregio Sindaco, sappiamo tutti che la Capitale si trova di fronte a grandi problemi e a situazioni che richiedono sforzi tremendi, ma era sembrato che Lei, a differenza di molti Suoi predecessori, avesse capito che l’arte, l’architettura e l’ambiente non sono un accessorio, o un frivolo abbellimento, o un tema per fare bella figura in campagna elettorale, ma un elemento caratterizzante della città e del Paese, e che non vi sono prospettive di sviluppo che possano prescinderne. Per favore ci faccia sapere quando intende intraprendere, anche in questo ambito, quel cammino che proprio Lei aveva progettato.